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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

MATTEO MAZZIOTTI

LA REAZIONE BORBONICA NEL REGNO DI NAPOLI

(Episodi dal 1849 al 1860)

MILANO — ROMA — NAPOLI

SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI

DI

ALBRIGHI, SEGATI e C.

1912

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

AVVERTENZA

Debbo fare una confessione al cortese lettore.

Io intendeva, nel porre mano a questo lavoro, di narrare soltanto gli avvenimenti della provincia di Salerno durante la reazione borbonica che principiò nel 1849, cioè le persecuzioni, le condanne, gli esilii subiti da i costituzionali della mia provincia che avevano preso parte ai moti del 1848, da me raccontali in altro volume, che dovrò purtroppo citare spesso nel corso di queste pagine (1).

Ma lungo la via, che dovevo percorrere, mi sono trovalo di fronte ad una grave difficoltà. Dovevo ad esempio parlare degli importanti processi per la sella della «unità italiana e per i fatti del 15 maggio:processi, in cui erano complicali parecchi dei miei conterresti. Ma a questi erano uniti in quei giudizi i più bei nomi del patriottismo dell'Italia meridionale, tra cui Carlo Poerio, Luigi Settembrini, Silvio Spaventa. Potevo tacere di essi? Inevitabile quindi di tessere l'intera storia di quei dolorosi processi. Parimenti, raccontando le miserie e le angoscie dell'esilio di molli miei comprovinciali, potevo tacere di Pasquale Stanislao Mancini, di Angelo Camillo de Meis e di tanti altri bei nomi onore e vanto dell’emigrazione politica napoletana?

In molti capitoli quindi il mio scritto più che una storia della provincia è la storia dello sventurato regno di Napoli durante quel funesto periodo,

I Borboni di Napoli sono ormai da lunghi anni scomparsi dal trono ed a me non piace tirare pietre contro i caduti. Dirò solo una cosa. Quanto vi era di meglio nelle provincie meridionali d'Italia per ingegno, per coltura, per nobiltà di animo, venne duramente colpito, con le carcerazioni, la galera, l'esilio! Da tanta ignominia e cecità doveva pur seguire la giusta e doverosa espiazione della rivoluzione del 1860.

Roma, 10 aprile 1912.

M. MAZZIOTTI.

CAPITOLO I

Gli ultimi mesi del governo costituzionale

SOMMARIO. — I. Le elezioni del giugno 1848 — Deputati eletti da la provincia di Salerno — Proroghe e quindi scioglimento della Camera — II. Inizio della reazione — Mutamento di funzionarii nella capitale e nelle provincie — Il nuovo intendente di Salerno — 1 sottintendenti dei distretti della provincia — III. Indirizzi e deputazioni al re per la soppressione dello Statuto — IV. Processi nella capitale e nelle provincie — Istruzione giudiziaria in Salerno per le fucilazioni avvenute nel Cilento durante i moti del gennaio 1848 — Ripristino delle Corti Speciali — Commissioni di scrutinio per i magistrati — V. Numerosi mandati di arresto — Latitanza di molti ricercati da la polizia — La nave da guerra francese Ariel Rimostranze del governo borbonico — VI. Latitanze e fughe di liberali — Conflitto dei fratelli Del Mastro con la forza pubblica — Arresto di uno di essi — Sua sollecita liberazione per parte dell’altro — Imbarco per Genova dei fratelli De Angelis, eli Ernesto del Mercato, di Filippo Patella — VII. Liberali salernitani a la difesa di Roma — Morte di Agnello Criscuolo — Fuga degli emigrati da Roma dopo l’ingresso dei Francesi — Liberali salernitani a la difesa di Venezia — Dolorose vicende dei reduci nel regno — VIII. Le Commissioni di scrutinio per gli imputati politici — Ripartizioni di questi in tre classi — Soprusi della polizia.
I. Gli avvenimenti del 15 maggio 1848 in Napoli e l’improvviso richiamo delle truppe da la guerra lombarda avevano creato una profonda scissura tra il re Ferdinando 2° di Borbone e la parte liberale. Sciolta la Camera ed indette le nuove elezioni per il 15 giugno successivo, i fautori degli ordini costituzionali si adoperarono vivamente a la conferma degli antichi deputati, come solenne protesta contro lo scioglimento della rappresentanza nazionale. Per evitare dispersione di voti molti cittadini rifiutarono la candidatura. Un eminente avvocato salernitano, Carmine Ruotolo, nativo di Sarno, sollecitato ripetutamente a presentarla, declinò l’invito con una nobilissima lettera a gli elettori, pregandoli di raccogliere i loro voti su gli antichi eletti. A tanta concordia corrispose pienamente il successo, poiché essi riuscirono in grandissima maggioranza.

Il Principato citeriore elesse: per il distretto di Salerno, Domenico Giannattasio, Giovanni Avossa, Filippo Abignenti, Giovanni Angelo Positano, Giovanni Centola, Raffaele Conforti: per il distretto di Campagna, Gennaro Bellelli, G. B. Bottiglieri, Giacomo Giuliani: per il distretto di Sala, Gabriele e Pietrantonio Abatemarco: per quello di Vallo, F. A. Mazziotti, Ulisse De Dominicis, Giosuè Sangiovanni (2). Di nuovi non vi erano che due fratelli Abatemarco, antichi liberali del Vallo di Diano, che avevano preso molta parte a i moti del venti e subito dipoi lunghe persecuzioni. Gabriele aveva avuto, dopo la costituzione, la nomina di direttore al ministero dell’interno.

Il primo luglio 1848 finalmente si inaugurava la legislatura nella gran sala del museo borbonico, ora nazionale, mentre non era ancora spenta la rivoluziono nelle Calabrie e stava per scoppiare nel Cilento. Nell’indirizzo di risposta al discorso della Corona la rappresentanza nazionale deplorava il richiamo delle truppe da la Lombardia ed esprimeva apertamente il voto dell’indipendenza italiana da lo straniero e di una federazione tra i varii Stati della penisola. Il re ricusava di ricevere l’indirizzo. La piazza tumultuava tra le dimostrazioni contro lo statuto promosse da i reazionari nel quartiere del Mercato (14 agosto) e le controdimostrazioni dei popolani del quartiere Montecalvario. Il governo ed il re volgevano ogni cura, finiti i moti della Calabria e del Cilento, a domare la rivoluzione in Sicilia, tenendo intanto chiusa la Camera. A l’uopo un decreto del 1° settembre prorogò questa al 30 novembre, ma prima del giorno fissato per la riconvocazione un altro decreto del 23 novembre la rimandò al 1° febbraio 1849. Dopo poche sedute il re con decreto reale sottoscritto a Gaeta il 12 marzo sciolse laCamera, “riserbandosi di stabilire con altro decreto l'occorrente per la convocazione dei collegi elettorali”. Il decreto promesso non venne mai ed il Parlamento non fu più convocato.

II. Nel frattempo il re aveva mutato vari dei più alti funzionari nella capitale. Fin dal 7 settembre 1848 destinava al dicastero della istruzione il Bozzelli, surrogandolo a l’interno con il cav. Raffaele Longobardi, già prefetto in Napoli il 1828 (3), quindi avvocato generale presso la Suprema Corte di giustizia. A direttore di polizia nominò Francesco Scorza, togliendone Gabriele Abatemarco, ed a prefetto nella capitale Gaetano Peccheneda, antico massone, protetto del ministro Saliceti durante l’occupazione francese.

Parimenti, a poco a poco, praticava nelle provincie. Furono mutati, dice il Nisco (4), tutti gli intendenti ed i sottointendenti. In Salerno, a l’intendente Giovanni Consiglio, uomo di animo mite e temperato, sostituì, il 18 agosto 1849, il cav. Giuseppe Valia, calabrese, antico funzionario che aveva già sessantaquattro anni (5). Questi aveva fatto da valoroso, con il grado di capitano, la campagna di Russia, dipoi era entrato negli uffici amministrativi. Sottointendente a Vallo nel 1828 aveva preso parte a le feroci repressioni della rivolta avvenuta in quel distretto (6). Intendente a Salerno dovette piegarsi a le imposizioni dei suoi superiori e principalmente del Peccheneda promosso poco tempo dopo direttore di polizia e divenuto in tale ufficio il più bieco ed insolente istrumento di tirannide (7).

Altri mutamenti avvenivano nei distretti della provincia. A Campagna andava, il 18 ottobre, come sottintendente, in sostituzione di Mariano D’Afflitto, Ferdinando Sanfelice e due mesi dopo, il 18 dicembre, Achille Landi di Caserta, figlio del generale Landi Il sottintendente di Vallo, Giuseppe Belli, era stato mandato via precedentemente fin dal 7 luglio 1848 (8). Venne sostituito da prima da Giuseppe Dentice di Accadia, quindi da Giovanni Battista CelyColaianni, da ultimo da lo stesso Landi, che a dir vero nella nuova residenza si comportò umanamente, per quanto glielo consentivano gli ordini superiori (9).

III. La stampa liberale piemontese e la straniera inveivano contro il re Ferdinando per la mancata riconvocazione dei comizii elettorali e lo chiamavano spergiuro. Il nuovo ministero che successe il 7 agosto 1849 a quello del Cariati e del Bozzelli, presieduto dal Fortunato (10) inviò emissari nelle provincie per esortare i municipi, i consigli provinciali, la magistratura, il clero, gli impiegati, le guardie urbane, le congregazioni religiose ed anche i privati cittadini a chiedere l’abolizione dello statuto (11). Nell’agosto del 1849 ebbe principio questo lavorìo, in cui si segnalò specialmente un tale Doria di Cervinara. Il governo stesso compilò una formula ufficiale per queste petizioni, le quali terminavano cosi:

“Piaccia alla M. V. riprendere la concessione strappata dalla violenza e da la perfidia con la violazione dei più sacri doveri e preparata con le più sacrileghe ed inique mire settarie. Ritornino i popoli sotto l’unico potere del paterno suo scettro e noi ed i nostri figli benediremo con la restaurata potente forza della monarchia assoluta il nome sagro (sic) del nostro magnanimo buon re Ferdinando II (12)”.

Per promuovere le petizioni si teneva questo metodo. Un agente di polizia presentava la formula al sindaco, che la sottoscriveva e la faceva sottoscrivere da i decurioni, da i proprietari ed altri cittadini. Le firme erano autenticate da pubblici notai. I sindaci che si rifiutarono, veramente ben pochi, furono prima destituiti e poi dichiarati attendibili e tenuti d’occhio costantemente da la polizia (13).

In seguito, messa da parte ogni riserva, la richiesta e l’invio delle petizioni divennero una pratica ufficiale del governo. Gli intendenti, per mezzo dei sottintendenti, mandavano a i sindaci la formula, questi la facevano firmare e poi la rimandavano per lo stesso mezzo a l’intendente. In una lettera ministeriale diretta al cav. Valia, intendente a Salerno, è detto: “si attendono al più presto le deliberazioni dei comuni di Montecorvino Pugliano, S. Mango, Castiglione ed Ottati per l’abolizione dello statuto” (14).

Diffusasi la certezza che tali manifestazioni sarebbero riuscite grate in alto, che il promuoverle sarebbe stato titolo a protezioni ed a favori, mentre il rifiuto avrebbe potuto produrre conseguenze spiacevoli, sindaci, enti morali, associazioni, preti, impiegati fecero a gara nel sollecitarle. Cominciarono le provincie di Teramo e di Chieti, seguirono la Capitanata, la Basilicata, la Terra di Lavoro e gradatamente le altre (15). Parecchi comuni, provincie ed enti morali vollero, per maggior zelo e solennità, inviare questi indirizzi al re con apposite deputazioni, che dopo lunghi viaggi giungevano a la capitale ed erano accolte benevolmente dal governo e da la Corte. Tale andazzo di cose durò da l’agosto del 1849 al marzo del 1850, nel quale periodo le petizioni ascesero a 2383 (16)

A dire onestamente il vero, le premure del governo trovavano facile ascolto nelle amministrazioni e nei cittadini, perche il paese era ormai stanco del continuo tumultuare di piazza, del perenne clamore, cui si aggiungevano, scrive il De Sivo, “quei strascichi di sciabole, quei spallini d’oro di capitani posticci, quel cicaleggio e rumore inconsueto, quello star sempre su l’arme (17)”. Le classi povere, immensa maggioranza tanto nella capitale che nelle provincia, non pregiavano, e non intendevano neanche, gli ordini rappresentativi; i possidenti, i commercianti, i professionisti, in generale, amavano di vivere tranquilli e di attendere comodamente a le loro faccende. Solo una minoranza intelligente, ardita teneva a le pubbliche libertà. “Quelle cataste di petizioni” , dice uno scrittore, “vennero distrutte dopo il 1860 perché formavano troppo stridente contrasto con il plebiscito (18)”.

Da allora venne di fatto soppressa la costituzione. Già il re aveva allontanato dal go verno, come ho precedentemente riferito, i costituzionali, tra cui il Bozzelli ed il Ruggero. La Camera era sciolta, né più si parlò di convocare i nuovi comizi; la guardia nazionale era stata abolita. Dal giugno di quell’anno 1849, smessa la bandiera con i colori nazionali, si era ripristinata quella bianca con i gigli borbonici; il 2 agosto ritornavano nel regno, nelle antiche loro case, i gesuiti, cui venivano affidati i licei; il 5 giugno del 1850 il giornale ufficiale del regno abbandonò il titolo di costituzionale.

IV. Fin da i primi di giugno la magistratura aveva iniziato un grande processo per gli avvenimenti del 15 maggio. Da principio l’istruzione era stata limitata solo a i promotori delle barricate ed a coloro che avevano combattuto contro i regi. Ma sciolta la Camera il processo prese vaste proporzioni. Vi si complicarono tutti i deputati sottoscrittori della famosa protesta Mancini, i capi della guardia nazionale e gli uomini più noti per devozione a gli ordini costituzionali sia in Napoli che nelle provincie, arrivandosi cosi a la cifra di trecentoventisei imputati (19).

In pendenza di questo farraginoso processo (20) un grave avvenimento destò l’ira del governo e della Corte. Nel settembre del 1849 venne da Gaeta in Napoli il pontefice Pio IX fuggito da Roma. La presenza di lui nel regno colmò di gioia Ferdinando II. Il giorno 16 di settembre il papa doveva dal balcone della reggia di Napoli benedire il popolo. Queste feste al pontefice, ritenuto ormai come traditore della causa italiana, turbavano la parte liberale napoletana, specialmente i più accesi, i quali temevano che i reazionari volessero profittare di esse per fare una grande dimostrazione contro lo statuto.

Uno dei più fervidi liberali, l’ing. Francesco Giordano, nativo di Lustra nel Cilento, residentein Napoli, ove esercitava la sua professione, ascritto a la setta dell’Unità, era da pochi giorni uscito di carcere, ove trovavasi per sospetto di reità politica (21). Egli persuase un suo compagno, Lorenzo Vellucci, ad affiggere per le vie un manifesto con cui si invitava il popolo a non accorrere a la benedizione di un papa divenuto Strumento di tirannide nelle mani di re Ferdinando (22). Ma ciò non gli parve sufficiente e suggerì ad un appaltatore municipale, Salvatore Faucitano, di esplodere durante la funzione una piccola bomba per destare il panico nella folla e farla fuggire.

Difatti il 16 settembre, mentre la piazza della reggia era gremita di popolo in attesa che il pontefice si affacciasse, scoppiò la piccola bomba. L’autore ed alcuni suoi compagni ed amici vennero subito arrestati e condotti nel castello dell’Ovo.

Il Giordano ricercato da la polizia si pose in salvo passando il confine (23). Gli arrestati, sottoposti a le più crudeli privazioni, sotto le percosse e le sevizie dichiararono di essere ascritti a la setta dell’Unità italiana, parlarono di un gran Consiglio di essa formato dal Settembrini, da l’Agresti e da altri, che difatti facevano parte di questa, e dal Poerio e dal Pirónti, che vi erano completamente estranei. Aggiunsero misteriosamente che la settacongiurava anche contro la vita del ministro di polizia Longobardi, del direttore Peccheneda e del presidente della Gran Corte criminale Navarro. Subito si pose mano ad un altro grande processo, che venne detto dell'Unità italiana, nel quale vennero complicati ingiustamente anche il Pironti ed il Poerio. Nel medesimo tempo si istruiva in Napoli contro moltissimi popolani che avevano preso parte a le dimostrazioni liberali avvenute nella capitale il 5 settembre dello stesso anno.

Non altrimenti accadeva nelle provincie, ove si cominciò ad indagare anche per alcuni fatti precedenti Fatto sovrano del 29 gennaio. L’amnistia emanata con il Reale decreto del 2 febbraio successivo era amplissima per tutti i reati politici; l'art. 31 della Costituzione dichiarava solennemente: “H passato rimane coverto di un velo impenetrabile. Ogni condanna sinora profferita per politiche imputazioni è cancellata ed ogni procedimento per avvenimenti successi sinora è vietato

Ma la magistratura ritenne che il beneficio non dovesse estendersi a i reati di sangue commessi nei moti del gennaio. Si cominciò quindi in provincia di Salerno ad istruire per le uccisioni allora avvenute e rimaste dipoi impunite (24). In pari tempo si allestirono grandi processi nelle singole provincie, raggruppando in essi tutte le manifestazioni ed i movimenti verificatisi nel giugno e nel luglio del 1848. Cosi in Calabria per l’insurrezione ivi accaduta nel giugno, a Potenza per il circolo e la federazione lucana, a Salerno per i moti cilentani del luglio. In provincia di Salerno un grande processo abbracciò in generale tutto il movimento di allora, mentre per alcuni fatti singoli si crearono dipoi processi separati, come meglio chiarirò in seguito.

A pronunciare su tutti questi processi si ricostituirono le Corti Speciali. Il governo, dubitando di parzialità o di soverchia mitezza dei giudici, formò una Commissione di scrutinio del personale giudiziario, presieduta da lo Scorza, direttore al ministero dell’interno (25), a l’intento di scegliere per i giudizi politici magistrati devoti a la Corte e che mai avessero dato sospetto di amore a le istituzioni rappresentative. La maggior cura si adoperò per la destinazione dei procuratori generali, che dovevano promuovere le accuse e sostenerle poi innanzi le Coiti. Un decreto del 31 ottobre 1849 concesse al procuratore generale di Salerno che si era segnalato per grande zelo nell’istituzione dei processi politici, Raffaele Angelillo, la vagheggiata residenza della capitale e promosse a Salerno il sostituto Angelo Gabriele che aveva dato non dubbie prove di devozione al governo.

I procuratori generali dovevano per segreto comando tenere informata l’alta polizia e la Corte dell’andamento dell’istruzione dei processi politici e dei pubblici dibattimenti, sorvegliare destramente i giudici, indagarne in precedenza il voto, influire su esso (26). Dovevano sovratutto notare a tempo i precedenti, le aderenze dei magistrati, per escludere coloro che dopo l’atto sovrano avessero mostrato fervore per il governo costituzionale o avessero parentele, amicizie, relazioni d’interesse con i liberali. Questo occulto lavorio era allora il pensiero dominante dei funzionari, che si adoperavano ad acquistare merito o protezioni in alto con il dimostrare zelo e che temevano di apparire poco fervidi o finanche sospetti. Anche le autorità militari prendevano parte a tale maneggio. Il comandante la divisione territoriale di Salerno, avendo scoverto che un onesto giudice della Gran Corte del luogo, Carlo De Porcellinis, era cugino dei De Mattia, noti liberali di Vallo, suggeriva di mandare altrove il bravo magistrato scrivendo di lui “è vecchio, pusillanime ed ha favorito i demagoghi” (27).

Costituiti in tal modo gli uffici di istruzione e le Corti Speciali, si può immaginare facilmente quali concetti dominassero nei giudici. L’intima loro persuasione di esser chiamati dal proprio ufficio a salvare la dinastia e l’ordine, il desiderio di mostrarsi zelanti per guadagnare encomi e favori, la paura di perdere il posto o di essere tramutati in residenze disagiate, tutto li induceva a prestare agevolmente fede a le accuse, a pronunciare le più severe condanne. Si ripeteva con singolare compiacimento da i giudici il detto del famoso Navarro, presidente della Gran Corte speciale di Napoli: “è dovere del magistrato pulire il paese di tutte le male erbe”(28). I procuratori generali chiedevano il più delle volte condanne capitali, e le Corti si affrettavano ad accogliere le richieste per atterrire la parte liberale e per dar modo al sovrano, con la grazia della vita, di far atto di clemenza e di apparire innanzi a le popolazioni ed a l’Europa longanime e generoso. Uno scrittore ligio a i Borboni narra che il capo del governo rispose ad un procuratore generale che si lamentava della lentezza dei giudici: “E che! neppure il boia hanno imparato a fare!” (29).

E però dovere di lealtà il riconoscere che delle molte condanne di morte pronunciate pochissime ebbero esecuzione, credo anzi due sole. Nessuna nella capitale; una soltanto, il 26 aprile 1851, a Reggio Calabria per il giovane Francesco Ferrari (30), che minacciato di arresto per causa politica aveva ucciso un gendarme, ed un’altra a Salerno per una causa in cui al delitto di Stato si congiungeva, come narrerò in seguito, la fucilazione di un capo urbano.

V. Per ordine dei magistrati inquirenti e per iniziativa della polizia si eseguivano frequentemente arresti tanto in Napoli che nelle provincie. Si disse allora che i procuratori generali lasciassero a la prefettura di polizia mandati di arresto firmati in bianco per poter imprigionare i liberali a proprio talento. Molti di coloro contro cui era spedito mandato di cattura, avvisati segretamente da cancellieri, da scrivani, da gli stessi agenti della polizia per amicizia o per speranza di lauta ricompensa, si nascondevano per qualche giorno finché, assicuratisi di un imbarco su qualche nave straniera, riparavano in Piemonte od a l’estero. I ministri ed i consoli di Francia, d’Inghilterra e di Sardegna in Napoli (31) aiutavano i ricercati. L’Ollivier narra che gli agenti francesi in Napoli si adoperavano con molta attività a facilitare la fuga dei principali perseguitati.

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RAFFAELE CONFORTI

Il ministro francese Rayneval tenne nascosto nella sua casa vari giorni il Mancini e lo fece segretamente partire insieme con il Pisanelli ed il Conforti, che, pochi mesi prima ministro dell’interno, dovette per isfuggire a l’arresto nascondersi per vario tempo e poi travestito da marinaio imbarcarsi su l'Ariel (32).

In questa opera civile e pietosa, di soccorrere i migliori uomini del regno perseguitati da un governo iniquo, si segnalò sovra tutti Giorgio Fagan, primo aggiunto della legazione inglese allora diretta da sir William Temple, fratello di Lord Palmerston. Il Fagan, figliuolo di un gentiluomo irlandese console britannico in Sicilia, era nato in Palermo nel 1815 da madre italiana. Il Settembrini scrisse del Fagan:“A quelli che erano ricercati pel carcere e pel patibolo egli procacciò mezzi di fuga: a quelli che capitavano in carcere porgeva segretamente aiuti e consigli, e non mancò mai di assistere alla discussione delle cause, e spesso indusse anche il ministro ad intervenirvi. Sperava che quei giudici, innanzi a diplomatici stranieri, avessero qualche pudore” (33).

Nell’estate e nell’autunno del 1849, periodo di maggior frequenza di mandati di arresto per reità di Stato, si vedeva di continuo una nave con bandiera francese bordeggiare presso la spiaggia della Marinella, mentre tutte le navi mercantili e da guerra solevano ancorarsi nel porto. Ogni settimana quel legno spariva, per tre o quattro giorni, per ricomparire improvvisamente sempre nelle stesse acque. Questo fatto che si ripeteva spesso, a varie riprese, destò sospetti alla polizia (34), la quale, posta su l’avviso, notò che quella nave da guerra era l’Ariel comandato da l’ammiraglio Baudin. Crebbero le diffidenze quando si riusci a sapere che essa faceva di continuo il viaggio tra Napoli e Civitavecchia.

Il commissario di polizia addetto a lo scalo marittimo, dopo una sorveglianza assidua, constatò che la sera del 20 ottobre, mentre l’Ariel bordeggiava lungo la Marinella, da uno dei vicoli adiacenti a questa erano sbucati un individuo ed un ufficiale francese, che, attraversata rapidamente la strada, salirono in fretta in barca e raggiunsero l’Ariel. La stessa scena si ripeté nelle sere successive. Da altre indagini si seppero partiti cosi parecchi deputati napoletani e vari liberali compromessi per i fatti del 15 maggio, tra gli altri, il Mancini, il Trincherà, il Pisanelli, il Lanza, il Ruggiero, il Conforti, il Dentice, il Malvito. Erano approdati il 1° ottobre a Civitavecchia, donde ripartirono il di seguente per Genova, meno il Ruggiero che per infermità non potette imbarcarsi. Pochi giorni dopo erano fuggiti a Civitavecchia egualmente su l'Ariel ed avevano proseguito di là il 16 ottobre per Genova su un piroscafo francese di commercio i deputati Cagnazzi (35), Giura, Roberto Savarese, Mazziotti, Angelo Camillo De Meis, Michele Primicerio (36). Nella stessa guisa, imbarcandosi su l'Ariel, si erano sottratti a le ricerche Pier Silvestro Leopardi, Antonio Scialoia e il Briol; i due primi erano sbarcati a Marsiglia, donde il leopardi prosegui per Parigi, il Briol invece approdò a Genova e di là andò a Torino (37). Altri ricercati politici avevano potuto faggiro diversamente, cosi Giuseppe Del Re era riuscito ad imbarcarsi il 4 aprile 1849 sul piroscafo francese Alexandre come domestico di bordo sotto il nome di Giuseppe Giraud.

Il governo napoletano mosse qualche rimostranza al ministro francese in Napoli, ma questi rispose evasivamente e la protesta non ebbe seguito. Forse nelle alte sfere governative e nella Corte non spiaceva in fondo che parecchi dei ricercati andassero a l’estero: si teneva grandemente ad imprigionare i capi; per gli altri si chiudeva volentieri un occhio per liberarsi da altri impicci. Probabilmente non si comunicavano a i dipendenti queste istruzioni, che potevano riuscire pericolose; ma le autorità napoletane non si commovevano quando qualcuno degli individui colpiti da mandato di arresto per causa politica prendeva il volo, come spesso accadeva.

VI.In provincia di Salerno la polizia, i gendarmi e le squadriglie si affaticavano a scovare gli autori del moto di luglio. Parecchi di essi riuscirono a sottrarsi a le più diligenti indagini, nascondendosi in altri paesi presso fidi parenti ed amici, e vi restarono tranquilli, avvenendo allora astai di rado denunzie e tradimenti. Altri preferirono invece a le ansie ed ai pericoli della latitanza abbandonare la patria emigrando a l’estero. Narrerò alcuni episodi di quella vita raminga e la fuga di varii liberali della provincia di Salerno.

I due fratelli Francesco Paolo e Michele Del Mastro, del comune di Ortodonico, perseguitati accanitamente da la polizia, si erano nascosti con qualche loro compagno in una casa rurale tra il tenimento del comune di Perdifumo e quello di Serramezzana. Il quattro novembre del 1848, mentre essi erano nei dintorni della casa, si videro ad un tratto piombare addosso una turba di gendarmi appostatisi là vicino nel corso della notte per sorprenderli. 1 due fratelli non si perdettero d’animo, e facendo fronte risolutamente a la forza, tirarono contro di essa parecchi colpi, cui risposero vivamente i gendarmi. L’esaurimento delle munizioni, la prevalenza di numero degli avversarii costrinse i Del Mastro a volgersi in fuga, durante la quale Francesco Paolo ed uno dei loro compagni vennero raggiunti ed arrestati (38). Michele Del Mastro, che più agile era riuscito a far perdere le sue traccie gettandosi in una selva, credeva di essere seguito dal fratello e lo chiamò ripetutamente invano, finché dovette convincersi dell’arresto di lui. L’affetto fraterno lo indusse a l’ardito proposito di liberare a viva forza il germano.

Sapeva che i gendarmi avrebbero ben presto tradotto i due arrestati a le carceri di Salerno e, per mezzo di altri liberali, ebbe notizia che ciò sarebbe avvenuto il giorno 28 novembre successivo. Raccolta una piccola schiera di suoi conterranei, si nascose ad una curva delle rampe di Ogliastro (39), per le quali doveva necessariamente passare la forza. Dopo lunga attesa comparvero a la fine i gendarmi, che traevano con loro ammanettati i prigionieri. A la vista della comitiva armata i gendarmi insospettiti ripiegarono rapidamente presso una casetta rurale di un tale Longo e si accinsero a la difesa. Questa volta i gendarmi erano soltanto quattro o cinque; lacomitiva invece comprendeva una diecina di armati. Dopo lo scambio di varii colpi di fucile, che fortunatamente andarono a vuoto, i gendarmi vennero a patti e liberarono i detenuti, i quali, raggiunti i loro compagni, si posero con entusiasmo a gridare “viva la libertà, viva Pio nono!” (40). I Del Mastro, nonostante le dure prove subite, persistettero nella latitanza, finche nel maggio del 1850 si risolsero ad imbarcarsi per Genova.

I fratelli Giovanni e Pompeo De Angelis di Castellabate ed Ernesto Del Mercato di Laureana Cilento, anche essi complicati per la rivolta del luglio, stettero qualche tempo nascosti. Per mezzo dell’ambasciatore francese in Napoli, conte di Rayneval, ottennero da l’ammiraglio Baudin l’imbarco su la nave Friedland ancorata a Baia e di là partirono il 23 gennaio 1849 per Civitavecchia, donde raggiunsero Roma (41).

Un altro dei ricercati da la polizia salernitana, Filippo Patella, parroco di Agropoli, che tanta parte aveva preso nei movimenti della sua contrada, era fuggito in Napoli, dove vestito da borghese, e fattasi crescere la barba lunghissima, potette restare per parecchio tempo. Ma le ricerche dei gendarmi incalzavano; a i suoi parenti si infliggevano continue vessazioni e minaccie ed egli si risolse ad emigrare. Michele Pironti, suo intimo amico, ancora non arrestato, era in intimità con un consigliere dell’ambasciata di Francia, certo Dupuis, che fece imbarcare il Patella il 27 marzo 1849 su la nave da guerra Iena. Da bordo il profugo scrisse al Pironti pregandolo di mandargli il bagaglio; questa lettera, trovata poi in una perquisizione in casa del Pironti, servi a la polizia come documento di accusa (42).

VII. Durante gli ultimi mesi del 1848 ed i primi dell’anno successivo i ricercati politici riparavano nello Stato pontificio come il più vicino ed il meno difficile a raggiungere Ivi, specialmente dopo la proclamazione della repubblica, affluivano da ogni parte d’Italia i più accesi liberali, compromessi nelle vicende politiche, sentendo che ormai le sorti della rivoluzione si collegavano a Roma. Vi erano accorsi da ogni parte del regno, sovratutto, verso la fine del luglio 1848, da le Calabrie e dal Cilento. Tra i calabresi Stanislao Lupinacci, Luigi Miceli, Eugenio De Riso, Biagio Miraglia, Casimiro De Lieto, Achille Parise, i fratelli Agostino ed Antonino Plutino, G. Andrea, Pietro e Stefano Romeo (43), che avevano diretto l’insurrezione calabrese, Giovanni Nicotera e Giovanni Falcone, che avevano combattuto in essa. Dal Cilento, come già ho accennato, i fratelli Giovanni e Pompeo De Angelis, Ernesto Del Mercato, Filippo Patella, il dott. Giuseppe Caputo e Leonino Vinciprova, già capo di una colonna insurrezionale nel Cilento (44). Quasi tutti i fuorusciti napoletani parteciparono a la difesa di Roma.

Un battaglione comandato da Giovanni Gozzi, al quale erano ascritti Antonio Guerritore di Pagani ed il suo conterraneo Aniello Criscuolo (45), ebbe ordine di difendere i giardini del Vaticano da i Francesi. La mattina del 30 aprile cominciò un fuoco vivissimo da parte di questi ultimi Il battaglione riparato dietro le mura aveva ricevuto espressamente il comando di non muoversi fino a nuove disposizioni. Il Criscuolo, che aveva seguito la principessa Beigioioso in Lombardia, e poi era corso in Roma, volle con giovanile intrepidezza salire su le mura per osservare ravvicinarsi dei Francesi. Lieto e spensierato egli intuonò con voce vigorosa la strofa:

Suoni la tromba: impavido

Io pugnerò da forte,

Pronto a incontrar la morte

Gridando: libertà!

Una palla nemica in quel momento gli spaccò la fronte, rovesciandolo esanime da l’alto delle mura (46).

Un altro profugo napoletano, Giuseppe Caputo di Barile, che era stato tra gli autori del moto del Cilento nel luglio si comportò nella difesa della città con grande bravura (47). Egli comandò una colonna che seguì Garibaldi nell'invasione del regno di Napoli ed occupò il 26 maggio 1849 Arce, donde, per ordine del suo capo, tornò a Roma.

Caduta la repubblica romana, gli emigrati napoletani dovettero porsi in salvo. Il Guerritore con un passaporto falso andò a Civitavecchia e di là su un piroscafo francese proveniente da Malta si diresse a Genova. Erano sul piroscafo Guglielmo Pepe, Damiano Assanti, Girolamo Ulloa, Enrico. Cosenz, i fratelli Mezzacapo, rifugiatisi a Malta dopo la caduta di Venezia. Sbarcarono tutti a Genova, meno il Guerritore, cui non fu consentito l’approdo perché proveniente da gli Stati pontifici; egli si rifugiò a Marsiglia e di poi a Parigi ed a Londra (48).

Il Caputo si tenne qualche tempo nascosto nei dintorni di Roma; però i gendarmi pontifici lo sorpresero il 15 ottobre 1849 ed arrestatolo lo chiusero nel forte di Civitavecchia (49). Il governo napoletano chiese la consegna del detenuto; ma il colonnello francese Rousseau, prefetto di polizia a Roma, rispondeva “che la bandiera francese non permetteva la consegna di imputati politici”. Ciò nonostante, breve tempo dopo, i gendarmi pontifici tradussero al confine napoletano il Caputo, che di là riusci fuggire a Genova insieme con Filippo Patella.

Molti napoletani trovaronsi invece a la difesa di Venezia, e tra essi Francesco Galloppo di Polla, Lorenzo Mottola, Enrico del Mercato di Laureane, tutti appartenenti a la provincia di Salerno. In questa difesa perirono combattendo al ponte di Marghera il 24 maggio 1849 Francesco Diotaiuti di Camerota (50), Antonio Falcone di S. Cristoforo (51), Alessandro De Mattia di Massa, borgata di Vallo, sott’ufficiale nel battaglione degli zappatori del genio (52), il sacerdote Giovanni Margotta di Campagna, partito da Napoli con il maggiore Vaccaro (53), e Giuseppe Iorio, parimenti di Massa (54). Periva pure, ma per colera, Ciro Foglia, che il D’Ayala dice figlio di un celebre medico di Giffoni, (55).

Il governo di Napoli si era prefisso di tenere lontani dal regno tutti coloro che avevano preso parte a la guerra lombarda o a la difesa di Roma e di Venezia. In una nota ufficiale del 14 luglio 1849 il direttore di polizia Scorza scriveva a gli intendenti: “Impegno tutto il loro zelo ed accuratezza nel fine di vegliare che non si introduca nel regno alcun regio suddito che abbia militato a l’estero o sia partito volontariamente per militare” (56). Simili ordini erano stati comunicati a i regi consoli. A norma di tali disposizioni, allorché avvenne, il 23 agosto 1849, la capitolazione di Venezia, il console napoletano della città ricusò il passaporto per il regno a quattrocentotrentadue sudditi di esso ascritti a i corpi militari disciolti (57). Concesse invece a molti, in seguito ad autorizzazione del suo governo, passaporti per la Romagna, la Toscana, Corfù ed Alessandria d’Egitto (58).

Successivamente il governo, mutando d’avviso per pressioni ricevute da altri Stati, acconsenti a ricevere nel regno i reduci, per i quali però il direttore Peccheneda dispose la più rigorosa sorveglianza. Il Castromediano narra le miserie e le traversie di costoro, che privi di ogni mezzo di sostentamento dovettero rifare la via laceri e scarni chiedendo l’elemosina (59). Al loro arrivo nel regno la polizia si impadroniva di essi e, dopo avere a qualcuno applicato arbitrariamente la pena delle legnate, li mandava tutti nelle isole o nei castelli. La maggior parte venne mandata a Ventatane, a Ponza e nel castello di Brindisi (60).

Molti salernitani ricorderanno ancora Giuseppe d’Andrea, un bel vecchio, dritto e forte della persona, ma indebolito nella mente, che lottava con le maggiori difficoltà della vita. Quel vecchio da i lunghi capelli Bianchi, ohe serbava ancora nella miseria la fierezza dei suoi anni virili, era stato da giovine un bravo farmacista. Fu a la difesa di Venezia e si comportò da valoroso. Tornato nel regno dopo la capitolazione, venne relegato con parecchi suoi compagni a Ventatane. Ottenne la libertà il 7 marzo 1852 e tornò a Salerno.

Egli narrava di essere stato a la difesa di Venezia, ma pochi lo credevano, i più lo reputavano fatuo, ed egli non seppe allestire i documenti occorrenti per ottenere qualche aiuto dal governo. Solo negli ultimi anni della sua vita qualcuno che ebbe pietà di quel misero potè fornirne la dimostrazione e procurargli qualche soccorso, purtroppo assai modesto. .

VIII. Le carceri erano gremite di detenuti. Nella sola provincia di Salerno si trovavano in prigione per causa politica e soggetti a giudizio quattrocento quattordici individui (61). Parve necessario mettere un argine a tante carcerazioni ed istruttorie limitandole a i delitti importanti e sgombrando le Corti da i processi più lievi. Il re, con sovrani rescritti del 10 aprile 1850 e del 7 giugno 1851, pubblicò una amnistia per i reati politici meno gravi avvenuti in Basilicata e nelle Calabrie. Il 9 maggio dello stesso anno emanò un altro decreto con cui “aboliva l’azione penale a riguardo di imputati, siano presenti siano assenti, per tutti i reati di discorsi tendenti a spargere il malcontento contro il governo commessi nell’anno 1848”.

Nonostante tutto ciò, ordini di arresto e processi si seguivano senza tregua. Si pensò allora di fare una indagine sommaria di tutti i procedimenti | politici per sbarazzare il terreno da i meno importanti e far proseguire soltanto quelli di qualche gravità. A tale oggetto il re, con risoluzione sovrana del 14 febbraio 1852, istituì per ciascuna provincia una speciale commissione detta di scrutinio, che ebbe l’incarico di classificare i numerosi imputati in tre categorie secondo la gravità del delitto. Per la prima, che doveva comprendere quelli più gravi, si imponeva di procedere sollecitamente a giudizio; però in caso di condanna capitale era necessario, per eseguirla, chiedere il consenso del ministro. Per la seconda classe, si addiveniva egualmente a giudizio e se fosse intervenuta una condanna a morte si doveva domandare l’assenso del re. Per l’ultima classe infine, che comprendeva i delitti più lievi, si aboliva addirittura, per diminuire i giudizi e sfollare le carceri, l’azione penale.

Per la provincia di Salerno la Commissione fu costituita da l’intendente Valia come presidente, dal procuratore generale Angelo Gabriele e dal generale brigadiere Cipriano Nasi. La Commissione provvide per quattrocentotrentuno imputati per le agitazioni del luglio 1848. Iscrisse nella prima classe sedici individui, cioè Filadelfo Sodano, Carlo Pavone, Antonio Curcio, Giuseppe Caputo, Giuseppe Maria Pessolani, Ovidio Serino, G. B. Riccio, Giovanni De Angelis, Filippo Vitagliano, Ernesto Del Mercato, Filippo Patella, Pasquale, Lamberti, Domenico Picone, Salvatore Garofalo, Gennaro Giardino, Benedetto Strommillo. Nella se conda centosessantasei imputati, tra cui Carlo e Pompeo De Angelis, Salvatore e Lucio Magnoni, Angelo Pavone, Michele De Augustinis, Leonino Vinciprova, F. P. Del Mastro, Giovanni Carducci, Stefano Passero, Gaetano Del Mercato, Zaccaria Ragone, Giovanni Guerrieri, Raffaele Ginnari, Giovanni e Salvatore Galletti, Domenico Mercadante, Cristoforo e Socrate Falcone, padre e figlio. La terza classe, infine, annoverava duecento trenta tre persone, che avrebbero dovuto, giusta le norme adottate, essere subito prosciolte dal giudizio e dal carcere; ma cosi non avvenne (62).

L’intendente Valia scriveva il 17 febbraio 1852 al ministro dell’interno cosi: “Tra i compresi nella 3(a)categoria vi sono molti appartenenti al distretto di Vallo e tra questi parecchi per misura di preveggenza non dovrebbero per ora tornare in patria. Se Ella approva il mio proponimento, La prego di comunicarmi al più presto le necessarie facoltà. Chi ha il coraggio di mandare tanta canaglia in quel diabolico Cilento!(63). Il benigno suggerimento del Valia ebbe tutto il suo effetto; ben sessantasei persone della provincia di Salerno (la maggior parte del distretto di Vallo) che avrebbero dovuto liberamente tornare al proprio paese dovettero andare invece a domicilio forzoso. Tra esse Raffaele Coccoli mandato ad Eboli, Francesco Petillo ad Avellino, Pasquale De Feo a S. Cipriano (64). La stessa sorte toccava a l’ingegnere Pizzuti di Montecorvino. Arrestato nel maggio del 1851 perché si rinvennero presso di lui carie criminose ed una fascia tricolore, nonostante che fosse stato assolto da la Gran Corte Speciale di Napoli fu relegato a Ventotene e poi ad Avellino.

CAPITOLO II

Il maresciallo Palma

SOMMARIO — I. Il comandante la divisione militare di Salerno — Vigilanza su i liberali della provincia — Arresto di coloro che portavano i baffi o la barba lunga — II. Odi del Palma contro i preti ed i frati liberali— Persecuzioni al padre Giuseppe da Campora — III. Il canonico Abignenti di Sarno — Clausura di lui e di altri canonici in vari conventi per farvi i santi esercizi — Fuga dell’Abignenti — IV. Persecuzione contro intere famiglie — La famiglia Del Mercato — Arresto di Francesco e di Pietro Del Mercato — Traversie della famiglia Capozzoli — Morte di Luigi Capozzoli — Relegazione a la Pantelleria di alcuni loro congiunti — V. Vigilanza della polizia su le corrispondenze postali — Sorpresa di una lettera della vedova Carducci — Perquisizione in casa di questa ed arresto del padre di lei — Morte di una figliuola del Carducci — VI. Un grave incidente nelle carceri di Salerno — Proposte della polizia per l’applicazione delle legnate al detenuto Andrea Curzio — Il maresciallo Palma ordina le legnate— VII. governo affida l’incarico di pacificare il Cilento al Palma — Arresti ed in vii di attendibili nelle isole — maresciallo percorre il Cilento — Suoi severi provvedimenti «r Applicazione delle legnate — VIII. Le squadriglie — Loro gesta — Il Palma protegge le squadriglie.
I. Un ordine del Ministero della guerra del 28 marzo 1849 destinava al comando della divisione territoriale dei due Principati, cioè delle provincie di Salerno e di Avellino, il maresciallo Bernardo Palma (65). Nato in Roma il 17 febbraio 1772, egli era entrato il 1796 nell'esercito cisalpino come tenente ed aveva preso parte a varie campagne con Napoleone e con Murat comportandosi da valoroso e raggiungendo il grado di colonnello. Avvenuta la restaurazione borbonica del 1815, perdette il posto, che riebbe soltanto al principio del periodo costituzionale del 1820 (66). Ripristinato il governo assoluto, un regio decreto del 31 marzo 1821 radiò da i quadri tutti gli ufficiali non nati nel regno ammessi nell’esercito dopo il 5 luglio 1820, cioè dopo la rivoluzione (67). Fu radiato tra gli altri il Palma, il quale ricuperò il suo grado soltanto nel 1831, e venne dipoi promosso a maresciallo.

Il vecchio soldato, inasprito forse da i lunghi anni trascorsi senza impiego, desideroso di far dimenticare i servizi prestati durante l’occupazione francese, si diede a la più accanita persecuzione contro la parte liberale, commettendo ogni sorta di arbitrii ed arrogandosi qualsiasi facoltà. Né gli mancavano certo occasioni per mostrare zelo, giacché la provincia di Salerno non era davvero tranquilla ed ogni giorno si verificavano novità, le quali mettevano a dura prova la sua pazienza, indubbiamente non grande.

Il 5 novembre del 1849 nel comune di Angri occorse un incidente che fece andare su tutte le furie il maresciallo. Si legge nella sua relazione ufficiale: “si rinvenne la mattina penzoloni ad una acacia nell’interno del paese una statua in gesso del nostro adorato sovrano con il capo reciso dal busto, intrisa di sangue e sostenuta da due corde annodate a due biforcati tronchi (68). A quella vista la parte miglioro del paese, inorridita da tanta scelleraggine, gridava con lagrime di devozione viva il re, morte alla canaglia! e portò in processione le venerate immagini dei nostri adorati sovrani (D. G.), accompagnata dalla guardia urbana e da tutto il clero, che indossava i paramenti da festa. Quindi si cantò solennemente il Te Deum e si posero le statue del re e della regina su l’altare maggiore (!)” (69). Il Palma pieno di santa indignazione chiedeva poteri eccezionali per dare qualche esempio salutare. Intanto avvertiva il governo di avere fatto arrestare otto persone del luogo sospette come mali intenzionati.

Avvenimenti di maggiore gravità turbavano gli altri distretti della provincia. I più feroci capi-urbani, i più noti denunzianti venivano audacemente massacrati o feriti ed un grande terrore dominava la parte reazionaria. Il maresciallo attribuiva queste rappresaglie dei liberali a l’indulgenza della magistratura, “la quale” gridava sdegnosamente il Palma, “ha liberato nientemeno che quarantaquattro individui detenuti per causa politica”. “A dimostrare la debolezza dell’autorità giudiziaria basta il fatto”, esclamava, “che passeggiano a loro agio per Salerno notissimi liberali, tra cui i fratelli De Angelis di Castellabate, teste vulcaniche: ciò che desta immenso scandalo in tutti gli onesti. Bisogna ad ogni costo istituire per i reati politici una Commissione militare” (70).

Il maresciallo, infervorato sempre più nella sua opera, si propose di ridurre sollecitamente a l’ordine la provincia ribelle. Subito iniziò una sorveglianza assidua su le persone sospette e su i pubblici ritrovi, informandosi attentamente per mezzo di uno stuolo di spie di coloro che li frequentavano e dei discorsi che vi si tenevano. Al menomo indizio procedeva, di sua autorità, senza alcun ordine del magistrato, a perquisizioni ed arresti (71), tenendo in carcere gli arrestati a sua discrezione, senza neanche denunciarli al potere giudiziario come era prescritto da le leggi.

Il caffè più frequentato dai liberali in Salerno era al largo del Campo e vi si intrattenevano specialmente l’avvocato Rocco Positano, Carlo Alfieri, Francesco Avossa, Matteo Luciani, Giustino De Vicaris, i fratelli Francesco ed Achille Mezzacapo, Camillo Borrelli (72). Abili confidenti di polizia solevano pedinare questa gente sospetta e seguirla finanche nel caffè per sorprendere qualche parola che potesse dar motivo o pretesto per arrestarli.

In Salerno, forse più che in altre provincie, per opera appunto del Palma, la polizia arrestava coloro che ardivano portare i baffi o la barba lunga, ciò che era ritenuto segno d’idee sovversive e mezzo di riconoscimento tra i liberali. Invano l’intendente obbiettava che convenisse lasciare a i cittadini la libertà di portare la barba a loro gusto, perché così si sarebbero eluse le arti dei settari, che non avrebbero potuto più comodamente riconoscersi tra loro: il maresciallo imperversava sempre maggiormente contro quelli che non obbedivano al divieto, li faceva arrestare e, fatta loro radere la barba senza insaponare il viso, non li mandava via che dopo qualche giornata di prigione ed una fiera paternale. Un gran numero di cittadini di Salerno e di provinciali ebbe a subire questo odioso trattamento (73) indice della goffaggine del governo il quale, con tali metodi puerili e indegni di un popolo civile, dava continuo argomento a beffe ed a proteste della stampa estera.

H. Esasperavano l’irritabile maresciallo più di tutto i preti liberali. Un prete liberale! Sembrava al maresciallo una cosa inverosimile, enorme, un sacrilegio per cui non vi fossero pene sufficienti. In una sua relazione, alludendo a i moti del luglio del 1848 nel distretto di Vallo, scriveva: “H cardine di tutti i mali sono stati in prima i parroci e quindi i sacerdoti, i quali, abbandonandosi ad ogni sorta di vizi, sono la pietra di scandalo” (74). Ne avrebbe voluto imprigionare parecchi, ma a Corte dopo la fuga del papa a Gaeta e la solenne venuta di lui in Napoli dominava più che mai l’antico bigottismo e ai teneva a non dispiacere a la Curia; occorreva quindi usare riguardi e temperanza e procedere in perfetta intesa con i vescovi. Non era possibile la prigione? Ebbene si mandavano i preti liberali in qualche convento a fare a tempo indeterminato gli esercizi spirituali! Quando poi si trattava di un frate, lo si sbalzava di convento in convento, per lo più in località poco gradite e lontane da la capitale.

Richiamava spesso l’attenzione della polizia in provincia di Salerno il cappuccino Giuseppe Feola noto con il nome di padre Giuseppe da Campora, suo paese nativo nel distretto di Vallo (75). A i fervidi sentimenti religiosi egli univa un profondo amore per la patria e le libere istituzioni che vibrava nelle sue prediche eloquenti, le quali attraevano sempre un affollato uditorio.

Prima della costituzione l’ardito monaco era stato, per ordine o per desiderio dell’alta polizia, sbalzato senza tregua di convento in convento. Dopo l’atto sovrano ottenne di andare nel convento di Piaggine, a breve distanza dal suo paese nativo, ove i suoi congiunti ed i suoi conterranei avevano per lui molto affetto e reverenza. Ma dopo i moti di luglio, l’autorità politica credette di allontanare da la provincia il pericoloso cappuccino, ed egli ebbe improvvisamente l’ordine di recarsi al convento di Marsico in Basilicata: obbedì, comunque a malincuore. Calmatasi in seguito alquanto la tempesta, ottenne da i suoi superiori di tornare nella propria provincia, a Camerota, e vi stava tranquillamente, quando, per volere del maresciallo Palma, fu trasferito al monastero di Castelsaraceno (76), d’onde passò poi come padre guardiano a quello di Saponara.

Nella quiete del suo convento il fiero cappuccino meditava arditi disegni e, quando cominciò nella Basilicata il segreto lavorio che precedette l’insurrezione del 1860 in quella contrada, si diede con tutto l’animo a propagare nelle masse le idee liberali. Il Lacava lo cita tra i più fervidi mazziniani della sua provincia (77), il De Cesare (78) ed il Racioppi (79) accennano al suo entusiasmo per le civili libertà. Egli divenne, come il padre Serafino da Centola, uno dei principali cooperatori della rivoluzione di Basilicata ed istituì la prima sezione del comitato liberale, quella di Montemurro, formata dai comuni di Moliterno, Saponara e Viggiano (80).

Ritornato in patria dopo il 1860, pubblicò un opuscolo contro il patere temporale intitolato “La mia confessione intorno al potere temporale dei papi” dedicandolo a Vittorio Emanuele; e visse serenamente nel suo paese, circondato da la stima e da la benevolenza di tutti fino alla sua tragica morte. La sera del 3 giugno 1863 irruppe a l'improvviso in Campora la banda di briganti capitanata da Giuseppe Tardio. Alcuni dei malfattori corsero per ordine del capo a la povera casa del cappuccino, e, quantunque egli fosse costretto a letto dalla podagra, lo trassero a forza nella pubblica piazza innanzi al Tardio, che gli impose la taglia di duemila ducati. Il fratello del Feola, con le lagrime a gli occhi, si affannava a mostrare l’impossibilità per la modesta famiglia di pagare si forte somma. Ma il fiero brigante sdegnato da le preghiere gridò al cappuccino: “Tu non vuoi mettere fuori il denaro che ti sei procurato con le prediche del tuo Vittorio, tu ne hai perché sei un suo pensionato (81), tu sei un monaco indegno perché spieghi male il vangelo, tu devi morire perché quest’ordine mi è venuto da Roma”. Padre Giuseppe ascoltò con animo sereno la condanna. Il Tardio gli ingiunse, facendogli sperare la salvezza della vita, di gridare “viva Francesco II!” Ma il frate, racconta la requisitoria del procuratore generale Paolo Magaldi nel processo che segui al triste avvenimento, “con il volto divinizzato da l’avvicinarsi del martirio e con un gesto che dava a le sue parole la maestà del profeta, o meglio la solennità evangelica dell’eternità, rispose: No! Io saprò morire come vissi: Viva l’Italia! Allora vari colpi di arma da fuoco gli forano il petto, ma non l’uccidono, vari altri colpi di arma bianca il finiscono, e da la confessione di uno degli astanti si ha come lo stesso Tardio, quasi indispettito che non morisse, gli tirò una sciabolata” (82). Ricordano l’estinto due iscrizioni, l’unanella piazza di Campora ove fu trucidato, l’altra nella chiesa del paese nella quale ebbe sepoltura.

III. Più di tutti gli altri preti e monaci liberali della provincia di Salerno faceva saltare la mosca al naso al maresciallo Palma il giovane canonico Filippo Abignenti (83), di antica ed illustre — famiglia del luogo, di alto ingegno, assai stimato in tutto il distretto. Deputato nell’aprile 1848, vedendo la grande agitazione della capitale nei giorni precedenti la convocazione. della Camera, scrisse a un suo fratello a Sarno di mandare gente armata in Napoli per difesa del Parlamento. Di questa lettera si valse il prete Ovidio Scrino uno dei più ardenti rivoluzionari della provincia, per raccogliere persone armate la sera del 15 maggio ed inviarle in Napoli (84). L’Abignenti nella memoranda seduta preparatoria tenuta in quel giorno da la Camera dei deputati sottoscrisse la protesta Mancini. Ritornato dopo quella riunione a Sarno, persuase le guardie nazionali del suo paese e dei comuni vicini a desistere dal proposito di muovere su Napoli, essendo già stata colà domata la rivolta (85). Ciò nonostante la polizia inuna relazione del 19 maggio dello stesso anno battezzò il canonico col titolo di corifeo della rivoluzione. Forse questo titolo dovette al fatto che ad un fanatico reazionario, che gli aveva gridato sul viso in quei giorni Viva il re! per tutta risposta egli assestò una bella bastonata su le spalle.

L’Abignenti soleva frequentare in Sarno, un caffè tenuto da un tale Pasquale Geronimo (86). La polizia che sorvegliava l'effervescente canonico, nome soleva chiamarlo, notò che nel medesimo ritrovo convenivano spesso altri canonici del luogo egualmente sospetti, cioè Domenico Ruotalo, Pietro Nocera, Filippo Marano ed i sacerdoti Tommaso Squittieri, Alfonso Liguori, Francesco Milano e Giovanni Ruotolo (87). Perché costoro si trattenevano cosi spesso ed a lungo nel caffè, con una certa aria di mistero, ed in compagnia di un tipo cosi pericoloso come l’Abignenti? Certo si tramava qualche cosa, doveva essere una riunione settaria! L’intendente, cui in fondo piaceva la legalità, a queste notizie, dichiarò che bisognava fare un buon processo e venire in chiaro del vero; ma al maresciallo non garbavano le lungaggini delle istruttorie ed i curiali: egli preferiva risolvere ogni cosa soldatesca mente e di testa sua.

Lasciando che l’intendente strepitasse a sua voglia, provvide da sè: il caffè venne chiuso definitivamente, il fratello del De Geronimo, usciere del giudicato di Samo, solo perché parente del proprietario, fu sbalestrato in una residenza lontana. Ma bisognava anche dare una lezione a quei preti audaci! Il maresciallo comunicò imperiosamente al vescovo di sospenderli subito a divinis e di mandarli in conventi lontani a farvi a tempo indeterminato i santi esercizi (88).

A capo della diocesi di Cava e di Sarno era allora Mons. Salvatore Fertilla, siciliano, di sentimenti liberali. Uomo ingenuo, aveva avuto la ispirazione non felice di pubblicare nei primi mesi del 1849 un breviario, in cui raccomandava a i preti della diocesi di celebrare la ricorrenza del 29 gennaio (cioè della concessione dello Statuto) pro recuperata liberiate e perfino di cantare il Te Deum! Questa trovata di monsignore giunta all’orecchio del re aveva suscitato un vero scandalo (89). Il vescovo, che si sapeva malveduto in alto e che vedeva la Curia deferente ad ogni desiderio del governo, cedette a le brusche intimazioni del maresciallo ed impose a i preti designati il ritiro in alcuni conventi (90). L’Abignenti venne condotto da gli sbirri, il 7 luglio del 1849, nel monastero dei minori osservanti di Vico Equense.

Il canonico fremeva nell’ozio tra le mura del convento e dopo alcuni mesi, non resistendo più a quella vita, cominciò a meditare la fuga. La rendeva però assai difficile la continua vigilanza degli altri monaci e specialmente del padre provinciale, Sebastiano da Sarno, che dimorava nel monastero e che aveva ricevute personalmente dal maresciallo severe raccomandazioni.

Per fortuna il padre provinciale dovette per ragioni di ufficio allontanarsi durante alcuni giorni dal convento, e la vigilanza sul recluso divenne, nell’assenza del su periore, meno assidua. Riusci quindi al canonico, mediante segreti accordi, di architettare una evasione.

Nel pomeriggio del 5 ottobre due individui vestiti con molta eleganza bussavano rumorosamente a la porta del convento, dandosi a credere con tono arrogante ed imperioso, grandi personaggi del governo e forse anche della Corte Il portinaio, cui chiesero del canonico, umile ed ossequioso, sprofondandosi in inchini li accompagnò fino a la cella di lui, con il quale si intrattennero a lungo fino a sera. Preso quindi congedo si diressero per uscire verso la porta del convento accompagnati da alcuni frati e dal canonico, che, per non dare sospetto, aveva lasciato nella cella il lume acceso e andava a capo scoperto. Giunti vicino a la porta ed usciti i due ignoti, il canonico a l’improvviso balzò fuori e sparve nell’oscurità lasciando attoniti ©sgomenti i poveri monaci.

Può facilmente immaginarsi la sorpresa, lo sdegno del maresciallo a simile notizia!

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FILIPPO ABIGNENTI

Volle nientemeno che si iniziasse un processo contro i monaci e specialmente contro il padre provinciale; ma in quei tempi di fervore religioso e di bigottismo non si poteva trattare leggermente con il Vati cano, ed il Palma dovette rassegnarsi nella speranza di scovare il canonico e di averlo ben presto nei suoi artigli. L’Abignenti, nascostosi per qualche giorno in Napoli, riuscì il 10 ottobre 1849 con l’aiuto dell’ambasciata francese ad imbarcarsi sul piroscafo Ariel e con esso giunse il 16 successivo, a Genova, donde proseguì per Nizza (91). Erano su lo stesso piroscafo altri profughi: i deputati Cagnazzi, Angelo Camillo De Meis, Roberto Savarese, F. A. Mazziotti, Michele Primicerio.

La polizia ricercava attivamente nel regno Francesco Del Mercato di Laureana Cilento, antico carbonaro del 1820, ed i suoi figli Ernesto, Valerio, Gaetano, Pietro ed Enrico. Ernesto si trovava a Roma, Valerio era destramente riuscito a porsi in salvo, credo in Toscana. Il Palma, indignato di non essere riuscito ad agguantarli fece dare la caccia a tutta la famiglia Del Mercato. Caddero cosi nelle mani degli sbirri nel dicembre 1849 Francesco e Pietro (92). Iniziato un processo a loro carico, mancò ogni prova, sicché andarono assolti, dopo ventidue mesi di carcere. Nondimeno il maresciallo relegò ad Avellino Pietro, che solo nel 1852 ottenne di stabilirsi a Salerno (93). Ignorò qual sorte subi allora Francesco. Dagli atti si desume che qualche anno dopo si trovava a Salerno, ove il 31 luglio 1852 la polizia lo arrestò insieme con il figlio Enrico, avendo in una perquisizione in casa di lui trovato varie armi, una sciarpa tricolore ed una penna nera costituzionale (?) (94). Gaetano passò qualche tempo nascosto in una fattoria dei Marchese Palmieri al Vomero e poi si diede ad esercitare la professione forense in Napoli sotto il falso nome di Francesco Malnieri.

Più accanite persecuzioni subiva per opera del maresciallo la famiglia Capozzoli, dei famosi banditi fucilati a Palinuro il 1829 (95).

Il vecchio padre loro, Antonio, relegato con la moglie e con i figliuoli superstiti Gaetano e Luigi nell’isola della Pantelleria fin da quell’epoca, dopo che fu pubblicata la costituzione era partito con la sua famiglinola il 23 maggio 1848 per Napoli su una barca a vela. Durante il non breve viaggio, in vicinanza della Sicilia si destò improvvisamente una forte tempesta, tanto che l’equipaggio dovette per alleggerire la barca gettare a mare le masserizie che i Capozzoli portavano seco. Giunti dopo molte traversie al paese nativo, Monteforte Cilento, trovarono la loro povera casa depredata di tutto, i beni di famiglia usurpati da altri durante la loro lunga assenza. I due vecchi si dibattevano in cosi crudeli angustie che in una supplica del 2 novembre 1849, narrate le loro miserie, chiedevano una elemosina al Consiglio degli ospizi della provincia (96).

Intanto i due figliuoli Gaetano e Luigi avevano preso parte al moto del Cilento nel luglio 1848. Cominciata la reazione, la polizia sguinzagliò gendarmi ed urbani a la ricerca di essi. Non avendoli rinvenuti nella loro casa a Monteforte, inveì vigliaccamente contro i decrepiti genitori da cui pre tendeva sapere ove fossero nascosti i figli, e, non avendo i vecchi voluta rivelarne l’asilo, si dette a rovinare la casa, scassinando perfino le porte e le finestre (97).

Le sera del 13 settembre 1849 la guardia urbana di Monteforte, che si era accinta a la caccia dei due Capozzoli, li sorprese in una casetta rurale presso Omignano. A la vista degli urbani i due fratelli si diedero a fuggire inseguiti da i colpi degli assalitori; Gaetano riuscì a salvarsi, Luigi ferito gravemente da una palla di fucile ebbe nondimeno la forza ed il coraggio di continuare nella fuga, e si nascose in una capanna di pastori ove gli urbani lo rinvennero il giorno dopo (98).

II ferito, non ostante le sue gravi condizioni, fu trasportato a le carceri di Polla, nelle quali rimase gettato su la nuda terra, senza alcuna assistenza (99). Invano l'infelice chiese di essere trasportato in un ospedale. Restò in carcere e vi mori miseramente il 26 settembre 1849 (100). Gaetano pochi giorni dopo, il 14 ottobre, cadeva anche egli nelle mani dei gendarmi in contrada Selva in tenimento di Omignano (101). Quasi non bastassero tante sciagure, il maresciallo Palma, sollecitato da istanze di abitanti del comune di Monteforte, proponeva di mandare novellamente a la Pantelleria il vecchio Antonio Capozzoli, la moglie e due fratelli di esso, a nome Luigi e Giuseppe; ma l'intendente Valia, più umano, si oppose allegando giustamente che Antonio e la moglie erano ottuagenari e limitò la proposta a i due fratelli di Antonio (102).

La polizia esercitava una continua vigilanza su le lettere dei liberali intercettandole ed aprendole senza il menomo scrupolo. Sottoposte ad incessante e severa sorveglianza erano le corrispondenze tra la vedova Carducci ed i congiunti e gli amici del marito. La sventurata donna con una sua figliuoletta di nome Rosa s’era stabilita, dopo l’assassinio del marito, in Napoli in casa di suo padre Francesco Paolo Del Re, che abitava allora in sezione Avvocata al vico Campanile, n. 20.

Nell’agosto del 1850 la polizia della provincia di Salerno apri una lettera diretta da la vedova Carducci a Salvatore Ricci di Capaccio, parente dell’ucciso e persona sospetta. La lettera conteneva, tra le altre, queste parole: bisogna avere un altro poco di pazienza. Subito si fecero mille supposizioni: si immaginò che l’infelice donna alludesse a prossimi rivolgimenti rivoluzionari! In una rigorosa perquisizione in casa Del Re, nulla si rinvenne a carico di lei. Si trovarono soltanto in camera del padre alcuni libri proibiti: bastò perché gli sbirri conducessero in carcere il Del Re che era già tenuto d’occhio da la polizia, a causa di suo figlio Giuseppe emigrato in Piemonte.

Si volle naturalmente venire in chiaro sul significato di quelle parole ritenute misteriose e gravi. La vedova Carducci, interrogata il 14 novembre successivo, spiegò molto facilmente l'enigma: un figliuolo del Ricci, Ernesto, complicato nei moti del luglio era da due mesi detenuto a Salerno. Il padre di lui le aveva scritto pregandola con calde parole di cooperarsi, mediante qualche conoscenza, per la liberazione del figliuolo. E la Carducci, assunte informazioni, scriveva al padre del detenuto tanto per dargli un pò(1)di sollievo che bisognava avere un altro poco di pazienza (103).

La povera vedova qualche anno dopo, il 24 aprile 1855, perdette in Napoli la sua bambina, che nell’immane dolore era stata l’unico suo contorto. L'inatteso colpo prostrò profonda' mente l'animo della sventurata (104).

Le carceri di S. Antonio in Salerno rigurgitavano di detenuti politici (105). Vi si trovava, tra gli altri, Andrea Curzio di S. Angelo a Fasanella, giovine di venticinque anni, che aveva co in battuto su le barricate a Napoli nella giornata del 15 maggio (106). ed era stato arrestato il 20 dicembre del 1849. Egli mal soffriva la lunga detenzione. Avvenne che, recatosi nel parlatorio delle carceri il 16 febbraio del 1850 per parlare con un amico venuto a visitarlo, si imbatté nella stessa sala con un altezzoso capo urbano che in atto molto provocante faceva mostra del suo distintivo, una coccarda rossa con il giglio. Il giovine non seppe rattenere gli impeti dell’animo e, voltosi fieramente e in modo sdegnoso al capo urbano, lo apostrofò con queste parole: Canaglia d’ un calderaio (107), che mi rappresenti con cotesto pomodoro? (108). Immediatamente gli saltarono addosso i custodi lo chiusero in un cella di rigore e informarono del fatto l’intendente.

La cella di rigore ed un buon processo non sembrarono bastevoli al commissario di polizia, che il giorno 22 successivo scriveva al suo direttore cosi: “II giorno 17 comunicai il reato commesso dal Curzio al sig. procuratore generale pregandolo per le disposizioni da sua parte. Ora, nel farmi un dovere di rassegnarlo a Lei, interesso l’alta sua considerazione sul proposito, pregandola di voler riflettere che in simiglianti incontri sarebbe d'uopo di adottare straordinarie ed istantanee misure di rigore, giacché l’essersi ristretto il detenuto in una stanza di correzione, indipendentemente dal processo che sarà istruito, non imprime in altri che un lieve esempio di repressione” (109).

La punizione delle legnate, cui il commissario alludeva, era stata solennemente abolita dal governo costituzionale, sicché l’infliggerla' implicava un manifesto e grave sopruso. Il nuovo direttore di polizia, Francesco Scorza, finse di non comprendere, non volendo esporsi personalmente ad una non lieve responsabilità. Avrebbe desiderato, par poter essere tranquillo, che il suggerimento di applicare le legnate venisse dall’alto. Rispose quindi il 23 febbraio al commissario di polizia: “Le fo noto di aver direttamente informato di questo avvenimento (il fatto del Curzio) il ministero di grazia e giustizia con preghiera di comunicare la sue istruzioni a la Gran Corte per l’esemplare punizione dell'imputato”. Ma la polizia di Salerno non si contentava di questa risposta evasiva, e come se la sua lettera precedente non fosse abbastanza chiara, volle mettere da parte ogni riserva, e spiegare nettamente il suo pensiero. Replicò quindi: “Con la mia lettera precedente accennai alla Commissione per le legnate che,. trovandosi salutarmente stabilita con sovrano rescritto fu poi con ministeriale del 10 febbraio 1848 a firma di Poerio ordinato che più non si riunisse” (110).

Di tutta questa faccenda era stato informato intanto il maresciallo Palma, il quale, visto che non si giungeva ad una risoluzione, stanco degli indugi, fece a meno del permesso dei superiori ed ordinò le legnate. Il povero Curzio, condotto nel piccolo cortile delle carceri, venne legato con le natiche scoperte sovra un cavalletto di legno ed, in presenza degli altri detenuti, subì trenta colpi di bacchetta. Negli atti trovasi questo laconico documento che trascrivo: “Amministrazione delle prigioni centrali di Salerno, 13 marzo 1850. Dietro ordine del maresciallo di campo comandante territoriale dei due Principati, si sono fatte eseguire questa mattina alle ore 14 d'Italia trenta battiture in persona del detenuto Andrea Curzio. L’amministratore D. A. Vairo”(111).

Il governo, per tenere a freno il Cilento in cui continuava sempre una sorda e minacciosa agitazione, vi aveva spedito nel dicembre del 1848 una colonna mobile comandata dal tenente colonnello Giosuè Ritucci. Questi percorse per lungo e per largo la contrada, e finché vi rimase non occorsero novità. Egli però non si faceva illusione di avere domato gli spiriti ribelli del paese, tanto che scriveva da Vallo al comando dello stato maggiore: “II Cilento è fonte perpetua di disordini e modello su cui si regolano le altre provincie” (112).

Si voleva nella capitale porre finalmente un termine al continuo pericolo di moti insurrezionali nella provincia mediante una azione pronta, radicale ed energica, e si affidò l'incarico appunto al maresciallo Palma, in cui si nutriva molta fiducia, sapendolo uomo da le risoluzioni istantanee, nemico di mezze misure e di ogni blandizia. Tali incarichi conferivano i medesimi poteri straordinari concessi a i generali in capo di un esercito di operazione, i quali avevano “piena autorità su tutti i funzionari politici e militari della provincia, anche superiori di grado” (113).

La provincia di Salerno era veramente in un periodo di costernazione e di terrore. Dei deputati eletti da essa tutti, meno il Giuliani, erano in carcere o latitanti in seguito a mandato di cattura e sottoposti a giudizio. In carcere da qualche tempo l’Avossa ed il Giannattasio: latitanti nel regno od all’estero il Bellelli, il Mazziotti, il Conforti, già ministro dell’interno, il De Dominicis, il Positano, l’Abignenti, il Bottiglieri. Trucidato il Carducci, in prigione o fuggiaschi tutti i capi dei movimenti di gennaio e di luglio, e tutti coloro che vi avevano avuto parte notevole. In carcere il Pironti deputato nella prima elezione poi giudice della Gran Corte di Terra di Lavoro. Centinaia di famiglie vivevano quindi lontane da i loro cari, nelle angoscio e nei timori. Ciò nonostante si sentiva in mezzo a le popolazioni un mal represso fremito di rivolta.

Il Palma diresse specialmente l’opera sua al distretto di Vallo di cui nelle sue relazioni diceva: “è stato sempre l’avanguardia della rivoluzione” (114). Non bastandogli le tante carcerazioni, egli ritenne che “per migliorare lo spirito pubblico nel distretto si dovesse assolutamente relegare nelle isole tutti gli attendibili della contrada” (115). Procuratosi da l’intendente Valia l’elenco di essi e in generale degli individui complicati nell'insurrezione del luglio, li fece subito arrestare e li spedì sotto buona scorta nelle isolo o li confinò in altri comuni di diversa provincia. I due fratelli Pietro Felice Giordano dal comune di Ceraso vennero relegati nell’isola d’Ischia, tentarono di evadere ed allora il Palma li mandò a Ventotene, come luogo più sicuro e meglio custodito. Ottavio Vallante, liberale vallese, designato per la relegazione riuscì a fuggire dal regno e riparò a Firenze, donde potette tornare nel regno soltanto parecchi anni dopo, il 25 giugno 1855, in seguito a grazia sovrana concessa per preghiera di suo padre Michele Valiante. Proposti per l’invio nelle isole erano anche Gennaro Pagano di Pisciotta, Biagio De Gregorio e Francesco Oricchio; ignoro però se vi andarono. Il Palma confinò a Potenza il barone G. B. Bottiglieri, antico liberale che aveva accolto nel suo comune, a Petina, le bande del Cilento (116), ed a Laviano Raffaele Pessolano di Atena che si era mostrato benevolo ad esse (117). Nei documenti del tempo trovansi lunghi elenchi di persone arrestate, tra cui il dott. Nicola Bruno di Piaggine, il sac. Giuseppe Guzzi di Policastro, Michelangiolo Bove di Sala Consilina, Francesco Petillo di San Mauro Cilento (118), Raffaele Coccoli di Sessa Cilento. Questi, dopo parecchi mesi di prigionia nel Castello dell’Uovo, fu liberato il 23 febbraio 1849 perché non si potette accertare alcun carico contro di lui, ma trascorso qualche anno venne di nuovo arrestato (119).

VIII. Dopo questi primi provvedimenti ritenuti necessari il maresciallo, accompagnato dal commissario di polizia Lubrano, intraprese un giro nel distretto di Vallo per operare un secondo disarmo ed adottare in ciascun comune le misure opportune. Cominciò, il 3 gennaio 1850, dal capoluogo. Rimosse da l’ufficio il sindaco Alessandro Pinto, impose al vescovo di mandare per gli esercizi spirituali nel convento dei cappuccini in Eboli il canonico Vincenzo De Laurentis (120), arrestò vari cittadini, tra cui l’ingegnere Angelo Raffaele Passero.

Per atterrire maggiormente la popolazione cominciò a dare nelle pubbliche piazze lo spettacolo delle legnate (121). Con ordinanza del 6 marzo 1850 dispose che gli abitanti del distretto di Vallo non potessero allontanarsene (anche nell’ambito della provincia) senza carte di passaggio e minacciò di arresto immediato tutti coloro che non le avessero (122).

Nel distretto erano frequenti i reati. Le rivolte del gennaio e del luglio avevano lasciato lungo strascico di disordini, di odii, di vendette ed avevano, come purtroppo avviene in tutti i moti po polari, sollevato ed insuperbito parecchi malvagi. Malfattori comuni, e della peggiore specie, avevano assunto, ed ostentavano sfacciatamente idee e veste di liberali nello stesso modo che dopo la rivoluzione del 1860 non pochi delinquenti tennero a passare per fautori della dinastia caduta. Molti di quei tristi arnesi venivano ricercati da la forza pubblica non solo per la complicità nell’insurrezione, ma principalmente per violenze e ruberie. Ad onore del vero è duopo riconoscere che nella larga applicazione delle legnate che il maresciallo fece nel distretto nessuno di quelli, che onestamente avevano preso parte a i moti, fu sottoposto ad esse: vennero invece inflitte a individui colpevoli forse di reità politiche, ma sopra tutto di misfatti comuni od ascritti a sette locali, che erano associazioni di malfattori e facevano propaganda politica e comunistica (123).

IlPalma, sbrigatosi del capoluogo, si mise in giro per i comuni del distretto con una compagnia di sbirri comandata dal capitano Umbeli a la quale erano addetti Faltìere Farina tenente di gendarmeria, e Benedetto Gambone di Montella, promosso da breve tempo ad ugual grado per il suo fervore nella persecuzione dei liberali (124). Facevano codazzo a tale compagnia parecchi degli antichi gendarmi espulsi o fuggiti durante il moto di luglio e qualche fido capourbano smanioso di rappresaglie e di vendette.

Questa turba andava di paese in paese e, sotto pretesto di cercare armi, devastava le case e le masserizie, insolentiva contro pacifici cittadini, imprigionava non soltanto i capi della rivolta del 1 aglio, ma anche i gregari, geDte spesso inconsapevole che, appartenendo a la guardia nazionale, aveva seguito per obbligo di disciplina i propri ufficiali.

Spesso, allorché non si rinvenivano armi e si credevano nascoste, il capitano degli sbirri imponeva a i proprietarii delle case i cosi detti piantoni, cioè soldati che prendevano alloggio in esse e vi restavano a carico del loro ospite, e con una retribuzione giornaliera finché questi non avesse, sia pur procurandosele altrove, come soventi avve niva, consegnate le armi che si pretendevano.

Non descriverò il passaggio di questa banda nei vari paesi del Cilento per non ripetere di continuo le medesime cose. I documenti del tempo sono incompleti. Unico ed uniforme il metodo che teneva quell’orda: procedeva con ogni violenza e sopruso al ritiro delle armi da i cittadini, arrestava tutti gli individui sospetti, rimuoveva da l’ufficio i sindaci ritenuti poco devoti al governo assoluto, infliggeva le legnate (125). Il commissario di polizia Lubrano, che accompagnava il maresciallo, scriveva il giorno 28 al governo, magnificando la virtù delle legnate: “Tale misura è di un effetto mirabile e potrà influire nel resto del Cilento” (126).

La frequente somministrazione delle legnate non destò nella capitale alcun clamore, comunque apertamente illegale. Invece diede luogo a rimostranze in alto la rimozione dei sindaci per la quale il maresciallo non aveva veruna facoltà. Il ministro dell’interno ammoniva che la rimozione dei sindaci non dovesse avvenire che con le forme stabilite da la legge e con provvedimento dell’autorità competente. Il re fece chiamare in Napoli il commissario di polizia Lubrano per dare chiarimenti e riferire su le condizioni del distretto di Vallo. Ma il Palma, soldatescamente, non si curava di qualsiasi monito del governo e scriveva in quei giorni al Lubrano: “è proprio da ridere che nel mentre da noi si perde la salute e la pace in luoghi si tristi, da gli altri si vada trovando la legalità. Vi prego di dire al re (D. G.) che con questa canaglia anziché piegarmi mi spezzerò” (127). E continuava imperterrito con gli stessi metodi. Meravigliato dei costumi poco morali dei preti, che chiamava pietra dello scandalo, supplicava il governo “a volersi benignare di mandare nel distretto un vescovo rigoroso per farli ravvedere e rialzare la forza della religione avvilita ed oppressa”. Proponeva per ragioni militari e per migliorare la contrada la costruzione di un ponte sul Sele e di un altro sul fiume Alento.

VIII. Risorsero ad aiutare l’opera degli sbirri le cosi dette squadriglie, che, formate verso il 1846, erano poi scomparse a l’avvicinarsi del periodo costituzionale. Ne facevano parte uomini turbolenti e tracotanti, spesso già noti per gravi misfatti. Nel distretto di Vallo ne sorsero due: l’una comandata dal cav. Giuseppe Pascale (128), l’altra dal cav. Giuseppe Melchiorre Vairo di Piaggine (129).

Narra il D’Ayala che il Pascale ebbe l’onore di essere ricevuto nella fortezza di Gaeta dal re che gli rivolse queste parole: “Avete voi il coraggio e l’arte di schiacciare la testa a tutti i liberali delle vostre parti? Ebbene andate! voi troverete colà il tenente di gendarmeria Gambone, il quale, per i suoi meriti, da semplice caporale, che era, tra poco sarà colonnello e molto ricco”(130). Cosi l’accorto sovrano con l’attrattiva della potenza e della ricchezza inspirava un fanatico zelo a i suoi satelliti!

I componenti delle squadriglie ascendevano ad una cinquantina per ciascuna, ed erano pagati venticinque o venti grana al giorno (131). Portavano giacca con filetti rossi e pantaloni bigi, berretto militare, fucile e scudiscio. Perlustravano i paesi, banchettando senza mai pagare, spadroneggiavano dapertutto, perquisivano le case, maltrattando, battendo, imprigionando a loro talento. Cosi avvenne negli ultimi di gennaio del 1860 a Ro frano. La squadriglia Pascale con il suo sottocapo Oristano invase quel comune e si diede senza alcuna ragione a bastonare per le vie ed anche nell’interno delle case chiunque incontrasse, senza risparmiare vecchi cadenti, deboli donne ed innocenti fanciulli (132).

Anche più molesta è crudele era la squadriglia Vairo formata in massima parte da naturali di Piaggine. Da ogni parte dei distretti di Vallo e di Sala pervenivano al governo reclami di cittadini contro di essa come contro il tenente Gambone (133). Dispostasi una indagine circa i precedenti degli scherani che, componevano la squadriglia Vairo, si accertò per quattordici di essi parecchie imputazioni di delitti e principalmente di furti e di violenze. Si pensava a rimandare costoro a le loro case; ma il generale Palma dichiarava con una lettera del 21 ottobre del 1850: “Non reputo conveniente di espellere i quattordici, che hanno imputazione di furti o di altri reati, da quel corpo di armigeri, per non esporli a vendette e a persecuzioni, che certo soffrirebbero dai nemici dell’ordine, contro i quali hanno prestato efficace opera, e però son di avviso di conservarli nel loro posto sotto l’osservanza della rigorosa disciplina, cui il loro capo li tiene soggetti e di licenziarli al menomo mancamento”. A questo parere si attenne il re con risoluzione del 6 febbraio 1851 (134).

Naturalmente la famosa squadriglia continuava nelle sue gesta. Nel giugno del 1851, sotto pretesto che una guardia urbana di Piaggine, tale Angelo Capriccio, si fosse mostrato insubordinato, il Vairo lo fece afferrare da i suoi satelliti, legare su uno scanno in mezzo a la pubblica via e gli fece dare le legnate. Il giudice regio di Laurino non ometteva di denunziare il fatto a i suoi superiori (135), che gli ingiunsero di procedere contro il colpevole. Il magistrato obbediva, osservando però che il comandante della squadriglia era molto prepotente e gli aveva rivolte minaccie: chiedeva quindi di essere garentito (136). Il re venuto a conoscenza del fatto ordinò, il 1° luglio 1851, che il maresciallo Palma avesse represso l’abuso e punito severamente il Vairo (137).

Il Palma commise tale incarico al capitano Federico De Lozza, che comunicò al maresciallo di avere messo a gli arresti fino a nuova disposizione il Vairo, “il cui agire del tutto dispotico, illegale ed abusivo metteva nell’animo di tutte le autorità indignazione e dispetto” (138). Il giudice regio aveva già iniziato un processo; ma il maresciallo il di 11 luglio 1851 gli scriveva: “L’aver messo il Vairo a gli arresti è sufficiente, perché non conviene avvilirlo a fronte dell’idea demagogica. la quale è tutta intenta a malignarlo ed a covrirlo di nere calunnie Implorava quindi dal re l'ordine di sospendere qualsiasi procedimento, e cosi fu risoluto (139).

Non si mostrava da meno il tenente Gambone con i suoi gendarmi, tra i quali si distingueva per ferocia un tale sergente Gallo. Il di 8 maggio 1851 si presentava in uno stato miserando al sottintendente di Vallo un certo Carmine Cortazzo, che dopo poche parole cadeva svenuto. Si seppe che il sergente Gallo aveva crudelmente bastonato non solo il Cortazzo, ma anche il padre di lui vecchio settuagenario, nell’abitato di Cannalonga. Il sergente venne soltanto sospeso da l’ufficio (140) perché a suo favore si diede ad agire prontamente il maresciallo, il quale imperversò in provincia di Salerno fino al 3 gennaio 1852 quando un ordine del governo lo destinò al comando assai più importante, della provincia e della piazza di Napoli (141).

CAPITOLO III

Le prodezze di uno sbirro

SOMMARIO. — I. Salvatore De Cesare — Sue vicende anteriori — Sua latitanza — II. La polizia non riesce a scovarlo — III. Il sergente Vignes — Suoi precedenti — Gli si affida l’incarico dell’arresto del De Cesare — IV. Vignes si accinge a l’impresa — Riesce a scovrire l’asilo del De Cesare — Crudele morte di questo — Artifici del sergente per simulare un conflitto — V. Elogi del governo al Vignes — Fermento in Salerno per l’uccisione del De Cesare — Indagini del comando militare — Risultati di esse — Proteste della gendarmeria di Salerno — VI. Baldanza del Vignes — Commette un altro delitto — Indagini giudiziarie su la morte del De Cesare — Esitanze della magistratura —Decisione della Gran Conte che si dichiara incompetente — VII. Sollecitazione del processo da parte degli orfani De Cesare innanzi al Consiglio di guerra — Ordine reale per troncare il procedimento — Decisione della Gran Corte favorevole al Vignes per il secondo delitto — VIII. Tramutamento del Vignes a Catanzaro —Partenza di lui nel 1860 per Napoli — Arresto del medesimo — Giudizio a carico del Vignes — Condanna di lui — Sua morte nell’ergastolo.

I.Viveva da parecchi anni a Salerno un tale Salvatore De Cesarenato a Palermo nel 1809. Egli aveva sposato una giovane salernitana di civile famiglia, Fiorentina Ferrigno, da cui aveva avuto quattro figli. Poco si conosceva dei suoi anni giovanili;. si diceva che verso il 1841 avesse disertato da l’esercito, riportando per questo fatto una grave condanna condonatagli dopo breve carcerazione. ‘

IlDeCesare, conduttore della diligenza postale, che da la stazione di Nocera (ove allora terminava la ferrovia) andava a Salerno, aveva per il primo portata in quest’ultima città la notizia dell’Atto Soprano del 29 gennaio. Arrestato per alcune ore e poi messo in libertà, aveva preso parte a la grande dimostrazione di giubilo avvenuta in Salerno per la promessa dello statuto. A lo scoppio dell’insurrezione di luglio nel Cilento era corso ad unirsi con i rivoltosi e li aveva seguiti nel Vallo di Diano. Si sapeva anzi che il giorno 9 con alcuni compagni aveva assalito, presso Sala, la corriera postale e si era impadronito della corrispondenza del sottointendente (142).

Sopravvenuta la reazione, un ordine reale im pose a tutti i Siciliani complicati nelle rivolte del continente il rimpatrio nel termine di tre giorni sotto minaccia di gravissime pene. Una vera rovina per il De Cesare! Lasciare Salerno! E la sua famiglia? E il modesto ufficio che teneva e che gli dava da vivere? E come tornare nell’isola nativa senza impiego e senza mezzi? Lo sventurato sperò nella revoca dell’iniquo ordine o ce scemasse il rigore, e si tenne nascosto. Credette di aver trovato un sicuro ed impenetrabile asilo in una piccola grotta (143) posta tra le montagne presso Montecorvino Rovella, e propriamente a le falde del monte detto Calatura, nel territorio del villaggio di Gauro (144). La grotta era chiamata allora del M ossuto, dal nome del proprietario del terreno, circostante. In quell'antro il De Cesare passava la giornata; la sera si recava spesso nel vicino villaggio di Gauro per trattenersi con due suoi amici liberali, Domenicantonio Foglia e Francesco Mazzarelli. La giovine moglie, per quanto poteva, gli inviava biancherie e vitto.

Ilvivere, lontano dai suoi cari, tra le ansie e i pericoli, per le insistenti ricerche dei gendarmi, era un vero' martirio per il De Cesare, che stanco, avvilito, per mezzo della moglie e dei conoscenti impetrava dalle autorità locali un salvacondotto per presentarsi. Ad accrescere i suoi tormenti sopraggiunse il mandato di cattura emesso contro' di lui il 17 novembre 1848.

II. Trascorsero cosi lunghi mesi. Le indagini dei gendarmi erano continue, giornaliere: la polizia nulla aveva omesso per scovare il De Cesare, parecchi suoi confidenti erano in moto per conoscerne l’asilo. Tutto invano: nessuno aveva pensato a quella caverna ignorata, perduta tra i monti. Dei continui insuccessi di queste lunghe ricerche le autorità di Salerno si sentivano umiliate; non mancavano da l’alto parole di sorpresa e di sdegno o di mal celato sarcasmo. Possibile che non si riuscisse in nessun modo a penetrare il nascondiglio di un disgraziato privo di mezzi e di relazioni!

Il ministro della guerra specialmente insisteva per l’arresto del De Cesare, l’antico disertore; tanto che il capitano Girolamo De Liguoro, comandante la gendarmeria nella provincia, scriveva il 3 agosto 1849 al comandante generale dell’arma in Napoli: “E stato impegnato dal ministero della guerra l’arresto di tale De Cesare, siciliano, latitante, per inaudite ribalderie in circondario di Montecorvino” (145).

III. Tra i più feroci e zelanti sbirri di Salerno era allora un tale Saverio Vignes, sergente di gendarmeria. Nato in Salerno il 1813, aveva dagiovine esercitato il mestiere di calzolaio, che abbandonò nel 1838 quando uscì in leva. Assegnato a la gendarmeria, aveva ben poco progredito nella carriera, raggiungendo il 1° gennaio 1849 il grado di caporale e qualche mese dopo quello di secondo sergente (146). Aveva aspetto volgare e sinistro: volto rozzo e grossolano, naso grosso e prominente, sopracciglie nere e folte, orecchie bucate (147). Quest’uomo non mancava però di acume e di scaltrezza. Dolente della non rapida carriera, smanioso di miglior sorte, credette giunta la sua ora allorquando cominciò la reazione nella provincia.

Più che a la repressione dei delitti comuni si pensava allora a colpire inesorabilmente le reità di Stato: in alto si tempestava per l’arrestodei più noti agitatori politici. Allorché la polizia riusciva ad agguantarne qualcuno era un coro di lodi a la bravura degli agenti, e non mancavano le gratificazioni e le promozioni; se invece il colpo falliva, non si risparmiavano aperte censure e rimproveri. Ciò stimolava specialmente lo zelo dei bassi agenti che, pur di riuscire, non lasciavano intentati i mezzi più disonesti, le violenze, gli arbitri,' le minacce, le più sfacciate corruzioni, tentando gli amici più fidi e perfino i parenti dei ricercati politici. In queste persecuzioni spiccava principalmente il Vignes, ardito, temerario, scevro di ogni scrupolo; egli era divenuto iL terrore della parte liberale salernitana, il beniamino delle autorità della provincia, Vuomo di fiducia nelle imprese più scabrose.

A le esortazioni ed a i rimbrotti del governo per le inutili ricerche del De Cesare la polizia non ebbe più pace. Si pensò al Vignes come al solo capace di scovarlo Il capitano De Liguoro terminava una lettera al comando dell’arma con queste parole: “Solo la scaltrezza e l’attività del sergente Vignes potrebbe attuare il disimpegno. La prevengo di aver dato al sottufficiale le analoghe istruzioni” (148).

IV. Già da alcuni giorni l'accorto sorgente aveva ricevuto l’incarico, ed è facile immaginare con quanto entusiasmo. Vedersi designato proprio lui, tra tanti suoi compagni, a scoprire ed arrestare un reo di Stato che per oltre un anno la polizia non era riuscita a sorprendere! Un pronto successo lo avrebbe certamente elevato nella carriera, mentre il non riuscire gli avrebbe tolto la protezione e le grazie dei superiori! Tutto il suo avvenire ormai dipendeva dal successo!

Con quali arti subdole riuscisse al Vignes di scoprire l’asilo del De Cesare non è noto. Rapidamente, in due o tre giorni, giunse a penetrare un mistero rimasto per un anno impenetrabile a tutti gli sforzi della polizia! Certo corruppe qual; che amico dello sventurato! Balzando di gioia a la confidenza ricevuta, senza far trapelare ad alcuno il prezioso segreto, egli scelse per compagni nell’impresa, che si proponeva, alcuni dei suoi più fidi, il caporale Pellegrino Pelosi di Avellino e quattro gendarmi, cioè Sebastiano Tolomieri della stessa città, Leopoldo Langella di Barra, Carlo Guaragna di Sangro e Ferdinando Giordano di Cava, e li fece travestire da cacciatori. Presentatosi il 12 agosto del 1849 al giudice regio di Montecorvino, Bernardo Fischietti (149),ottenne dalui, mediante un ordine superiore, una guida nelle montagne vicine, un tale Crescenzo Di Vece, nativo del luogo.

La mattina seguente, di buon’ora, nascondendo anch'egli ogni distintivo militare, si avviò con i suoi dipendenti e con la guida a la volta dei. monti. A breve distanza dal ricovero del De Cesare lasciò in vedetta i gendarmi Langella e Giordano. Il povero profugo, senza sospetto, stava solo ed inerme a l’entrata della grotta sbocconcellando un pezzo di pane, quando improvvisa’ mente si vide dinanzi minacciose e terribili le figure ben note del Vignes e dei suoi compagni. Il volto del temuto sergente rivelava la gioia feroce di aver raggiunto la preda. Il De Cesare da prima allibi, quindi compreso del pericolo imminente si gittò in ginocchio invocando la Madonna del Carmine; e piangendo supplicava per la vita. Il crudele sbirro, non commosso menomamente a quella vista, fermo nel suo efferato proposito gli gridò: “non muoverti, carogna” e puntando il «fucile contro il De Cesare gli sparò quasi a bruciapelo. Altrettanto fecero a varie riprese il Caporale ed i due gendarmi. L’infelice cadde bocconi al suolo agitando in alto le braccia.

Non isfuggiva a la mente perspicace del Vignes il pericolo, cui andava incontro, di un grave processo per assassinio; ma lo incoraggiavano l’impunità dei molti soprusi commessi, le alte protezioni acquistate. Volle, per ogni eventualità, premunirsi simulando un conflitto. Tolse a la guida il fucile ancora carico e lo esplose forando il proprio cappello; quindi con cinica calma lasciato il fucile a fianco del cadavere, prese il coltello di cui l’estinto si era servito por affettare il pane, tagliò la giacca del Pelosi e pose l’arma tra le mani del cadavere. A i colpi di fucile accesero gli altri due gendarmi, che, inorriditi a l’atroce spettacolo, si trassero in un vicino caprile dei fratelli Amato.

Raccolti i suoi compagni, il feroce sergente riprese la via, e tornò a Montecorvino, ove con la maggiore disinvoltura narrò al giudice regio che, avendo rinvenuto su la montagna il De Cesare, questi a l’ordine di arrendersi aveva fatto ripetutamente fuoco e si era quindi avventato con il coltello in mano contro la forza. Mostrava quale prova del conflitto il proprio cappello forato da una palla e la giacca del caporale lacerata. Al bugiardo racconto assistevano i seguaci del Vignes, due dei quali però non si erano trovati presenti a l’eccidio; gli altri tre complici del triste avvenimento confermavano per proprio interesse le parole ‘del loro capo.

Il giudice si recò prontamente sul luogo e procede ad un verbale particolareggiato, descrivendo la posizione del cadavere e lo stato dei luoghi. Non si rinvenne addosso al De Cesare alcuna somma; eppure era noto a la famiglia dell’estinto che questi portava ai fianchi una cintura con al. cune doppie d’oro procurategli a grande stento e destinate a subornare gli sbirri in caso di sorpresa. Si disse in seguito che di quel denaro si fosse impadronito il Vignes.

Per ordine del giudice l’ucciso venne trasportato su di una scala a la chiesa di S. Maria della Pace in Montecorvino. Al passaggio del cadavere nelle vie del villaggio di Gauro assisteva in mezzo a la folla il Vignes, che ripeteva a gli astanti come si fosse salvato miracolosamente da i colpi del De Cesare e si gloriava del fatto come d’una brillante vittoria. La perizia medica, eseguita presso la chiesa, accertò su l’estinto ben nove ferite d’arma da iuoco. La salma venne tumulata nella chiesa parrocchiale di S. Pietro apostolo in Montecorvino Rovella (150).

V. Le autorità del tempo prestarono fede, o finsero di prestarla, a la impudente invenzione del conflitto. Il segretario generale dell’intendenza di Salerno, Nicola Dommarco, che reggeva allora l’intendenza, non avendo ancora il nuovo titolare, cav. Valia, nominato appunto in quei giorni, preso possesso dell’ufficio, riferiva in data del 21 agosto 1849 al governo il preteso conflitto e soggiungeva: “Debbo raccomandare caldamente all’E V. il sergente Vignes, che merita ogni considerazione anche perché offre sempre novella prova di coraggio e zelo per il reale servizio. Del pari giustizia esige che io raccomandi il succennato caporale Pelosi e le altre indicate guardie che si distinsero nel rincontro” (151).

Libro dei defunti della chiesa, libro 5°, fol. 20, 18 agosto 1849. Nell’atto si legge «violenter interfectus a militi bus».

Il ministro di polizia, il giorno successivo, segnalava al comandante dei gendarmi brigadiere Winspeare l'accortezza, l’energia, il singolare coraggio del Vignes e dei suoi compagni nell’impresa. Non pare in vero che il Winspeare fosse molto entusiasta del sergente, perché il 16 settembre rispondeva freddamente al ministro: “Avendo riguardo a i servizi rendati dal secondo sergente Saverio Vignes ed in grazia di questo titolo l’ho promosso non ha guari al suo impiego attuale” (152). Queste parole mostravano che il Vignes non avrebbe per alcun altro titolo meritato la promozione.

La notizia dell’assassinio giunse improvvisa e terribile a la sventurata moglie dell’estinto. Il padre di lei, Michele Ferrigno, un bravo albergatore salernitano, ed i parenti, sapendo l’animo mite del De Cesare, non credettero a l’asserita resistenza. Qualche parola sfuggita ai gendarmi, probabilmente a quelli che non avevano preso parte al delitto, accrebbe i sospetti ed un vivo fermento sorse in Salerno, ove il De Cesare e la sua famiglia godevano di larghe simpatie.

Il comando dello stato maggiore, che allora non aveva grande tenerezza per i gendarmi, preoccupato da le voci diffuse in Salerno, mandava colà il 3 settembre 1849 per una indagine un ufficiale dello stato maggiore, il tenente Pellegrino, giovine ed onesto militare, stimato per ingegno e coltura. Questi, agendo con molto accorgimento, riusci ad ottenere dal caporale Pelosi l’aperta confessione della verità, e la manifestò senza reticenza a i suoi superiori. La notizia che oramai tutto era scoperto turbò la gendarmeria di Salerno, che si vide esposta al biasimo generale per aver tenuto mano all’inganno. Un processo contro il Vignes ed i suoi complici avrebbe colpito di discredito l’intero corpo ed esposto a gravi umiliazioni, e forse anche a qualche responsabilità, i superiori diretti del sergente. E tutto ciò per opera di un ufficialetto loquace, privo di ogni esperienza, dimentico di ogni solidarietà! Il capitano della gendarmeria di Salerno invocava, con lettera del 7 settembre, l’opera energica del comandante generale dell’arma, per evitare un processo, facendogli notare lo scandalo ed il clamore che ne sarebbero venuti, e si scagliava contro l’imprudente ufficiale che aveva palesato la verità. Soggiungeva che “si sarebbero avute le più tristi conseguenze a discapito dell’opinione edel governo per opera di quei medesimi che lo rappresentano, suscitando prove ed armi nelle mani dei malcontenti e dei suoi nemici per gridarsi all’assassinio 1” II capitano indignato concludeva' cosi: “Se si vuole denigrare se stessi in un importante servizio reso, spettava l’iniziativa a tutto altro potere e rimaneva l’obbligo al tenente Pellegrino di respingere fino il sospetto, a tutela degli interessi del comando territoriale e del Real Governo da lui invece manomessi” (153).

VI. Nonostante il rumore destato dal tristo avvenimento, il Vignes, fidente sempre in alte protezioni, non si scosse, anzi continuò imperterrito nelle sue gesta. Era allora evaso dal carcere di Castellammare un tal Giuseppe De Maio condannato per reato comune, ed era riuscito con molta destrezza a sottrarsi a le ricerche incessanti degli sbirri, che scoraggiati avevano quasi abbandonata la speranza di riprenderlo. Il De Maio, durante la sua latitanza, uccise la sera del 4 settembre 1849 un tale M..., persona assai devota al governo (154).

Il fatto destò grande sdegno nelle autorità, che dettero ordine al Vignes di porsi a la ricerca. del pericoloso latitante. L’intraprendente sbirro insieme con alcuni suoi subordinati, tra i quali il Pelosi, sorprese il profugo la notte del 17 ottobre 1849 presso Salerno in una tenuta dei signori Conforti detta la Sala ed a tradimento lo uccise. Anche questa volta cercò di simulare un conflitto. — Il misfatto parve al governo un'azione eroica, tanto che in premio concesse a l’autore la medaglia d’oro del Realordine di S. Giorgio (155).

L’indignazione sollevata nella. cittadinanza da l’assassinio del De Cesare indusse l’autorità giudiziaria a procedere per questo delitto, ignorando essa ancora l’uccisione del De Maio. L’istruttoria accertò che il fucile posto accanto al De Cesare apparteneva a la guida Di Vece, e che l’estinto non aveva opposto a la forza pubblica alcuna resistenza: appariva quindi manifesta la reità del VIgnes e dei suoi complici ed inevitabile una condanna. Condannare dei gendarmi per un grave delitto probabilmente commesso con il pieno accordo del comando dell’arma, forse anche da questo ordinato! Promuovere un pubblico dibattimento da cui sarebbe venuto certamente un grave scandalo! La Gran Corte pensò prudentemente, con decisione del22 ottobre 1849, di liberarsi subito del molesto processo rinviando gli imputati innanzi al tribunale militare come solo competente a giudicarli.

Gli atti del processo per l’assassinio del De Cesare sarebbero rimasti certamente dimenticati negli archivi, se la vedova ed i figli del trucidato non avessero continuamente e con ogni. mezzo insistito per il giudizio a furia di suppliche e di raccomandazioni ottennero che la procedura per l’uccisione del loro congiunto fosse ripresa innanzi al Consiglio di guerra di Salerno. Il capitano Ferdinando Siciliani, commissario del re, rinnovata l’istruzione, ne desumeva le prove più luminose della colpabilità del Vignes e dei suoi compagni. La guida Crescenzo Di Vece presente al fatto, parecchi testimoni, che avevano udito da i gendarmi il racconto dell’avvenimento, attestarono che il De Cesare non aveva con se alcuna arma da fuoco, che il fucile posto vicino al cadavere apparteneva a la guida, e che il sergente aveva ad arte forato il proprio cappello e tagliato la tunica del Pelosi (156).

L’istruzione era ormai completa e si doveva venirea la pubblica discussione della causa, quando giunse da l’alto ordine di sospenderla. Ma ciò non bastava affatto al Vignes, il quale sapeva bene che la vedova ed i figli dell’estinto non si sarebbero dati pace finché l’assassinio del loro diletto congiunto non fosse stato vendicato. Egli insistette perché si troncasse assolutamente il pericoloso processo. Il 29 agosto del 1850 si discusse in Consiglio ordinario di Stato la sua domanda (157). Su di essa il procuratore generale della Gran Corte di Salerno aveva riferito cosi: “La prova specifica accertò che il De Cesare era inerme e che le armi rinvenute presso il cadavere vi furono messe appositamente da la forza, che il cappello del Vignes fu forato da un colpo tirato ad arte da i suoi compagni e cosi pure il taglio della giacca e che lo schioppo rinvenuto presso il cadavere era quello stesso che portava la guida della forza pubblica”.Il verbale della seduta del Consiglio di Stato prosegue in questo modo: “Ilgenerale comandante la divisione di Salerno ha manifestato che per non darsi lo scandalo di vedere processata la forza militare crede rivolgersi ai superiori onde arrestare il corso del giudizio, e difatti venne superiormente disposto di conservarsi la processerà ih quel comando e sospendersi il corso del giudizio. Il ministro, di guerra e marina ha dichiarato che gli ordini per la sospensione del giudizio vennero emessi da Si M. A margine del verbale è la consueta formula di decretazione del sovrano “S. M. ne resta intesa”.

Il Vignes intanto inorgogliva per i suoi successi nella persecuzione dei liberali e progrediva rapidamente nella carriera, protetto e favorito costantemente da i superiori. Il 24 marzo era promosso primo. sergente onorario e il primo luglio 1853 primo sergente titolare, o proprietario secondo il linguaggio di allora. Il processo dor' nriva nei polverosi scaffali dell’archivio del Consiglio di guerra in Salerno. A troncarlo definitivamente intervenne nel 1853 quest’ordine mandato al capitano Benedetto dei Conti di Chiti, commissario del re presso quel Consiglio: “Comando delle armi nella provincia di Principato citeriore, n. 2782, Salerno, 7 dicembre 1853 — Sig. Capitano, S. E. il ministro di grazia e giustizia con venerato foglio del 3 stante, 3° carico, n. 10183, mi. fa conoscere che S. M. il re ha ordinato sospendersi il procedimento della causa pendente contro Saverio Vignes e che non debba figurare più in avvenire. Io la prego a dare adempimento a le connate Sovrane risoluzioni. Il brigadiere comandante Ferdinaudo De Roberto” (158).

Dopo questo esempio di alto favore e di scandalosa impunità naturalmente l’istruzione per l’omicidio del De Maio procedeva tra infiniti ostacoli. I più importanti testimoni, timorosi della potenza e delle rappresaglie del Vignes, piegavano a suo favore, disdicendo le prime dichiarazioni, sicché da i nuovi atti appariva la morte del De Maio avvenuta in seguito ad un. conflitto con i gendarmi. Uniformandosi a queste risultanze del processo, la Gran Corte criminale di Salerno con decisione del 22 marzo 1855 ordinava di conservarsi gli atti in archivio per l’uccisione del Di Maio “avvenuta in conflitto con la forza pubblica” (159).

VIII. Sempre più insuperbito del favore regio, il Vignes continuò nelle sue imprese, nonostante l’aperto disprezzo della cittadinanza salernitana. Un sentimento di pudore indusse finalmente il comando dell’arma ad allontanarlo da Salerno, destinandolo a Catanzaro, ove il 1°maggio del 1860 conseguì finalmente le sospirate spalline di ufficiale.

Scoppiata la rivoluzione in Calabria dopo lo sbarco di Garibaldi sul continente, il Vignes a i primi di settembre, insieme con il capitano della sua compagnia e con altri gendarmi, per timore di vendette da parte dei liberali calabresi che ben conoscevano le sue gesta, si imbarcò nella marina di Catanzaro su di un brigantino denominato Raffaele # che faceva vela per Milazzo e di poi per Napoli,

Questa fuga venne a conoscenza del direttore di polizia Giuseppe Arditi che sollecitamente informava, con lettera del 14 settembre 1860, il prefetto di polizia di Napoli del prossimo approdo del famigerato tenente. Il brigantino giungeva infatti nel porto di Napoli il giorno 19, ed il commissario di polizia delegato a lo scalo marittimo arrestava il Vignes e gli sequestrava varie armi che questi portava seco; quindi, per ordine superiore, lo spediva sotto buona scorta a le prigioni di Salerno a disposizione dell’autorità giudiziaria. Il Vignes nel suo interrogatorio addusse di essersi imbarcato a Catanzaro, in seguito ad autorizzazione ottenuta dal prodittatore Grecò, per prendere servizio in Napoli; aggiunse che come ufficiale di gendarmeria aveva piena facoltà di asportare armi.

In Salerno era ancora vivo il ricordo delle prepotenze e dei delitti di lui. La famiglia del De Cesare, specialmente il maggiore dei figli, Michele, giovine di diciotto anni, che esercitava il mestiere di gioielliere, supplicava calorosamente per la ripresa del processo a carico non solo del Vignes ma anche dei complici (160).

Due di costoro erano già morti, il gendarme Langella il 27 marzo 1853 in Barra (161), il Guaragna il 14 aprile 1859 in Cava (162). Del caporale Pelosi e del Tolomieri riuscì vana ogni ricerca: si dicevain Avellino, loro patria, che entrambi da quattro mesi si fossero uniti ad una banda ¿Li briganti. II Vignes sfacciatamente negava ogni sua parte a l’uccisione del De Cesare, studiandosi di gettarne la responsabilità sul Pelosi. Inoltre invocò l’amnistia concessa il 3 settembre 1860 in provincia di Salerno dal prodittatore Matina, il rescritto sovrano del 1853, la prescrizione, e subordinatamente la giurisdizione militare a i termini dell’art. 62 dello statuto penale dell’esercito. La Gran Corte criminale respinse queste eccezioni con decisione del 18 giugno 1861. Egli ricorse a la Suprema Corte di giustizia di Napoli, che il 12 agosto successivo rigettò il ricorso.

Apertosi il pubblico dibattimento, il Vignes ebbe suo difensore di ufficio l’avv. Ferdinando Torrusio. Da l’esame dei testimoni, ormai liberi di ogni timore, risultò manifesto che il De Cesare non aveva opposto alcuna resistenza a i gendarmi e che le prove del conflitto, il fucile presso l’estinto e il coltello nelle mani di lui, il cappello forato del Vignes e la tunica lacerata del Pelosi erano un mero artificio. Del pari giudicò inesistente il preteso conflitto con il De Maio. La Gran Corte criminale ritenne quindi il Vignes colpevole dei due omicidi e lo condannò a ì lavori forzati a vita.

Il condannato terminò la vita nell’ergastolo, pagando cosi il fio dei suoi scellerati delitti. Una lettera della direzione del bagno di Ponza del 19 maggio 1881 annunziava che il dì precedente in quell’infermeria era spirato il tenente Vignes.

CAPITOLO IV

Le prime condanne

 SOMMARIO. — Ilprocesso della setta dell’Unità italiana— Rivelazioni di alcuni imputati — Due testimoni falsi— Arresto di Carlo Poerio, del Settembrini, del prete Bariila, di Filippo Agresti, Francesco Antonetti, Vincenzo Dono e Michele Pironti — II. Vicende anteriori del Pironti.— Avvocato in Salerno poi in Napoli — Deputato al Parlamento — Nominato giudice — Denunzia contro di lui — È rimosso da l’ufficio — III. Arresto del Pironti — Perquisizione nella sua casa — Suo interrogatorio — Vessazioni inflitte al detenuto — IV. Compimento dell’istruzione — L’atto di accusa — Costituto del Pironti —V. Trasporto degli imputati nelle carceri della Vicaria —Orribili condizioni del carcere — Rimostranze delle famiglie — Risposta del medico delle prigioni — Ricusazione del presidente della Corte — VI. Malattia di Antonio Leipnecher — Sospetti di finzione dell’infermità —Trasporto di lui in udienza — Nuova sospensione della causa — Morte del Leipnecher — VII. Prosieguo del dibattimento — Requisitoria del procuratore generale — Decisione della Gran Corte — I condannati a morte in cappella — Ore di angoscia — Le famiglie dei condannati — La grazia della vita — Trasporto dei condannati a Nisida ed a S. Stefano.
I. Negli uffici di istruzione della Gran Corte criminale di Napoli in. Castelcapuano si lavorava febbrilmente, su lo scorcio del 1849, per condurre a termine il processo dell’attentato commesso dal Faucitano il sedici settembre.

Le confessioni estorte al Faucitano e ad alcuni altri arrestati mediante le più crudeli sevizie (163) rivelarono l’esistenza di una vasta associazione che si proponeva di unire in un solo Stato la penisola e di affrancarla dal dominio straniero. In una minuziosa perquisizione presso il tipografo Gaetano Romeo si rinvennero i diplomi, il programma, un manifesto del Gran Consiglio ed altri documenti della setta. Due individui, che avevano ad arte fatto pratiche per esservi ammessi, narrarono alcuni colloqui da essi uditi. In seguito a queste notizie furono complicate nel processo e etratte in arresto molte altre persone, tra le quali Carlo Poerio, Luigi Settembrini, Filippo Agresti, il prete Francesco Barilla, Antonio Leipnecher, e della provincia di Salerno, Vincenzo Dono, Francesco Antonetti e Michele Pironti.

Ingiusta ed iniqua era l’accusa contro il Poerio, del tutto estraneo a la setta e tenutosi sempre, dopo l’atto sovrano del 29 gennaio, nella maggiore correttezza costituzionale. Si volle ad ogni costo comprenderlo nel processo per colpire la figura più alta della parte liberale napoletana. Un confidente di polizia noto come falso testimone dichiarò che, avendo chiesto al Poerio di essere ascritto a la setta, egli lo mandò dal Nisco (164). L’Agresti, il Settembrini ed il Barilla facevano parte di essa anzi ne erano stati successivamente a capo. L’Antonetti, giovane di 25 anni, nativo di Nocera dei Pagani, era venuto da poco tempo in Napoli per trovare un impiego e si era intanto occupato come commesso presso uno spedizioniere. Il Leipnecher, divenuto famoso per gli avvenimenti del Cilento nel gennaio, venne arrestato da l’ispettore Giovenale nella propria casa al vico Sedile Capuano, n. 10.

Il Dono, nato in Teggiano (provincia di Salerno) il 5 febbraio 1805, era una antica conoscenza della polizia. Studiava, verso il 1820, nel seminario del suo paese quando il governo lo espulse perché si era ascritto ad una vendita carbonica (165). Uscito di seminario coadiuvò abilmente il fratello, Benedetto, in una farmacia di Teggiano molto accreditata (166). Compromesso nei moti del Cilento del 1828, si tenne nascosto qualche tempo finché fidente in un manifesto di Del Carretto (167) si presentò, e venne mandato a giudizio innanzi la Commissione suprema di Stato, che lo assolse. Si stabili allora in Napoli e vi diresse la farmacia reale a Foria presso Pontenuovo la quale divenne ritrovo dei più arditi cospiratori. Dorante la sua lunga dimora nella capitale dette molte preoccupazioni e noie a i commissarii di polizia del quartiere essendosi più occupato di conferire con i malintenzionati anziché di disbrigare ricette. Nei registri del commissariato figurava come “antico e tenace cospiratore, sedizioso, invecchiato in ogni maniera di fellonia” (168).

Il bollente ed irrequieto farmacista, a la notizia delle fucilazioni avvenute in Calabria per i moti del 1847, fu preso con alcuni suoi compagni da tale impeto di ira e desiderio di vendetta che si appostò con essi su la via della Marinella il 31 ottobre per uccidere il re che doveva per quella strada recarsi a Portici. Denunciati da un compagno vennero arrestati; ma pochi mesi dopo, la costituzione del 29 gennaio e l’amnistia li liberavano (169). Accusato nel 1849 di aver preso parte a l’espulsione dei gesuiti, si trovò ad un tratto su le spalle l’accusa più grave, d’avere tentato nel dicembre precedente, per incarico della setta dell'Unità italiana, di subornare alcuni soldati (170). La lunga carcerazione lo rovinò: egli aveva allora assunto per otto anni la fornitura, abbastanza lucrosa, dei medicinali nelle prigioni di S. Francesco in Napoli ed unicamente da questa industria traeva i mezzi di sostentamento per sé e la sua famiglia.

II.Michele Pironti, parimenti arrestato per la setta dell'Unità, apparteneva ad antica e civile famiglia di Montoro, perseguitata per causa politica fin dal 1799. Egli era stato, anche prima della costituzione del 1848, come ho detto in altro scritto (171), un fervido propugnatore degli ostini rappresentativi. A l’improvvisa notizia dell’atto sovrano del 29 gennaio aveva capitanato in Salerno, ove esercitava la professione forense, una grande dimostrazione, nella quale venne leggermente ferito al volto. Stabilitosi in Napoli vi trasferì il suo studio di avvocato e vi scrisse il giornale l'Indipendente. Eletto deputato della provincia di Salerno aveva con i suoi colleghi il 15 maggio cercato invano di indurre il popolo a disfare le barricate. Nominato giudice di Gran Corte criminale a Santa Maria, egli era tutto intento al suo ufficio allorché si accorse nel venire in Napoli, per intrattenersi con un giovinetto suo fratello, di essere pedinato da la polizia. Un giovane salernitano, che in quella dimostrazione avea portato la bandiera tricolore, corrotto dal governo denunciò ingiustamente il Pironti, che pochi giorni dopo un decreto del 24 ottobre 1848 tolse di ufficio.

Il Pironti ritornato in Napoli aveva ripreso l’esercizio forense e si proponeva anche di dar lezioni di diritto costituzionale. A l’alba del 3 agosto 1849 il famoso commissario Campagna penetrò nella casa di lui al vico Ecce homo a la Madonna dell’Arco N. 9, lo arrestò e perquisì la casa. Si rinvenne una lettera direttagli da Roma il 27 marzo 1849 da Filippo Patella, uno dei capi dei moti cilentani, e diversi scritti, tra cui una pagana ove si accennava a la repubblica. La terribile parola fece ritenere al Campagna di avere scoperto un gravissimo documento mentre si trattava di un brano di lezione in cui il Pironti, accennando a le varie forme di governo, parlava necessariamente anche della repubblica.

L’arrestato venne subito condotto a la prefettura di polizia. Lo posero in una stanza senza imposte battuta continuamente dal sole e vi stette quattordici giorni, dopo i quali fu interrogato. Il 17 agosto passò a le carceri di S. Maria Apparente e vi rimase fino al 24 settembre. A le 2 della notte l’ispettore Moscati lo fece tradurre a Castel dell’Uovo. “Ivi” , narra il Pironti nel suo costituto (172) “fui cacciato in una prigione orrenda, senza letto, senza sedie, e solo un secchio d’acqua, un cesso ed una lucerna, dove la muffa ed il puzzo di una prossima latrina contendevano l’angusto spazio di quella muffa allo scarso aere che ci penetrava attraverso un vano angustissimo, praticato nel mastio della rocca spessa quasi dodici passi e sbarrato da triplice grata. Ivi giacqui sulla nuda selce la notte; il di appresso invano richiesi di scrivere al mio desolato fratello; era venuto ed era stato scacciato dagli svizzeri con la baionetta alle reni! Passò quel giorno e la seguente notte fra angoscio crudeli. Il domani un galeotto venne a radermi la barba ed i capelli. Ebbi il terzo di il letto, ma' mi si interdisse quanto era più necessario alla vita. Passò un mese prima di poter avere un libro, cinque di prima di aver nuove del mio povero fratello!”

In meno di tre mesi da l’attentato del Faucitano, con sollecitudine molto rara nei giudizi criminali di allora, si espletò l’istruzione del processo, che prese il nome di processo della setta dell’Unità italiana. Afferma il Nisco che proprio il re volle che si trattasse per prima questa causa politica (173). Il tentativo di turbare la grande solennità della benedizione papale da la reggia napoletana aveva destato vivo clamore in tutto il regno ed a l’estero e Ferdinando II intese di mostrare che al sacrilego misfatto seguiva prontamente una severa condanna. Il De Sivo attribuisce la precedenza di questo processo, rispetto a gli altri, specialmente a quello per gli avvenimenti del 15 maggio, al fatto che questo ultimo processo, colossale per il numero ingente degli imputati che ascesero a trecento ventisei, richiese naturalmente più lunga istruzione (174).

Il15 dicembre dello stesso anno il procuratore generale della Gran Corte speciale ’di Napoli, Filippo Angelillo, accusava di cospirazione settaria quarantadue persone tutte detenute. Deboli, anzi frivoli indizi gravavano sul Pironti secondo lo stesso atto di accusa. Consistevano principalmente nella deposizione di alcuni testi i quali avevano riferito che il fratello d’uno dei capi della setta, un tale Pasquale D’Ambrosio, era in rapporti con Antonio e Pasquale Pironti congiunti dell’imputato. Un confidente di polizia aveva inoltre affermato che quest’ultimo il sette settembre, si era recato a Salerno per mene settarie mentre risultava invece che in quel giorno aveva preso parte a l’udienza della Gran Corte criminale in Santa Maria.

Il Pironti, nel suo costituto (175), respingeva l’accusa manifestando le proprie idee con queste fiere parole “Mi professo amico caldissimo delle sincere ed oneste libertà. Ho desiderata la civile eguaglianza dei dritti innanzi la legge, ho parteggiato apertamente per le opinioni politiche che il 29 gennaio 1848 furono suprema costituzione dello Stato e che la Maestà del Re giurava nell’invocato nome di Dio e dalle quali hanno titolo gli ordini del governo e guarentigie tutti i cittadini.

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MICHELE PIRONTI

Queste mie opinioni, che mi rendevano inviso e sospetto alla vecchia polizia, divenute per lo Statuto il dritto pubblico del regno ho sostenuto e sostengo con il tranquillo convincimento del vero, con l’invariabilità di un santo proposito. Però ad attuarle, non cospirai, non congiurai fra le tenebre di una setta qualsiasi, non antivenni la maturità dei tempi che doveva addurle, e confidai nell’indeviabilità dell’umana ragione; nello sviluppo dei bisogni sociali, che ne mostrerebbe la necessità, nella provvidenza del principe che le avrebbe riconosciute e proclamate. Fui nominato giudice il 3 maggio 1848, fui deputato il 15 successivo. Cercai di far rimuovercele barricate il 15 maggio. Ricusai l’ufficio dopo il 16 maggio, ma poi accettai. Disapprovai le rivolture calabresi. Con decreto del 24 ottobre 1848 fui ritirato da la carica e mi stabilii a Napoli”.

Lo scritto del Pironti, che meriterebbe di essere riprodotto integralmente, narra quindi i primi sospetti della polizia, la perquisizione subita, l’arresto, le accuse rivoltegli, che confuta ad una ad una con forma scultoria e con dialettica stringente ed irresistibile.

V. Prima dell’apertura del pubblico dibattimento gli imputati vennero trasferiti nelle carceri giudiziarie della Vicaria. In un’oscura stanza furono rinchiusi undici di essi, tra cui il Poerio, il Pironti, il Dono; i prigionieri avevano giacigli cosi vicini che ciascuno doveva per andare sul proprio passare, brancolando, su quelli degli altri. A l’inferriata erano appese quattro teste di briganti; ad uno dei lati della stanza un cesso emanava tanto puzzo da asfissiare (176). Le famiglie dei detenuti si dolsero con il procuratore generale Angelillo temendo per i loro cari una infezione di tifo carcerario, ma l’altezzoso procuratore generale rispose ad esse: “Non temete, signore, la commissione dei medici delle carceri, ed ecco il rapporto del dott. Serapione Sacco, assicura che l’odore ammoniacale potrà essere ingrato, ma non pregiudizievole alla salute” (177).

Gli imputati dichiararono di ricusare il Navarra, presidente e commissario della causa, poiché tra le accuse v’era anche quella di cospirazione contro ‘ la vita di lui, jna la Gran Corte respinse la dimanda e la Corte Suprema confermò la decisione. Durante il processo la polizia spiccava mandato di cattura contro due degli avvocati difensori, Giacomo Tofano, che fu arrestato, e Gennaro De Filippo che riuscì a fuggire. A le rimostranze di un loro collega, l’insigne avvocato Marini Serra, contro simili eccessi, il direttore di polizia Peccheneda rispondeva che “l’ordine di’arresto gli era venuto direttamente dalla segreteria particolare del re” (178).

Durante il dibattimento, verso la fine del maggio 1850, cadde infermo uno degli imputati, Antonio Leipnecher. Ben presto la febbre si elevò ed il malato dovette essere condotto a l’ospedale diS. Francesco. A l’udienza del 4 giugno successivo egli non potette intervenire. Osservato, per ordine del presidente, non solo da i medici dell’ospedale, ma anche da due primaridella capitale, i dottori Vulpes e Manfredi, fu dichiarato infermo di febbre gastroreumatica in guisa da non poter lasciare il letto. Il presidente sospese le udienze per qualche giorno (179). Mentre l’infelice gemeva nell’ospedale, il commissario di polizia Casillo, con rapporto dell’8 giugno, insinuava nell’animo del Peccheneda che gli imputati per prolungare il giudizio avevano stabilito di fingersi infermi e che i medici per pietà avevano riferita vera la malattia del Leipnecher (180).

Narra il Nisco che il Peccheneda ordinò, con il consenso del presidente Navarra, il trasporto del malato nella sala d’udienza. Ad onore del vero bisogna aggiungere però che il Navarra lo sottopose ad un’altra visita da parte del medico delle carceri Serapione Sacco. Questi dichiarò che il detenuto era senza febbre (181) e che poteva essere trasportato davanti a la Corte, purché gli si fosse apprestato qualche ristorativo e non gli si fosse rivolta alcuna domanda (182).

In seguito a questo nuovo parere, il Leipnecher venne la mattina del 17 giugno trasportato a la Corte. A la sorella consanguinea Costanza De Cusatis, che piangendo, amorevolmente lo accompagnava, egli disse: “non piangere sorella mia: presto finiranno le mie pene che sono state lunghe e strazianti: per te provvederanno di aiuto i miei compagni di fede” (183). Comparve il misero a l’udienza tremante e sfinito, destando tra i suoi compagni e nell’uditorio profonda pietà. Lettogli il suo interrogatorio, dichiarò che, avendo la febbre, nulla aveva compreso e che nell’ospedale non si era avuta di lui la più piccola cura (184). Ilprocuratore generale, a smentire l’imputato, chiese si leggesse la relazione dell’ultima visita medica, da cui risultava che l’infermo poteva intervenire a le udienze con le opportune cautele. Sorsero novellamente il Poerio, il Pironti ed i difensori del Leipnecher avv. Castriota e Marini Serra chiedendo una novella visita dei sanitari, e la Corte aderì. Procedutosi immediatamente ad essa i medici constatarono che l’infermo era travagliato da febbre molto elevata e non poteva assistere a la discussione. Allora l’Angelillo esclamò: “Ma l’imputato è già qui, potrebbe ben rimanervi!” Replicarono i medici che il Leipnecher restando in udienza avrebbe corso rischio di morire. La Corte allora sospese l’udienza.

La malattia intanto si aggravava rapidamente, rivelandosi per tifo. La mattina del 22 giugno l’infelice cadde in profondo letargo e dopo breve agonia spirò a le ore 8 ½ tra le braccia dell’amorosa sorella (185). A l’annunzio della morte dato in pubblica udienza il Pironti esclamò “della morte di Leipnecher farà giustizia Iddio vendicatore degli oppressi”. Il presidente Navarra con fiero e sdegnato cipiglio impose silenzio al Pironti e dichiarò: “Ilnome di Antonio Leipnecher è cancellato dall'elenco degli imputati” (186).

VII. Comparvero davanti a la Gran Corte in questo processo, come negli altri successivi, quali testimoni, molti confidenti di polizia. L’accusa di setta risultò luminosamente provata più che da le dichiarazioni dei testimoni, da i documenti sequestrati. Lo stesso Nisco confessa la formazione della setta e la parte che egli vi prese con il Settembrini e con l’Agresti. Provata del pari la colpabilità del Faucitano sorpreso quasi in flagrante pochi minuti dopo l’esplosione della piccola bomba. Nelle udienze del 4, 6 e 7 dicembre 1850 il procuratore generale pronunciò la sua requisitoria conchiudendo per la condanna a la pena di morte del Nisco, dell’Agresti, del Settembrini del Barilla, del Pironti e del Faucitano; a trenta anni di ferri del Poerio, a diciannove del Dono e dell’Antonetti.

“Dopo questa requisitoria” scrive il Settembrini, “noi richiesti di morte fummo separati da gli altri e più ristretti; il Nisco perché ammalato ed il Barilla perché prete stettero nell’ospedale di S. Francesco; noi quattro che eravamo nella Vicaria, fummo tratti dalla carcere dei nobili e passammo in quella del popolo in luogo detto il Provvisorio dove sono molte stanze segrete, e fummo allogati in due stanze dette Lo Sperone e Marco Perrone, dataci la facoltà di passeggiare in uno stretto corridoio e bere un po’ d’aria da un’alta finestra che è in fondo di esso” (187).

Splendide furono le difese ed occuparono parecchie udienze. Finalmente, chiuso il dibattimento nel pomeriggio del 31 gennaio 1851, i giudici si radunarono in camera di consiglio. Durante le lunghe ore di attesa i detenuti Conversavano tranquillamente, anzi scherzavano. Il Settembrini specialmente si dilettava a contraddire il Pironti, del quale egli dice: “uomo carissimo, di bello ingegno, di molte e varie cognizioni, di cuore ottimo, di costumi candidi, di fede rara nelle amicizie. Io non seguitai a scherzare secondo il solito, continua il Settembrini, perché pensai che questo diletto amico ignorava un’altra sua sventura, la morte eli un suo fratello sostegno e speranza della famiglia... Andammo a letto e dormimmo placidamente” (188).

La mattina del 1° febbraio venne letta la sentenza resa il di precedente. La Corte condannava a morte il Faucitano, l’Agresti ed il Settembrini, a l’ergastolo il Barilla ed il Mazza, a trenta anni di ferri il Nisco ed il Margherita, a venticinque anni Francesco Catalano, Lorenzo Velacci e Cesare Braico, a ventiquattro il Poerio, il Pironti, ed il Romeo, a venti Achille Vallo, a diciannove Francesco Nardi; Francesco Cocozza, Giuseppe Caprio, Vincenzo Dono, Salvatore Colombo, Gaetano Errichiello, Giovanni De Simone e Francesco Antonetti,a sei anni di relegazione Antonio Miele e Raffaele Crispino. Concesse la libertà provvisoria a parecchi imputati, tra cui Michele Persico, che nel 7 dicembre del 1848 era andato in Sicilia per incarico del Poerio, ad assicurarsi degli intendimenti del Comitato di Palermo per l’insurrezione (189).

Il Nisco ha raccontate le ore di angoscia che, subirono i condannati a l’estremo supplizio (190), e le ha meravigliosamente descritte il Settembrini nelle Ricordanze (191). Mentre essi stavano in cappella, e vi restarono tre giorni, le famiglie loro si raccolsero nella casa di Vincenzo Dono come la più vicina a la Vicaria per avere con maggior sollecitudine notizie e per cooperare in comune a la grazia della vita per i loro diletti. La moglie del Dono, di nome Cecilia, fu oltremodo affettuosa verso quelle sventurate famiglie, come attesta il Settembrini in una commovente narrazione pubblicata nelle Ricordanze, sotto il titolo Racconto di mia moglie (192). La Settembrini, che era in terribili ansie per la vita del marito, fu avvisata della grazia da una lettera del Pironti, che è riferita nelle Ricordanze (193).

Come è noto, il re con un rescritto del 21 gennaio, aveva disposto, dieci giorni innanzi la decisione, che, essendovi condanne di morte, se ne eseguisse la metà. Il procuratore generale comunicò questo rescritto a la Corte soltanto dopo la decisione. La Corte, non potendo eseguire esattamente il comando sovrano, perché i condannati a morte erano cinque, cioè in numero dispari, ordinò che per un solo, cioè per il Faucitano, si eseguisse la sentenza. Ma il re, che riteneva il Faucitano un cieco istrumento nelle mani di altri, non volle che questi solo andasse a morte e gli concesse la grazia (194).

Il giorno stesso, 4 febbraio, i condannati usciti dal carcere vennero legati a coppie ed ammanettati. Il Settembrini era legato con Filippo Agresti, il Poerio con Michele Pironti (195). Passando, tra. una folta scorta di sbirri per la popolosa via del Mercato andarono a la Darsena. Su la banchina di questa, rasi loro i capelli, furono vestiti con calzoni di pelo d'asino e giacca rossa ed incatenati. Spinti poi in una barcaccia da carboni, vennero da questa condotti sul piroscafo il Nettuno in una stanza a prua ove erano, scrive il Settembrini (196), “stivati come negri”. Colà passarono la notte gettati a la rinfusa sul pavimento.

La mattina del 5 il piroscafo giunse dinanzi a l’isola di Nisida,’ove il comandante del legno separò i condannati a i ferri, che dovevano sbarcare, da i condannati a vita destinati a l’ergastolo di S. Stefano. Scesero da la nave quindi il Poerio, il Pironti, il Caprio, l'Antonetti, il Dono, il Braico, l’Errichiello, il Romeo, il Vallo, il Nardi, il Cocozza, il De Simone, il Colombo, il Velacci ed il Margherita condannati a i ferri (197).

La separazione dopo tanti mesi di ansie e di vita comune fu assai dolorosa. Il Settembrini abbracciò affettuosamente il Poerio ed il Pironti, che non voleva staccarsi da lui. Il Settembrini in una lettera scritta il 12 febbraio da S. Stefano al Pironti, dice: “Quando ci dividemmo sul vapore io diedi un bacio a te, un altro a Carlo e poi mi allontanai. Tu mi chiamasti ed io ti fuggii. Si, o mio dolcissimo Michele, io ti fuggii per essere padrone del mio cuore, di questo cuore ardente, che — guai a me se mi. viene meno la ragione” (198). Il Pironti sbarcò con i suoi compagni a Nisida, ove fu suo primo pensiero, scrivere a nome suo e di essi al Settembrini (199). I condannati a vita restarono sul Nettuno la sera, non potendo a causa del mare fortemente agitato proseguire per S. Stefano. La notte, calmato alquanto il mare, il piroscafo continuò la sua rotta ed a Falba successiva approdò a S. Stefano, ove discesero il Faucitano, il Settembrini, l'Agresti, il Barilla ed il Mazza.

CAPITOLO V

Il giudizio per i fatti del 15 maggio

SOMMARIO. — I. L’istruzione del processo per gli avvenimenti del 15 maggio — Numero rilevante degli imputati — Molteplici sentenze preparatorie — Arresto di Giovanni Avossa — Sua detenzione nel Castel Sant’Elmo — Sua infermità — Accusa contro Domenico Giannattasio — Suo arresto — Sue ansie per la malattia della madre — Importanti decisioni della Gran Corte speciale su la voluminosa istruttoria — II. I quarantasei imputati rinviati al giudizio della Gran Corte speciale — I fratelli Palumbo I due Leanza — Ricorso degli imputati a la Corte Suprema di giustizia — Rigetto del ricorso — Ripresa della causa — Le false testimonianze — Conclusioni del procuratore generale — Gravi condanne pronunziate da la Corte — Lettera di Luigi Leanza a la moglie durante la redazione della sentenza — Il decreto di grazi# della vita — Invio dei condannati a vita' a l’ergastolo di S. Stefano e dei condannati a tempo al bagno di Procida — III. Altri settantaquattro imputati in attesa di giudizio — Proteste della stampa straniera — Rescritto sovrano che abolisce per essi l’azione penale riguardo a i fatti del 15 maggio — Rinvio di alcuni imputati a le Corti speciali delle proprie provincie — Decisioni della Gran Corte — Condanna di Raffaele Morose e di Matteo Sica—Influenti raccomandazioni pel Morose — Il re gli concede la grazia — IV. Il prosieguo di istruzione per altri imputati — Liberazione di molti di essi — Rinvio dell’Avossa innanzi la Gran Corte speciale — V. Gli imputati contumaci — Rigorosa sorveglianza della polizia a lo scalo marittimo — Fuga del Mancini, del Pisanelli, del Conforti e di altri — Fuga di ülisse De Dominicis a Malta — Travestimento e fuga del barone Mazziotti — VI. Giudizio a carico dei contumaci — Feroce requisitoria del pubblico ministero — Ventidue condanne di morte in contumacia.

I. L’istruzione del grandioso processo per gli avvenimenti del 15 maggio si trascinava lentamente tra continue sentenze preparatorie, che giunsero al numero di ottantaquattro.. Comprendeva non solo il conflitto avvenuto nella triste giornata nella capitale, ma altresì le agitazioni sorte allora nelle provincie. Gli imputati, come si scorge da l’atto di accusa del procuratore generale presso la Gran Corte criminale di Napoli, Filippo Angelillo, ascesero a trecentoventisei, la maggior parte latitanti od a l’estero, solo ottantaquattro detenuti, tra cui i due ex deputati salernitani Giovanni Avossa e Domenico Giannattasio.

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GIOVANNI D'AVASSA
(da un ritratto fattogli nel carcere in Napoli)


L’Avossa non poteva mai immaginare di esser coinvolto nel processo, egli, che aveva scongiurato la partenza delle guardie nazionali da Salerno per la capitale a difesa del Parlamento (200). Mentre attendeva serenamente nella sua città nativa a l’esercizio professionale gli sbirri lo arrestarono il 24 settembre del 1849 e lo condussero subito in Napoli nelle carceri giudiziarie di S. Francesco, nelle quali trovò i suoi ex colleghi Silvio Spaventa, Pier Silvestro Leopardi, il marchese Luigi Dragonetti, Giuseppe Pica e Saverio Barbarisi (201). Un ordine improvviso del governo li fece, una sera, trasferire tutti nel carcere del Castello Sant’Elmo (202).

Le stanze in cui vennero chiusi i detenuti, erano poste sopra alcune cisterne da le quali saliva l’umido macchiando orribilmente le pareti. Le porte mal connesse, le finestre senza vetri esponevano i prigionieri a impetuose e continue correnti d’aria, sicché parecchi di essi, tra cui il Pica e l’Avossa, si ammalarono e dovettero andare a l’infermeria (203). Il d’Avossa trasportato colà vi si trovò molto male, e chiese di ritornare a S. Francescoovvero di andare nelle carceri di S. Maria Apparente (204), nelle quali erano il barone G. B. Bottiglieri, del pari ex deputato della provincia di Salerno, Antonio Scialoia, Giacomo Tofano, ex direttore di polizia durante il periodo costituzionale, e Giacomo Racioppi, il valoroso scrittore (205).

Domenico Giannattasio, uomo di idee liberali, ma assai temperate e sopra tutto devoto a la più stretta legalità, era indegnamente accusato di avere indotto il popolo il 15 maggio a le barricate. Per questa stolta, bugiarda imputazione la — polizia lo trasse in arresto il 2 ottobre del 1849, e lo rinchiuse insieme con il d’Avossa nel carcere di S. Francesco, strappandolo al letto della madre che giaceva gravemente inferma in Salerno. pensiero del Giannattasio, nelle lunghe ore di silenzio del carcere, correva a la povera inferma, cui mancava l’affettuosa assistenza del figlio diletto. Più volte egli chièse un breve permesso per recarsi nella sua città nativa: ogni istanza riuscì vana. Non. valsero neanche le preghiere che personalmente il vescovo della città, Monsignor Marino, amico ed estimatore del dotto avvocato (206), rivolse al re, quando questi, insieme con il pontefice, visitò Salerno. Solo con decisione del 1° giugno 1851 il Giannattasio ottenne di uscire dal carcere assoggettandosi però al mandato di residenza e ad una cauzione di lire mille.

Due importanti decisioni della Gran Corte criminale di Napoli, del 7 giugno e 16 luglio 1851, provvedendo su la lunga e farraginosa istruttoria dell’enorme processo, assolsero un buon numero di imputati (207), rinviarono a giudizio innanzi la Gran Corte speciale di Napoli quarantasei detenuti, riservarono di provvedere dopo tale giudizio per altri quarantasei, disposero un prosieguo di istruzione per altri e l’inizio del procedimento in contumacia per gli imputati assenti.

II. Tra gli imputati inviati a giudizio erano compresi i detenuti Silvio Spaventa, l’arcidiacono Cagnazzi, Saverio Barbatisi, Michele Viscusi, famoso per il suo spirito burlesco, Antonio e Pasquale Cimmino fu Pietro di Amalfi, Andrea Curzio, che aveva subito nel carcere la pena delle legnate, come ho precedentemente narrato, i duegiovani Girolamo e Luigi Palumbo di S. Giovanni a Piro, che avevano preso parte al conflitto del 15 maggio ed erano stati arrestati nell’aprile del 1849 in una cantina sottoposta a la loro bottega, Francesco De Stefano di Sanza, Pasquale Conforti di Calvanico, Luigi ed Emanuele Leanza di S. Giovanni a Piro, zio e nipote. La casa di questi ultimi, da la quale si era fatto nel conflitto del 15 maggio un incessante fuoco di fucileria contro i regi, era stata saccheggiata dai soldati, che uccisero in quella palazzina cinque persone e ferirono la figlia di Luigi Leanza, giovinetta di quindici anni. Tutta la famiglia Leanza era fuggita nascondendosi in casa di parenti e di amici, ma il famoso ispettore Campagna era riuscito il 18 marzo 1849 a sorprendere e ad arrestare i due Leanza. .

I rinviati a giudizio produssero contro la sentenza di rinvio ricorso a la Corte Suprema di giustizia, sostenendo che un rescritto reale del 17 maggio 1848 aveva completamente abolita l’azione penale per gli avvenimenti del giornoquindici precedente. Gli imputati, che avevano fatto parte della Camera elettiva, assunsero di non poter essere sottoposti, secondo la costituzione, ad altro giudizio che a quello della Camera dei pari (208). La Corte Suprema di giustizia ritenne inesistente il rescritto invocato, venuto meno il carattere di deputato con lo scioglimento della Camera elettiva, e quindi, con decisione del 27 agosto 1851, respinse il ricorso..

Ripresa la trattazione della causa innanzi a la (?ran Corte speciale, comparvero a carico dei giudicabili gli stessi testimoni dell’altro processo per la setta dell'Unità italiana. Sfilarono vergognosamente innanzi al magistrato confidenti di polizia noti al pubblico, delatori di professione, gente corrotta e venduta che spudoratamente mentiva, perché ninno degli imputati aveva promosso le barricate e pochi soltanto di essi avevano preso parte al conflitto. Uno scrittore borbonico, che una qualche volta dice onestamente il vero, scrisse: “Difficile giudizio, perche sendo in quel di funesto (15 maggio) i soli rei padroni delle strade, anche i testimoni erano forse correi e rispondevano ad ingarbugliare la verità: gli innocenti non volevano impicci, erano fuggiti i caporioni ed il tempo aveva fatto succedere all’ira la pietà” (209). Per alcuni dei giudicabili le prove di reità non lasciavano dubbio di sorta. Così per i fratelli Palumbo ed i due Leanza era dimostrato che da la palazzina presso la Posta avevano tirato molti colpi contro i regii nella giornata del 15 maggio. Per Francesco De Stefano risultava che, d’ordine del Carducci, era andato agitando il suo distretto e che poi aveva combattuto contro i soldati al largo della Carità. Ma falsa ed iniqua era l’accusa a i deputati di aver spinto il popolo a le barricate.

Nelle udienze del 18, 20 e 21 settembre 1852 il procuratore generale Angelillo prendeva la parola e, dopo largo svolgimento dell’accusa, chiedeva la pena di morte con il terzo grado di pubblico esempio, per lo Spaventa, il Barbarisi, il Dardano, Giuseppe Pica, i due Leanza ed i due Palumbo, trent’anni di ferri per Francesco De Stefano, venticinque anni di ferri per Pasquale Cimmino, due anni di prigionia per Giovanni De Stefano. Rispetto al Curzio il pubblico ministero dovette riconoscere (tt)che i risultati del pubblico esame avevano menomato il valore degli elementi raccolti nel processo scritto, essendo rimasto ignorato come e dove egli fu ferito il 15 maggio, se per caso, come si fece ad asserire, o per aver preso partealconflitto, ninno avendolo veduto armato, ninno osservato tra i faziosi”. Chiese quindi per il Curzio la libertà provvisoria (210).

Giuseppina Leanza, figlia di Luigi, narrò in alcuni suoi appunti, comunicatimi cortesemente da la famiglia di lei, che, dopo la requisitoria del pubblico ministero, suo padre e gli altri giudicabili per cui era stata chiesta la pena capitale vennero condotti nella stanza denominata extra cappella perché contigua a l’altra in cui si soleva apprestare i conforti religiosi a i condannati a morte.

Durante la terribile attesa della sentenza della Gran Corte, che si riunì in camera di consiglio il 7 ottobre del 1852, Luigi Leanza, il vecchio e coraggioso soldato che avea fatta la campagna di Russia, scrisse a la sventurata moglie per confortarla, in previsione di una condanna capitale, queste fiere e nobili parole: “Sta pur certa che non si vedrà sul mio volto alcun segno di viltà, saprò morire da forte e non lascerò ai miei figli la vergogna di essere nati da chi non ha saputo sopportare il martirio per la patria. Possa il mio sangue e quello dei miei compagni fruttare un giorno a questo infelice paese quelle concessioni che il principe diede e giurò e che una iniqua frazione ha manomesse: possano i loro odii spegnersi nel nostro innocente sangue e cessare una volta di desolare queste belle contrade” (211).

La mattina seguente, otto ottobre, con grande solennità si lesse la sentenza della Gran Corte.

Essa condannava il Dardano, il Barbarisi, lo Spaventa,. i Leanza ed i Palumbo a la pena di morte con il terzo grado di pubblico esempio; Raffaele Crispino e Francesco De Stefano a trenta anni di ferri; il Pica, il Briol, l’Arcucci a ventisei anni; Giovanni Di Grazia e Giuseppe La Vecchia a venticinque; Antonio Scialoia e Pasquale Amodio a nove anni di reclusione; Nicola De Luca e Francesco Trinchera ad otto; Giuseppe Avitabile, Giuseppe Barletta, Michele Viscusi, Giovanni Gerino, Mariano Vairo, e Giacomo Sabatino a sei, il Leopardi a l’esilio perpetuo dal regno, Giuseppe Piscitelli a tre anni di prigionia, Giovanni De Stefano a due anni. Ordinò la libertà provvisoria per Antonio Cimmino ed Andrea Curzio.

Dopo sei giorni da la condanna il re, con decreto del 14 ottobre 1852 sottoscritto a Tiriolo ove allora si trovava in viaggio per le Calabrie, “nella sua innata ed inesauribile clemenza” (212) fece grazia della vita a tutti i condannati a morte, commutando la pena nell’ergastolo al Dardano, al Barbarisi ed a lo Spaventa, ed in trenta anni di ferri a i Leanza ed a i Palumbo. Commutò le pene inflitte al Briol, a lo Scialoia ed al Gerino nell’esilio, ridusse le pene per l’Arcucci, il De Grazia, ed il La Vecchia, ordinò la libertà assoluta per Cimmino, Francesco Fornaro ed il Curzio, abolendo per essi l’azione penale.

La mattina del 21 ottobre il Daziano e lo Spaventa incatenati partirono per l’ergastolo di Santo Stefano. Il Barbarisi, gravemente infermo, non potette esservi trasportato insieme con i suoi compagni di sventura, e restò nel carcere di S. Francesco, ove, lontano da i suoi cari, senza conforto alcuno di amici, mori il 2 dicembre del 1852 con una serenità d’animo che destò l’ammirazione della parte liberale e turbò profondamente gli avversarii. I Leanza ed i Palumbo e gli altri condannati a tempo vennero lo stesso giorno, 21 ottobre, condotti a la Darsena e di là, stretti con la catena a sedici maglie, andarono ad espiare la pena nel bagno di Procida (213).

III. In attesa di giudizio, languivano nel carcere o andavano fuggiaschi settantaquattro altri imputati, tra cui Andrea Fienga, Raffaele Morose, già capitano della guardia nazionale a Salerno durante il periodo costituzionale, i due fratelli Rocco e Giovanni Positano nativi di Novi Velia presso Vallo, Achille Mezzacapo, Matteo Giannone figlio di Antonio giustiziato a Salerno il 1823 per reità di Stato, Pasquale Taddeo, Vincenzo Coppola, Giuseppe Pacifico, Matteo Natella, Gennaro Ferrara, Federico Della Monica, Carlo Pascarella, Giovanni Negri, Santo Del Mercato, Alessandro Bruccoy, l’avv. Carmine Ruotolo, Gaetano Del Mercato, Matteo De Vicariis, Raffaele Rinaldi, il dott. Giovanni Centola Antonio De Maio, Cesare Bassi, Gaetano Ponti, Gerardo Budetti, Leopoldo Grillo, F. S. Coppetta, Tommaso Calabritto, Antonio D’Aiutolo (214). Mentre essi si preparavano a la difesa un improvviso provvedimento cambiò ad un tratto la loro sorte.

La stampa estera liberale e quella del Piemonte specialmente inveiva contro i giudizi politici, che si seguivano senza tregua nel regno, e contro le numerose e gravi condanne emanate da le corti speciali. Si sentiva ormai generalmente la stanchezza di si dolorosi spettacoli, nei quali apparivano su lo sgabello dei rei gli uomini migliori del paese per altezza di ingegno, per coltura, per carattere. Il linguaggio ardito e fiero dei giudicabili commoveva il pubblico che assisteva numeroso a i dibattimenti. Spesso a le udienze intervenivano diplomatici stranieri, massime delle legazioni di Francia e di Inghilterra, e costoro non mancavano di informare i loro governi di quella brutta gazzarra di processi e di condanne. Occulti corrispondenti di giornali stranieri diffondevano a l’estero le notizie e le commentavano nel modo più ingiurioso per il governo napoletano..

A porre un fine a questa campagna della stampa. continua e persistente, il re, con un rescritto del 2 dicembre 1852, abolì l’azione penale, in quanto a gli avvenimenti in Napoli, per tutti i settantaquattro imputati, rinviandoli al giudizio delle Gran Corti speciali delle provincie per i delitti ivi commessi. Cosi vennero rinviati innanzi a la Gran Corte speciale di Principato Citra il Morose, i due Positano, il Mezzacapo, il Della Monica, il Ruotolo, il Del Mercato, il De Vicariis, il Pacifico, il Rinaldi, il Taddeo, il Coppola, il Fienga, il D’Aiutolo, il Calabritto, il Budetti, il Grillo ed il Ponti.

La Gran Corte di Salerno, con sentenza del 25 agosto 1853, riunì a la causa l’altra per le agitazioni avvenute dopo il 15 maggio del 1848 nei comuni di S. Cipriano e di S. Severino. Finalmente con una seconda sentenza dispose la annotazione nell'albo dei rei assenti per il Della Monica, Santo Del Mercato, Carlo Alfieri ed altri contumaci e con decisione del 19 gennaio 1855 condannò il Morose e Matteo Sica a dieci annidi prigionia, condanne ridotte dipoi con decreta del giorno 25 successivo a quattro anni (215).

Durante la lunga carcerazione i due condannati invocarono più volte la grazia sovrana allegando la loro completa innocenza. Essi, radunando la sera del 15 maggio le guardie nazionali in Salerno, avevano obbedito ad ordini perentori del Carducci loro colonnello. Il Morese, influente per larghezza di censo e potenti relazioni, aveva invocato a suo favore la testimonianza dell’arcivescovo di Salerno, del comandante le armi nella provincia colonnello Quandel e del sottintendente di Vallo i quali attestarono come il Morese “fosse stato per costume e per indole alieno da qualsiasi innovazione Lo stesso procuratore generale della Gran Corte di Salerno Angelo Gabriele, in una relazione su una istanza di grazia del Morese, dopo aver riferite quelle autorevoli testimonianze, dichiarava: “In nessun’altra causa e per nessun altro imputato, il mio cuore si è trovato in contraddizione dei miei doveri quanto nel giudizio riflettente il Morese” (216), Portata questa relazione nel Consiglio di Stato del 3 agosto 1855, nonostante si importanti testimonianze, le esplicite dichiarazioni dello stesso accusatore pubblico, e le vive preghiere dell’arcivescovo di Salerno, il re fu inesorabile, sembrandogli avere già fatto abbastanza con la concessa riduzione della pena. Ma nuove suppliche del condannato intervennero; altre persone potenti presso la Corte si mossero a pro’ di lui; il re il di 8 marzo 1856 fece grazia completa al Morese (217).

IV. Ilprosieguo d’istruzione per molti altri imputati, disposto da la decisione accennata del 7 giugno 1851, si protrasse per tutto lo scorcio dell’anno, per l’altro successivo e per una parte del 1853, ma non arrecò altre prove contro gli imputati. Questa considerazione, e forse anche la stanchezza derivante da i molteplici giudizi politici, indusse la Gran Corte a porre una pietra sepolcrale anche su tale processo, e quindi, con varie sentenze del 16 e 19 aprile e 5 settembre 1853, ordinò la conservazione degli atti in archivio e la liberazione dei giudicabili, tra i quali, della provincia di Salerno, Gaetano, Bracale, Licurgo Cavallo, F. P. D’Urso di Eboli, Francesco, Pietro e Nicola De Falco, dell’ingegnere Giuseppe Pizzuti, del Giannattasio (218) e del D’Avossa (219). Rinviò però quest’ultimo innanzi a la Gran Corte di Salerno per imputazione di delitti politici in quella provincia.

V. Durante i lunghi indugi dell’istruzione per i fatti del 15 maggio molti imputati, avvertiti segretamente del mandato di arresto emesso a loro danno, erano riusciti a porsi in salvo fuori del regno. L’imbarcarsi per l’estero era allora di grande difficoltà per il severo rigore e l'assidua sorveglianza adottata dal governo dopo la romanzesca fuga da Napoli del tenente del genio Carlo Pisacane avvenuta nell’anno 1847, che destò tantoclamore. Per i piroscafi postali in partenza da Napoli ¡1 prefetto di polizia Scipione Salvi aveva ordinato non solo un’accurata visita dei passeggieri e la maggiore vigilanza nell’interno delle navi, ma inoltre che, fino &1 momento della partenza, dovessero restare sotto il bordo di esse un ispettore, un gendarme ed una guardia di marina per èsaminare ad uno ad uno tutti coloro che si imbarcavano ed accertarsi che avessero le carte in regola. Riusciva quindi quasi impossibile salire occultamente su i piroscafi postali. Minori difficoltà presentavano le navi straniere da guerra o di commercio non soggette ad alcuna visita interna. Però la polizia le sorvegliava esternamente (220).

Alcuni degli imputati erano già oltre il confine prima che cominciasse la reazione; tra gli altri Antonio Gallotti, il superstite della rivolta del Cilento nel 1828 (221). Egli erasi recato a Roma e di là dopo la caduta della repubblica era fuggito con il Saliceti, con Carlo Pisacane e con altri a Civitavecchia, quindi a Marsiglia, ove approdò il 30 luglio del 1849. Come ho accennato precedentemente, altri imputati nello stesso processo, il Mancini, il Pisanelli, il Lanza, il Ruggiero e Raffaele Conforti erano su la nave francese L’Ariel partiti da Napoli per Civitavecchia il 1(o)ottobree ripartiti il di successivo per Genova, meno il Ruggiero che malato restò a Civitavecchia Il barone Gennaro Bellelli era in Francia fin dal maggio del 1849 (222). Molte di queste fughe avvennero tra i più gravi pericoli e nel modo più strano.. Narrerò di alcune di cui mi è riuscito aver notizia.

La polizia ricercava insistentemente fin da l’estate del 1849 Ulisse De Dominicis, uno dei capi dei moti del Cilento nel gennaio e nel luglio del 1848, quindi deputato, firmatario della protesta Mancini del 15 maggio. Le estese e fide relazioni di cui godeva nel suo paese nativo, Ascea, ed in tutto il distretto di Vallo, avevano procurato sicuro asilo in varie case amiche non solo a lui, ma anche ad un suo intimo Giuseppe Verdoliva di Rutino ed al suo domestico Pasquale Feola. Però le ricerche incalzavano; la più lieve imprudenza poteva ad un tratto perderli, si che risolsero di tentare ogni mezzo per fuggire all’estero.

Un tale Antonio De Rosa di Torre del Greco, padrone di una tartana detta S. Gaetano assunse, mediante la promessa di un premio di seicento ducati (223), di imbarcare i tre latitanti sul suo legno e di condurli a Malta. Difatti, su la fine di aprile del 1850 il De Rosa con la sua tartana si recò a la marina del circondario di Pisciotta (224). Ivi ad arte, per assicurarsi in precedenza una completa impunità, confidò lo scopo della sua venuta al controllore doganale del luogo Michele Giordano, che corse ad avvertirne il sottointendente del distretto cav. Celj Colaianni. Questi telegrafò a l’intendente Valia di spedire in quelle marine un piroscafo per raggiungere la tartana. L’intendente non aveva alcun piroscafo a sua disposizione: in mancanza ’di meglio mandò una scorridoia doganale ed una grossa barca con sbirri travestiti sotto il comando del famoso sergente Vignes.

Mentre questi procedeva a la volta di Pisciotta, il sottointendente fece appostare la sera del 29 aprile i doganieri ed alcuni gendarmi sul lido presso una torre diruta a Vallo di Marco nel tenimento del villaggio di Caprioli ove, secondo le informazioni del sottointendente, i tre latitanti dovevano imbarcarsi su la tartana, che bordeggiava alquanto in alto in direzione appunto della torre. Mentre stavano cosi in agguato, ad un etratto scorsero una barca muovere da la tartana verso il lido. Sembrava a la forza pubblica giunto l’istante fortunato di agguantare i latitanti prima che montassero in barca, quando ad un tratto questa volse la prua e si allontanò rapidamente. Poco dopo spariva anche la tartana (225).

Nonostante l’amara delusione il sottointendente non si diede per vinto. Se i tre latitanti non erano comparsi sul lido dovevano ancora essere a terra e quindi con un po’ di buon volere si poteva raggiungerli. Ignorava che il De Dominicis ed i compagni di lui erano già a bordo della tartana fin da la sera del 29 aprile (226).

Intanto il sergente Vignes con i suoi seguaci, partito da Salerno la notte del 29, giungeva, forse per il vento contrario, presso la marina di Pisciotta soltanto a l’alba del primo maggio (227). Colà ebbe notizia della scomparsa della tartana; ma in pari tempo assicurazione che i tre latitanti non si erano punto visti e che non potevano certamente essere riusciti ad imbarcarsi. Indubbiamente il De Dominicis ed i suoi avrebbero cercato un altro imbarco. L’ energico sergente, imbaldanzito dal costante successo delle sue imprese, corse con la scorridoia verso la marina di Palinuro e sguinzagliò i suoi sbirri nei dintorni per venire in chiaro della verità. Le prime informazioni lo incoraggiarono molto. Tre persone armate vestite da pastori si erano accostate guardinghe al lido presso Palinuro in attesa di una grossa barca che trasportava pesce a Napoli, avevano premurosamente chiesto ad una donna se avesse visto soldati, ed a la risposta affermativa di lei avevano presa la via dei monti! (228) H Vignes stava per mettersi a la caccia dei fuggiaschi quando altri informatori più abili gli dettero l’assoluta e dolorosa certezza che il De Dominicis e gli altri due ricercati erano fuggiti proprio su la tartana del De Rosa la mattina del 30 aprile!!

I tre profughi ben contenti sbarcarono a loro agio a l’isola del Gozzo la sera del 17 maggio 1850 ed il di seguente con una barca approdarono a Malta (229). Speravano di poter vivere tranquillamente colà qualche tempo; invece la polizia li trasse in carcere per contravvenzione a le leggi sanitarie e li deferì al magistrato, che li condannò ad una multa di cinque colonnati per ciascuno (230) Il governo, inasprito da l’insuccesso, si vendicò con il sequestro delle rendite del De Dominicis (231) e con l’arresto di parecchi amici di lui, fra i quali il prete Aniello Marsicano e suo fratello Giuseppe, sospetti di aver favorito la fuga e del De Rosa come complice di essa (232).

Un altro ricercato da la polizia, il barone Mazziotti, sottoscrittore anche lui della protesta Mancini del 15 maggio, ebbe notizia il 14 luglio 1849 di un mandato di arresto a suo carico. Si rifugiò nella villa Minardi presso Somma Vesuviana di proprietà del suo amico Nicola De Siervo, e vi si trattenne fino a i primi di ottobre, quando si seppe che anche il De Siervo e due dei suoi figli, Francesco e Fedele, erano complicati nello stesso processo. Una perquisizione quindi nella villa poteva sopravvenire da un momento a l’altro. Il Mazziotti riparò nella povera casa di un bravo prete del luogo e vi si trattenne alcuni giorni in attesa che la sua famiglia gli procurasse un mezzo per fuggire a l’estero. Il giorno 8 ottobre vestito da ufficiale della marina francese si recò in Napoli. Nel caffè Del Greco al largo del Castello, ora piazza del municipio, rinvenne un ufficiale medico francese della nave da guerra l’Ariell (233) e l’ex deputato Michele Primicerio e tutti e tre andarono a bordo. La nave, su la quale si trovavano anche gli altri ex deputati Abignenti, Giura, Bellelli (234), mosse il giorno 10 per Civitavecchia. Ivi non potettero approdare: forse non fu loro concesso, o essi stessi temettero che il governo pontificio li consegnasse a la polizia napoletana. Certo a Civitavecchia si imbarcarono su un piroscafo pure francese, lo Scamandro, che partiva perMalta. Prima dell’alba del giorno 16 la nave, avvolta in una densa nebbia, urtò in uno scoglio tra Noto e Siracusa e rimase assai malconci:. La sera molte barche faticosamente la rimorchiarono nel porto di Siracusa. Dopo parecchi giorni su un’altra nave, il Sesostri, i fuggitivi giunsero a Malta. La mattina seguente la polizia locale li fece tornare sul Sesostri e di là partire per Livorno, ove neanche venne loro permesso di approdare. Ripartirono per Genova, e soltanto colà potettero scendere a terra.

VI. Compiuti gli atti prescritti da le leggi di procedura criminale del tempo (art. 459 e seguenti) venne iniziata la discussione della causa a carico di quaranta contumaci, tra cui i deputati Luigi Zuppetta, Giov. Andrea Romeo, l’ex intendente di Salerno, Aurelio Saliceti, Raffaele Piscicelli, Raffaele Conforti, F. P. Ruggiero, P. E. Imbriani, Ottavio Tupputi, Vincenzo Lanza, Gennaro Bellelli,Stefano Romeo, Gaetano Giardini, Ulisse De Dominicis, F. A. Mazziotti, Casimiro De Lieto, Giuseppe De Vincentiis, P. S. Mancini, Giuseppe Massari, Goffredo Sigismondi, Giuseppe Del Re, il duca Proto di Maddaloni, Giuseppe Sodano, Antonio Torricelli, G. B. Lacaita Antonio Callotti, Michele Farina, Luigi e Salvatore Sangiorgio, Nicola Magaldi, Raffaele Cupolini, Federico Castaldi, Pasquale, Pietro, Clemente e Luigi Catalano Consaga,Giovanni La Cecilia, Ferdinando Pescarmi, Pierangelo Fiorentino, Francesco Perez e Francesco Ferrara per cospirazione contro la sicurezza interna dello Stato ed attentato a la guerra civile.

Il procuratore generale Angelillo nelle sue conclusioni orali chiese la condanna di morte per ventidue degli imputati, cioè il Sodano, Zuppetta, Torricelli, Piscicelli, La Cecilia, G. A. e Stefano Romeo, Saliceti, Ruggiero, Conforti, De Lieto, Massari, Mazziotti, Imbriani, Tupputi, Lanza, Bellelli, Giardini, De Dominicis, Gallotti, Pietro Catalano Consaga e Gaetano Giordano: la pena di diciannove anni di ferri per Plutino, De Vincenzi, Pisanelli, Sigismondi, Mancini, Del Re, Proto, Mazza, Luigi e Salvatore Sangiorgio, Nicola Magaldi, Federico Castaldi e Ferdinando Pescarmi; di diciannove anni di ferri per Clemente e Luigi Catalano Consaga; l’esilio perpetuo dal regno per Fiorentino, Perez e Ferrara; un prosieguo d’istruzione per Pasquale Catalano Consaga, Michele Farina e Raffaele Cogolico.

Comparvero innanzi a la Corte come testimoni le stesse spie e confidenti di prefettura che avevano figurato tristamente nel processo contro i detenuti. Difesero i giudicabili varii avvocati, tra cui il Marini Serra, il Castriota ed il Lauria; ma la loro parola eloquente a nulla valse. La Corte, accettando, come nella precedente sentenza, l’assunto dell’accusa che i fatti del lo maggio fossero stati preordinati da una lunga cospirazione, ritenne falsamente che i deputati da i balconi del palazzo di Monteoliveto avessero incitato a la formazione delle barricate. Ritenne pure la partecipazione di alcuni imputati al conflitto del 15 maggio, quindi con decisione del 20 agosto 1853 accolse le conclusioni del pubblico ministero.

A dimostrare con quanta leggerezza la Gran Corte spaiale accogliesse le accuse basta trascrivere ad esempio i fatti ritenuti da la Corte, su semplici informazioni della polizia, a carico del Conforti, del Bellelli, del Mazziotti. Per il primo di essi, dopo aver detto che più volte si era recato in Salerno per affari della sua professione, la. Corte soggiunse “vuolsi che colà avesse avuto relazioni e contatto con persone notoriamente reputate settarie e sopratutto con Giovanni Andrea Romeo Per il Bellelli la sentenza afferma che egli “venne in Salerno, in compagnia di Saliceti, si pose ivi in contatto con persone conosciute pubblicamente per sentimenti sovversivi e tale egli pure si appalesò nei tempi di massimo torbido politico”. Per Mazziotti “Fu uno dei principali promotori dell’insurrezione del Cilento in gennaio 1848. Pubblicata la costituzione si recò in quella contrada, ove tenne altre sovversive pratiche e tra esse quella di farsi eleggere a deputato. Da lui principalmente fu operata e diretta la seconda rivolta del Cilento avvenuta in giugno dello stesso anno”.

Le leggi di procedura allora vigenti nel regno stabilivano (art. 473), nei casi di condanna a morte in contumacia, che dopo quindici giorni da la sentenza la Corte, che aveva pronunciato, dovesse riesaminare di ufficio la causa. Confermandosi la sentenza il condannato contumace veniva dichiarato pubblico nemico, ciò che importava “che qualunque individuo della forza pubblica nel procurarne l’arresto, per qualunque leggiera resistenza anche presunta, potesse impunemente ucciderlo” (235). Da gli atti del giudizio non risulta se a questa disposizione ottemperasse la Gran Corte criminale.

CAPITOLO VI

 SOMMARIO. — I. Processi per le uccisioni avvenute nei moti del gennaio 1848 — Provvedimenti a favore delle famiglie delle vittime — Severi ordini del re per tali processi — II. La squadriglia Vairo arresta gli uccisori del barone Maresca — Inizio della causa — Deposizioni commoventi di alcuni testimoni — Gli imputati invocano le amnistie emanate per i reati politici — La Corte ritiene trattarsi di delitto comune — Difesa degli imputati — Sentenza della Corte — Vano ricorso di Luigi De Mattia — Esecuzione capitale di lui — Provvedimenti per gli altri condannati — III. Processo per la fucilazione di Rosario Rizzo — Arresto degli imputati — Loro difese — Sentenza della Corte — Commutazione della pena di morte in quella dell’ergastolo ad uno dei condannati. — IV. Giudizio per l’uccisione del De Feo — Strana unione di questo delitto ad altri fatti — Condanna emessa da la Corte speciale.
I. Presso la Gran Corte criminale di Salerno si istruiva con molta alacrità un processo per i moti avvenuti nella provincia nel luglio del 1848. L’ufficio di istruzione, nell’indagare su quegli avvenimenti, ebbe per la prima volta conoscenza di numerosi fatti verificatisi nell’insurrezione del gennaio dello stesso anno, tragli altri, delle uccisioni del barone Andrea Maresca in Pisciotta, di Rosario Rizzo in Salente e di Gennaro De Feo in Casalvelino (236).

Nel periodo turbinoso ed agitate che segui a la concessione dello statuto, tra ansie e clamori continui, i crudeli avvenimenti erano rimasti sconosciuti fuori del distretto di Vallo Il Carducci, senza dubbio il maggiore responsabile, aveva trionfato; i suoi amici erano al. governo, potenti e temuti; chi avrebbe ardite di accusarlo? D’altra parte, un articolo dello statuto aveva solennemente promesso di porre un velo impenetrabile su tutto il passate; un provvedimento sovrano del 10 febbraio aveva concesso piena amnistia per tutte le reità di Stato.

La scoperta di quei fatti destò viva impressione nella capitale. Si trattava, per il Maresca e per il De Feo, di due capi urbani trucidati perla loro fedeltà al re. Il barone Maresca poi apparteneva a cospicua famiglia della contrada, segnalata per antica devozione a i Borboni, massime nella rivolta avvenuta nel Cilento nel 1828. Il re e la Corte furono presi, a l’annunzio di quei truci delitti, da un profondo sdegno contro gli autori di essi e da una grande pietà verso le vittime e le loro sventurate famiglie. Il re volle, egli proprio, con ordine del 23 luglio 1850, assegnare una pensione di dodici ducati al mese (lire 51) a la vedova Maresca e conferì al primo dei figliuoli di lei, Giuseppe, il posto di capo urbano d’Ascea, già tenuto dal padre (237). A la vedova del Feo elargì un assegno mensile di nove ducati (lire 38. 25) ed a i due figli di ducati tre (lire 12. 75) per eia scuno (238). In pari tempo ordinò che si procedesse con straordinaria rapidità per quei delitti e nelle adunanze del Consiglio di Stato del 29 agosto e del 7 settembre 1850 (239), dispose che la causa Maresca fosse trattata a preferenza di ogni altra, e che, nell’ipotesi di una condanna di morte, si fosse lasciato libero corso a la giustizia (240). Provvedimento davvero eccezionale, perché, per eseguire una condanna di morte, si richiedeva sempre l’assenso del sovrano, lasciandosi in tal modo adito a le domande di grazia da parte dei congiunti dei condannati! Il re era tanto indignato per la morte del Maresca che volle in precedenza, mediante una pronta esecuzione della condanna, rendere vana ogni opera pietosa di parenti o di amici.

II. Fin dai primi giorni del novembre 1848 la Gran Corte criminale di Salerno aveva disposto l’arresto degli esecutori del reato. L’incarico di arrestarli fu dato a la squadriglia del cav. Vairo, che non ebbe, nell’adempiere il suo mandato, ad incontrare molte difficoltà, poiché essi vivevano tranquillamente nei propri paesi ritenendo che la R. indulgenza del 10 febbraio 1848 li ponesse al sicuro da ogni persecuzione. In una sola giornata, il 22 novembre del 1849, il Vairo imprigionò Luigi De Mattia, che si credeva avesse comandato il fuoco, F. S. Principe, Pasquale Marino, Domenico Inverso, Angelantonio Agrillo, Antonio Palladino, Luigi De Sevo, Pasquale De Vita ed Aniello Botti, indiziati come esecutori della fucilazione. Un altro degli imputati, un tale Taddeo di Matonti, si trovava gravemente infermo nell’ospedale militare della Trinità di Napoli e vi mori il 18 luglio 1850.

Si iniziò la discussione della causa davanti a la Gran Corte criminale di Salerno, presieduta dal barone Gaetano Mirto (241). Destò viva emozione nei giudici e nell’uditorio assai affollato il testimone Federico Sacco, un buon prete del villaggio di Rodio, economo della chiesa parrocchiale di Pisciotta. Egli narrò che, invitato da un tale Angelo Maria Troccoli, che apparteneva a la bande cilentane, a prestare i conforti religiosi al barone Maresca, si recò nella piccola cappella di S. Sofia e del Carmine a l’ingresso del paese. Nell’entrare, scorse, in mezzo a una folta e vivace schiera di gente armata (242), un uomo seduto su una rozza panca di legno, sfigurato nel viso, convulso e tremante. Un altro prete,. Aniello Manicano di Pisciotta, che pure aveva assistito il Marasca, ne descrisse con parola commossa lo stato miserando (243). Parve a tutti inumano il diniego del Carducci a concedere la grazia chiestagli da i due preti e da i più autorevoli del paese, tra cui Ignazio Mandina suo ospite, Luciano Sanile e Gabriele Sacchi.

Un fremito di raccapriccio e di pietà si diffuse nella vasta sala quando alcuni testimoni, presenti a la triste esecuzione, rievocarono la lugubre scena (244): il condannato, barcollante, esterrefatto, trascinato a forza in mezzo a la piazza; il primo colpo, che gli aveva fracassato il cranio e fatto saltar fuori il cervello; la caduta rumorosa dell’infelice, riverso al suolo, ancora palpitante; gli altri colpi seguiti immediatamente; da ultimo il colpo di pistola nelForecchio (245).

Gli imputati invocarono la sovrana indulgenza del 10 febbraio 1848; ma la Gran Corte respinse l’eccezione ritenendo il provvedimento ristretto a i soli delitti politici. La Corte ravvisò nel fatto soltanto un reato comune, giudicando un mero pretesto la mancata esibizione delle armi prescritta dal bando del Carducci e causale vera del reato la vendetta che Ulisse De Dominicis aveva voluto esercitare contro il Maresca, il quale nel 1828 aveva denunziato il padre di lui fucilato dipoi a Salerno il 22 settembre dello stesso anno (246). Avvalorava questo convincimento, al dire della sentenza, la circostanza che il Carducci, avendo arrestato come contravventori al bando il Maresca e Pasquale Guercio, aveva poi liberato quest’ultimo (247). Inoltre da i testimoni uditi risultò che la madre di Ulisse De Dominicis, nel morire, aveva detto al figliuolo, alludendo a la fucilazione del Maresca: “Ora muoio contenta perché mio marito è stato vendicato».

A propria difesa gli imputati addussero di aver dovuto obbedire ad un ordine militare del loro capo, il quale si era proposto con la fucilazione del capourbano Maresca di atterrire i realisti della contrada: si studiarono inoltre di attenuare la parte da essi avuta nel doloroso avvenimento. Il De Mattia smentì risolutamente di avere tirato il primo colpo; ma le sue proteste non persuasero la Corte.

Le relazioni ufficiali del cav. Valia intendente della provincia (248) e del capitano dei gendarmi del distretto Giuseppe De Liguoro (249) riferivano che la condanna del Maresca era stata pronunziata da una Commissione militare. Anzi il De Liguoro aveva di questa persino indicati i componenti (250). Anche la voce pubblica aveva ritenuto così ed in buona fede lo affermò qualche scrittore del tempo (251). E quella opinione era prevalsa interamente nonostante che una lettera ufficiale dell’ispettore di polizia di Vallo, scritta poco dopo l’avvenimento, l’avesse smentita nella forma più recisa (252). Nel pubblico dibattimento apparve irf modo luminoso, per concorde dichiarazione di tutti i testimoni, che niun giudizio intervenne e che l’ordine di fucilazione fu dato, di sua autorità, dal Carducci.

Esaurite le difese degli imputati, la Corte si riunì in camera di consiglio il 12 ottobre del 1850 e dopo breve discussione pronunziò la sentenza, condannando con voto unanime a morte (253) Luigi De Mattia che aveva diretto l’esecuzione e tirato il primo colpo contro il Maresca. Severa condanna certo, ma non ingiusta, né iniqua a fronte della crudeltà del delitto! Condannò poi, a maggioranza di voti, a trenta anni di ferri F. S. Principe, Pasquale Marino, Domenico Inverso ed Angelantonio Agrillo, a venticinque anni Antonio Palladino, assolse il De Vita ed il Botti perché non avevano preso parte a l’esecuzione ed il De Sevo perché risultò dimostrato che il medesimo aveva soltanto messa una benda su gli occhi del Maresca. II dispositivo della sentenza fu affisso per le cantonate della città, ma nel corso della notte gli affissi vennero strappati.

Si disse allora che i difensori del De Mattia avessero presentato, la sera stessa della condanna, ricorso a la Corte Suprema di giustizia, ma che la cancelleria della Gran Corte criminale di Salerno non avesse voluto riceverlo, né la sera, stante l’ora tarda, né l’indomani perché giorno festivo (254). Ripresentato il lunedi successivo, il procuratore generale Gabriele notava in margine al ricorso che questo era inammissibile ed ordinava l’esecuzione della sentenza. L’ ordine reale dato in precedenza non lasciava adito a dubbi né ad esitanze.

Due fratelli del De Mattia, Celestino e Ciro, corsero trepidanti a Caserta, ove allora villeggiava ilre, per impetrare la grazia della vita del loro congiunto; ma invano. Si diffuse da prima la voce che il re fosse rimasto inesorabile a le preghiere ed a le suppliche più commoventi: si assicurò invece dipoi che egli non avesse voluto neanche riceverli.

Mentre i due supplicanti si affannavano per ottenere una udienza in Caserta, una breve nota del procuratore generale Gabriele del 12 ottobre 1850 disponeva che il condannato fosse messo in cappella e poi giustiziato. Una vecchia circolare ministeriale del 4 ottobre 1828 disponeva che non si potesse procedere ad esecuzioni capitali prima di ventiquattro ore almeno da la sentenza per i conforti religiosi al condannato. Il giorno 13 il Gabriele scriveva a l’intendente: “Iersera sabato a le ore due fu messo in cappella Luigi De Mattia e domani 14 corrente a le ore 14 italiane (8 antim.) dovrà essere giustiziato con la decapitazione nel solito locale in questo capoluogo. La prego di voler dare le convenienti disposizioni a ciò la pubblica tranquillità non venga turbata nel corso dell’esecuzione della giustizia” (255).

La pia congrega di S. Antonio dei nobili, che per suo antico istituto adempiva in Salerno il pietoso ufficio dell'assistenza a i condannati a morte, inviò a la cappella due religiosi Il De Mattia li accolse con animo grato, e ricevé i sacramenti dal parroco Raffaele Massa Sparano, come attesta il registro parrocchiale dei defunti. della chiesa di S. Maria della Pietà e di S. Domenico (256).

A l’ora stabilita, cioè a le otto del mattino, una schiera di gendarmi con il capitano a la testa, l’esecutore di giustizia ed il suo aiutante si recarono al carcere di S. Antonio per la consegna del condannato, che venne eseguita dal custode maggiore delle prigioni di Salerno, Antonio Savastano (257). Quindi il lugubre corteo, preceduto da preti che salmodiavano, mosse per le vie interne della città verso il largo piazzale che allora esisteva fuori Portanova, ora occupato da molti edifici tra cui il gran palazzo dei signori Conforti. In quel piazzale adibito per vecchia usanza a le esecuzioni capitali (258), sorgeva un gran palco di legno tutto coperto di rosso e su questo splendeva di luce sinistra la mannaia.

Del contegno del condannato nelle ore estreme tacciono i documenti del tempo; una relazione del commissario di polizia Scafati, che assistette al supplizio non contiene che queste parole: “Si è eseguita oggi la decapitazione di Luigi di Mattia. L’ordine pubblico non ha sofferto alterazione” (259). Il laconico commissario non credette valesse la pena di aggiungere altro, riferì sommariamente su la lugubre esecuzione come su una qualsiasi delle pratiche consuete di ufficio. Eppure non si trattava di un avvenimento ordinario: l’esecuzione del De Mattia fu la sola avvenuta per causa politica in provincia di Salerno.

Narra la tradizione che mentre il corteo passava innanzi la chiesa di Portanova, denominata ora del Crocefisso, il carnefice che teneva il capo di una corda, con cui il paziente era strettamente legato, la tirasse bruscamente, causandogli un acuto dolore. Il De Mattia si volse indignato, quindi levando gli occhi al cielo in atto di rassegnazione prosegui il cammino. Vuoisi che dell’atto inumano qualcuno dei pubblici funzionari, che accompagnava il corteo, avesse nobilmente rimproverato il carnefice. Riferisce il D’Ayala che il condannato giunto al luogo del supplizio si strappò arditamente la benda postagli innanzi a gli occhi e sali con coraggio sul palco (260). Il corpo del De Mattia, è detto nel registro parrocchiale, venne inumato in pubblico sepolcreto, vulgo Camposanto, in uno spazio a parte destinato appunto a la sepoltura dei giustiziati dove anche oggi il popolo suole accendere delle lampade in suffragio delle sante anime dei decollati (261).

Il governo, nonostante che la Corte avesse disposto la liberazione del De Sevo, del De Vita e del Botti, li sottopose all'empara con reale rescritto del 23 settembre 1850 e li tenne in carcere (262). Il De Sevo, con una supplica del 24 ottobre successivo, invocava la sua liberazione e si doleva di morir di fame e di dormire su la nuda terra (263); le sue speranze restarono deluse e il 26 dicembre 1851 il Peccheneda lo mandava confinato nelle isole di Tremiti (264). Gli altri due uscirono dal carcere il 24 marzo 1852.

III. A due anni circa di distanza dal giudizio narrato segui l'altro per la fucilazione di Rosario Rizzi avvenuta in Salento il 29 gennaio 1848. Per mandato della Gran Corte criminale di Salerno la squadriglia Vairo arrestò i presunti autori del delitto, Raffaele Lerro falegname di Omignano, Francesco La Greca bracciante di S. Mango, Andrea Celano fabbro ferraio di Perito e Pasquale Castagno bracciante di Casigliano. Un altro designato come complice, il pastore Nicola Tomeo di Campora, che per ordine degli insorti aveva reciso la testa del fucilato, era già in prigione, forse per altro delitto, in A versa, e vi mori il 20 luglio 1851 (265). Tra gli imputati vi era pure un certo Leopoldo Pizzuti bracciante di Omignano; la squadriglia del Vairo arrestò invece di lui suo fratello Alberto, che generosamente per affetto fraterno tacque l’errore. Ma durante l’istruzione si chiari l’equivoco ed, arrestato Leopoldo Pizzuti, venne messo in libertà il fratello.

La difesa degli imputati invocò i reali decreti del23 gennaio, 1° febbraio e 14 febbraio 1848, che avevano concesso una generale amnistia per tutti i delitti politici anteriori, tra i quali, sostenne, doversi comprendere la fucilazione del Rizzo, non avendo avuto gli imputati alcun movente particolare per eseguirla. La Corte ritenne trattarsi di reato comune poiché gli articoli 129, 130 e 131 delle leggi di procedura criminale consideravano come delitti politici gli omicidi solo nei due casi di guerra civile tra la popolazione del regno e di strage contro una classe di persone (266). Constatata quindi la parte avuta da ciascuno degli imputati nel triste avvenimento, la Gran Corte con sentenza del 10 marzo’1852 condannò a morte Raffaele Lerro, a l’ergastolo Francesco La Greca, a ventotto anni di ferri Andrea Celano e Pasquale Castagno, a ventidue anni di ferri Leopoldo Pizzuti. Il re commutò per il Lerro, con decreto del 31 marzo 1852, la pena di morte nell’ergastolo.

IV. Pochi mesi dopo cominciò l'altro giudizio per l'uccisione, avvenuta in Casalicchio (267), del sotto capo urbano Gennaro De Feo a carico di Filadelfo Sodano di Celso arrestato come mandante il 23 ottobre 1850, e di alcuni suoi conterranei ritenuti esecutori materiali del delitto. Vennero, circostanza davvero singolare, compresi in questo giudizio Angelo Pavone di Torchiara e Giuseppe Ferrara di S. Biase imputati per fatti del tutto indipendenti da quella morte, cioè il Pavoneper avere sequestrato denaro a gli esattori delle imposte del suo circondario a lo scopo di sostentare le masse insurrezionali ed il Ferrara per la parte presa nel moto di Castellabate.

La Gran Corte, con decisione del 23 ottobre del 1852, condannò a morte il Sodano come mandante dell'omicidio e reo di cospirazione e di banda armata: condannò altri cinque come complici degli stessi fatti a ventiquattro anni di ferri, Angelo Pavone a venticinque anni di ferri e Giuseppe Ferrara a sei anni di prigionia per i reati loro rispettivamente attribuiti. Un decreto del 4 novembre 1852 commutò la pena di morte iu quella dell’ergastolo per il Sodano, che venne mandato ad espiarla nell'isola di S. Stefano. Angelo Pavone consegui, dopo qualche anno di ferri, la grazia sovrana con indulto del 18 giugno 1854 (268) in considerazione che l’altro suo fratello Carlo più giovane trovavasi del pari in galera per reità di Stato, come narrerò tra breve. Nonostante la grazia, Angelo Pavone venne mandato a domicilio forzoso in Baroni ssi (269). lire commutò la pena del carcere in quella della relegazione a Giuseppe Ferrara, che andò ad espiarla a Ventotene.

Non mi è però riuscito rinvenire la risoluzione reale nel protocollo del Consiglio di Stato, non essendovi verbale di quel giorno.

CAPITOLO VII

La Gran Corte speciale di Salerno

SOMMARIO. — I. Processo per le agitazioni del distretto di Sala nel maggio 1848 — Arresto di Michele Aletta — Sorprendente interrogatorio di lui — Sua condanna a morte — Commutazione della pena nell'ergastolo. —Istruzione per i moti del Cilento nel luglio — Arresto dei fratelli Francesco e Carlo De Angelis, di Giambattista Riccio, di Domenico Picone, di Ovidio Senno, di Luigi Magnoni, di Carlo Pavone, di Pasquale Lamberti, di Giuseppe Pessolani e di Giuseppe Vitagliano — Sequestro delle carte del Carducci — Sorpresa di importanti documenti in casa Passero. — Discussione della causa — Severe conclusioni del pubblico ministero — Difese degli imputati — Gravi condanne — Invio dei condannati a i ferri al bagno di Nisida. —Fuga di altri imputati — La moglie di Diego De Mattia — Enrico Mambrini ripara in Piemonte — Latitanza di Giovanni Carducci, di Nicola Causale, di Giovanni Guerrieri, di Filippo l'¿tagliano, dei fratelli Coco — Iscrizione dei contumaci nell'albo dei rei assenti. — IV. Arresto dei fratelli Lucio e Salvatore Magnoni e di Emanuele Giordano — Gravi condanne contro di essi — Loro invio a la galera — Arresto di Stefano Passero — Processo — Sentenza di assoluzione — Presentazione spontanea di Giovanni Ausilio e di Angelo Petroni — Chiusura di quest'ultimo in un convento. — V. Processo per i fatti di Sapri del 1848 — Arresto di molti imputati — H loro processo — Condanne — VI. Persecuzioni contro gli autori dei moti di Castellabate del luglio 1848 — La fuga di Pompeo De Angelis — Suo travestimento da benedettino — Scoperta ed arresto di lui — Condanna di Antonio Ronzio, di Luigi Parente e di Pompeo De Angelis.
I. Negli uffici giudiziari di Salerno si istruivano, con grande alacrità e fervore, numerosi processi politici per gli avvenimenti del 1848. Gli arresti e le perquisizioni si seguivano senza tregua; giudici istruttori, procuratori del re, commissari di polizia, giudici regi, sbirri e guardie urbane li davano da fare per la ricerca dei colpevoli.

Venne compiuta, prima di tutte, l’istruzione del processo per i disordini del distretto di Sala, promossi principalmente da Michele Aletta già praticante usciere presso il tribunale di Salerno, condannato per gli avvenimenti del 1820 a cinque anni di prigionia. Costui, mandato dal Carducci nel maggio 1848 ad agitare il distretto di Sala, era salito con pochi dei suoi coi terranei, portando ana grande bandiera tricolore, s il monte Raccio, e di là aveva inutilmente eh amato a raccolta le guardie nazionali della contrada per muovere su la capitale (270). Il fatto aveva destato molto clamore tanto più che l’Aletta aveva diffuso la voce che egli capitanava non un manipolo di gente sbandata, ma diecimila uomini armati di tutto punto.

Nonostante questa temeraria intrapresa, il bizzarro uomo, allorché venne la reazione, non ebbe neanche lontanamente il pensiero di mettersi al sicuro al di là del confine, o al meno di nascondersi! Se ne stava tranquillamente a Salerno, conservando tutte le sue antiche abitudini, quella, tra le altre, di frequentare per parecchie ore della giornata i caffè della città, e si compiaceva di narrare — enfaticamente le sue vicende, a cominciare da le riunioni carboniche del venti fino al famoso accampamento del Raccio. La polizia non durò molta fatica per mettere le mani addosso a quell’ingenuo. Il famoso sergente Vignes,ebbe il 18 luglio 1849 dal suo maggiore, cavaliere Pignataro, l’ordine di arrestare l’Aletta. Sapendo le abitudini di lui, si appostò vicino al caffè, ove egli soleva recarsi la mattina, gli intimò l’arresto e lo condusse difilato nelle carceri di S. Antonio. Ivi, a brevi intervalli, sopraggiunsero Francesco e Vincenzo Marone, conterranei e compagni suoi nella spedizione sul monte Raccio.

Passarono due mesi senza che si interrogasse l’Aletta! Finalmente, il 5 settembre, fu interrogato. Il giudice istruttore, credette addirittura di sognare quando il detenuto, con ammirabile disinvoltura, narrò per filo e per segno le sue gesta, gli incarichi avuti dal Carducci, la sua gita nel distretto di Sala, la spedizione sul Raccio, senza nascondere alcuna circostanza, anzi magnificando altamente l’opera sua (271).

Soltanto dopo due anni si potette iniziare la discussione della causa. Due anni lunghi e penosi di prigione, in corsie basse, affumicate, sudice, in mezzo ad una massa di altri detenuti! Ma l’Aletta s’era da giovane abituato al carcere e sopportava tutto con la maggiore filosofia, sempre con il pensiero rivolto a le sue idee favorite, a la setta dei carbonari ed a la costituzione del 1820.

Verso la metà di marzo 1851 cominciò il giudizio innanzi a la Gran Corte speciale di Salerno a carico dell’Aletta e dei suoi compagni. L’Aletta comparve innanzi a i giudici con la consueta indifferenza, e ripeté con la stessa franchezza, solennemente, la confessione delle sue imprese. Il dibattimento non durò che pochi giorni; la Gran Corte, con decisione del 26 dello stesso mese di marzo, condannò l’Aletta a la pena di morte con il terzo grado di pubblico esempio, Francesco Marone a sei anni di prigionia, Vincenzo Marone a cinque. Della terribile condanna l’Aletta non si risenti menomamente; egli era persuaso che essa non avrebbe avuto esecuzione, e cosi accadde difatti Il 7 giugno un regio decreto gli commutò la pena nell’ergastolo e pochi giorni dopo il governo lo mandò ben incatenato nell’isola di S. Stefano.

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ISOLA DI NISIDA


II. Per i moti avvenuti nella provincia di Salerno nel luglio 1848 si istruiva un solo grandioso processo, il quale comprendeva sessantasei imputati. La polizia si dette con ardore febbrile a l’arresto dei colpevoli. Il 25 luglio del 1848 venne tratto in carcere, tra i primi, Francesco De Angelische aveva preso molta parte al movimento avvenuto in Castellabate (272). Qualche mese dopo, la sera del 14 settembre, il celebre commissario di polizia Biagio Savastano arrestò in Napoli presso il Museo Carlo De Angelis fratello di Francesco (273).

Più faticosa riuscì la ricerca di parecchi altri imputati, dei quali pèr vari mesi la polizia non potette sapere il rifugio. Il tenente di gendarmeria Benedetto Gambone sorprese ed arrestò il 1° dicembre 1848 in Torchiara, in un nascondiglio della casa di Saverio Farro, G. B. Riccio, capo di una delle colonne insurrezionali ed il compagno e conterraneo di lui Domenico Picone (274). Il prete Ovidio Serino ebbe la stessa sorte il 9 luglio del 1849. Contro di lui si procedeva anche nella capitale, addebitandoglisi di aver combattuto su le barricate il 15 maggio, ma la Gran Corte di Napoli credette di rinviarlo a giudizio presso quella di Salerno. Un altro imputato, Luigi Magnoni di Untino, si era nascosto nel palazzo marchesaledel villaggio di Cardile (frazione del comune di Gioi), ma il 21 luglio dello stesso anno la squadriglia del cav. Vairo invase la casa e trovò sotto il tetto. Carlo Pavone si era rifugiato in S. Mauro Cilento in casa di Francesco Petillo, asilo poco sicuro per i sospetti che si addensavano anche sul suo ospite. Difatti nel mese di ottobre il tenente Giambone lo scovò facilmente e lo condusse insieme con il Petillo nelle carceri di Salerno. Ivi erano già, per la stessa imputazione, Pasquale Lamberti il fido amico e l’audace emissario del Carducci (275), Giuseppe Pessolani di Atena e Giuseppe Vitagliano di Lustra gravemente implicati per i medesimi fatti del luglio.

Il magistrato inquirente conosceva esattamente, per le relazioni delle autorità politiche del tempo, movimento delle varie colonne insurrezionali, i capi ed i gregari di esse, ma ignorava chi avesse consigliato e preparato la rivolta. Ad un tratto tutto venne messo in chiaro. Nell’aggressione di Acquafredda, narrata in altro mio scritto (276) il prete Vincenzo Peluso s’era impadronito di tutte le carte del Carducci, tra le quali la corrispondenza con i capi del movimento e le aveva portate al re, che le trasmise a l’ufficio d’istruzione di Salerno. Cosi si seppe e si documentò che il Carducci per mezzo del Lamberti aveva fin dal mese di giugno formato in Vallo ed in Sala due comitati segreti per promuovere l’insurrezione e per formare un campo a Campestrino (277).

Una propizia stella favoriva l’istruttore del processo. Il 27 settembre 1849 i tenenti Filippo Rebullo e Benedetto Gambone, in una improvvisa perquisizione in casa del dott. Stefano Passero, rinvennero la corrispondenza di lui, già capitano di guardia nazionale ed uno dei capi del moto di luglio, con il Carducci, con il barone Crescenzo Vallante di Laurino, con Raffaele Falcone di Sala, con i fratelli Magnoni di Rutino, con Carlo De Angelis di Castellabate e con Raffaele Gorga di Monte forte tutti promotori della ribellione. Si impossessarono, tra le altre carte, di un elenco di sessantadue persone di Rutino designate da i fratelli Magnoni come “pronte a servire la causa della libertà”. Dopo così ricca ed insperata messe di documenti l’istruzione andò a gonfie vele e potette con lieve fatica giungere a termine. Vennero rinviati a giudizio quarantuno imputati detenuti e si uffiziarono gli atti per il procedimento in contumacia contro altri venticinque assenti.

La discussione della causa, che prese il nome di “causa dei quarantuno” si iniziò il 29 novembre 1851. Ogni mattina una compagnia di gendarmi scortava gli imputati da le carceri di S. Antonio a la Gran Corte. I parenti e gli amici dei giudicabili volgevano, ad essi, durante il breve cammino, saluti ed affettuose parole ed assistevano trepidanti al dibattimento. L’udizione dei testimoni, la lettura dei documenti richiesero molte udienze. Il 15 gennaio 1852 il procuratore generale Angelo Gabriele pronunciò la sua requisitoria, chiedendo la pena di morte per Carlo De Angelis, Carlo Pavone, G. B. Riccio, Gennaro Giardini, Giuseppe Pessolani, Ovidio Serino, Pasquale Lamberti, Andrea De Focatis e Salvatore Garofalo. Domandò la pena dei ferri per parecchi altri imputati.

I difensori terminarono le loro arringhe il 27 gennaio. L'illustre avvocato napoletano Giuseppe Marini Serra capo del collegio della difesa riassunse la causa e gli argomenti addotti da i suoi colleghi. Nel suo mirabile discorso (278) egli notò che a l’insuccesso della rivolta del luglio “contribui la decisa ostinazione degli abitanti del Vallo, già logori per antiche sciagure, di non far causa comune con i cilentani in quel movimento insurrezionale”.

La stessa sera i giudici si riunirono in camera di consiglio: un numeroso pubblico restò tutta la notte nella sala di udienza, tra le più vive ansie per attendere la decisione. Si prevedevano severe condanne; e i congiunti e gli amici dei giudicabili, in quella sala, male illuminata e fredda, tremavano per i loro cari. La Gran Corte con decisione, pubblicata poco prima dell’alba, condannò a morte con il terzo grado di pubblico esempio il Riccio, il Serino, il Pessolani, il Lamberti ed il Picone; a venticinque anni di ferri Carlo Pavone, Antonio Barlotti, Pasquale Santomauro, Zaccaria Ragone, Francesco Pellegrino;

' a diciannove anni di ferri Carlo De Angelis, Saivalore Garofalo, Gennaro Giardini, Vincenzo De Robertis, Andrea De Focatis, i germani Giuseppe e Celestino Sabatella e Giuseppe Vita gliano; ad un anno di carcere Francesco Coppola. Ordinò la libertà provvisoria per Luigi Tucci, Domenico De Focatis, Domenico Caputo, Rosario Ferrara, Vernieri Cantalupo, D. A. Marsico, Luigi Magnoni, Giorgio De Focatis, Gabriele e Lorenzo Foti, Nicolantonio Pisani, Andrea Marotta, Nicola Baratta, Francesco De Angelis, G. B., Forziati, Nicola e Gaetano Sabbatella, Angelo Zoccoli, Giuseppe De Petrinis e Rosario Capopizzo. Un rescritto reale del 21 febbraio 1852 commutò le condanne di morte in trenta anni di ferri, e cambiò per Andrea De Focatis e Gennaro Giardino la pena dei ferri nella relegazione.

I condannati a i ferri, dopo alcuni mesi, andarono in Napoli, a piccole tappe, scortati da i gendarmi, il 20 maggio 1852. Attraversarono le vie della popolosa città legati a coppie ed ammanettati e quindi proseguirono per la spiaggia di Coroglio. Di là con piccole barche furono condotti a la galera di Nisida. Tre dei condannati, Carlo De Angelis, il Riccio ed iT Barlotti, ottenuta a furia di mancie una corrispondenza straordinaria, partirono in carrozza, accompagnati da uno stuolo di sbirri, da le carceri di Salerno il 16 giugno 1852. Pernottarono a Torre Annunziata, ed il di successivo, passando per Napoli nello stesso modo dei loro compagni, arrivarono a Nisida verso il tramonto del 17 giugno 1852.

I custodi del bagno perquisirono ciascuno dei nuovi arrivati e fecero loro denudare un piede, “che cinsero con una maniglia di ferro a la quale attaccarono, mediante un perno, una catena del peso complessivo di dodici rotoli (oltre 10 chilogrammi) che dovevano portare giorno e notte a coppia. Un villano addetto a barbiere (arrazzatore nel gergo carcerario) rasò loro il volto e la testa. Quindi dovettero indossare l’infame abito dei galeotti. Nel bagno trovarono i capi della spedizione calabro-sicula arrestati da le navi napoletane nelle acque di Corfù nel luglio 1848 (279).

Nonostante l’ordine del magistrato coloro, per i quali la Corte aveva disposto la libertà provvisoria, restarono in carcere a disposizione della polizia. Anzi il sottintendente di Vallo, il 16 febbraio 1852 proponeva di mandare in relegazione in isole lontane, come pericolosi, Luigi Magnoni, Francesco De Angelis, G. B. Torziati e Nicola Baratta e vi vennero infatti mandati (280).

III. Degli imputati contumaci parecchi, come ho precedentemente narrato, erano fuggiti a l’estero: tra essi i due fratelli Francesco e Pompeo De Angelis e Filippo Patella (281). La polizia si affaticava invano per impadronirsi di un altro imputato, Diego De Mattia. Questi, condannato a morte per la rivolta cilentana del 1828, aveva come ho scritto in altro libro (282) subito molti anni di galera. Liberato per grazia sovrana, aveva preso parte attivissima al moto del luglio 1848. La sorte gli aveva concesso un asilo che niuno poteva immaginare. Qualche anno prima egli aveva sposato una buona ed onesta giovane a nome Carolina figlia di Giuseppe Campaiola comandante del bagno penale posto nella darsena di Napoli. La giovine sposa aveva persuaso suo padre a ricoverare il genero nella propria casa, nella darsena stessa. Il vecchio e severo comandante per affetto filiale aveva consentito, pur sapendo di esporsi a gravissime pene.

Mentre il tenace cospiratore godeva di un tranquillo rifugio, la giovane si accorse che la polizia la teneva d’occhio nella speranza di poter cosi rintracciare il marito. La povera donna, a porre un termine a moleste e pericolose indagini, si indusse a diffondere la voce che il marito era morto e, per colorire meglio la finzione, prese gli abiti da lutto. Tutti i detenuti, sapevano del pietoso inganno, ma nessuno fiatava (283). Finalmente il De Mattia potette, con l’aiuto di Lord Temple ministro d’Inghilterra in Napoli, imbarcarsi su la fregata inglese “Dragón” ed approdare a Malta il 4 novembre del 1851 (284). Di là passò successivamente a Genova.

La polizia cercava con il più vivo interesse un altro degli imputati, Enrico Mambrini che, in assenza dell’intendente Giovan Andrea Romeo, aveva diretta l’intendenza di Salerno nei primi di maggio ed aveva consentito a la pubblicazione dei proclami del Carducci ed a somministrare danaro e munizioni a le guardie nazionali della città per muovere su la capitale Il governo considerava il Mambrini come un traditore e teneva molto a l’arresto ed a la condanna di lui. Ma ogni indagine riuscì vana: egli si tenne prudentemente nascosto finché il 29 settembre del 1849 fuggi in Piemonte (285).

Giovanni Carducci, fratello di Constabile, anche egli gravemente complicato per i fatti del luglio, si rifugiò per parecchio tempo nel villaggio di Cannichio nel comune di Pollica presso suo cognato Giuseppe Pisani facoltoso proprietario del paese, e poi riusci a partire per Marsiglia insieme con Angelo Camillo De Meis illustre medico già deputato al parlamento napoletano. Un altro imputato, il notaio Nicola Causale di Corleto, fido cooperatore del Lamberti nella formazione del campo a Campestrino, potè dopo lunga latitanza, soltanto il 12 marzo 1851, fuggire a Malta insieme con la moglie Giuseppina Palumbo e trovò modestamente da vivere nell’isola lavorando in una fabbrica di carta tenuta da un tale Vincenzo Buggea (286). Di Giuseppe Verdoliva, altro degli imputati, ho già narrata la fuga a Genova (287). Un altro dei capi del movimento del luglio, Antonio Curcio, era perito in un conflitto con i gendarmi in Calabria il 5 agosto del 1851 (288). Leonino Vinciprova comandante di una colonna insurrezionale nel Cilento si era posto in salvo a Roma (289). Giovanni Guerrieri di Campagna, che durante il moto di luglio era, nella sua città, capo del comitato della lega italiana, e che aveva indotti i suoi concittadini a riunirsi a le colonne del Cilento (290) era fuggito con sua moglie Raffaella Bonavoglia a Genova (291). Filippo Vitagliano, che aveva raccolto nel luglio molte guardie nazionali e seguito le colonne ribelli, era parimente fuggito in Genova, ove poi mori il 18 aprile 1855 (292). I germani Francesco e Raffaele Coco, tenaci ed operosi liberali di Perdifumo, con mirabile calma e persistenza riuscirono, pur rimanendo nella loro contrada, a sfuggire ad ogni ricerca. Un loro germano, di nome Marcello, cadde invece nelle mani degli sbirri.

Il procuratore generale Gabriele, con requisitoria del 26 febbraio 1855, chiese l’iscrizione dei contumaci nell’albo dei rei assenti; ciò che, secondo le leggi del tempo, portava che essi potevano essere arrestati da ogni individuo della forza pubblica ed erano sospesi da l’esercizio dei diritti civili (art. 466). La Gran Corte accolse la dimanda del Gabriele.

L’art. 468 delle leggi di procedura criminale prescriveva: “Quando il misfatto non sia punibile di morte o di ergastolo, o del quarto e terzo grado di ferri, anche nel presidio, l'annotazione nell’albo dei rei assenti si riguarderà come l’ultimo atto del giudizio in contumacia”. Quando invece si trattava di delitti che potevano importare quelle gravi pene, doveva procedersi “a la decisione di condanna in contumacia”. Il delitto di cospirazione e di banda armata ascritto a i rei assenti implicava le più gravi pene; Quindi avrebbe dovuto addivenirsi a la condanna in contumacia.

Invece il procedimento si arrestò a l’iscrizione degli imputati nell'albo dei rei assenti. Forse si volle evitare altre gravi condanne che avrebbero dato nuovo argomento a i governi stranieri ed a la stampa estera di censurare il governo di Napoli.

IV. Alcuni di questi rei assenti vennero arrestati in seguito.

Due di essi da lungo tempo latitanti, Lucio e Salvatore Magnoni di Rutino, furono tratti in arresto il 15 luglio 1852. Circa un anno dopo, il 13 giugno. 1853, la Corte speciale di Salerno pronunciando contro, essi ed il loro compagno di causa Emanuele Giordano di Lustra, condannò questo ultimo e Salvatore Magnoni a venticinque anni di ferri, Lucio a diciannove. Un R. decreto del 1° maggio 1854 ridusse la pena per i primi due a tredici anni, per il terzo a dodici. Tutti e tre andarono al bagno di Procida.

Il dottore Stefano Passero di Vallo riusci ad eludere le insistenti ricerche della polizia per ben cinque anni. Fin dal 13 maggio del 1850 pendeva contro di lui marinato di cattura! La mattina del 23 marzo 1855 il gendarme Francesco Prudente ed alcuni urbani lo sorpresero in Vallo, in un orto di Basilio Oricchio presso la chiesa di S. Pantaleo. Da le carceri del luogo passò a la Vicaria di Napoli. L’istruzione del processo rivelò la parte presa dal Passero nel moto di gennaio: restò nell’ombra quella da lui avuta nel luglio, nel quale egli aveva con una schiera di suoi conterranei raggiunto il campo di Ogliastro (293). La difesa si avvalse destramente della dichiarazione da lui fatta, nel convegno a la Pantana nei primi di luglio, che la cittadinanza vallese era ostile ad insorgere. La Gran Corte, con decisione del 18 giugno 1855, ritenne soltanto i fatti nella rivolta nel gennaio a i quali applicò la R. indulgenza del 10 febbraio 1848, e quindi dispose la libertà provvisoria per il Passero, il quale però dovette restare parecchi anni a domicilio forzoso in Salerno per ordine della polizia (294).

Un altro dei contumaci, Giovanni Aulisio, si tenne lungamente nascosto con grandissima prudenza. Stanco di una vita d’angustie e di incertezze chiese nel settembre del 1856 di presentarsi spontaneamente e vi fu ammesso. Dopo un paio di mesi di carcere, con rescritto del 25 novembre 1856, ottenne la grazia, restando però sottoposto a sorveglianza.

Più strane vicende occorsero ad Angelo Petroni di S. Cipriano Picentino, altro dei rei assenti. Prostrato da i disagi e da le ansie della latitanza si presentò di sua volontà in carcere nell’agosto del 1853: ma ben presto le privazioni e le sofferenze, che subiva, lo indussero ad un ardito tentativo di fuga: vi riusci. Arrestato novellamente, rivolse al re una domanda di grazia, raccomandata per pietà da l’arcivescovo di Salerno. Il re deliberò cosi “il Petroni resti rinchiuso, ove il voglia, per sei anni in un chiostro ed in questo caso rimanga sospeso il giudizio pendente centro di lui” (295). Questi accettò e venne rinchiuso. nel convento dei padri riformati del villaggio di Prepezzano (296). Dopo varii anni di rigorosa clausura chiese la grazia, raccomandato anche questa volta dal pio arcivescovo Il Petroni era gravemente malato di podagra, aveva perduto un occhio: il suo stato miserando ispirò compassione ed il re nel 26 luglio 1856 accolse la. dimanda (297).

V. Il prete Vincenzo Peluso, l’autore del truce assassinio di Costabile Carducci, anelava di vendicarsi contro i suoi nemici, i liberali di Sapri. Ad ispirazione del vecchio prete che, ospite nel palazzo reale di Napoli, godeva. il favore della Corte, si istruì un voluminoso processo contro centoventuno individui, accusati di aver promosso disordini in Sapri allorché erano andati in cerca del Carducci. Cominciarono gli arresti.

Finda la metà del luglio 1848 il maggiore Vincenzo Manzi, spedito con un battaglione a reprimere la rivolta nel Cilento, aveva fatta sorprendere da un drappello dei suoi la casa di Cristoforo Falcone di Policastro, uno dei più devoti amici e cooperatori del Carducci Il Falcone, probabilmente informato della visita poco gradita che lo attendeva, aveva prudentemente trascorso la notte altrove. Il Manzi rinvenne però un figlio di lui giovinetto, vivente tutt’ora, di nome Socrate e lo tenne in prigione qualche tempo nel. castello ducale di Diano, come detentore di corrispondenze criminose trovate nella casa. Le corrispondenze però riguardavano il padre del giovine, sicché dopo breve intervallo questi riebbe la libertà (298). Se non che, la sera del 7 maggio 1850, il tenente dei gendarmi Luigi Bonghi comandante la tenenza di Sala Consilina irruppe con una schiera dei suoi dipendenti nella casa del Falcone ed arrestò tanto lui che il figlio (299).

Proprio nello stesso giorno la squadriglia Vairo arrestava nella pubblica piazza di Maratea i più accesi liberali del paese, tra cui Raffaele Ginnari, fido seguace del Carducci, e Domenico Mercadante persona assai devota a la famiglia Gallotti, accorso anche egli a Sapri nel luglio. Di un altro seguace del Carducci, Pasquale Bifano di Torraca, si seppe la morte avvenuta il 10 marzo del 1849 in Basilicata.

Le più attive indagini della polizia si dirigevano contro Giovanni Gallotti ed i suoi figli, capi della parte liberale in Sapri. Molte sorprese eseguite nella loro casa in Sapri riuscirono vane essendosi essi allontanati dal paese. Gli sbirri penetrarano la sera del 6 agosto 1850 nella villa Gallotti al Fortino, sicuri, per informazioni ricevute, di afferrare ormai la preda; ma, con loro grande meraviglia, trovarono vuota Valutazione (300).

Qualche mese dopo, il 16 gennaio 1851, la polizia ebbe assicurazione che nella casa Gallotti a Sapri erano nascosti i due figli di lui Salvatore e Raffaele, anch’essi implicati nello stesso processo. I gendarmi entrarono nella villa di nòtte: Salvatore cadde nelle loro mani, Raffaele, gettandosi da una finestra molto bassa, potette prendere il largo. In quelli stessi giorni la polizia ebbe da un confidente segreto avviso che Giovanni Gallotti, si trovava, in Lagonegro in casa di un suo intimo amico, un tale Felice Arpaia. Un sergente dei gendarmi sorprese difatti colà non solo il Gallotti, ma anche il fido domestico di lui Mansueto Brandi ritenuto come “latore della corrispondenza del Gallotti con l’efferato Carducci” (301).

Compiuta l’istruzione, apparve tutta la vanità del processo, non essendo possibile gabellare come delitto la ricerca che i liberali di Sapri e dei paesi vicini avevano fatta del Carducci. Il procuratore generale della Gran Corte di Salerno, vistosi a mal partito, andò indagando qualche fatto che avesse potuto qualificarsi come delitto e lo rinvenne.

Risultava da gli atti che nei primi di luglio» Daniele Calderaro, cancelliere comunale di Sapri, (302) era partito dal paese portando seco la chiave dell’ufficio (303). Giovanni Gallotti, funzionante da sindaco, dovendo disbrigare alcune urgenti faccende comunali, aveva fatto scassinare la porta dell’ufficio ed affidate provvisoriamente, mediante verbale del 5 luglio, le funzioni di cancelliere al decurione Domenico Sello (304).

Il processo venne limitato a gli autori di questo fatto ed a coloro che avevano preso parte o favorito lo sbarco in Acquafredda quali promotori di guerra civile. La Gran Corte, con decisioni del 2 agosto 1851 e 22 marzo 1852, mandò assolti tutti coloro che erano accorsi a Sapri per liberare il Carducci, tra cui il Brandi: legittimò l’arresto e rinviò a giudizio soltanto i due Falcone; i due Gallotti, il Ginnari, ed il Mercadante. Avverso la decisione costoro ricorsero a la Corte suprema di giustizia, che il 28 giugno 1852 respinse il ricorso.

Apertosi il dibattimento innanzi la Gran Corte speciale di Salerno, difesero i Gallotti l’avvocato Gennaro Galdi, i Falcone l’avv. Francesco La Francesca, il Ginnari ed il Mercadante l’avvocato Baione. Nel collegio della difesa intervenne negli ultimi giorni della discussione l’insigne avvocato napoletano Federico Castriota. La Gran Corte speciale, con sentenza del 6 novembre 1852, condannò il Ginnari a ventiquattro anni di ferri, Giovanni Gallotti a venti, il Mercadante a diciannove, Salvatore. Gallotti e Cristofaro Falcone a' tredici. Assolse come estraneo al fatto Socrate Falcone (305). Nondimeno questi restò parecchio tempo in carcere e poi subi due anni di domicilio forzoso in Sala Consilina Il Ginnari andò a scontare la pena nel bagno di Procida e poi nel 1859, condonatagli la pena, venne mandato a domicilio forzoso in Scalea (306).

Un decreto reale del 9 marzo 1853 com. mutò la pena a Giovanni Gallotti ed a suo figlio Salvatore in dieci anni di relegazione, che espiarono a Ventatene finché con decreto del 18 dicembre 1856 ebbero la grazia sovrana. Altri due figli di Giovanni Gallotti, Raffaele ed Emanuele,dovettero risiedere due anni a Salerno. Avvenuta nel 1857 la spedizione di Sapri e la morte eli Carlo Pisacane, nel taccuino dell’estinto si trovarono scritti i nomi del Gallotti: tutti essi furono tratti novellamente in carcere il 31 ottobre 1857 (307) insieme con il loro domestico Mansueto Brandi e non riebbero definitivamente la libertà che il 18 agosto 1859 (308). Il Mercadante fu escarcerato il 15 aprile 1858: Cristofaro Falcone scontò anche egli la relegatone a Ventotene, ove mori il 1854 di colera come narrerò in seguito.

VI. Per il movimento di Castellabate nel luglio si istituì un processo separato. I fratelli Carlo e Francesco De Angelis, capi della ribellione nel loro paese, erano già stati condannati nella causa dei quarantuno, come ho riferito in questo stesso capitolo. Luigi Parenti, Antonio, Ronzio di Perdi fumo e Nicola Pepe di Castellabate, promotori anche essi della rivolta, erano già in carcere. Vi si trovavano pure alcuni individui del comune di Ortodonico accusati di delitti comuni commessi durante quei disordini.

La polizia aveva invano cercato lungamente uno dei principali autori del moto di Castellabate, il prete Pompeo De Angelis. Costui come ho raccontato precedentemente, era partito da Baia, su la nave da guerra francese “Friedland” fin dal 22 gennaio 1849 per Civitavecchia e di là aveva raggiunto Roma. Caduta la repubblica romana, il De Angelis, e gli altri fuorusciti napoletani, videro. la necessità di cambiare subito cielo. Un invincibile sentimento di nostalgia indusse l’ardito prete a tornare nel regno. Egli pellegrinò di convento in convento, travestito da monaco benedettino e con un passaporto falso sotto il nome di Mauro Casa proveniente dal monastero di Subiaco. Per i buoni uffici dell’abate Marincola (309)che aveva conosciuto nella badia di Cava e di un altro benedettino autorevole, Bernardo Niso, il falso monaco, con commendatizie di alti prelati a i priori di varii conventi, potè vivere senza molestie.

Giunto il 12 marzo 1850 nel monastero di Montecassino si proponeva di passarvi vari mesi quando ebbe avviso che la polizia aveva scoperto l’inganno e che l’intendente di Caserta aveva ordinato il suo arresto. Fuggi immediatamente in Napoli e si tenne nascosto breve tempo uscendo soltanto la sera. La polizia ne perdette le traccie; ma, affidato l’incarico di scovarlo al commissario Biagio Savastano, questi dopo lunghe e faticose indagini lo sorprese la sera dell’8 maggio 1850 nella. farmacia Cembalo a l’infrascata (ora salita Salvator Rosa) e lo. condusse nelle carceri di Salerno a disposizione della Gran Corte speciale.

Questa, dopo lunghi indugi,, con sentenza del 12 marzo 1858, condannò il Ronzio a venticinque anni di ferri, il Parenti e Pompeo De Angelis a ventiquattro, il Pepe a sette anni (310) Il Parenti ed il De Angelis, a i quali la pena fu ridotta a dodici anni, vennero condotti a Kisida il dicembre 1853; ma poco tempo dopo, per intercessione dell’abate di Cava, il De Angelis ebbe, con de, creto del 18 dicembre 1856, commutata la pena in dieci anni di relegazione a Ventotene. Ottenne la libertà con l’amnistia del 16 giugno 1859 e fu effettivamente liberato il 25 successivo.

CAPITOLO VIII (311)

Una congiura

SOMMARIO. — I. Denuncia di una congiura nell’esercito— Sequestro di una lettera criminosa — Gravi rivelazioni di un confidente — Numerosi arresti — Nomina di una Commissione segreta d’istruzione — II. Mandato di arresto contro la signora Mazziotti — Persecuzioni contro di essa e la sua famiglia — III. Confessioni del caporale Del Baglivo — Perquisizioni nel bagno di Procida — Arresto della giovinetta Leanza — Sequestro di una lettera presso Michele Pironti — Altri numerosi arresti di borghesi e di militari — IV. Tentativo di fuga del Bagli vo dal castello di Sant’Elmo — Sua caduta nei fossati del castello — V.. Risoluzioni sovrane per gli imputati militari e borghesi — VI. Applicazione della pena della bacchetta — Indegno certificato di un chirurgo militare — È sottoposto alla bacchetta anche il ferito del Baglivo — Inviò degli imputati nelle isole. — VII. Latitanza della signora Mazziotti — Risoluzione di fuggire a Genova — Artificio con cui riesce a deludere la vigilanza della polizia — Un passaporto falso — Arrivo della profuga a Genova — Sorpresa ed ire della polizia napoletana.
I. Ildue agosto 1853, in Avellino, il caporale dell’ottavo battaglione dei cacciatori, Alessandro Gisonna, confidò a i suoi superiori che un inserviente di piroscafi mercantili diffondeva nell’esercito proclami rivoluzionari e che si preparava per fino un attentato contro la vita del re. Il dì seguente il colonnello ne informò d governo, che subito dispose l’arresto di alcuni soldati indicati dal Gisonna e le più severe indagini. Queste però non approdarono a nulla: si raccolsero soltanto voci vaghe e confuse e si fini col credere il denunciante un visionario. Il colonnello prudentemente, per evitare ciarle in caserma e per temadi qualche vendetta dei liberali contro il Gisonna, lo mandò con un lungo permesso ad Angri suo paese nativo (312).

Qualche mesa dopo, quando a quel tramestio non si pensava. più, venne sequestrata una lettera del 13 novembre diretta dal caporale Fortunato Adamo dello stesso battaglione ad un tale Giuseppe Ricciardelli, con queste gravi parole: “Potete inviare qualunque lettera a i nostri fratelli, onde renderli del tutto consapevoli, e che si attivassero a dar principio a l'opera da tutti bramata. Dovete conoscere che adesso tutto dipende dai paesani a causa che in tutti i corpi del nostro esercito si è prestato un giuramento da tutti i sottufficiali e dalla maggior parte degli ufficiali che a la prima mossa, che vi sarà, volteranno le spalle a quell'assassino tiranno. il quale non troverà più le truppe come per lo passato” (313). Una larga cospirazione in tutto l’esercito, la defezione generale a la prima scintilla! Al ministero della guerra ed a la Corte nacque a tale notizia un vero subbuglio.

Da l’autore della lettera, un oscuro caporale, e dal destinatario, un modestissimo possidente che non aveva mai fatto parlare di se, si cavò ben poco. Negli atti non esistono i loro interrogatori; ma s’intravede che le indagini andavano a tentoni e non si veniva a capo di nulla. Ad un tratto un confidente, di cui non apparisce il nome, ri; velò tutta la trama. Anche questa denuncia manca nei documenti, ma di essa ci ha dato larghi ragguagli uno scrittore (314).

Si sarebbe trattato di fasci di proclami rivoluzionali del Mazzini portati segretamente da Genova a Napoli da certi Michele La Via, impiegato addetto a i piroscafi postali, e Luigi Sacco, inserviente del piroscafo il Vesuvio. Costoro consegnavano quei fasci in Napoli a la baronessa Marianna Pizzuti moglie dell’ex deputato Mazziotti condannato a morte per i fatti del 15 maggio e fuggito aGenova. Ella, a quanto si riferiva, diffondeva i proclami nell’esercito per mezzo dei caporali Antonio Baglivo di Castellabate, Francesco Mazziotti conterraneo ma non parente di suo marito, di Luigi La Sala, allievo volontario nell’ottavo battaglione cacciatori, e di un borghese, un tale Leopoldo Vitrò (315). Il Baglivo avrebbe perfino manifestato il proposito di uccidere il re in una rassegna militare!

Si avvisò immediatamente e con grande segretezza il re. Per comando di lui, il colonnello di stato maggiore Alessandro Nunziante fece arrestare e chiudere in Castel S. Elmo i caporali Adamo, Baglivo e Mazziotti, il La Sala, il Sacco, il Vitrò ed il Ricciardelli. Ogni ricerca del La Via riusci vana: forse potette riparare a l’estero. Il ministro di polizia scrisse riservatamente il 16 novembre 1853 a l’intendente del Principato Citeriore “di procedere senza indugio ed a colpo sicuro a l’arresto della signora Mazziotti, essendo risultato che essa si trovi con i suoi figlinelle proprietà del marito in quella provincia” (316).

Il re teneva grandemente a conservare nei suoi sudditi ed a l’estero il concetto dell’assoluta fedeltà e devozione dell’esercito a la sua persona. Non mancavano su di ciò in paese dubbii ed insinuazioni, diffuse specialmente da i liberali; ma il governo e la corte le smentivano con sussiego, ostentando illimitata fiducia nelle truppe. Nonostante il più geloso mistero serbato circa la grave denunzia, qualche cosa era trapelata nel pubblico e se ne parlava sommessamente, con molta compiacenza, da i liberali. Il deferire gli accusati a le corti militari avrebbe dato luogo a discussioni, a pubblicità, forse anche a gravi condanne e inevitabilmente ad un discredito dell’esercito. Lastampa liberale del Piemonte, della Francia e dell'Inghilterra avrebbe divulgato la notizia, esagerando i fatti e commentandoli a modo suo! Si credette di evitare questi pericoli nominando una Commissione segreta per investigare e proporre in linea economica (vale a dire senza alcun giudizio di magistrato) ciò che occorresse di fare.

La Commissione segreta, composta dell’alfiere Vincenzo Bruzzese, del capitanò Giacomo Umbeli e de' commissario di polizia Salvatore De Spagnolis, a accinse fervidamente a l’opera (317). Per dispostone sua la polizia praticò perquisizioni rigorose in tutti i luoghi di pena presso i condannati politici e presso molte persone sospette, ed imprigioni in Castel S. Elmo un buon numero di militar e di borghesi.

II. L’intendente del Principato Citeriore, Valia, ricevé la mattina del 17 novembre l’ordine di arrestare la signora Mazziotti. Non sapendo con precisione la dimora di essa, comunicò l’ordine contemporaneamente al commissario di polizia in Salerno, ove la signora aveva stretti congiunti, al giudice regio di Montecorvino Rovella, paese nativo di lei, e mandò un suo fido al eav. Achille Landi, sottintendente del circondario di Vallo, ove la famiglia Mazziotti possedeva alcune proprietà ed era solita villeggiare (318).

L’ordine giunse da prima al commissario di polizia di Salerno, che perquisì nello stesso giorno la casa dei fratelli Giuseppe e Vincenzo De Augustinis di Prignano Cilento, studenti ig Salerno e nipoti della signora. I due giovani, avendo compreso, da qualche parola poco prudente del commissario, chi si cercava, corsero, appenaandati via gli sbirri, da un tale Giovanni Antonio Fraiese, liberale salernitano, il quale esercitava allora l’impresa del trasporto delle corrispondenze postali nel Cilento, e lo pregarono di scapitare subito a la signora nel villaggio di Celso, ove essa allora dimorava, una lettera per avvisarla dell’imminente pericolo. Il Fraiese prese tinto a cuore l’incarico che parti egli stesso la sen e, viaggiando tutta la notte in carrozza fino a R,u tino e poi a piedi (non vi era ancora in quei luoghi strada rotabile arrivò verso L’alba del 14 novembre a Celso,e consegnò la lettera. La signora ritenne trattarsi di vane apprensioni di menti giovanili; in ogni modo, per prudenza, incaricò un fidato amico di famiglia, l’avv. Gennaro Piccirilli, di andare a Pollica per scrutare accortamente se vi fosse qualche pericolo.

Intanto il messo inviato da l’intendente a Vallo non aveva trovato il cav. Landi in residenza, essendo questi per ragioni di ufficio andato nel comune di Ascea. — Aveva quindi proseguito, a quella volta. Il sottintendente ebbe l’ordine del suo superiore la sera del 18 e scrisse senza indugio a i giudici regi di Pollica, di Castellabate e di Torchiara di procedere immediatamente a l’arresto. Questa ingiunzione arrivò nel comune di Pollica, da cui dipende il villaggio di Celso, verso il mezzodì del giorno 19 dopo il segreto avviso portato dal Fraiese.

Il Piccirilli procedeva alla volta di bollica quando vide a non molta distanza venir verso Celso il giudice regio ed una turba di gendarmi e di urbani. Ritornato prontamente su i suoi passi, avvisò la signora, che per una porticina segreta usci dalla sua casa e si nascose in un fabbricato detto palazzo di Sessa posto nello stesso villaggio ed appartenente al marito.

Il giudice regio, il quale sapeva che la Mazziotti era in Celso, fece rovistare tutta la casa, minacciò finanche di mettere fuoco ad essa, ma ricerche e minaccie riuscirono inutili. Allora cominciò una caccia feroce, specialmente nelle case dei parenti della signora. Si prese sopra tutto di mira il palazzo in S. Mango Cilento del baroneDel Giudica genero della Mazziotti. Ella difatti vi si trattenne a lungo in un nascondiglio. Il sottintendente Landi si recò personalmente a San Mango a dirigere una severa perquisizione, e quando, fremendo d’ira per l’insuccesso, riprese la via della sua residenza, lasciò alcuni gendarmi a custodia del palazzo (319).

L’intendente Valia, spronato da energiche rimostranze del governo, inveiva contro il sottintendente. al quale scrisse il 16 dicembre del 1854: “Cominci dall’arrestare tutti gl’individui, uomini e donne, padroni, servi e dipendenti della casa di Celso nella quale era la Mazziotti e donde usciva” (320). Furono subito imprigionati molti parenti di lei, tra i quali il genero barone Luigi Pel Giudice, i cognati barone Francesco Gagliardi e Rosario Salurso, la cognata Modestina Mazziotti, i suoi fattori Domenico Petillo, Vincenzo Guariglia, Giovanni Antonio Lippi e la domestica Giovanna Iovino. La polizia mandò due fratelli di lei (321) e tre cugini del marito, Ferdinando, Michele e Gabriele De Augustinis, a domicilio forzoso in Sala Consilina (322). I gendarmi perquisirono il 22 dicembre del 1853, il palazzo dei suoi affini signori De Siervo, presso Ottaiano, credendo di trovarla colà; ma non la rinvennero e per dispetto arrestarono ano dei proprietari, il signor Fedele De Siervo (323). Si tentò di carpire il segreto a un figlio di lei, fanciullo di dieci anni, e lo si obbligò a dimorare in Salerno, nondimeno egli non si lasciò sfuggire parola.

Per eludere le continue ricerche l’infelice donna. passava, accompagnata da fidi parenti, di casa in casa, per lo più nelle ore della notte, travestita da contadina. Quasi tutti nel Cilento sapevano il suo rifugio, ma niuno lo. rivelò, per quanto si fossero adoperate blandizie, promesse e minaccio.

Una sera, mentre ella era in una delle case più ospitali della contrada, presso il signor Nicola Galano di Copersito e la moglie di lui Enrichetta De Augustinis, giunsero improvvisamente da Vallo e presero alloggio nella stessa casa il sottintendente cav. Landi ed il capitano dei gendarmi De Liguoro. Essi poco dopo si posero a cenare con la famiglia dell’ospite, mentre la baronessa Mazziotti si tratteneva arditamente nella stanza contigua e stava in ascolto. Cadde il discorso, tra i commensali, su le accanite e infruttuose ricerche contro di lei, argomento increscioso per i due funzionarii, cui non erano mancate dall’alto amare parole per i ripetuti insuccessi. Il capitano dei gendarmi ad un tratto con aria di profondo mistero esclamò: “Io so ove si nasconde la signora!” A queste parole gli ospiti allibirono, il sottintendente balzò in piedi domandando ovemai ella fosse: ma il capitano, facendo segno con la mano al sottintendente di calmarsi e di sedersi, riprese in tòno di mesta rassegnazione ed in pari tempo con misterioso sussiego: “È vana ogni ricerca: ella è presso il ministro francese in Napoli Forse cosi sospettava la polizia napoletana dopo le molte perquisizioni fatte inutilmente nella capitale (324). .

Il cav. Laudi, scoraggiato ormai, scriveva da Vallo a l’intendente. il 21 dicembre 1853: “In questo momento rientro in residenza dopo un giro di dieci giorni eseguito nel Cilento, sotto dirottissima pioggia, tra frane e valloni, rischiando la vita nello scopo di rintracciare la signora Mazziotti oggetto di strepitosi impulsi di lei e del signor direttore generale di polizia. E assai malagevole seguirne i passi; poiché ognuno ha ritratto, nei paesi del Cilento, da l’emigrato suo marito non pochi benefizi come uomo assai caritatevole” (325).

Le terribili ansie di una vita randagia, la lontananza dal marito e dai figli, logoravano la salute della sventurata, esposta ogni istante a le più crudeli sorprese. Una lieve imprudenza, una denunzia improvvisa potevano perderla! Era forse meglio presentarsi spontaneamente che continuare quella vita di affanni! La famiglia di lei che aveva segrete intelligenze con un funzionario di polizia a Salerno inviò da questo con una lettera un fido parente, il sig. Mariano De Augustinis di Prignano Cilento (326), chiedendo consiglio. Si. era nel cuore dell'inverno ed il funzionario se ne stava solo e tranquillo innanzi ad un buon caminetto acceso, quando gli venne annunziato il De Augustinis, che gli presentò la lettera. Il funzionario l’apri, la scorse pallido ed ansante, quindi la gettò nel fuoco e, quando ogni brandello fu distrutto, esclamò: E voi, con una tale lettera avete osato di venir qui rischiando di mandare in rovina me, e voi stesso! Fuggite, fuggite, ed a la signora dite una cosa sola, meglio per lei la morte che l’arresto”.

III. Il caporale Del Baglivo costretto da sevizie confessò a la commissione istruttoria di avere ricevuto per mezzo di un tale Donato Nicoletta, inserviente nel bagno di Procida, premure da i detenuti politici di subornare i suoi compagni (327). Una minuta perquisizione eseguita subito, il 20 dicembre 1853, in quel bagno non diede luogo ad alcuna scoperta importante. Però la polizia seppe che due donne, Raffaella e Nicoletta Leanza, la prima moglie, e la seconda figliuola del condannato politico Luigi Leanza visitavano molto spesso il loro congiunto, e due altri reclusi ritenuti assai pericolosi, Carlo De Angelis e Luigi Parenti, entrambi di Castellabate, conterranei cioè del caporale Del Baglivo. Certo le due donne nelle loro frequenti visite si prestavano a criminose corrispondenze tra i reclusi ed i militari! Bastò questo solo sospetto per arrestare, il 20 dicembre, la giovine Nicoletta Leanza, ohe contava allora venti anni, e chiuderla nel carcere di S. Maria d’Agnone in Napoli, ove restò per ben quattro mesi, cioè fino al marzo successivo (328).

La polizia temeva specialmente, per relazioni occulte con militari, Michele Pironti, che allora espiava la pena dei ferri nel castello di Montefusco. In una perquisizione presso di lui si rinvenne un frammento di una lettera direttagli dal caporale Fortunato Adamo, proprio lo stesso autore della lettera incendiaria al Ricciardelli! (329). Sembrò che la scoperta dovesse svelare la trama in ogni suo particolare e sbrogliare l'arruffata matassa: invece non chiari nulla. Vennero tratti in prigione tutti i militari addetti a la vigilanza del bagno, su i quali poteva cadere il sospetto di aver consegnata al Pironti la lettera del D’Adamo. Alcuni di essi si trovavano di guarnigione in Sicilia, e si dovette farli venire di là e chiuderli nel forte di S. Elmo, ove erano tutti gli altri imputati della tenebrosa cospirazione.

Ilcaporale Del Baglivo dopo le confessioni fatte si sentiva perduto! L’accusa gravissima, di attentato al re, portava la pena di ritorte. Mancava la prova; ma egli aveva confessato le sue corrispondenze con detenuti politici per subornare i suoi compagni, e questo addebito bastava a mandarlo al patibolo! Ninna speranza ornai restava al misero! La fuga? La sua prigione, segnata col n. 98, era posta in alto; la piccola finestra di essa aveva grosse sbarre di ferro. Gli mancava modo di procurarsi una lima per romperle ed, anche ottenendola, vi sarebbe occorso molta fatica e non poco tempo, ed i custodi se ne sarebbero certamente accorti. E poi, anche riuscendo a limare le sbarre, e ad assicurare ad esse una corda per la discesa, v’era da buscarsi una fucilata da le sentinelle. E se la corda si fosse spezzata? Una caduta da quell’altezza sarebbe stata mortale!...

L’ardito caporale si agitava tra mille timori e vane speranze quando scopri che sotto la sua cella v'era una stanza addetta una volta a prigione e poi abbandonata. Scendendovi, egli poteva calarsi giù da la finestra mediante una corda. Con mirabile tenacia, lavorando di notte, piano per non fare strepito, e nascondendo abilmente, durante le frequenti visite dei custodi, il suo lavoro, riusci ad aprire nel pavimento un buco sufficiente per passarvi. Formò quindi con la coperta di lana del suo tettuccio e con la fodera del paglione lunghe striscie per scendere da la finestra.

La notte dell’8 febbraio 1854 fu assai oscura: una densa nebbia circondava le mura del castello. Poco prima dell’alba, quando di solito era meno intensa la vigilanza delle scolte, il Del Baglivo cominciò la discesa. La stanza sottoposta era molto bassa, si che egli potette con un salto giungervi senza pericolo. Assicurate le striscio id un ferro conficcato presso la finestra, frenando i battiti del cuore, si attaccò ad esse e si slanciò nel vuoto. Si lasciava scorrere lentamente e già si credeva salvo, quando ad un tratto la striscia si ruppe ed egli precipitò nel fossato detto del Petraio.

Al rumore della caduta una sentinella diede l’allarme, accorsero i soldati di guardia e. rinvennero il Del Baglivo senza sensi, tutto. insanguinato. Il chirurgo militare del forte riscontrò nel caporale la frattura della spalla destra e molte contusioni, e lo fece trasportare a l’ospedale militare. Ma due giorni dopo il maresciallo Bernardo Palma, da poco promosso al comando della provincia di Napoli, per tema che lo sventurato, comunque cosi malconcio, tentasse un’altra fuga, lo fece trasportare di nuovo nel forte di S. Elmo, con ordine di “tenerlo in un locale isolato, ben custodito e sorvegliato, sotto le cure del chirurgo del forte e di altri che saranno appositamente inviati da l’ospedale militare della Trinità (330)”.

Nel grosso fascicolo degli atti della Commissione istruttoria segreta manca la relazione al re su questa spinosa faccenda. Forse non si volle lasciare negli atti un documento cosi geloso e riservato, temendosi facili indiscrezioni. Vi sono però le risoluzioni sovrane comunicate, con nota del 15 marzo 1854, dal generale Nunziante al comando della piazza per i militari ed a la prefettura di polizia per i borghesi (331).

Per i militari il re ordinò: 1° la radiazione da l’esercito e l’invio dell’alfiere Giovanni Fiumara in Ali sua patria sotto rigorosa sorveglianza; 2°la massima punizione afflittiva, cioè la bacchetta (332) nell’interno del forte S. Elmo, la perdita del cingolo militare (333), e l’invio nei bagni penali, in celle isolate, dei caporali Antonio Del Baglivo, Fortunato d’Adamo, Enrico Janni, Gabriele Battaglia, e dei sergenti Vincenzo Giglio e Vincenzo Caggiano; 3° la bacchetta e la relegazione a la Pantelleria, durante il loro impegno militare, dei caporali Domenico De Feo, MarianoGianfreda, e dei soldati Giuseppe di Angelo, Domenico Laganà, Carmine Scarpa, Antonio Aurigemma; 4° il congedo e la relegazione in Ponza del sergente Giuseppe Amoroso e dei caporali Francesco Mazziotti, Nicola Rossini e dei soldati Angelo Cinquegrana, Enrico Schioppa, Nicola Mangia, Michele Campiglia, Vito Donato Pretti, Domenico Coia, Raffaele De Gregorio, e Francesco Paolo Albani; 5° il congedo definitivo per il sergente Raffaele Vignolo; 6° il congedo e la relegazione in Tremiti per il sergente Gennaro Cerella, per il caporale Luigi Granna e per i soldati Alfonso De Masellis, Antonio di Fiore, Filippo Brescia, Francesco Giaquinto, Leonardo Lanza, Francesco Leone, Francesco Giampolo, Giuseppe Panunzio Francesco di Sessa, Giuseppe Damiani Domenico Occhiati e Domenico Monzillo; 7° la liberazione di altri sei militari riconosciuti innocenti.

Por gli imputati borghesi il re dispose: la relegazione a Ponza del prete Mattia Basile, di Giuseppe Ricciardelli, P. E. Oaccavale, Gaetano Alvino, Vincenzo, Tommaso e Luigi Sacco, ed Antonio Petruccelli: nelle isole di Ustica o della Favignana, di Vincenzo Vitrò: della Pantelleria, di Donato Nicoletti: a Tremiti di Luigi Pagano, Aniello Adamo e Pietro Amodio: la sorveglianza nei rispettivi domicili per Camillo Jacovelli di Picinisco, di Costabile Grandino fu Antonio di Castellabate, di Gaetano Della Banca di Avellino, del sac. Bonaventura Falabella di Gioì: la liberazione di Nicoletta Leanza, Filippo Baratta, A. M. Cilento e Filippo Verrone (334).

La Commissione segreta, riunita novellamente in seguito ad ordine sovrano, il 17 marzo “considerato che la somma gravezza del caso esige sotto tutti i rapporti il massimo rigore” stabiliva per Del Baglivo, d’Adamo, Giglio, Jacovelli, Caggiano, Janni, Battaglia e D’Angelo la pena di dieci giri di bacchetta per cento uomini; per Laganà, De Feo, Scarpa, Gianfrida od Aurigemma cinque giri di bacchetta per cento uomini (335).

VI. La pena della bacchetta era diversa da quella delle legnate. L’art. 379 dello statuto penale militare disponeva: “Le bacchette verranno date nel modo prescritto nel regolamento per l’esecuzione delle pene militari” (336). Il De Cesare scrive: “II condannato alle legnate veniva condotto nell'atrio della caserma dove già il suo reggimento si trovava disposto in quadrato. Là era svestito, e con le sole mutande veniva steso bocconi sopra una scranna di legno. Due caporali con un sottil bastone applicavano al disgraziato cinquanta o cento battiture, secondo la condanna, marcando i colpi ad alta voce. La pena della bacchetta era anche più dolorosa. Il colpevole nudo fino ai fianchi, doveva passare e ripassare fra due file di soldati, i quali a suon di tamburo lo percuotevano sulle spalle, con sottili verghe di salice” (337).

La mattina del 20 marzo si esegui la pena della bacchetta per i militari, meno per il Del Baglivo ancora infermo. La relazione ufficiale del comandante del castello, dello stesso di, nota “che venne scelto per l’esecuzione un locale opportuno nelle fossato del forte Assistevano al vergognoso spettacolo le compagnie del battaglione dei cacciatori, cui principalmente appartenevano i colpevoli. La barbara funzione cominciata a l’alba terminò a le 11 antimeridiane, trattandosi di sottoporre a la bacchetta ben dodici persone. La relazione tace del contegno di esse. Sul viso dei loro compagni, costretti da la ferrea disciplina soldatesca a l’ingrato ufficio di aguzzini o di spettatori, si leggeva un profondo sentimento di sdegno e di repressa ribellione; ma al comandante del forte piacque, da accorto cortigiano, di riferire invece “che l’unanime spirito di avversione e di aborrimento per quei tristi si ravvisava sul volto di tutti” (338).

Per il caporale Del Baglivo era stata sospesa la pena della bacchetta in attesa del responso di un medico. Il chirurgo militare, Domenico Rossi, incaricato di visitare il Del Baglivo e di esprimere il suo parere circa la possibilità di infliggergli la pena senza esporlo a pericolo di vita, scriveva con ributtante cinismo il 19 marzo 1854: “Ho osservato il soldato Antonio Del Baglivo al quale, comunque non guarito della frattura dell'omero destro, essendovi scomposizione dei frammenti, pure la punizione della bacchetta non è assolutamente mortale” (339). Il comandante del forte, che molto probabilmente aveva fatto comprendere al medico ciò che si desiderava, si affrettò tutto soddisfatto a scrivere, il 24 marzo, al ministero della guerra: “Poiché dal certificato del chirurgo Rossi non si vieta di potersi assoggettare il Del Baglivo ad una punizione afflittiva, domani gli farò seguire la sorte degli altri” (340). Può facilmente immaginarsi quali atroci dolori dovette subire l’infelice.

La sera del 25 marzo a ora inoltrata “per scansare ogni pubblicità” i trentaquattro individui colpiti da la risoluzione sovrana vennero ammanettati e tra una folta schiera di sbirri condotti a la prefettura di polizia (341) Il Del Baglivo dopo le battiture subite non si reggeva in piedi e lo dovettero trasportare in vettura. Da la prefettura passarono a le isole loro assegnate. Narra il Brienza che nel gennaio del 1855 vide nell’ergastolo di S. Stefano i sergenti Gigli e Caggiano ed i caporali d’Adamo e Del Baglivo in una cella di rigore. Attraverso un foro del muro osservò che avevano le spalle tutte livide, ed il Del Baglivo aveva un braccio rotto ed il piede slogato (342).

La risoluzione sovrana per i militari non comprendeva il La Sala allievo volontario, perché ancora non faceva parte dei ruoli dell’esercito. Un ordine successivo del re, dello stesso mese di marzo, lo relegava a l’isola di Ponza, cancellandolo da l’elenco dei volontari come non conveniente al reale servizio. Il La Sala si trovava a Ponza il 27 giugno 1857 a l’approdo della spedizione di Carlo Pisacane, e si imbarcò sul piroscafo il Cagliari con il grado di ufficiale conferitogli da i capi della spedizione. Sfuggito a i massacri di Padula e di Sanza venne arrestato e condotto a Salerno, ove subi con i suoi compagni superstiti un lungo e clamoroso giudizio innanzi a la Gran Corte speciale. Condannato a morte con sentenza del 19 luglio 1858, ebbe commutata la pena nell’ergastolo, poi con decreto del governo costituzionale del 17 agosto 1860 in venticinque anni di ferri € da ultimo con decreto del 1° settembre successivo, sei giorni prima dell’entrata di Garibaldi in Napoli, ottenne la grazia completa (343).

Il re nel risolvere su la sorte degli imputati, aveva disposto che si adoperasse maggiore energia per Varreste della baronessa Mazziotti (344). Questa frase racchiudeva manifestamente un rimprovero per la polizia: quindi crebbero le ire degli sbirri, le ricerche e le minaccie.

La sventurata donna, nonostante la grande forza dell'animo, non resisteva ormai più a le angoscio di quell'esistenza raminga, fra continui pericoli. La crucciava profondamente il pensiero di esser causa di tante persecuzioni a i suoi congiunti. Comunque le famiglie amiche facessero a gara per darle ricovero, essa sapeva di esporle a responsabilità ed a molestie. Sopra tutto sentiva nel cuore la tenerezza dei figli lontani ed il desiderio irresistibile di rivederli. Risolse di tentare ad ogni costo, sfidando qualunque rischio, d’imbarcarsi per Genova, ove si trovavano il marito e quasi tutti i figli.

Il maggior pericolo era al passaggio del fiume Sele, su cui allora, mancando ogni ponte, si transitava mediante una grossa zattera assicurata a le due rive, detta scafa. Le carrozze, i carri, i viandanti passavano cosi da una sponda a l’altra e ripigliavano la rotabile. Per andare dal Cilento a Salerno ed a Napoli non si poteva evitare quel passaggio, e lì appunto si concentrava la più rigorosa sorveglianza della polizia la quale esigeva per ogni viaggiatore le carte dette di passaggio.

A l’alba di una bella mattina degli ultimi giorni di maggio un carretto ad un cavallo scendeva per le ripide rampe di Ogliastro, che da le colline del Cilento conducono a l’ubertosa pianura di Capaccio ed al Sele. Un vecchio guidava il carro, sul quale era seduta una giovane bionda in abito da contadina, da la carnagione bianca e delicata, da i fini lineamenti del volto. Sul carro grosse ceste contenenti frutti Il vecchio era un antico e fido domestico di casa Galano, Antonio De Feo, soprannominato Parisi: la giovine, la povera profuga tanto ingiustamente perseguitata. A l’approssimarsi del fiume, quando la via era deserta, la donna si nascose in una di quelle ceste, la cui parte superiore, chiusa da un tramezzo, conteneva frutti: la parte inferiore aveva piccole aperture per l’entrata dell’aria.

A l’arrivo al fiume due gendarmi si avvicinarono al carretto chiedendo al conduttore a chi portasse quella roba. Il Parisi con la maggiore tranquillità del mondo, anzi con una certa aria di superiorità, rispose: “Complimenti (cioè doni), per l’intendente A la magica parola l’intendente” quei bassi subordinati, con un umile inchino si trassero di fianco, esclamando enfaticamente: “Avanti!” Il carretto passò su la zattera e raggiunse la riva opposta. Ad una svoltata della strada, quando il fiume non era più in vista, la profuga usci dal nascondiglio. La attendeva in quel punto una carrozza dei signori Moscati, suoi parenti, questi la accolsero a Faiano in una loro villa: e la fecero il di seguente proseguire per un’altra loro villa a Resina, presso Napoli.

Restava un’altra grave difficoltà: rimbarco per l’estero. A lo scalo marittimo di Napoli detto la Immacolatella presso il quale ancoravano i piroscafi, la polizia esercitava una vigilanza incessante Il commissario scrutava ad uno ad uno i passeggieri e chiedeva loro il passaporto che, dopo attento esame dei connotati, vistava. Per mezzo della legazione francese a Napoli (345) la signora Mazziotti ottenne un passaporto con i suoi connotati intestato a Maria Francesca Alène “se rendant à Gènes et à Grenoble.” Ilpassaporto era vidimato dal ministero di polizia (346).

Nel pomeriggio del 4 giugno 1854 il console francese in persona accompagnava a lo scalo la giovine signora, che mostravasi disinvolta e tranquilla in quel terribile momento. Il commissario di polizia appose il visto sul foglio e la profuga sali sul piroscafo francese Hellespont in partenza per Genova. Giunta a bordo la sventurata donna, ormai sicura, ringraziò il cielo, con le lagrime a gli occhi, per il pericolo scampato e volse lo sguardo, purtroppo l’ultimo, a la terra che lasciava!

L’arrivo della profuga a Genova, in paese libero ed ospitale, fu una festa per i numerosi emigrati politici affratellati da la comune sventura e dal’affetto per la patria lontana. In gran numero accorsero, con il marito, a lo sbarco, ed in tutti i cuori, a l’apparire della giovane signora si destò una profonda commozione. Quale ora di giubilo nella grama e dolorosa vita dell’esilio!

La stampa genovese pubblicò il felice arrivo della proscritta ed aggiunse imprudentemente “sottratta, dicesi, dalla legazione francese a la polizia, che stava per arrestarla” (347) Il fatto divenne notorio nel pubblico ed il console napoletano a Genova lo riferì al suo governo che se ne dolse aspramente con il ministro francese a Napoli. Questi dichiarò di non aver rilasciato il passaporto: ma il governo risentito oppose che la legazione francese aveva richiesto a la polizia napoletana il visto al passaporto mediante una lettera di ufficio. Si rinvenne la lettera che consisteva in un modulo a stampa, con le indicazioni necessarie, ma essa era senza firma! (348). Le autorità napoletane dovettero tacere e rassegnarsi!

L’intendente Valia intanto ignaro ancora che la profuga era in salvo, incitava i suoi dipendenti per l’arresto di lei. Saputo che un nipote di essa, Mariano De Augustinis, trovavasi in Salerno, lo fece arrestare. Il padre di lui corse da l’intendente per la liberazione del figliuolo. L’intendente la prometteva a patto che il giovane rivelasse l’asilo della profuga. Il padre del De Augustinis, che sapeva questa già in Genova, assicurò che il figlio nel momento lo ignorava, ma che se ne sarebbe sollecitamente informato per rivelarlo a la polizia, purché, uscendo dal carcere, avesse potuto fare le necessarie ricerche. L’intendente aderì e lo liberò: però qualche giorno dopo la polizia di Salerno intercettò una lettera con cui la signora Mazziotti annunziava a suo genero Luigi Del Giudice il suo arrivo in Genova Il Valia indispettito mise novellamente in carcere il De Augustinis.

CAPITOLO IX

Da Nisida a Montesarchio

SOMMARIO. — I. Il Pironti, il Dono ed i loro compagni nel bagno di Nisida — Visita del Gladstone — Nobili parole del Poerio e del Pironti — Ilre ordina il trasporto di essi nel bagno di Ischia — II. Arrivo nell’isola di Ischia — Altri condannati del Salernitano nello stesso bagno — Felice Barone — Francesco Romano. — Gaetano Capozzoli — III.Trasferimento del Poerio, del Pironti e di altri nel castello di Montefusco — La galera eccezionale — Regolamento speciale di essa — Infermità contratte da i condannati — Passaggio dei condannati nel piano superiore — Il Poerio, il Dono ed altri al puntale — Grave pericolo corso dal Pironti — Le legnate al Garcea — Grave malattia del Pironti — Morte del padre di lui — Lettera del Dono a la moglie — Sublime pietà di donna — IV. Il Poerio, il Pironti, il Dono ed altri nel castello di Montesarchio — Atroci sofferenze del Pironti — Ritratto morale di lui — La vita nella galera — Varii detenuti presi da la tisi — Morte di Alfonso Zeuli e di altri condannati politici — Grave infermità del Poerio — Pietosi uffici di Cecilia Dono — Auguri dei condannati a lei — Ringraziamenti del Poerio ad essa — Morte di un fratello del Pironti — Opera benefica della Dono —Fine di lei.
I. Il Pironti, il Dono e l’Antonelli, condannati a la pena dei ferri nel giudizio della setta dell’Unità, entrarono, insieme con il Poerio, il Nisco ed altri loro compagni di causa, il 5 febbraio 1851 nel bagno di Nisida. Questo serviva allora come bagno di ricezione, dal quale i condannati, dopo breve dimora, passavano ad altri luoghi di pena. Narra il Nisco che egli ed i suoi compagni di sventura, incatenati a coppia, si trovarono in mezzo a delinquenti comuni e ad una miriade di insetti (349).

Stavano da una settimana a Nisida, quando vi penetrò segretamente Guglielmo Gladstone accompagnato da una giovinetta napoletana Pasqualina Prota, di umile origine ma nobilissima di animo, Essa andava colà a visitare due suoi fratelli condannati per le dimostrazioni liberali del 5 settembre 1849 in Napoli (350). L’eminente statista, commosso da lo stato miserando del Poerio e del Pironti, esclamò: “Io non potrò far sapere come vi ho visti; facendolo, peggiori sarebbero le vostre sorti”. Essi risposero: “Fate che l’Europa lo sappia: che le nostre condizioni siano conosciute, occupatevi non delle nostre povere persone, ma della libertà del paese” (351).

Le lettere pubblicate, dopo quella visita, dal Gladstone contro l’iniquità dei giudizi politici e le infamie dei luoghi di pena nel regno di Napoli destarono una grande impressione in tutto il mondo civile. Il re Ferdinando ne ebbe tanto sdegno che licenziò il presidente del Consiglio perché non aveva prevenuta la pubblicazione ed ordinò il trasferimento del Poerio, del Pironti, del Dono, del Nisco, di Gaetano Errichiello e di Cesare Braico, ritenuti come più pericolosi, in un luogo di pena ove non potessero avere assolutamente comunicazione con estranei ed in mezzo a gente che avrebbe saputo fare di essi la giustizia che la Corte non aveva saputo fare (352). Venne ritenuto opportuno il bagno di Ischia posto nelle sepolture di una antica chiesa cattedrale dell’isola e destinato per i galeotti e per i camorristi più pericolosi (353).

La mattina del 28 febbraio 1851 i sei condannati prescelti passarono da Nisida a quelle orribili caverne. Sopraggiunsero colà parecchi altri condannati politici, tra i quali, i fratelli Federico e Giuseppe Ametrano di Aquara, il dott. Felice Barone, il possidente Francesco Romano, Gaetano Capozzoli, Lorenzo Carnevale calzolaio di Scorzo, il notaio Luigi Cavallo e i due braccianti Carmine Magno e Felice Delli Paoli di S. Mango Cilento. “Restammo — soggiunge il Nisco — in quel bagno dormendo su giacigli distesi sul nudo basalto, a lato di ladri, assassini ed incendiarli, ma non vi fu una rissa, non un disordine. Quelli sciagurati sentivano per noi, più che rispetto, venerazione” (354).

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L’ISOLA DI ISCHIA ED IL SUO CASTELLO


Il Barone, nato in Eboli il 30 novembre 1818, era, scrive il Castromediano “un giovane medico, cui fu troncata ben presto ed inesorabilmente la carriera, d’indole dolce come i suoi biondi capelli: fu amatoda ognuno di noi, sia per la costanza e per la fermezza con cui soffriva e sia per la sua sollecitudine nell’assistere i compagni infermi” (355). Avuta notizia del mandato di cattura spedito contro di lui il 22 giugno 1850, si presentò spontaneamente in carcere il 5 febbraio 1851. La Gran Corte speciale di Salerno, ritenendolo colpevole di avere indotto molte guardie nazionali del suo paese a muovere su la capitale, lo condannò il 29 luglio successivo a diciannove anni di ferri (356). Francesco Romano di Michele, nato, parimenti. in Eboli, il 19 febbraio 1794, nei suoi anni giovanili aveva subito una breve prigionia come ascritto a la setta dei carbonari. Il Castromediano dice di lui: “Era uno di quei gentiluomini di campagna che alla buona e senza lettere, hanno dipinta sul volto l’ingenuità dell’animo e la irremovibilitànei propositi. Credeva fermamente all’onnipotenza delle sette, le quali, affermava egli, in un dato momento sono le sole che possono sgombrare la patria, massacrando i reazionari: massacri ai quali, se si fossero avverati, son certo non avrebbe preso parte, tanto era mite il cuore, religioso ed umano. Era truce solo nelle parole, parole che egli ripeteva con calore, talvolta con energia, ma nel fatto era incapace di tirare un colpo di spillo ad un insetto” (357). Arrestato il 22 giugno 1850 ebbe, con la stessa sentenza del Barone e per la stessa imputazione, eguale condanna (358). Del Capozzoli, fratello dei famosi banditi fucilati a Palinuro per la rivolta del 1828, ho già narrate in parte le vicende (359). Il Castromediano lo descrive cosi: “Era di educazione affatto sfornito e di forme fisiche assai volgari, ma di cuore eccellente e capace di azioni generose. Il suo stato finanziario era miserrimo, non avendo parenti che si ricordassero di lui: ma parco in tutto e limitato nei desideri, si accontentava volentieri del poco offertogli da noi e perciò spesso l’udii ringraziare la provvidenza” (360).

L’indignazione sollevata da le lettere del Gladstone si diffuse rapidamente per opera della stampa liberale estera, eccitata sopra tutto da gli esuli napoletani. Si chiedeva la liberazione dei condannati politici o un trattamento meno inumano. Mentre più fervevano le censure, corse voce che legni stranieri si erano avvicinati ad Ischia ed a Procida e nacque il sospetto di una sorpresa per liberare i detenuti (361). Per stornare il pericolo, il contrammiraglio Palumbo, in seguito a ordine sovrano, spedi la nave da guerra Rondine a rilevare da le due isole molti condannati politici. Il piroscafo andò prima ad Ischia, ove ne imbarcò trenta, tra i quali il Poerio, il Nisco, il Pironti, il Dono, i due fratelli Amitrano, il dottor Barone, il Capozzoli, il Carnevale ed il Romano (362); filò quindi rapidamente verso Procida.

Narra il Castromediano, allora nella galera di Procida, che la mattina del 28 febbraio 1852 egli ed i suoi compagni videro spalancarsi le porte delle loro celle ed entrare i custodi con il comite a la testa: questi agitando i berretti, gridavano, viva il re! libertà, libertà! Diciassette prigionieri, tra cui il Castromediano, lo Schiavoni, e, della provincia di Salerno, il sarto Michele Voso di Laureana Cilento, furono da la galera condotti a bordo della Rondine, che prosegui per Nisida, ove raccolse tre detenuti e quindi per la darsena di Napoli (363).

Scesi colà, vennero sospinti tutti e cinquanta in fretta e furia da una torma di gendarmi in un vecchio magazzino angusto, umido e sudicio, illuminato da una lampada fioca e fetida. Stavano pigiati senza poter sedere. La disperazione li indusse a protestare rumorosamente battendo con violenza contro le porte. Accorsero i gendarmi e, presine quindici, i più vicini a la porta, tra cui il Poerio, il Pironti, il Dono ed il Romano, li chiusero in una statla contigua, nella quale passarono parecchie ore sul suolo, digiuni e tra le esalazioni più nauseanti (364). A mezzanotte, tratti fuori, perquisiti diligentemente, sempre incatenati, salirono in carrozze chiuse. Nella carrozza insieme col Poerio stavano il Pironti, il Nisco e l’Errichiello. Una larga scorta di sbirri li condusse precipitosamente al bagno di Montefusco ove giunsero al tramonto del I(o)marzo.

Il bagno, scavato in un monte, era stato chiuso nel 1845 (365) per voto del Consiglio provinciale di Avellino in omaggio a l'umanità, quindi riaperto su proposta del Peccheneda n. el 1850 per mettervi i camorristi ed i più feroci delinquenti. “Dovemmo passare” scrive il Nisco, “attraverso una fetida cava e, per un piccolo uscio con imposte ferrate, in un antro che poggiava le sue oscure volte su grossi pilastri ed aveva le umide e grigie mura chiazzate di salnitro, le finestre munite di due massiccio inferriate e senza imposte e ad un lato il condotto lurido del sovrapposto quartiere militare” (366). La sera dovettero coricarsi sul nudo suolo. Per riguardo al Poerio i suoi compagni gli assegnarono un posto, che credettero migliore, presso un pilastro. A fianco di lui stava, stretto a la stessa catena, il Pironti. Durante la notte si udì ad un tratto uno scricchiolio e vicino a i due sventurati precipitò un ammasso di materie luride proveniente dal condotto del quartiere militare.

La galera di Montefusco era una galera eccezionale, governata da un apposito regolamento (367) che proibiva a i detenuti ogni comunicazione, anche con parenti, salvo uno speciale permesso dell’ispettore generale e l’approvazione del ministro di polizia (art. 12): permesso limitato a igiorni festivi ed a i soli parenti di primo grado. La visita doveva aver luogo nella sala d’udienza, presenti l’ispettore di polizia, il capitano di piazza, il comandante del bagno, il comite, un caporale di gendarmeria ed un caporale della guarnigione. I detenuti erano divisi da i loro visitatori mediante una doppia inferriata. Si doveva parlare a voce alta e della conversazione si redigeva verbale (articolo 4). Vietato tenere carta, penne ed inchiostro e qualunque libro, meno qualche opera di religione e di morale da approvarsi dal sovrano e da verificarsi pagina a pagina (art. 7). L’art. 9 concedeva due volte la settimana di scrivere a i parenti in una apposita sala, a la presenza degli stessi funzionari e su un solo foglio timbrato. Dello lettere si facevano tre copie da rimettersi una al ministero di polizia, un’altra al ministero dei lavori pubblici e la terza a l’intendente della provincia (art. 10).

In quell’antro i poveri condannati stettero un meje e mezzo tollerando virilmente il crudele supplizio. Il Nisco scrisse che “per l’aria scarsa e malsana, che vi si respirava, essi contrassero gravi malattie che abbreviarono loro la vita. Il Poerio soffri di affanno, il Castromediano di bronchite, il Pironti di spinite, lo Stagliano di artrite, lo Schiavoni perdette un occhio, diciassette ebbero l’ernia, il Di Gennaro smarrì la ragione” (368).

Su la fine di marzo 1852, probabilmente in seguito a le vivaci proteste della stampa liberale estera, il governo tolse i prigionieri di Montefusco da Torrido sotterraneo e li fece mettere nel piano superiore in due corsie, ciascuna delle quali aveva due camere. Nella prima corsia ne stettero venti tra i quali il Poerio, il Pironti, lo Schiavoni, il Dono, il Barone, il Nisco, il Castromediano; nella seconda gli altri trenta (369).

Un sollievo a le loro sofferenze conseguirono il 3 aprile 1853 per effetto di un decreto reale che ordinò la divisione delle coppie dei condannati, spazzando in due le catene che li univano e riducendole per ciascun individuo a sole quattro maglie (370). Si disse che l’ambasciatore di Russia, visitando il re Ferdinando in occasione della Pasqua, avesse, a nome del proprio sovrano, chiesto ed ottenuto tale concessione (371).

Nel marzo del 1853 un cacciatore di guardia asserì di avere udito una notte il Dono discorrere sommessamente con i suoi compagni e assicurarli di un’insurrezione per il mese successivo (372). Irruppero precipitosamente nelle corsie il comandante del bagno, un tale Chiappetta, ed il capitano dei cacciatori di guarnigione, certo De Curtís, il quale fece condurre il Poerio, il Nisco, il Dono, il Braico e Luigi Cavallo nella caverna sottostante e metterli al puntale (373). Ciò consisteva nel fissare la catena al pavimento od al muro della prigione in guisa che il detenuto non potesse muoversi (374). L’intendente di Avellino cav. Mirabelli, venuto a conoscenza del fatto, fece togliere i prigionieri dal puntale nonostante le proteste del capitano (375).

Il Pironti soffriva di forti dolori a la spina dorsale, che non gli permettevano di passeggiare, come i suoi compagni, qualche ora a Paria aperta nel vaglio. Un giorno l’infermo, per respirare un po’ meglio, introdusse la testa fra le traverse della finestra: il soldato di guardia accortosene sparò un colpo di fucile rasente il muro. La palla passò a due dita da la fronte del Pironti che ritraendosi vivamente indietro gridò: (a)l’ho scappata!” e si gettò nelle braccia del Castromediano che gli teneva compagnia (376).

Alcuni fra i detenuti politici, deficienti di denaro per acquistare il vitto nella taverna del bagno, vivevano con il pane e la zuppa del fisco. Tra essi Antonio Garcea, che aveva combattuto su le barricate il 15 maggio in Napoli e poi nel giugno in Calabria, e Giuseppe Cimmino, entrambi calabresi. Un giorno, che la zuppa era nauseante, come sovente accadeva, ardirono di lamentarsene con un quartigliere (377) sopranominato Centrillo. Questi denunciò le doglianze al Chiappetta che ordinò per i due temerari il puntale e cinquanta legnate per ciascuno Il medico del bagno, allegando l’età e lo stato infermiccio del Cimmino, lo salvò, ma non potette risparmiare il supplizio al Garcea. Al rumore dei colpi nella caverna sottostante i suoi compagni compresero, e si rannicchiarono su i miseri letti turandosi le orecchie per non udire il rumore. Il Garcea sopportò senza neanche un grido le battiture, ma al trentesimo colpo svenne (378).

A le sofferenze del Pironti si aggiunse la paralisi (379). Lo sventurato prigioniero era in ansie per la salute di suo padre gravemente malato. Antonietta Poerio, scrivendo nel giugno del 1853 a suo nipote Carlo, non ebbe l’animo di comunicargli la morte del padre del Pironti; ma le parole della lettera la facevano intravedere. Vincenzo Dono, che s’interessava affettuosamente di tutti i suoi compagni, in una lettera del 24 giugno 1853 a la moglie Cecilia, domandava più precise notizie affinché, ove la morte fosse avvenuta, “noi, potessimo disporre a poco a poco il povero Michele aquest'attinia sventura capace di produrgli grave e seria malattia” (380). Giunta conferma del doloroso avvenimento, tutti i condannati politici e specialmente il Dono fecero a gara per dimostrare il loro affetto e confortare l’addolorato loro compagno.

Due fratelli di lui, ottenuta faticosamente da la polizia generale facoltà di visitarlo, andarono a Montefusco. Al vedere il loro germano pallido, smunto, che male si reggeva in piedi, presi da viva commozione si slanciarono per abbracciarlo; ma i gendarmi messi a sorvegliare il colloquio, sdegnosamente impedirono loro di avvicinarsi a l’infermo e perfino di stringergli la mano. I due visitatori partirono atterriti e sgomenti per lo stato miserando del loro diletto (381). Dal comando dei bagni giunse orci in e di rispettare rigorosamente la disposizione che voleva i detenuti, nei loro colloqui con i congiunti, separati da questi mediante un doppio cancello e privi cosi anche del conforto di vedersi (382).

Queste visite tanto attese ed implorate, lungi dal lenire le sofferenze, si tramutavano in un affanno indicibile, tanto che i detenuti pregavano iloro congiunti di non venire a visitarli. Il povero Dono scriveva il 12 giugno 1854 a la moglie: “Avrei pure io piacere di vedere sempre e non solo una volta te e le nostre dilette figlie, ma non in quel modo troppo inumano e barbaro e perciò quasi incredibile, quando invece di procurarci uno scambievole ed innocente piacere, ci procureremmo gravi dolori” (383). Invano egli ed alcuni suoi compagni inviarono a l’ispettore generale dei bagni una supplica: al mite e compassionevole contrammiraglio Palumbo, ispettore generale dei rami alieni, da cui dipendevano i bagni penali, non si consenti da Volto alcuna concessione (384). Il modesto farmacista, non vinto da tante sevizie, scriveva con grande altezza di animo a la sua addolorata Cecilia: “Ti raccomando di mostrare sempre viso forte a cosi avversa fortuna, e vivi contenta di essere in questi tempi collocata nel numero degli oppressi” (385).

Intanto progrediva la paralisi del Pironti; eppure lo si teneva tuttora con la catena al piede! (386): spettacolo pietoso a i compagni che lo circondavano delle più tenere cure. Il comandante delle armi nella provincia e gli ufficiali del suo seguito non potettero in una visita al bagno, a la vista dell’infermo incatenato e cosi sofferente, frenare la commozione dell’animo (387).

In mezzo a tante brutture, a tanti dolori, splendeva sublime la pietà di una povera donna, Cecilia Dono. Appartenente a civile famiglia di Sulmona (388), aveva conosciuto in Napoli Vincenzo Dono che, innamorato della grande bontà di lei, la volle sua sposa. Essa aveva assistito e confortato le famiglie del Settembrini, del Faucitano, dell’Agresti nelle terribili ore in cui questi stettero in cappella per andare al supplizio. A lei si rivolgevano affettuosamente da la galera il Pironti ed il Poerio. Non si possono leggere, senza sentirsi commossi, le lettere con cui il Poerio le mandava i suoi abiti per rattopparli! (389). Il Castromediano scrive di lei: “Con quanta venerazione e gratitudine quel nome mi ritorna alla mente! Ben la ricordo: una donna intelligente, piena d’affetto, la quale, ridotta alla miseria, tutto sacrificava, anche i panni che dovevano decentemente coprirla, anche il cibo che stremava alla sue tenere figlie, per non far mancare nulla al marito che era in catena. Essa si faceva intendere, dal suo Vincenzo senza muovere labbro ed emettere voce, solo col muovere lieve degli occhi, con certi impercettibili gesti del corpo, che sfuggivano ad ogni sguardo di lince: S3greto speciale dei meridionali e pel quale, senza che altri se ne accorga, possono scambiarsi pensieri e speranze” (390).

IV. Tante sevizie destarono un’eco pietosa in qualche nobile anima. Per intercessione del ministro di Russia in Napoli, il re dispose il trasferimento di trenta dei detenuti di Montefusco, fra cui il Poerio, il Pironti, il Nisco, il Dono, il Barone, il Cavallo, il Voso, il Capozzoli, il Delli Paoli, il Carnevale ed il Castromediano, al bagno di Montesarchio (391). Nelle prime ore del 28 maggio 1855, tratti da quell’orrida galera, sempre con la catena e con l’aggiunta delle manette, partirono in carrozze chiuse (392).

Il Pironti, tolto da una poltrona, su la quale era rimasto inchiodato da la paralisi per ventidue mesi, venne su una barella trasportato bella spianata innanzi al castello di Montefusco e quindi, steso in una carrozza, prosegui la via (393). Il movimento della barella prima, quindi le scosse della carrozza procurarono a l’infermo acuti spasimi. Scortavano il triste corteo l’intendente della provincia cav. Mirabelli, un ispettore di polizia ed il tenente colonnello Visetti con molti ufficiali, soldati e gendarmi.

Giunti a Montesarchio verso il tramonto, vennero messi cinque per stanza, cioè quattro condannati politici ed un inserviente (394).

I custodi, stante l’ora tarda, lasciarono subito i detenuti, che dovettero passare la notte sul nudo suolo, coperti soltanto da i proprii mantelli (395). Però le camere, assai migliori di quelle di Montefusco, erano state da poco tempo imbiancate e le finestre scendevano giù fino al pavimento ed (nano munite di ferri sottili cosi che diffondevano luce ed aria più copiose (396). Poco tempo dopo il comando tolse gli inservienti ed i reclusi si trovarono costretti a pulire personalmente le stanze (397).

Anche nella nuova dimora si usavano per le visite dei congiunti le stesse restrizioni che a Montefusco. Si doveva parlare da stanze diverse, sotto una assidua vigilanza, e non era concessa neanche una stretta di mano (398). Il Dono, che pure adorava la buona e virtuosa sua moglie, le scriveva: “Ti raccomando di non venire, perché l’udienza non è come nei primi anni in Montefusoo; si parla da una stanza a l’altra ed è proibito finanche di stringersi la mano” (399).

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IL CASTELLO DI MONTESARCHIO

L’infermità del Pironti si inaspriva, tanto che il medico del bagno lo fece, il 20 giugno del 1855, trasportare in una delle due celle del secondo piano adibite ad ospedale (400). Gli fu tolta la catena, lasciandogli però la maniglia che pesava anche di più (401).

Nonostante i dolori, che lo crucciavano, il Pironti non perdeva l’indomita energia dell’animo. Nei lunghi ozii della galera e perfino nell’ospedale, allorché le sofferenze gli concedevano qualche tregua, egli studiava il tedesco avvalendosi del solo libro che possedeva in quella lingua, un volume di Hegel, e traduceva la Somma di S. Tommaso ed Omero. Mancandogli la carta per scrivere, profittava delle copertine dei fascicoli della Storia Universale del Cantù, che la famiglia gli mandava. Riferisco dal Castromediano, suo compagno di sventura, il ritratto morale del generoso e forte uomo.

“Fornito di studi sodi e severi, saldo nei principi, irremovibile nelle risoluzioni, tuttoché affranto ed annientato da malori e da patimenti, il suo sguardo aveva tale vigore da mettere in soggezione gli stessi carnefici che lo tormentavano. Povero Michele! Io lo vidi incapace di muovere un passo, solo un passo, senza l’aiuto del braccio di un amico”.

“Poi ebbe d’uopo delle grucce: ed anche cosi ridotto non lo alleggerirono della catena (402). Facilmente irritabile, scattava fulmineo, ed i suoi nervi irrequieti si scorgevano quasi formicolare sotto la pelle: allora la sua lingua penetrava come punta di lama nel cuore di chiunque lo contrariasse o molestasse. Bisognava lasciarlo sfogare, che tosto la calma il vinceva, e allora pentito gli cadeva da gli occhi una lagrima, e sulla bocca gli spuntava un sorriso, come se fidente chiedesse perdono; lagrime e sorriso sgorgati da l’anima, figli di sua ottima natura, caratteristici di coloro che senza volontà focosi, riconoscono il proprio difetto e francamente lo confessano. Cosi, senza altro, il mio amico implorava perdono, e ci abbracciava con tale effusione da farci dimenticare ogni sua asprezza. Noi lo amavamo tutti e avendo presente il suo valore, i meriti suoi, i travagli che lo affliggevano, ci credevamo felici, in tanta deficienza di sollievi, quando potevamo sottrarre alcun dolore a i suoi tristissimi giorni” (403).

I reclusi dovevano provvedere a la pulizia delle celle, e prepararsi il cibo Il Dono, in una lettera del 1° agosto 1855 a la moglie scrive: “II mattino, dopo qualche ora viene la spesa, ed il mio compagno di stanza va a prenderla a basso; quindi mi accendo il fuoco e mi preparo il pranzo, dopo ognuno di noi si fa l’acqua calda e si lava i piatti! (404). Spettacolo singolare! Uomini, appartenenti per la maggior parte a civili famiglie, che avevano esercitati i più alti uffici, con una ruvida giacca, con la granata in mano si affaticavano a spazzare le stanze, e poi a mondare patate, ad affettare il lardo, ed a cuocere un po’ di minestra!

Il compagno di stanza del Dono, Alfonso Zeuli, un giovine avvocato di Aquila, di trentaquattro anni, preso da la tisi, fu trasportato a l’ospedale del bagno ove i suoi compagni andavano pietosamente ad assisterlo. Il 21 maggio il Dono scriveva a la moglie: “Il mio amico e compagno di sventura Alfonso Zeuli è prossimo a morire di tisi” (405) e tre giorni dopo: “Lo Zeuli attende la morte rassegnatamente e con indifferenza. Nel vedermi pianse e volle baciarmi” (406). La malattia si prolungava con infinito strazio dell’infermo e dei suoi compagni. Circa un mese dopo, il 14 giugno 1856, lo trasportarono nell'ospedale di Capua (407) ove mori (408). Lo seguirono nel sepolcro a breve distanza e per lo stesso morbo Antonio Ferrara e Vincenzo Cavallo. Un altro recluso politico, Leone Tuzzo, calabrese, giovane di soli ventidue anni, cadde infermo dello stesso male. Il Poerio ed il Castromediano, mossi a pietà delle grandi sofferenze di quell’infelice angustiatoda la più squallida miseria, lo persuasero a chiedere la grazia, ed egli l’ottenne, ma dovette restare sotto la più rigorosa vigilanza (409).

Anche il Poerio era gravemente malato con forti dolori a la spina dorsale e paralisi a le gambe. Il Nisco scriveva a sua sorella Raffaella il 14 di aprile 1856: “Ilmedico del bagno mi ha detto di avere assai temuto per la vita di Carlo (Poerio) due giorni or sono” (410). Fortunatamente il pericolo si dileguò e l’infermo stesso potette scrivere a Cecilia Dono pregandola di domandare al governo il permesso di farsi visitare da alcuni medici della capitale che altra volta lo avevano curato” (411).

L’opera caritatevole dell’umile donna riuscì, con grandi sacrifici e fatiche, ad ottenere al Poerio la visita desiderata che valse a fargli superare la gravezza del male. Egli volle esprimere a la pietosa consolatrice dei suoi mali la riconoscenza dell’animo con una lettera che trascrivo:

Mia rispettabile amica,

La mia lunga convalescenza mi ha finora impedito di soddisfare un vivissimo desiderio del mio cuore, quello di tributarvi la più viva riconoscenza per l’interesse, che avete preso alla mia malattia, per la bontà colla quale avete accolto tante mie noiose preghiere e la prontezza con cui le avete eseguite. So che per le anime informate alla virtù l’adoprarsi a favore di chi soffre, è una spontanea necessità delcuore: ma ciò non toglie che chiunque non sia del tutto straniero ad ogni senso di gentilezza non abbia a soddisfare un bisogno egualmente prepotente, quello di rispondere ai benefici colla più viva gratitudine. In questa occasione fo ammenda di un’altra mia involontaria colpa, poiché la mia infermità mi ha impedito di ringraziare col più vivo del cuore la vostra egregia zia monaca che ha voluto onorarmi, in compagnia del vostro carissimo marito e del mio carissimo Pironti, col dono degli eccellenti confetti, dello zucchero e del caffè. Tanta cortesia, mentre da una parte mi mortifica, mi è dall’altra carissimo pegno della singolare bontà di questa vostra degna parente, onorando di sua benevolenza chi non ha il pregio di averle mai rassegnato il suo rispetto di persona, e solo da lungi può ammirare le sue virtù.

Vogliate presentare i miei ossequi a tutte le vostre rispettabili famiglie, come all’ottima sig.(a)Bettina (412) ed a tutti di casa sua; mentre pregandovi di voler continuare alla mia diletta zia la dolce consolazione della vostra affettuosa assistenza, mi reco ad onore di raffermarmi colla più sentita gratitudine

V° dev. servo ed amico

Carlo Poerio.

Montesarchio 3 maggio 1858.

Il peso della catena inaspriva i mali dei prigionieri. Il 21 febbraio 1857 il Dono scriveva a la moglie: “Portiamo le stesse catene che abbiamo trascinato per sei anni e più, e ben ribadite. Sei di noi sono divenuti erniosi per questo intollerabile peso, il quale, ciò nonostante, non ci è stato alleviato secondo prescrive il regolamento. Pironti fa spezzare il cuore a chiunque ha viscere umane, è inchiodato su la sedia da quattro anni con un forte attacco a la spina dorsale. È emiplegiaco e tutto paralitico e per essere sollevato gli bisognano due persone. Ogni venti o trenta ‘ giorni è attaccato da violenti convulsioni che durano ventiquattro ore e spesse volte fino a tre giorni (413). Nuoceva a i detenuti anche la lunga permanenza in celle chiuse e poco aerate. Lo stesso Dono narrava a la figlia: “Noi stiamo diciannove ore sotto chiave e per circa tre ore del mattino e due ore del giorno vengono aperti i camerini e liberamente possiamo avere contatto tra di noi negli stessi camerini o passeggiando nel vaglio cinto di altissime mura ed ivi giriamo come i muli di un centimolo” (414).

Nella primavera del 1857 il Pironti perdeva un fratello che teneramente amava. I compagni del detenuto lo assistevano con amore veramente ammirevole. Il povero infermo, rispondendo ad una lettera della signora Cecilia che cercava di confortarlo, «liceva: “Io non posso dirvi di quante cure affettuose il caro Vincenzo (Dono) ha circondato il mio dolore e con lui il bravo Carlo (Poerio) e gli altri amici” (415).

A la pietosa donna si rivolgevano fidenti i condannati per farle rammendare i loro abiti, per comunicare con i loro parenti, per consiglio ed aiuto. Ed essa sempre pronta, volenterosa, con profonda carità, con l’entusiasmo del bene, si consacrava tutta al gentile ufficio di soccorrere cosi alta sventura. Tutti erano compresi di ammirazione e di riconoscenza per lei e le esprimevano i loro sentimenti. Il Pironti, a tergo di una lettera del Dono, le scriveva: “Ossequio con somma devozione la sig. (a)Cecilia e la prego di voler gradire gli auguri, che ad occasione del nome di lei mando ad essa ed alla cara famiglia sua. Possa il buon Dio fare che questo sia l’ultimo giorno della sua festa che Ella, e coteste care ragazze passano nel dolore” (416). Anche il Poerio le inviava nella riricorrenza i suoi auguri.

I medici consigliavano urgentemente per il Pironti l’uso dei bagni termominerali; ma come ottenerli? Occorreva nientemeno un permesso sovrano! La buona Cecilia intenerita al racconto che il suo Vincenzo le faceva, delle angoscio e dei dolori del Pironti, pensò ella, umile e povera donna, a conseguire il permesso reale. Fece ella stessa in nome della madre dell’infermo una supplica al re (417) e si diede a girare instancabilmente per i ministeri, e dopo lunghi stenti ottenne il suo intento. Nell’agosto successivo il malato potette profittare, nell’ospedale del castello di Montesarchio, delle acque prescrittegli e ne trasse molto giovamento.

A la modesta donna cosi gentile e benefica mancò purtroppo il grande conforto di vedere libero il marito e i compagni di lui e compiuto il sogno perenne delle lunghe ore di affanno e di dolore. Una violenta febbre di consunzione, in breve tempo la ridusse a gli estremi Mancava di tutto, perfino del latte per sostentarsi! Volgeva l’occhio intorno a la squallida casetta, al suo misero letto, a le sue bambine che restavano ormai derelitte, ed una nube di tristezza oscurava la sua candida fronte. Eppure dopo pochi istanti di disperato abbandono il suo bel viso di martire si rasserenava e l’occhio risplendeva di vivissima luce. 0 certo in quei momenti sentiva nel cuore la grande soddisfazione di avere spesa santamente la vita ed intravedeva tempi migliori, liberi e felici il suo diletto Vincenzo ed i compagni di lui! '

La signora Mascilli assistette l’amica inferma e le prodigò le più tenere cure. La poveretta mori il 19 giugno del 1858, pochi mesi prima che il marito ed i suoi compagni uscissero per sempre da la galera. In quel giorno a la signora Antonietta Poerio giungeva improvviso un biglietto con le seguenti parole: “Cecilia Dono questa mattina è trapassata”. La buona vecchia Poerio comunicava il triste avvenimento a la signora Mascilli con questa breve lettera: “Abbiamo perduta la nostra diletta amica. Io sono fuori di ragione. Non ho un uomo che possa assistere alla spoglia mortale ed all’afflitta famiglia. Non ho il coraggio di andare più in quella casa. Mandate voi qualche persona. Rendiamo l’ultimo ufficio all’amicizia. In fretta. Il tremore non mi fa dire altro”,

L’estinta lasciò due figlie, Concetta e Filomena, l’una delle quali vive ancora. Esse restarono con la buona zia loro Caterina Dono e con un vecchio zio prete.

CAPITOLO X

Nell’ergastolo di S. Stefano

SOMMARIO. — I. L’ergastolo di S. Stefano — Trattamento dei condannati — Abito che indossavano — La razione del remo — Agevolezze loro concesse — II. I condannati politici del Salernitano — Michele Aletta — Francesco De Stefano, Filadelfo Sodano, Francesco Procenzano, Cosimo Postiglione, il farmacista Vincenzo De Robertis — III. Michele Aletta — Dialogo di lui col Settembrini — IV. La vita dell’ergastolo — Le visite dei parenti e degli amici — Costanza Leipnecher — Il barbiere Facella — Il tifo — Vittime di esso — Le risse — Un ammutinamento.

I. L’isola di S. Stefano era destinata principalmente per i condannati a la pena dell'ergasto lo cioè dei ferri a vita. Il Settembrini, che vi fa condotto il 4 febbraio 1850 con i suoi compagni di causa Felice Barilla, Salvatore Faucitano, Filippo Agresti ed Emilio Mazza e che vi rimase nove anni ha descritto minutamente l’ergastolo. E posto su la parte più alta dell’isola, e formato di tre piani, ciascuno dei quali ha trentatrò camerini, dipinti di giallo, sudici ed affumicati, della grandezza di sedici palmi quadrati.

In ogni camerino stavano confusi da otto a dieci condannati, politici e comuni (418).

L’ergastolo dipendeva dal comandante della vicina isola di Ventotene. Un vecchio regolamento del 16 giugno 1824 (419) stabiliva il modo dell'espiazione della pena. I condannati a l’ergastolo vestivano un abito di color giallo, ricevevano ogni giorno, oltre la meschina razione del vitto che si chiamava razione di remo, un assegno di cinque grana corrispondenti a centesimi ventuno. Durante il giorno potevano andare da un camerino a l’altro, ma non uscire dal piano in cui si trovavano, né passeggiare a l’aria aperta. Era concesso a i detenuti di corrispondere con i propri congiunti e di ricevere la visita di essi.

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L'ERGASTOLO DI SANTO STEFANO

I comandanti del bagno si mostravano bonari e condiscendenti e gli impiegati si prestavano volentieri, per qualche mancia, a qualsiasi favore (420). E singolare che, mentre i condannati a tempo dovevano portare la catena a coppia, i condannati a l’ergastolo non avevano catena! (421) In complesso si usava loro un trattamento meno severo.

II.Ben presto arrivarono nell’ergastolo altri condannati politici. Vi giungeva nel giugno del 1851 Michele Aletta, di cui ho precedentemente discorso, e che nonostante i suoi sessantanni (422) e le molte traversie subite, serbava ancora l’antica fierezza. Sopraggiunsero dipoi: il 21 ottobre 1852 Silvio Spaventa e Francesco De Stefano, condannati per i fatti del 15 maggio; nel successivo novembre 1852 Filadelfo Sodano di Celso condannato per l’uccisione del capourbano De Feo avvenuta nel moto di gennaio, e Francesco Procenzano di S. Cipriano Picentino. Questi, caporale dei granatieri della guardia, disertando a Portici il 28 giugno 1848, era corso ad unirsi a i ribelli del Cilento ed aveva con essi combattuto a Trentinara. Arrestato, ebbe da la Corte speciale di Salerno il 29 novembre 1852 condanna nel capo commutatagli il 2 dicembre successivo nella pena dell’ergastolo (423). Qualche mese dopo perveniva a Santo Stefano il giovane Cosimo Postiglione di Eboli di ventotto anni, condannato a diciannove anni di ferri per accusa di avere sparso il malcontento contro il governo. Venne chiamato a prestar servizio di farmacista presso l’ospedale annesso a l’ergastolo un altro giovine della provincia di Salerno, Vincenzo De Robertis di Postiglione, che trovavasi a Ventotene per espiare la pena della relegazione (424).

III. L’Aletta, pure in mezzo a le crudeli sofferenze di quell’orrida vita si mostrava sereno e fidente. Il Settembrini racconta: “C’ è tra noi un vecchietto arzillo, di sessantadue anni, il signor Michele Aletta di S. Giacomo in provincia di Salerno il quale da che venne all’ergastolo, cioè quattro anni fa, ha detto e dice sempre che egli sta qui provvisoriamente e che uscirà nel mese corrente. — Io voglio uscire, debbo uscire ed uscirò. — Non usciremo D. Michele. — Ed io vi dico che usciremo subito. — Usciremo morti. — No, vivi per Dio: mi hanno veduto nel mio paese due volte con la bandiera in mano, nel 1820 e nel 1848, mi rivedranno così la terza volta e mi diranno come dissero: costui non muore più. — Si ne usciremo dopo trenta anni. — No, dimani, oggi, più tardi può venire un vapore a prenderci. Il mondo cangia in un momento. — Noi siamo morti. — Siamo vivi, ed io vivrò sino a novanta anni: lo sento: cosi sarà. Voi non mi fate paura, none none!” E cosi vive il povero vecchio, condendo una scodella di fave, o di pasta, che egli stesso pulitamente si cuoce, con questa accesa speranza che in lui non viene mai meno, anzi più contrastata più cresce: sicché egli non pensa, ma spera. Che disgrazia è pensare!” (425).

IV. Il Settembrini in una lettera del 18 dicembre 1854 a suo fratello Giuseppe ha dipinto mirabilmente la vita sua e dei suoi compagni nell’ergastolo (426). “Nell’angolo di una stanza io scrivo con poca luce, altri sceglie lenticchie, altri accende fuoco, altri fuma, altri passeggia, altri legge, altri scuote una pignatta di fagiuoli, ed altri fa altro: e dalla finestra si ode un suono eli catene, grida di forzati che vendono cenci, che si chiamano, che rispondono, che bestemmiano: e per giunta un soavissimo odore di escrementi che ora (proprio ora che ti scrivo) uno getta in un vaso tre palmi lontano da me. Ecco la pace che ora ho” (427).

Visitavano di frequente i condannati politici, massime lo Spaventa ed il Settembrini, alcune anime generose, tra cui Cesare Corea di Catanzaro, allievo del Settembrini, Costanza Leipnecher De Cusatis sorella di Antonio Leipnecher morto durante il processo per la setta dell'Unità Italiana ed il barbiere Nicola Facella. Questi, amico sincero e fedele di molti liberali, con nobile costanza tenne fede a le sue amicizie, li visitava continuamente nelle galere e corrispondeva con quelli che erano a l’estero. Il Croce scrive così:

“Io ricordo ancora il Facella, quando si recava a far visita a lo Spaventa, allorché questi capitava in Napoli; lungo, smilzo, vestito di nero e con la tuba, sempre sorridente e compreso del sentimento della sua dignità” (428).

Il tifo serpeggiava spesso nell'ergastolo a causa dell'eccessivo agglomeramene di tanta gente e delle esalazioni pestifere che venivano d’ogni parte. Molti condannati furono attaccati dal morbo, e parecchi perirono. Accennerò solo a i condannati politici.

Prima vittima, soccombeva tristamente la sera del 14 agosto 1852 Emilio Mazza, napoletano, di quarantaquattro anni, un povero scrivano. Alcuni anni dopo, il 29 luglio 1855 lo seguiva, per lo stesso morbo, nel sepolcro un giovane di trentadue anni, condannato a sette anni di ferri, il sac. Antonio Prioli di Saracena in Calabria (429). Su la fine dello stesso anno cadeva infermo parimente Giuseppe Dardano condannato da la Gran Corte speciale di Napoli per i fatti del 15 maggio e del pari periva il 6 gennaio dell’anno seguente (430).

Un bravo giovane calabrese, il dott. Innocenzo Veneziano di Bagnara, che aveva riportata condanna di morte convertita nell'ergastolo, prestava le cure più affettuose ed assidue a i suoi compagni di sventura Il pietoso medico fu colpito anche lui dal male, e mori il 5 luglio del 1858 dopo tre soli giorni di infermità. Di lui scrive il Settembrini: “Ilpovero Veneziano medicava tutti quanti gli ergastolani, i quali lo hanno pianto e quando il suo cadavere stava nella bara, hanno accese moltissime lucerne innanzi a i loro camerini e le hanno circondate di carta per non farle spegnere” (431). A la vista dello sventurato estinto il buon Settembrini esclamava con raccapriccio e con dolore: “E il quinto dei politici che ho visto morire qui” (432). Ma purtroppo il Veneziano non fu l'ultima delle vittime. Mentre egli delirava per la violenza del tifo, un altro condannato, Francesco De Stefano di Sanza, deperiva rapidamente per febbre di consunzione e soccombè pochi di dopo del Veneziano (433).

Impolitici stavano confusi con i delinquenti comuni, i quali però si mostravano deferenti e rispettosi verso i primi, tanto che lo Spaventa sorpreso ebbe ad esclamare: “Debbo ritenere che anche nell’inferno debba esservi della buona gente” (434). Però i delinquenti comuni, tra loro, si mostravano violenti e rozzi e spesso tra essi avvenivano alterchi e risse nelle quali si avvalevano, per ferirsi, di ogni oggetto che loro capitasse nelle mani. Spesso a l’improvviso grida furiose rompevano il silenzio delle tristi ore dell’ergastolo, si accorreva da ogni parte e si vedevano i più odiosi spettacoli. Orrende bestemmie ed imprecazioni, quindi uno slanciarsi dei contendenti l’uno contro l’altro, come belve, e dopo buon tratto grida strazianti di feriti e gemiti di morenti. Il Settembrini in una lettera del maggio 1858 scriveva (435): “Ho l’animo pieno di orrore. In meno di un mese ho veduto assassinate cinque persone; primo fu un prete, ucciso da un monaco con un ferro da' stirare; poi due: ieri sera altri due”.

Il meschino vitto che si dava a i condannati era spesso cosi cattivo che essi preferivano di restare digiuni o di mangiare soltanto il pane. Ma anche questo molte volte era mal cotto o stantio e non si poteva addirittura mangiarlo. Gli sventurati se ne dolevano rispettosamente con i custodi e con il direttore del bagno, pregarono il cappellano di interporre i suoi buoni uffici: tutto fu vano. I condannati politici si rassegnavano; non cosi i comuni.

La mattina del 24 agosto 1855 il pane capitò anche peggio del solito; gli ergastolani se ne dolseroe supplicarono di averne del migliore, ma a le loro lagnanze non si dette ascolto. Allora essi ricusarono quello che a loro si era dato. I custodi tranquillamente riposero il pane nei sacchi e collocarono questi vicino a le corsie dei detenuti, in modo che ciascuno di essi, volendo, avesse potuto prenderne. Ma i sacchi rimasero intatti ed i poveri detenuti digiuni. Gli ergastolani del secondo piano non si acquietarono. La sera stessa, avendo scorto un loro compagno che scendeva al piano sottostante e che essi sapevano segreto confidente del direttore, si dettero a schiamazzare contro di lui. Al rumore, il comandante del bagno, raccolto il distaccamento armato, penetrò nelle corsie, e poiché le grida incalzavano, ordinò a i soldati, per intimorire i tumultuanti, di sparare in aria. A l’improvvisa scarica fuggirono i detenuti; ma uno di essi, un tale Saverio Iacucci, rimase ferito. Il comandante del bagno fece arrestare i più riottosi, li sottopose a più severa restrizione e promosse la convocazione della Corte marziale marittima per pronunziare sul fatto, qualificandolo come rivolta armata.

La Corte marziale si radunò il 20 dicembre dello stesso anno. Era formata dal presidente brigadiere Francesco Capecelatro, da i capitani Raffaele Gonzales, Napoleone Serugli, Giovanni Carbonellie Giuseppe Flores, assistiti da l'uomo di legge Vitaliano Del Vecchio, presidente di Gran Corte criminale. La Corte marziale, con voto unanime, dichiarò che il fatto non costituiva una rivolta, che conseguentemente non vi era luogo ad ulteriore procedimento penale, e si dovesse invece procedere in via disciplinare a norma dei regolamenti (436). Da gli atti non risulta quali disposizioni disciplinari si adottarono; forse si applicò la consueta pena della bacchetta.

CAPITOLO XI

Nel bagno di Procida

SOMMARIO. — I. Carlo De Angelis, Carlo Pavone, G. B. Riccio ed altri condannati salernitani nell’isola di Nisida — Le prime impressioni della galera — II. Trasporto di essi a Procida — Arrivo di altri loro compagni — III. La figlia di un condannato — Un poeta nella galera — IV. Un comandante mite — Triste cambiamento — Il preteso eroe di Danzica — Sue crudeltà — Le legnate a sessanta galeotti — Una lettera di Ovidio Serino — Un ammutinamento immaginario — Altre legnate — V. Cospirazioni in galera — La denunzia di un falso liberale — Arresti e perquisizioni — Nuove condanne.

I. Ho già accennato precedentemente a l'arrivo a Nisida del De Angelis, del Pavone, del Riccio e degli altri loro compagni condannati da la Gran Corte speciale di Salerno con sentenza del 22 gennaio 1852 (437). I custodi fecero radere ad essi la barba ed i capelli ed indossare la giacca rossa dei galeotti, quindi li spinsero nelle corsie loro destinate.

Il Riccio racconta cosi le prime impressioni della galera: “Entrando colà non vidi che visi torvi, ceffi sinistri e sguardi biechi, intesi soltanto tronche parole di comando: alzate il piede, dovete ferrarvi: e mi si gettò innanzi una scranna, un martello, una incudine ed una catena. Agitato da tetre considerazioni e tutto avviticchiato di catene fui finalmente menato in un sotterraneo, ove erano parecchi logori lettucci con gente sdraiatavi sopra parimente incatenata, le cui figure non potevo distinguere perché le tenebre della stanza venivano scarsamente rischiarate da una fioca luce di una lampada che moriva. Stesomi anche io sul mio lettino ed acconciatomi alla meglio con quella catena, che mi doveva essere compagna indivisibile, gettai lo sguardo intorno e non vidi che quattro mura coverte da una squallida volta. Una cupa voce mi rimbombava nell’anima e mi diceva: “Qui dovrai consumare il fiore della tua vita! D’oggi innanzi fra queste mura sarà racchiuso tutto il mondo per te!” (438).

Nei bagni penali più del regolamento valeva l’arbitrio del comandante di essi. Quando ve ne era alcuno d’animo mite si permetteva a i reclusi di stare incatenati da soli ed anche senza catena; altrimenti dovevano stare sempre incatenati a coppia, supplizio davvero crudele. In una relazione fatta da l’ispettore di polizia Mariano Durazzo, dopouna visita al bagno di Nisida, si legge: “I condannati ai ferri stavano da prima isolati, ma il 7 febbraio 1851 giunse l’ordine di porli a calzetta, cioè a due a due. Sono ferrati, ma senza ribattitura per modo che la notte vengono sbarazzati da i ferri come fui assicurato. Un’aria insultante ed un riso sardonico accompagna i loro andamenti” (439).

Il bagno di Nisida serviva ordinariamente come bagno di ricezione: quindi di solito dopo pochi giorni i condannati passavano ad altro bagno. Difatti dopo solo quattro giorni venne ordine di trasferire il De Angelis, il Pavone, il Riccio e parecchi altri al bagno di Procida (440). Il Castromediano ha scritto che Procida era “la più vasta delle galere delle provincie meridionali, la regina delle galere, la greppia più pingue dei comandanti e di quanti vi hanno mano a sorreggerlo, la cloaca massima dove naturalmente pascola quanto la società ha di più feccioso ed infame: briganti, assassini, parricidi, grassatori, ladri, falsari, ignoro in qual modo scappati a la forca” (441). L’ordine di trasferimento comprendeva anche Ovidio Scrino che come prete avrebbe dovuto restare a Nisida, Giuseppe Vitagliano, cui la pena era stata, con decreto del 21 febbraio 1852, ridotta da diciannove a tredici anni di ferri, Gennaro Giardini di Ogliastro, Pasquale Lamberti di Napoli, i germani Giuseppe, Domenico e Celestino Sabbatella, tutti condannati da la Gran Corte Speciale di Salerno nella causa dei quarantino. Andarono difatti da Nisida a Procida.

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VEDUTA DI PROCIDA E DEL SUO CASTELLO


Ivi sopraggiunsero il 22 ottobre dello stesso anno i fratelli Leanza ed i fratelli Palumbo, condannati per i fatti del 15 maggio, e successivamente nel 1854 i fratelli Lucio e Salvatore Magnoni, Emanuele Giordano di Lustra, e Giuseppe Cairone di Cicerale, che aveva avuto da la Corte speciale di Salerno il 23 maggio 1853, ventitré anni di ferri, ridotti a tredici con decreto del 1° maggio 1854. I Magnoni dopo cinque anni passarono dal bagno di Procida a quello della darsena in Napoli. Il Giordano ottenne la grazia con decreto del 18 dicembre 1856.

Andava di frequente a visitare Luigi Leanza la sua figliuola Giuseppina, giovinetta allora di sedici anni. Nel volto di lei candido e bello si scorgeva la profonda mestizia che dominava l’animo suo al triste spettacolo del vecchio padre incatenato e sofferente. Un compagno di sventura del detenuto commosso dal dolore della fanciulla, scrisse per lei il 4 ottobre 1852 nel bagno di Procida questi versi:

SONETTO(442).

Perché mesta così nella ridente

Primavera gentil della tua vita?

Perché chiusa in te stessa e sì romita

Chini la fronte quasi fior languente?

Ma l’arcano dell’alma l’eloquente

Tuo sguardo svela, e il genitor m’addita:

E tu, bel fior d’Italia, intenerita

Guati le sue catene, e vai dolente.

Schiudi il core, o divina, alla speranza,

E sul volto a fiorir torni la rosa:

Fia redenta la patria, e il dì s’avanza.

Sarà tua gloria un tanto genitore,

E vago serto a te vergine sposa

Le tue virtudi intrecceranno e amore.

IV. Comandava allora il bagno di Procida un tale Giuseppe Rasoio, secondo tenente di marina, nativo del villaggio di Cannicchio in provincia di Salerno, di famiglia liberale, d’animo buono e generoso. Egli trattava umanamente tutti i detenuti e con molti riguardi e condiscendenze i politici (443). Il De Angelis narra che il Rascio gli usò ogni cortesia e concesse a lui ed altri reclusi di civile condizione un posto nei così detti camerini, invece di farli dormire nelle grandi sale in mezzo a la ciurma, cioè a la massa dei galeotti. Inoltre fece ad essi cambiare la catena, con una assai più leggera, e permise loro di dormire senza catena (444).

Per sfortuna dei galeotti, a l’umano e gentile comandante ne successe uno dei più feroci, un tale capitano Angelo Acuti. Questi aveva da giovine preso parte come ufficiale a le guerre napoleoniche ed, a quanto egli diceva, si era segnalato per valore a Danzica, tanto che da i suoi più fidi e devoti dipendenti si faceva pomposamente chiamare l’eroe di Danzica. Escluso da l’esercito nel 1821 per sospetto di carboneria era riuscito qualche anno dopo, atteggiandosi a borbonico sfegatato, a ricuperare il suo grado. Durante la reazione del 1849, si era messo a perseguitare con grande accanimento i liberali ricorrendo a qualunque eccesso. Mandato a dirigere il bagno di Procida, scopri che la maggior parte dei condannati stava la notte senza catene: questa scoperta lo inasprì maggiormente, non tanto perché si violava il regolamento, quanto perché i poveri condannati ne avevano un grande sollievo. Chiese ed ottenne che si infliggessero le legnate a coloro che erano sorpresi senza ferri (445). Neanche questa minaccia valse a persuadere i detenuti. L’irresistibile bisogno di riposare alquanto la notte liberi da quel tormento li induceva a farsi togliere la sera la catena (446). Allora ricorse ad un mezzo crudele come nana una lettera del 25 aprile 1855 di Ovidio Serino (447).

“II 22 febbraio, mentre che mille e duecento infelici condannati uscivano pacificamente da i loro covi per respirare un po’ d’aria, il comandante del bagno ordina la chiusura dei cancelli ed afferra sessanta disgraziati, i primi che gli si presentarono, per farli servire di gradito spettacolo alla sua ferocia.

“Tutti questi sessanta, l'uno dopo l’altro, per mezza giornata continua assordavano l'aria di dolorose grida, alzandosi semispenti dallo scanno del flagello dopo avere ricevuto sulle natiche cinquanta legnate per ognuno. E il cristianissimo Angelo Acuti ebbro di gioia assisteva a quella scena che avrebbe fatto inorridire ogni uomo e destata la pietà nel petto del più disamorato dei mortali. Indarno gli si opponeva che l’età e la malsania non permettevano tanto maltrattamento, indarno vedeva lo scanno del dolore rosseggiante del sangue delle sventurate vittime! Lungi dal fare cessare tale martirio incrudeliva vieppiù, dicendo “si prepari una bara: da qui si passerà al camposanto: è ordine del re!” Ma qual fallo, quale colpa in quei sessanta martiri, fra i quali vi erano varii politici? Ti assicuro che nessuna colpa in essi Il pretesto fu quello di essersi trovata alterata la ferratura; ma tranne dieci o dodici che realmente trovaronsi con i ferri viziati, tutti gli altri avevano la bietta ben ribadita, si che i comiti ed i custodi del luogo rimanevano attoniti a tanta crudeltà, non esclusi ancora due gendarmi”.

Il burbanzoso capitano, non soddisfatto di questo atto inumano, volle in modo anche più atroce avvilire i galeotti. Le disposizioni regolamentari della galera davano facoltà a i comandanti, in caso di ammutinamento, di chiamare i soldati e di ordinare il fuoco contro la massa. La stessa lettera del Serino racconta: “II 27 febbraio verso le 5 pomeridiane l’Acuti ordina l’apertura di tutti i cancelli, richiama i custodi fuori, fa elevare il ponte e poscia incita la soldatesca di marina a dar principio al fuoco sulla ciurma, che diceva ammutinata: ma grazie alla Provvidenza l’ufficiale, che comandava la forza, era un uomo onorato. Egli si oppose a tanto empio comando, convinto della tranquillità del bagno. L’Acuti, fremente di rabbia, vedendosi sfuggito dalle mani questo delizioso spettacolo, medita nuovi piani. Intanto nel giorno seguente di buon mattino giunge qui il colonnello Flores con duecento soldati, ha un abboccamento con l’Acuti e si attiene alle costui suggestioni. Sono chiamati fuori il bagno undici individui, due camorristi e nove politici, tutti messi in nota dal cattolico comandante come capi di quel preteso ammutinamento e si consegnano ai due camorristi ed a due politici napoletani della causa del 5 settembre cento legnate per ognuno, risparmiandosi simile flagello a gli altri nostri compagni onesti e virtuosi galantuomini, per i quali si ordinò il criminale senza permettere ad essi una parola e vi stettero chiusi per dieci giorni”.

Nei documenti del tempo trovansi poche notizie su queste gesta del comandante del bagno di Procida: risulta soltanto l’ordine dato dal governo a la goletta a vapore Rondine di partire con cento uomini del reggimento di fanteria marina al comando del capitano Flores per andare a sodare un ammutinamento nel bagno di Procida. La goletta parti il 28 febbraio 1855 e ritornò in Napoli il 3 marzo “avendo espletato con pieno successo (si legge negli atti) il mandato conferìtole” (448).

La triste vita della galera, le crudeltà, le sevizie non riuscivano a domare la maggior parte dei condannati politici, anzi eccitavano nel loro animo sentimenti ribelli. “In quei tempi, scrive il De Angelis, il cospirare era divenuta una necessità!” (449). E si cospirava con incredibile audacia non ostante tutti i rigori e tutte le brutali minaccie delle legnate e del puntale!

Fin dal 1852, erano state intercettate alcune lettere sospette di due galeotti, a nome Aniello Ventra e Domenico Dell’Antoglietta, entrambi del bagno di Procida. In seguito a questa sorpresa la polizia trasferì quei due e Carlo De Angelis, indicato in una denunzia segreta come loro complice, nelle carceri giudiziare di Castelcapuano. A i primi di gennaio del 1853, dopo lunghe istruzioni che non diedero alcun risultato, un decreto del re abolì Fazione penale, ed i tre condannati tornarono al bagno di Procida (450).

Il grave pericolo corso avrebbe dovuto togliere di testa per sempre al De Angelis ogni pensiero di congiure; ma così non avvenne. Egli ed il suo compagno di galera Carlo Pavone, corrispondevano da Procida con Michele Magnoni allora detenuto nel carcere di Salerno. Le lettere erano spedite segretamente da la galera di Procida al dott. Ferdinando Vairo di Torchiara e da questo a Vincenzo De Augustinis, allora studente a Salerno, il quale le faceva pervenire al Magnoni. I custodi del bagno e delle carceri meschinamente retribuiti e quindi spronati dal bisogno si prestavano, mediante generosi compensi, a favorire tale carteggio. Scoperta una di queste lettere nel settembre del 1853, la polizia perquisì le abitazioni del Vairo e del De Augustinis e la celle dei condannati politici a Procida, ma non trovò nulla di importanza. IlVairo ed il De Augustinis vennero ciò nonostante imprigionati (451).

Assai più grave denunzia ebbe luogo nel 1855. Il fatto è narrato nelle memorie del De Angelis e nei documenti della polizia napoletana. Nel luglio del 1855 un finto liberale, un tale… rivelò al famoso commissario di polizia Giuseppe Campagna di avere ricevuto incarico da Nicola Mignogna, uno dei più arditi cospiratori del tempo, di portare a Capua un proclama rivoluzionario per diffonderlo nella guarnigione. Il traditore aggiunse che il Mignogna andava ogni sera in un piccolo caffè al vico Figurella a Montecalvario a congiurare con altri liberali, tra cui il monaco agostiniano Raffaele Ruggiero (452).

Le indagini della polizia posero in chiaro che per mezzo del Mignogna, Carlo De Angelis riceveva da Genova lettere di un suo fratello e dell’ex deputato Francesco Mazziotti (453). Dopo questa scoperta i gendarmi arrestarono in quel caffè il Mignogna e tutte le persone designate dal denunzia nte. Nella fodera del cappello e del cappotto del Mignogna si rinvennero varie lettere in cifra del De Angelis nelle quali erano nominati Aniello Ventra, Giuseppe Pace, Raffaele Mauro e Francesco Matina di Teggiano. Gli sbirri arrestarono tutti costoro, nonché la signora Antonietta Pace, che faceva pervenire corrispondenze segrete nel bagno di Procida, ed un tale Michele Viot, francese, cameriere di piroscafi postali. IlMignogna ebbe a subire nelle carceri cinquanta legnate (454).

Dopo lunga procedura la Gran Corte speciale, il 2 ottobre 1856, condannò Carlo De Angelis, il Mauro ed Aniello Ventra ad una seconda pena di dodici anni di ferri, il Mignogna a l'esilio perpetuo dal regno ed il monaco padre Raffaele Ruggero ad un anno di carcere. Il re nel 6 ottobre 1856 ordinò che il monaco espiasse la pena in un convento lontano (455). I condannati a i ferri andarono al bagno di Nisida.

CAPITOLO XII

Il colera nei bagni penali

SOMMARIO.— I. Primi casi di colera in Napoli — Diffusione di esso nelle provincie e nei bagni penali. — II. Il prete Matteo Farro — Precedenti di lui — Sue vicende dopo i moti di luglio — Sua latitanza nei boschi — L’arresto e la condanna del prete — Preso dal morbo soccombe rapidamente. — III. Un’altra vittima nel bagno di Nisida — Luigi Leanza — Appunti della figliuola di lui — La grazia ad Emanuele Leanza. — IV. L’epidemia nella galera di Montefusco — Varie vittime — I relegati di Ventatene. — V. Gli elenchi dei colpiti dal morbo nella galera di Procida — Uccisione di Francesco Antonelli.

I. Nel maggio del 1854 cominciarono a manifestarsi repentinamente in Napoli diarree, vomiti, crampi, e subite morti. Si volle da prima tenerle occulte per evitare il panico nella città in cui si ricordava con terrore la strage fatta dal colera nel 1837, ma il morbo si andò diffondendo nei mesi successivi e non si potette conservare il mistero. Dal luglio a l’agosto crebbe grandemente in guisa che il 4 agosto si verificarono ben trecento ottantuno morti. Decadde quindi di molto, ma si estese nelle provincie, meno intensamente però che nella capitale, ove si ebbero complessivamente, durante tutto il periodo dell'epidemia, da tredici a quattordicimila casi con settemila e sedici morti (456) tra i quali, il 2 agosto, il maresciallo Bernardo Palma, di cui ho discorso in un precedente capitolo.

Il morbo penetrò, mietendo numerose vittime, in quasi tutti i bagni penali. Il governo istituì nella maggiore parte di essi piccoli ospedali in cui stavano confusamente condannati politici e comuni (457). Contribuivano a diffondere il contagio nei bagni l’agglomerazione di tanta gente in locali ristretti, Varia contaminata che vi si respirava, l’acqua non buona, il vitto deficiente e non di rado malsano. Nei bagni delle provincia continentali del regno occorsero in tutto trecento novavantasette casi dei quali centoventitré seguiti da morte (458). Purtroppo non mi è riuscito finora di trovare le carte dei bagni penali dal 1848 al 1860, che non sono state mai depositate, come si t sarebbe dovuto, presso i pubblici archivi, quindi non posso dare complete notizie. Il morbo infierì nei bagni di Nisida, di Montefusco, di Procida.

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PROCIDA E IL SUO CASTELLO


II.Nel bagno di Nisida trovavasi da parecchi anni un prete originale ed ardito, Matteo Farro. Egli era nato in Bellosguardo, comune della provincia di Salerno, il 13 marzo 1779 da i coniugi Giuseppe Farro ed Isabella Marmo (459). Aveva fatti gli studi nel seminario di Diano ove ebbe a compagno un suo conterraneo, Rosario Macchiaroli, spirito intraprendente e vivace che fu poi capo della Carboneria a Salerno, deputato al Parlamento napoletano il 1820 e mori trucidato Tanno successivo da la polizia, come narrerò in altro scritto (460). Il Farro prese la messa nel 1805 e divenne partecipante della chiesa ricettizia del suo paese. Di mente svegliata e colta, di parola facile ed immaginosa era chiamato in tutti i comuni della contrada a predicare, a tessere panegirici in onore dei santi, e lo faceva molto bene; ma le sue prediche, con grande meraviglia dei bigotti, terminavano sempre con inni a la libertà ed a i martiri del 1799. Si era allora al tempo dell’occupazione francese e gli entusiasmi del giovine predicatore trovavano plauso nelle autorità locali. Venne la restaurazione del 1815 ed il Farro avrebbe dovuto cambiare metro: invece non se ne dette per inteso. Per fortuna sua il governo, allora presieduto dal marchese Medici, aveva chiuso completamente gli occhi su le agitazioni degli antichi murattisti e della setta dei carbonari, che profittò dell’indolenza governativa per ordinarsi ed estendersi nelle provincie.

Mi ha cortesemente inviato copia dell’atto di nascita ed alcune notizie il dott. Serafino Mauro di Bellosguardo, cui ne rendo vive grazie.

I Carbonari di Salerno nel 1820

Giungevano nel regno nei primi del 1819, destando una grave impressione, le notizie della rivolta di Valenza in Spagna e delle continue congiure di militari, di funzionari e di privati cittadini per ottenere la costituzione. Il prete Farro, esaltato da quelle notizie, fece le sue valigie e parti per la Spagna. Non si conoscono con precisione la data della sua partenza e le sue gesta colà: è certo però che il clero di Bellosguardo riunito al suono del campanello, come è detto in un verbale del 18 giugno 1819, considerato che il Farro da oltre due mesi aveva piantato la chiesa ed il paese, gli sospese l'assegno di partecipante (461).

Scoppiata la rivoluzione di Nola nel luglio 1820, il prete tornò frettolosamente a Napoli. Durante il periodo costituzionale dovette agitarsi abbastanza, perché la polizia lo dipinse con i più neri colori nei suoi registri. Verso il settembre del 1820, dopo un’assenza di circa due anni, arrivò a Bellosguardo, ed il clero fraternamente, gli restituì “l’assegno con gli arretrati, con la condizione però che debba indefessamente servire la chiesa per mesi otto continui” (462). Anche questa volta il Farro non adempì, ma non per colpa sua! Al principio della reazione del 1821 la polizia lo chiuse nelle carceri di Salerno e dovette restarvi parecchi anni, tanto che il clero di Bellosguardonell’8 settembre 1824 deplorava ancora l’assenza di lui (463).

Ho narrato in altro scritto (464) come il Farro nel luglio del 1848, unitosi a le bande insurrezionali del Cilento, fosse andato predicando la rivolta. Finito quel movimento, il vecchio prete, sapendosi ricercato da la polizia, si era nascosto. Il 4 settembre 1848 scriveva al suo intimo amico deputato Giosuè Sangiovanni: “Sono da quaranta giorni rintanato nel cupo di una foresta e dormo su la nuda terra in compagnia dei lupi e dei serpi” (465). Il cavalier Vairo a capo della sua feroce squadriglia, riuscì negli ultimi giorni di giugno dell’anno seguente, a sapere da una spia il ricovero del povero prete presso Corleto nella contrada Ponticelli “in un luogo disastroso e macchioso” come riferì di poi il Vairo. Questi la sera del 2 luglio con una folta schiera dei suoi satelliti, di sbirri e di urbani circondò il bosco. La luna quella sera splendeva limpida e luminosa e la forza riuscì a scovare il prete in un covile (466).

Il Farro dopo lunga prigionia fu sottoposto a giudizio. La Gran Corte speciale di Salerno, con decisione del 1°’aprile 1851, lo condannò per lefamose prediche durante i moti di luglio a ventisei anni di ferri. Si narra che, quando il presidente gli lesse la severa sentenza, il prete con la maggiore serenità gli disse: “Signor presidente, i sei anni li farò io, i restanti li farete voi”. Pochi giorni dopo lo mandarono ad espiare la pena nel bagno di Nisida.

Breve e fulminea fu la malattia del Farro. Trasportato nell’ospedale colerico si aggravò in poche ore. Non ebbe il conforto dell’assistenza di parenti o di amici perché era rigorosamente vietato a qualsiasi estraneo l’entrare negli ospedali colerici. Gli stessi infermieri per timore de] contagio trascuravano completamente i malati i quali restavano tra le orribili sofferenze nel più doloroso abbandono. L’ardito prete soccombé miseramente e fu sepolto nel camposanto di Nisida (467).

Nel dicembre 1853 erano stati trasferiti dal bagno di Procida a quello di Nisida, per sospetto di corrispondenze criminose, i due fratelli Luigi e Girolamo Palumbo, il vecchio Luigi Leanza e suo nipote Emanuele condannati, per i fatti del 15 maggio a la pena di morte commutata poi in trenta anni di ferri. Luigi Leanza che, nonostante i suoi sessantasette anni compiuti ed una bronchite cronica, serbava grande vigoria di forze venne improvvisamente preso dal colera e mori il 10agosto1854, come risulta da atto del di seguente dello stato civile del comune di Pozzuoli, da cui dipende Nisida. La morte del povero vecchio fu tanto rapida e strana che nel bagno si sospettò di un avvelenamento (468). Venne, anche esso, sepolto nel piccolo camposanto di Nisida.

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ISOLA DI PROCIDA


L’estinto lasciò quattro figli avuti dal suo matrimonio con Raffaella Marchetelli e che avevano nome Francesco, Napoleone, Giuseppina e Nicolina. In alcuni appunti della sua Giuseppina si leggono sul triste avvenimento queste brevi parole soltanto: “II mio carissimo padre è passato all’eternità da vero cristiano e martire Proprio in quei giorni, mentre la povera vedova ed i figli gemevano per tale sciagura, la polizia perquisì la loro casa e trasse di nuovo in arresto la vedova e la giovine Nicoletta, che però dopo pochi giorni riebbero la libertà (469).

La morte dello sventurato Luigi Leanza contribuì ad indurre il re a concedere al nipote di lui Emanuele, nel dicembre del 1856, la commutazione della pena, nell’esilio perpetuo dal regno (470). Uscito da la galera, alcuni mesi dopo si imbarcò per Marsiglia ove giunse il di 8 aprile del 1857 (471).

IV. Il morbo non risparmiò il bagno penale di Montefusco. Parecchi perirono: tra gli altri sei condannati politici, cioè due calabresi, Saverio Gatto possidente di Catanzaro, giovane di venticinque anni e Giuseppe Cimmino da Castiglione, il farmacista Costantino Panunzio di Molfetta, Gaetano Mellucci sarto di S. Maria Capua Vetere e Ludovico Amitrano di Aquara in provincia di Salerno (472). Morirono senza alcun soccorso; i custodi porgevano loro il cibo da lontano, attaccandolo a la punta di lunghi bastoni, per timore del contagio. I poveri morti erano portati al cimitero tra le bestemmie e le derisioni dei becchini (473).

Sembra che dal colera fosse restato immune l’ergastolo di S. Stefano. Il Settembrini nelle Ricordan z e e nell’Epistolario non accenna ad alcun caso nell’ergastolo. Il D'Ayala nella pubblicazione indicata registra per gli anni in cui durò l’epidemia colerica, due sole vittime nell’ergastolo di S. Stefano: Antonio Iannuzzi da Castellabate e padre Girolamo da Cardinale. Ignoro però se costoro fossero morti per colera o per altra malattia. Certo il colera infierì nella vicina isoletta di Ventotene tra i relegati politici, ed il comando dovette impiantare un piccolo ospedale ove soccombettero molti relegati, tra cui, della provincia di Salerno, Luigi Greco di Camerota,Vincenzo Ferro, Vincenzo Matonti e Giovanni Nigro del Cilento (474), Giovanni Marotta di Campagna, Cristoforo Falcone di Policastro (475), Giuseppe Ferrara di San Biase (476).

La galera di Procida, la più affollata di tutte, venne colpita gravemente dal morbo. Nell’ospedale appositamente istallato entrarono, fra delinquenti politici e comuni, trentasette individui e ne soccombettero quattordici (477). Nei lunghi elenchi dei condannati ammessi negli ospedali colerici non ho trovato alcun nome noto di politici] forse se ne formò un elenco a parte. Certo molti politici dovettero essere ricoverati in quell’ospedale. Vi perirono e sono sepolti nel camposanto di Procida, come risulta da gli scritti del D’Ayala (478) e da l’elenco pubblicato nel giornale l'Italia nel numero del 27 luglio del 1860, i seguenti, tutti. della provincia di Salerno, Pasquale Cantalupo da Altavilla Silentina, Giuseppe Curcio da Gorga (villaggio del comune di Stio), Raffaele De Luca da Catona, villaggio del comune di Ascea, Carmine Magno da Laureana Cilento, Carmine Tufani da Roccadaspide e Francesco Rizzo da Sacco. Altri tre condannati perivano quasi nel medesimo tempo a Procida, Francesco Pellegrino di Capaccio il 16 agosto 1854 colpito da tisi (479), Giuseppe Sabbatella da Felitto condannato da la Gran Corte speciale di Salerno nella causa dei quarantuno (480) e Francesco Antonelli da Nocera condannato nel processo della setta dell’Unità italiana. Il povero Antonelli fu ucciso in galera da un camorrista (481). L’ospedale di Procida venne chiuso definitivamente il 27 settembre 1855.

Non ho potuto purtroppo, accennando a queste morti, che fare un elenco di nomi, soltanto di nomi. Chi mai potrà narrare le estreme ore di quei miseri, che lontani dal loro paese e da tutto ciò che avevano di caro nella vita lottavano disperatamente contro la morte, tra i terrori del morbo, privi di ogni cura e di ogni assistenza! Lo spavento del contagio, la barbarie dei tempi tolsero a quelli infelici ogni soccorso, sicché nel più doloroso abbandono, tra gli strazi più acuti dovettero certo invocare sollecita la morte. Oscuri e modesti martiri (482).

CAPITOLO XIII (483)

In via per l’America

SOMMARIO. — I. L’Inghilterra e la Francia richiamano da Napoli i loro ministri — Difficoltà del governo napoletano — Si invitano i detenuti politici a domandare grazia —. Ritinto del Poerio, del Pironti, dello Spaventa e del Settembrini — IL Convenzione con la Repubblica Argentina per una colonia penitenziaria — Pratiche del governo napoletano con i condannati politici, per indurli ad accettare — Risposta del Poerio — Lettera del Pironti — Contegno del Settembrini e dello Spaventa — La stampa liberale insorge contro il trattato — Il governo argentino nega la ratifica di esso — III. Incertezze del re Ferdinando — Si redige un decreto di grazia per i non pericolosi — Risoluzione di inviare in America i condannati pericolosi — Minuta del decreto — Osservazioni del ministro di giustizia — Decisione del re — IV. La ministeriale Pionati — L esecuzione del provvedimento — Difficoltà ad ogni passo — II re approva le norme di esecuzione — V. Il ministro chiama in Napoli i giudici regi di Pozzuoli e di Montesarchio — Istruzioni segrete ad essi — Comunicazione del provvedimento a i condannati di Nisida — Fiere rimostranze dei preti — Contegno dei forzati dei bagni di Procida, di Santo Stefano e di Montesarchio — Dichiarazioni del Poerio e dei suoi compagni — Supplica del Dono — Istanza del Pironti — Lettera di questi a suo fratello — Ordini perentori del re da Foggia — VI. Delusioni del ministro degli esteri napoletano — Nuovo espediente del governo — Nomina di una Commissione reale per la esecuzione del decreto reale — Istruzioni scritte ed orali ad essa date — VII. La Commissione a Montesarchio — Le pretese acclamazioni dei condannati — Rifiuto del Pironti a la partenza — Partenza del Poerio e dei suoi compagni — Trasporto del Pironti — L’arrivo a Pozzuoli — L’addio ai parenti — Imbarco su la Stromboli — Incertezze del Pironti — Un ordine del re — Sbarco di Pironti a Nisida — VIII. Arrivo dei condannati di Nisida — La Stromboli rileva i condannati da i bagni di Procida e di S. Stefano — Pasquale Lamberti resta a l'ospedale di Procida — Inno della Commissione a la clemenza sovrana — Nobili parole del Poerio a i suoi compagni — IX. Viaggio dei deportati a Cadice — Proteste di essi — Noleggio di una nave americana — Un finto cameriere — Gra infermità del Poerio — X. Passaggio degli esiliati su la nave americana — La partenza di essa — 11 Fieramosca ritorna a Cadice — Nuove proteste degli esiliati al capitano — XI. Il finto cameriere — Raffaele Settembrini — Suoi colloqui — Nuova protesta al capitano — Pretese di questo — Suoi timori — Il capitano consente a l’approdo in Irlanda — XII. Sbarco degli esiliati a Queenstown — Festosa accoglienza della città — Colletta a favore di essi — Il Mazzini invia due suoi amici a trattare con gli esiliati — Risposta del Poerio — Partenza di essi per Londra — Dichiarazione dello Spaventa e del Settembrini — Risposta di altri esuli — Adunanza in onore dei proscritti — Loro ritorno in Italia — XIII. Il re Ferdinando riceve la notizia dello sbarco degli esiliati — Il governo chiede al capitano Prentiss la restituzione dei documenti consegnatigli — Condizioni poste dal Prentiiss — Imbarazzi del governo di Napoli.
I. Il 10 ottobre 1856 la Francia e l’Inghilterra richiamavano da Napoli i loro rappresentanti dichiarando “di non poter serbare relazioni con un governo che respingeva ogni amichevole avviso Invano le due potenze avevano ripetutamente consigliato al re Ferdinando di ristabilire, con provvide riforme e con un’amnistia dei reati politici, la tranquillità del regno. La partenza dei due ministri increbbe grandemente a la Corte napoletana, incoraggiò la parte liberale come uno splendido trionfo. Soffiavano vivamente nel fuoco i numerosi emigrati a Torino, a Genova, a Parigi ed a Londra, pubblicando opuscoli ed articoli di giornali, nei quali si dimostrava il governo di Napoli nemico di ogni civile progresso e destinato ad immancabile e sollecita fine (484).

Ferdinando II, per quanto non alieno dal concedere grazia a i condannati politici, e molte difatti ne concesse, ripugnava profondamente da una generale amnistia sembrandogli vile cedere a pressioni straniere, pericoloso a la sicurezza dello Stato. Fin dal trenta maggio aveva fattoscrivere dal suo ministro degli esteri a i governi di Francia e d’Inghilterra: “Perdonare, richiamare esuli non pentiti, porre attorno al trono, nemici condannati per misfatti di maestà, significa far trionfare la rivoluzione già vinta. Napoli e Sicilia stan chete; si turberebbero seguendo gli stranieri consigli, si insedierebbe la fellonia protetta” (485). Risoluto a non darsi per vinto, cercava però modo di liberare il regno da tanti detenuti politici.

Si pensò da prima che, se costoro si fossero indotti a domandare la grazia sovrana ed a fare atto di pentimento e di sottomissione, si sarebbe conseguito lo scopo di sgombrare le galere e di apparire clementi e generosi senza umiliarsi a i governi stranieri. A tale scopo si era cercato, per mezzo dei comandanti dei bagni, di indurre i condannati a chiedere la grazia. Si era ad arte diffusa da per tutto la voce che sarebbe bastata una domanda per ottenerla, tanto che i parenti dei condannati si affrettavano a comunicare ad essi la notizia (486).

Le miserie della galera, le malattie contagiose, le morti frequenti, le continue risse avvilivano i detenuti, parecchi dei quali, cedendo a le esortazioni dei parenti, invocarono la clemenza del re. Il Castromediano scrisse: “La disperazione di vedersi su l’orlo del sepolcro per malattie spaventose indusse taluni a domandare grazia. Questa volta però senza viltà e senza infamia. Chi vi si determinò lo fece dignitosamente e con lealtà, dopo avere domandato consiglio a quanti rimanevano fermi nel proposito di non chiedere mai grazia” (487). Del bagno di Montesarchio, sedici detenuti la domandarono, nel dicembre del 1856: fra essi il Dono, il Carnevale, il Barone, il Tuzzo e lo Sticco, ma soltanto questi due ultimi la ottennero in considerazione del loro gravissimo stato di salute (488).

Il maggior numero non volle piegarsi in alcuna guisa. Niuno cedette nel bagno di S. Stefano: ricusarono a Montesarchio il Poerio, il Pironti, il Castromediano e i condannati di maggiore autorità. Sembrava ad essi che il domandare grazia sarebbe stato riconoscere giuste le persecuzioni e le condanne subite Molti sospettavano che il governo desiderasse tali suppliche unicamente per pubblicarle e discreditarne gli autori (489). Visto l’insuccesso, il governo abbandonò del tutto queste pratiche.

II. Parve qualche tempo dopo a i ministri napoletani di aver trovato un espediente migliore: formare dei detenuti politici una colonia penitenziaria ed agricola nella repubblica argentina mediante apposita convenzione con essa. In seguito a lunghe e laboriose trattative la convenzione venne conchiusa e firmata il 13 gennaio 1857, ed il Giornale delle Due Sicilie del 22 successivo ne dette l’annunzio ufficiale. A i coloni si assegnavano terre da dissodare ed una somma a ciascuno per le prime spese. La repubblica argentina aveva posto come condizione del contratto che i condannati consentissero per iscritto ad emigrare dal regno, ed il governo di Napoli l’aveva accettata, non immaginando menomamente di incontrare difficoltà da parte di essi. A persuaderli mandò a Nisida il 23 gennaio 1857 il capitano di fregata Salazar, a Ventotene il 16 febbraio successivo il capitano d’Ambrosio, a Montesarchio il 3 maggio 1857 l’intendente della provincia cav. Mirabelli, poi nel giorno 10 dello stesso mese due facoltosi industriali inglesi dimoranti in Napoli, i signori Thurner e Guppy(490).

Da i documenti non risultano le risposte date al governo. A Ventotene tutti i relegati politici, cui si estendeva la convenzione, ricusarono (491): a Montesarchio i galeotti dichiararono di non volersi assoggettare ad una tratta di negri (492). A le premurose insistenze dei due stranieri il Poerio rispose: “Perché tanta spesa e tanto incomodo per farci morire in America o per viaggio? Lasciateci morire in galera!” (493). Il Pironti, allora gravemente infermo per paralisi, scrisse a suo fratello di avere ritenuta l’offerta soltanto come una sconcia ironia (494). A S. Stefano non andò alcuno emissario del governo: però si sapevano le premure di questo. Il Settembrini, lo Spaventa ed altri sedici loro compagni, incrollabili nel proposito di non fare alcuna domanda di grazia, erano però disposti ad accettare l’invio in America (495), tanto più che ritenevano di poter poi, giunti colà, andare dove meglio loro piacesse (496). Ricusavano invece l’Aletta, il Procenzano, il Postiglione ed il De Stefano (497). A Procida oltre una trentina di condannati politici consentirono (498). A la notizia degli accordi intervenuti con l’Argentina la stampa liberale straniera e del Piemonte, massime il Times, insorse contro di essi, dichiarandoli un’aperta illegalità, perché le leggi penali napoletane non ammettevano la deportazione. La Repubblica Argentina, dopo queste clamorose proteste, non volle ratificare il trattato, e tutto andò a monte (499).

III.Per qualche tempo non si pensò più a l’increscioso problema; ma il continuo incalzare della stampa, le sue calde invettive, le anormali condizioni in cui si trovava il regno dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia e l’Inghilterra: tutto premeva sul governo e su la Corte per costringerli a trovare una via di uscita. Non si voleva a niun patto consentire un’amnistia, ma d’altra parte non si poteva durare cosi! Ad alcuni detenuti politici, che avevano riportato condanne meno gravi, restava un breve periodo per compiere la pena e si poteva abbreviarlo anche di più mediante un atto di clemenza. Molti altri per età avanzata, per malattie, per la prostrazione d’animo in cui erano caduti, non potevano ormai più considerarsi pericolosi, quindi niun inconveniente a liberarli. Ma quali erano poi i pericolosi? Per parecchi mesi nell’autunno del 1858 gli uffici della polizia della capitale ed i procuratori del re si affaticarono ad elaborare l’elenco dei non pericolosi: e stabilitolo definitivamente si compilò un decreto con cui si riduceva loro la pena in modo che poco dopo, a grado a grado, dovessero riacquistare la libertà.

Ma come liberarsi dei detenuti pericolosi e di coloro che avevano riportata condanna a l’ergastolo od a molti anni di ferri? Si andò a l’idea di commutare ad essi la pena nell’esilio perpetuo dal regno e di trasportarli in America, internandoli in guitti da rendere loro assai malagevole il ritorno in Europa. Si poteva fare un esperimento su un buon numero di detenuti; se esso riusciva bene si sarebbe esteso a molti altri Il provvedimento doveva apparire come un atto di clemenza sovrana, essendo l’esilio pena assai più lieve dell’ergastolo e dei ferri. Offrivano propizia occasione, per queste apparenze di generosità, le prossime nozze del principe ereditario di Napoli con la principessa Maria Sofia di Baviera fissate per il primo gennaio 1859.

In base a questi concetti si formulò un secondo decreto. Con i primi due articoli si commutava a novantuno detenuti politici la pena dell’ergastolo e dei ferri nell’esilio perpetuo dal regno. L’art. 3° ed ultimo disponeva il trasporto di tutti costoro negli Stati Uniti di America. Ma il Pionati, ministro di giustizia, osservò che questa ultima disposizione toglieva al provvedimento il carattere di un atto di clemenza ed era apertamente illegale, non essendovi nelle leggi del regno la pena della deportazione. Si sarebbe quindi data nuova esca a le recriminazioni ed a le invettive contro il governo. Consigliava perciò di sopprimere dal decreto l’articolo terzo e provvedere a la destinazione dei condannati mediante un ordine ministeriale segreto. Il prudente consiglio, dato in una conferenza tenuta a Caserta il 9 dicembre 1858, piacque al re, che sottoscrisse poi, il giorno 28 successivo, il decreto con la modificazione proposta. Su tutto si tenne il massimo mistero volendosi, per colorire meglio la faccenda, pubblicarla soltanto quando la notizia della celebrazione del matrimonio fosse giunta a Napoli.

II provvedimento che prese il nome di Atto Sovrano era motivato cosi: “Essendosi la divina Provvidenza degnata versare le Celesti Benedizioni nella nostra Reale Famiglia disponendo che il nostro amatissimo Figlio Francesco Maria, Duca di Calabria, Principe ereditario si congiunga in matrimonio con Sua Altezza Reale la Principessa. Maria Sofia Amalia, Duchessa in Baveria. Volendo per così fausto avvenimento impartire i tratti della nostra sovrana clemenza a coloro che per commessa violazione a precetti di legge sono colpiti dalla corrispondente retribuzione della pena. Secondandone gli impulsi nel nostro Reale Animo. Abbiamo risoluto di sanzionare e sanzioniamo il seguente atto sovrano”.

Dei novantuno individui compresi ne ll’ Atto Sovrano tredici erano morti precedentemente (500); per parecchi altri si riconobbe che si trattava di delinquenti comuni e che erano stati compresi erroneamente nel decreto; altri finalmente, comedirò tra breve, per infermità o per concessione del governo, non partirono.

IV. IlPionati, con lettera ministeriale, ordinò a i giudici regi di Pozzuoli e di Montesarchio di comunicare il sovrano volere a gli interessati. La ministeriale proseguiva cosi: “Nel tempo stesso parteciperà loro che tra pochissimi giorni saranno rilevati dal luogo di loro attuale restrizione ed imbarcati per Cadice onde poi prendere la direzione di America. Soggiungerà che essi sono liberi di poter condurre seco loro, ove lo vogliano, qualche individuo delle rispettive famiglie o qualche congiunto, facendone, fra tre giorni improrogabili, la prevenzione a Lei con le opportune notizie relative a ciascun individuo; che Ella immediatamente mi farà conoscere. Ai condannati sprovvisti di mezzi farà sapere che saranno a ciascun di loro acccordati soccorsi in danaro ed abiti per vestirsi. Metterà la maggiore diligenza nel compimento di questo incarico e non mancherà di stendere immediatamente analogo verbale, che sottoscritto da Lei e dal cancelliere mi rimetterà con la maggiore sollecitudine” (501).

L’esecuzione del provvedimento sembrava facile a prima vista, ma non era certo tale. Il mezzo più sicuro per trasportare gente cosi pericolosa era evidentemente una nave da guerra; ma il ministro degli esteri obbiettò che l’invio di una nave da guerra in un porto estero con tanti prigionieri poteva dar luogo ad incidenti diplomatici. Imbarcarli su una nave mercantile? I condannati avrebbero potuto liberamente discendere nel primo porto di approdo! Si immaginò allora, per evitare tali inconvenienti, di avvalersi di una nave da guerra fino a Cadice e per il tratto successivo di un bastimento mercantile. Ma, durante il viaggio a Cadice, potevano ammutinarsi, e, peggio ancora, servirsi delle stesse armi del legno da guerra. Per evitare questo pericolo si ideò di imbarcarli su una corvetta da guerra, la Stromboli, togliendo da questa le armi, i cannoni, le munizioni e facendola scortare da una fregata l’Ettore Fieramosca in completo assetto da guerra. E se nel viaggio da Cadice in poi qualcuno dei deportati fosse fuggito, se si fossero ammutinati? Per scongiurare anche questo rischio si stabili di far scortare il bastimento mercantile dal Fieramosca anche per un lungo tratto nell’Oceano.

Concretate tali norme, vennero in una conferenza, tenuta il sette gennaio in Caserta, sottoposte al re che le approvò. Egli era ormai tanto infastidito di questa faccenda che, per non sentirne più parlare, prescrisse che l’esecuzione del provvedimento dovesse incominciare il giorno seguente a la sua partenza, fissata per il di 8 gennaio, per Bari, ove si recava a ricevere la sposa di suo figlio.

V. Lo stesso giorno della partenza del re il Pionati chiamò in Napoli i due giudici regi di Pozzuoli e di Montesarchio per impartire loro alcune istruzioni scritte ed altre, segretamente a voce (502), che è facile immaginare. Il governo teneva molto a far apparire il provvedimento come un atto di clemenza: tale era difatti la commutazione delle pene dell’ergastolo e dei ferri nell’esilio: ma la deportazione costituiva un grave arbitrio. Per evitare altre rimostranze di Stati stranieri e nuove offese della stampa non vi era che un modo solo: bisognava ad ogni costo che gli stessi esiliati si mostrassero lieti dell’atto sovrano: quindi l’istruzione segreta a i due giudici di usare blandizie verso i detenuti, di magnificare la generosità del re e trarli a tali manifestazioni di gratitudine da chiudere la bocca a la stampa liberale.

Il giudice regio di Pozzuoli Ferdinando Pionati, nipote del ministro, andò la mattina del 9, dopo avere ricevuto il fervorino dello zio, al bagno di Nisida. Ilare e sorridente come chi abbia a comunicare la più bella notizia, si recò da prima nel riparto nel quale stavano i preti Emilio Maffei, Felice Barilla, Giuseppe Del Drago, Ferdinando Bianchi, Ovidio Serino, Francesco Sur ace ed il monaco Angelo Raffaele Piccolo. Ivi, in presenza del comandante del bagno e del personale di custodia, lesse con enfasi il decreto, poi correntemente ed in modo sommesso la ministeriale: quindi inneggiando a la generosità sovrana si congratulò con i detenuti. Si aspettava, dopo tutta questa scena, un’esplosione di gioia: ma restò deluso!

In una relazione del 12 gennaio 1859 al ministro, il giudice descrive cosi il magro effetto ottenuto: “Primo ad insorgere con parole non moderate, quasiché la grazia loro partecipata sentisse di aumento di pena, fu il sacerdote Maffei, cui fece eco con virulenza anche maggiore il sac. Surace, limitandosi gli altri preti ad accennare con parole interrotte o con gesti la loro annuenza ai detti di quei due. Anzi il Maffei aggiunse una protesta scritta. Il prete Ovidio Senno sofferente di emottisi e nella più squallida miseria consegnò al giudice una supplica con cui chiedeva al ministro di giustizia una destinazione meno lontana. Tutti quei preti domandarono poi di avere da i rispettivi vescovi il pastor bonus per celebrare la messa ed in tal modo guadagnare qualche cosa per trarre innanzi la vita”.

Le fiere e vivaci proteste dei preti turbarono a tal segno il ministro di polizia, che questi domandava premurosamente al suo collega della giustizia come regolarsi “se i preti di Nisida si fossero messi in una condizione da richiedere una coazione personale per tradurli a bordo”. L’idea di porre le mani addosso a gli arditi reverendi destava gli scrupoli anche del timorato ministro di polizia!

Sbrigatosi dei preti, il giudice fece con eguale apparato le stesse comunicazioni a gli altri condannati politici di Nisida compresi nel decreto, cioè Aniello Ventra, Gaetano Mascolo, Giustino Faivano, Carlo De Angelis, Luigi Parenti, Angelo Salza, Achille Argentino, Nicola Schiavone,

Domenico Dell'Antoglietta, Angelo Pellegrino, Pietro Marrelli, Achille Grilli, Raffaele Mauro, Giuseppe Pace, Domenico Damis, Luigi Praico, Gregorio Filace, Antonio Nicolo. “Illoro contegno” scrisse di poi il giudice “fu esemplare, poiché o tacquero o espressero sentimenti di gratitudine verso il clementissimo sovrano” (503).

In quei giorni il mare era assai agitato, ed il giudice regio andò in Napoli per chiedere il rinvio, a breve termine, della sua missione a Procida ed a S. Stefano; ma con sua sorpresa ebbe ordine di andarvi a qualunque costo la mattina seguente, dieci gennaio (504), sul piroscafo Rondine, posto a sua disposizione. Approdò proprio a stento a Procida. Raccolti nella sala di udienza del bagno i detenuti politici indicati nel decreto, vale a dire i due fratelli Palumbo, Giuseppe Pessolano, il Riccio, Emilio Petruccelli, Pasquale Lamberti, Carlo Pavone, Raffaele Crispino, Raffaele Ruocco, Domenico Pezzella, Giuseppe Abbagnano, Antonio Esposito, Pasquale Montano, Stanislao Lamenza, Rocco Gerace, Giuseppe Tripepi e Vincenzo Cuzzocrea, comunicò l’atto sovrano e la ministeriale. L’accoglienza, sebbene non ostile come quella dei preti, non dovette però essere entusiastica. Il giudice, nel riferire a i suoi superiori, scrisse laconicamente: “Ebbi a lodarmi del contegno dei condannati. Alcuni di essi sono in non buone condizioni di salute, però in grado di partire: il Lamberti potrà essere imbarcato assiso sopra una sedia” (505).

Restava al giudice Pionati un’ultima tappa: il bagno di S. Stefano. Vi andò la mattina dell’11e fece la comunicazione prescritta a sedici condannati politici inclusi nel decreto, cioè: Spaventa, Faucitano, Settembrini, Aletta, Procenzano, Sodano, Porcaro, Agresti, Ignazio Mazzeo, Tommaso Notaro, Rocco Morgante, Filippo Falconii, Camillo De Girolamo, Michelangiolo Colafiore, Francesco De Simone e Francesco Bellantonio. La relazione del giudice regio tace completamente circa il contegno di essi (506). L’Aletta consegnò al magistrato una supplica nella quale, adducendo la sua grave età, la mancanza di mezzi e la necessità di assistere due figlie nubili, chiedeva grazia completa.

Narra il Castromediano che verso l’una pomeridiana del 9 gennaio egli, il Poerio, il Nisco, il Pica, il Braico, il Dono, il Mollica ed il Palermo udirono un gran frastuono, poi un vocio confuso, da ultimo chiaramente il grido: libertà, libertà! (507)

Disillusi dal passato, avendo altre volte inteso nella galera quelle grida, sentirono aprire le porte della loro corsia. Ad invito dei custodi scesero nella sala di scrittura, ove trovarono il giudice regio di Montesarchio Vincenzo Berlingieri, il suo cancelliere, Morelli, i comandanti del bagno e della guarnigione, e l’ispettore di polizia. Il giudice lesse a capo scoperto e con grande sicumera di ostentata devozione i due provvedimenti.

Il verbale redatto dal giudice e la lettera del nove gennaio, con cui egli lo trasmise al ministro, tacciono del contegno dei condannati. Forse preferì riferirne a voce. Il Castromediano dice “terminata la lettura il giudice e quanti lo circondavano si misero a gridare a più non posso: “Viva il re! Viva la sovrana cleme nz a! Le volte ne rintronarono e l’eco si ripeté lontano fuori del carcere. Noi intanto tacemmo, chinando gli occhi a terra, fremendo in cuor nostro e ripetendo sottovoce “Ancora con il mentito nome di grazia si vilipende la legge! Ancora sotto finzione di liberarci proseguono ad opprimerci!” (508).

Il Poerio, il Castromediano ed il Dono dichiararono concordemente che accettavano la commutazione della pena nell’esilio, ma non la disposizione ministeriale, poiché essa limitava il provvedimento sovrano ed era contraria a le leggi penali del regno (509). Il Dono diede al giudice, per il ministro, una pietosa supplica, in cui diceva: “Le fo noto che io ho due figlie orfane per aver perduto la loro madre sono pochi mesi, l’una di anni tredici, Concetta, e l’altra di anni dieci, Filomena, senza altra guida che di una zia accidentata e di un prozio nonagenario e rimbambito, che lungi di poterle soccorrere ha bisogno di soccorso”. Chiedeva quindi di essere condotto fuori regno, ma non in America, ed un modesto assegno per vivere.

Al Pironti, malato, vennero letti nell’infermeria gli ordini sovrani. Presentò al giudice un’istanza per il ministro nella quale diceva: “L’esponente deve credere che tanto la Maestà Sua quanto Ella ignorino quale sia il suo stato, perché sarebbe mancare del debito rispetto verso la Maestà Sua o verso di Lei il supporre da esse destinato all’esilio un uomo, che da sei anni giace emiplegiaco e che da quattro è chiuso nell’ospedale di questo luogo di pena, ove per impotenza gli è stata alleviata la catena per sovrana disposizione e dove dopo tante cure appena può muovere il passo sostenuto dalle grucce”. Chiedeva di essere condotto nell’ospedale della prigione di S. Francesco od in altro “per essere ivi curato ed ivi aspettare che a Dio ed alla Maestà Sua piaccia altrimenti disporre della sua caduca e misera esistenza Nel trasmettere questa supplica il giudice regio riconosceva che il Pironti era “cronicamente infermo con paralisi e talmente affetto negli arti inferiori d’aver d’uopo delle gruccie per muoversi” (510).

Lo stesso di l’infermo, comunicata a suo fratello Luigi in Montoro l’ingiunzione ricevuta, soggiungeva: “Noi abbiamo protestato ed, accettando la grazia sovrana, abbiamo opposta la risoluzione ministeriale come quella che è contro ed oltre il decreto, contro ed oltre la legge. Ora non sappiamo che sarà di noi. Di me poi sallo Iddio; questa misura, se si esegue sul mio conto, contiene un decreto di morte. Sai poi che sono senza mezzi affatto e quasi nudo anche per uscire di qui, onde senza indugio raccogli qualche somma e vieni per la via di Napoli e fa capo alla casa di Vincenzo Dono. Alla mia dolce mamma fa animo in mio nome ed anche alle povere sorelle Rosina, Mariannina, Filomena; di’ loro che confidino in Dio che finora mi ha aiutato e siano d’animo saldo come si conviene a sorelle ed a madre mia” (511).

Le proteste del Poerio e dei suoi compagni scossero il ministro che, chiamato in Napoli l’intendente Mirabelli per consultarlo, credette necessario interpellare il re, allora a Foggia, e gli inviò a bella posta un ispettore di polizia. Il re, annoiato di sentire ancora parlare di si molesto argomento, con piglio brusco e reciso rispose: “Che partano, imbarcateli a qualunque costo” (512).

VI Il Carafa, ministro degli esteri, aveva dato notizia al corpo diplomatico del provvedimento sovrano, esaltandolo come un atto di sconfinata clemenza. I ministri esteri lo credettero o finsero di crederlo; si che il Carafa, mostrandosi pienamente soddisfatto del loro atteggiamento a quell’annunzio, scriveva al re “tutti i diplomatici stranieri hanno fatto plauso a la generosità del sovrano” (513).

Ma il pubblico non si illuse, e la stampa estera liberale riprese più che mai ad inveire contro la Corte napoletana mettendo in rilievo l'illegalità del provvedimento. Il governo stesso si avvide dell’insuccesso, tanto che in un promemoria burocratico di quei giorni si legge: “Lo spirito di parte si industria di non far comprendere tutto il valore di questo tratto sublime della sovrana clemenza; si vuole falsare le menti e far credere che non si fosse dal re nostro signore conceduto in commutazione una semplice pena di esilio perpetuo, ma piuttosto una deportazione nei più remoti ed inospiti luoghi di America. Era quindi necessario ridurre le cose al vero punto di vista, rialzare la pubblica opinione e disorpellare la verità da ogni fallacia”.

Ma con quale mezzo? Per quanto si aguzzasse la mente non se ne ravvisava che un solo, certo non facile, ma infallibile nei suoi effetti: quello cioè di procurare, da parte degli stessi condannati, una manifestazione solenne di soddisfazione della loro nuova sorte. Chi avrebbe mai potuto smentirli? Sarebbe cosi finita la gazzarra dei giornali avversi. In qual modo compiere questo miracolo di far apparire, a gente stremata nelle forze da tanti anni di galera, come un grande beneficio la deportazione in sì lontano paese?

Si pensò di formare una Commissione la quale, con l’apparente incarico di regolare l’invio in America, avesse quell’occulto mandato. Essa venne costituita dal colonnello dei gendarmi Francesco Dupuv, il commissario di polizia Giuseppe Salvati, e l’ufficiale di marina Eugenio Rodríguez (514). A costoro furono date, dice il promemoria accennato, “le analoghe istruzioni scritte ed orali per disingannare gli animi e fare apprezzare compiutamente la regia magnanimità”. Le istruzioni orali consistevano nell’usare a gli esiliati tratti gentili ed umanitari (515), mostrarsi pronti e deferenti ad ogni loro desiderio, provvederli di abiti e di denari, esaltare la generosità del sovrano, intenerirli con la vista delle loro famiglie, mostrarsi commossi e sopra tutto insinuare nell’animo loro la sicurezza che a l’arrivo in America sarebbero stati completamente liberi. Il governo aveva preparato un ordine per il console napoletano in New Vork di internarli quanto più si potesse e di impedire il loro ritorno in Europa; ma quest’ordine restava segretissimo e per maggiore cautela era stato scritto in cifra in una lettera da consegnarsi dal comandante della nave soltanto a l’arrivo in America. Nulla vietava quindi a la Commissione di spacciare il contrario (516). Con questa certezza come non ravvisare nella commutazione della pena un grande beneficio?

VII. La Commissione principiò l’opera sua con il recarsi a Montesarchio ove, scortata da gendarmi a cavallo, giunse a mezzogiorno del 14 gennaio e senza indugio penetrò nel castello. La sua relazione dice: “Credemmo opportuno il momento di renderci interpreti della sovrana clemenza compiendo la missione affidataci, che non era certo in tanta profusione di grazia l'ultimo dei tratti di inesauribile clemenza; esponemmo tutto ciò con quell’eloquente parola (sic) che un tanto argomento suggeriva e con quel calore e quello zelo che assai meglio si sente che non si esprime. Quelle parole di consolazione, che erano l’eco della sovrana clemenza, ebbero tale effetto nell’animo degli indultati, niuno escluso, che forse, anche loro malgrado, dovettero reverenti bassare la fronte ed associare la loro alla nostra commozione e riconoscere in quel severo e veridico linguaggio quei tratti che sono il più bel dono che Iddio avesse saputo concedere al nostro amato sovrano: e tutti senza simulazione e senza esitanza finirono di echeggiare con noi: Viva il re!!” (517).

Non è difficile che vi fossero acclamazioni, ma molto probabilmente partirono anziché da i reclusi, da la folta schiera di funzionari e di custodi li presenti. Il Castromediano, testimone oculare, non accenna né ad applausi, né a grida di giubilo, ma invece a nuove proteste simili a quelle già rivolte al giudice regio (518).

Lungi dal credere a l’entusiasmo degli esiliati, la Commissione temeva di incontrare da parte di essi una accanita resistenza e di dover ricorrere a la forza per imbarcarli. Davano argomento a i timori alcune parole di una istanza di Antonietta Poerio, una lettera sequestrata a l’Agresti ed “i rilievi dei due giudici regi che avevano preventivamente sondato il morale degli indultati” (519).

I commissari andarono quindi nell’ospedale ad intimare al Pironti l’ordine della prossima partenza. L’infermo ricusò non essendo in grado neanche di sollevarsi dal letto. Gli fu risposto: “Non vi è da opporsi, dovete partire” (520). La relazione dei commissarii afferma invece che lo stesso Pironti volle partire (521).

Gli esiliati, liberi da le catene e rivestiti di altri abiti dati loro da la Commissione, uscirono da la galera (522) Il Poerio nel lasciare i suoi compagni, non compresi nel decreto, rivolse loro affettuose parole e donò per ricordo ad alcuni qualche oggetto; a Felice Barone che aveva carissimo, diede la sua posata d’argento (523). Su la spianata del castello salirono in carrozze chiuse tirate da tre cavalli ciascuna.

Si attendeva per la partenza che giungesse il Pironti. Lo si vide poco dopo infatti su una barella trasportata da facchini. I bruschi movimenti della barella gli causarono atroci dolori, cui cercò di resistere: ma finalmente, vinto da l’ira e da lo strazio, si diè a gridare che voleva piuttosto essere ucciso. La Commissione assisteva a la pietosa scena ma restò inesorabile. L’infermo venne adagiato in una carrozza.

Verso sera il triste corteo parti a la volta di Pozzuoli, ove doveva seguire rimbarco. Precedeva una carrozza con due ufficiali di gendarmeria, venivano quindi le carrozze dei reclusi, ognuna scortata da due gendarmi a cavallo, da ultimo quella della Commissione. Le strade percorse erano perlustrate accuratamente da soldati, le carrozze correvano quasi a precipizio. A le sei del mattino giunsero a Pozzuoli: ivi li attendevano la corvetta Stromboli e la fregata Fieramosca, ancorate colà fino dal giorno prima, e le famiglie che avevano potuto giungere a tempo.

L’addio fu pietoso, commovente. Si sarebbero riveduti ancora una volta o era l’ultimo addio? H Poerio, in una lettera a sua zia Antonietta scritta la notte del sedici gennaio a bordo della Stromboli disse: “La buona D.(a)Caterina (sorella del Dono) e le sue gentili nipotino (le povere orfanelle di Cecilia) hanno avuto molta sforzata costanza (524) nel separarsi dal padre loro Vincenzo; ma non appena hanno posto piede sulla barca, la piena dell’affetto represso è scoppiata e si sono sciolte in amarissime lacrime. Né mi è stato possibile di contenere le mie, pensando a tanta innocenza cosi fieramente travagliata dalla fortuna ed a due creature, che alla distanza di soli sette mesi hanno perduta la madre e l’ava, ed ora si separano forse per sempre dal loro amato padre e per tutto prospetto hanno una crescente povertà e l’obbligo santo di assistere un prozio nonagenario e rimbambito ed una infelice zia offesa nella persona. Ma la fervida fede nella misericordia di Dio non verrà loro mai meno!” (525).

Anche il Pironti venne portato a bordo dello Stromboli, che scortato dal Fieramosca e dal Messaggere, su cui viaggiavano i commissari, giunse la mattina del 16 gennaio a Nisida. Nell'animo del Pironti si agitavano mille pensieri. Aveva chiesto di restare temendo di non reggere a le fatiche di un lungo viaggio. Ma che sarebbe avvenuto di lui, come vivere in galera senza il conforto e l’affetto dei suoi compagni? Sarebbero essi andati davvero in America? Non avrebbero potuto scendere ip un porto europeo, ricuperare la sospirata libertà? Ed anche arrivando fino negli Stati Uniti, non potevano essi ritornare in Europa e vivere liberamente in Piemonte, in terra italiana, non lungi da la patria?

I commissari, visto lo stato miserando del Pironti, lo fecero visitare da i medici delle due navi, i quali ritennero concordemente “che i disagi della traversata potevano compromettere la frale esistenza di lui” (526). In seguito a questo parere il re, informato telegraficamente, rispose da Bari di fare rimanere il Pironti a Nisida. Forse l’infermo si sentiva meglio o confidava maggiormente nelle sue forze e nella speranza di riacquistaretra breve con i suoi compagni la libertà. Chiese perciò di continuare il viaggio (527): ma i commissari lo fecero sbarcare e lo consegnarono al comandante del bagno di Nisida.

VIII. Intanto salivano a bordo dello Stromboli i sette ecclesiastici, di cui ho fatto cenno, e diciotto altri condannati, tra i quali Carlo De Angelis, il Parenti, lo Schiavoni. Anche essi, a l’uscire dal bagno, avevano subito una rigorosa perquisizione e dismesso l’abito da galeotti (528). Lo Stromboli, sempre con la stessa scorta, proseguì nel pomeriggio per Procida, ove furono condotti a bordo diciotto altri politici, tra cui i due germani Luigi e Girolamo Palumbo, Giuseppe Pessolano,Carlo Pavone, e G. B. Riccio.

Un altro dei politici compresi nel decreto, Pasquale Lamberti, giaceva nell’ospedale malato di paralisi. Per ordine della Commissione due medici scelti dal sindaco, dopo una diligente visita, espressero avviso che lo stato del Lamberti sebbene non fosse tale da compromettere la sua esistenza durante il viaggio, pure richiedeva che egli fosse trasportato in lettiga e restasse sempre a letto. Ciò indusse la Commissione, a farlo rimanere nell’ospedale “in attenzione di ulteriori provvidenze” (529).

Le tre navi approdarono a l’isola di S. Stefano la sera del 16 gennaio: e la mattina seguente i commissari comunicarono la volontà sovrana e fecero imbarcare i diciassette reclusi compresi nel decreto, fra cui l’Agresti, l’Aletta, il Faucitano, lo Spaventa, il Settembrini ed il Sodano (530). Anche essi dismisero l’abito da galeotti ed ebbero una copiosa distribuzione d’abiti.

Così si trovarono riuniti su lo Stromboli sessantasei condannati politici che dovevano andare in America. La Commissione largì un sussidio di dieci piastre per ciascuno (531). Quindi i tre commissari concessero loro di dare, in presenza del comandante, l’addio a le pochissime famiglie giunte da Napoli. A pochi di essi toccò questo conforto. V’erano le due figlie del Dono abbrunate per la morte recente della madre, la moglie del Mollica con due figlie, le sorelle e la madre del Pica e poche altre persone. Ad altre famiglie non era giunto in tempo l’avviso. Fu un istante di angoscia e di disperazione! Nell’animo di ciascuno si agitava un dubbio crudele, se non fosse quello l’estremo addio?

Si appressava ormai l’ora della partenza e la Commissione prese a congedarsi da i condannati: era il momento di ottenere da essi la tanta ambita manifestazione. I tre commissari gareggiarono nel mostrarsi cortesi e premurosi; domandavano loro delle famiglie, facevano intravedere un pietoso interessamento del re, magnificavano il grande beneficio ottenuto dopo tanti anni di stenti e di dolori. Ogni cuore umano sente pietà verso gli infelici, sopratutto verso le grandi ed immeritate sventure; le espressioni dei commissari venivano quindi sincere sul labbro, per quanto dettate da altrui comando.

La loro relazione soggiunge: “1 tratti umanitari ed i modi gentili, con i quali cercammo di disimpegnare il nostro mandato, aveva già preparati gli animi e quando raccogliemmo intorno gli indultati per comunicare loro gli effetti della grazia ricevuta, le nostre parole furono accolte con plauso generale ed a noi sembrò moltissimo ottenere che i più intelligenti si fossero mostrati riconoscenti a tanta largizione” (532). La relazione prosegue: “Gli indultati furono tradotti a bordo e l’ultima prova, che la Commissione ritiene positiva, fu il vedere ognuno premurarsi nell’esternare la sua riconoscenza e come Poerio, così Settembrini, Spaventa, Pica ed altri che seguirono quello esempio, partendo tutti compresi della grazia ricevuta e del conforto, col quale la munificenza sovrana si piacque accompagnarla” (533).

La Commissione, tutta intesa à dimostrare d’avere conseguito lo scopo assegnatole da la fiducia del governo, conchiude cosi: “Poerio, il primo, vista la clemenza del re, vista la notabile decenza del trasporto, la squisita educazione e cortesia dei commissari, i mezzi accordati dal governo, è stato tocco di gratitudine ed ha influito perché a bordo della fregata si fosse ringraziato l’augusto padrone. Fu ripetuto quindi il grido di viva il re. Anzi, dopo che la Commissione era discesa a terra, il Poerio indirizzava al comandante della nave i suoi ringraziamenti per la sovrana grazia concessagli e pel modo umanitario e gentile col quale erasi attuata, ed egli facendosi interprete dei sentimenti di tutti voleva per loro personalmente rispondere e pregava il comandante stesso di fare in modo che questa retribuzione di riconoscenza si fosse fatta palese alla Commissione” (534).

Nelle Ricordanze del Settembrini e nell’epistolario di lui non è narrata la partenza. Le memorie del De Angelis, nelle quali èraccontata sommariamente, non fanno cenno di plausi al re. Invece il Castromediano narra che il Poerio rivolse a gli esiliati raccolti intorno a lui in un angolo della nave queste parole: “Ebbene, ci siamo riveduti finalmente! La mia e la vostra fede non vacillò punto nel passato e non verrà meno al presente. La patria ci attende festante e noi la rivedremo, e che patria! Tra breve torneremo a baciare la nostra madre Italia, libera ed una!” (535)

A le due pomeridiane, la Commissione, adempito il suo compito, ritornava, sul piroscafo Messaggiere, a la capitale, ove si affrettò a riferire minutamente al governo l’opera propria, esaltando il successo ottenuto. A le parole di essa si prestò piena fede dal governo, tanto che in una relazione ufficiale di quei giorni si legge: “La Commissione ha cosi bene disimpegnato il suo incarico ed eseguito le norme ricevute da conseguire l'in' tento che i condannati non più tiepidi si mostrassero, ma caldeggiassero di gratitudine per la grazia ricevuta e prorompessero spontanei nel grido di giubilo e di riconoscenza: Viva il re!”

La fregata Fieramosca al comando del barone Di Brocchetti salpò il 17 gennaio conducendo a rimorchio la corvetta Stromboli, comandata da l’ufficiale di marina Ferdinando Cafiero, su la quale erano gli esiliati (536). Il mare era calmo, il sole volgeva maestosamente al tramonto e le due navi filavano rapide verso Gaeta, ove dovevano salire a bordo Giacomo Longo e Filippo Delli Franci condannati a l’ergastolo per la rivolta calabrese del giugno 1848 e compresi nel decreto (537). Gli esiliati volgevano mesti lo sguardo a le onde azzurre del golfo, al cielo limpido e sereno, a le vaghe isolette in cui avevano trascorso dolorosamente tanti anni. Avrebbero essi più riveduto la loro patria, i loro diletti congiunti? Andavano incontro ad un esilio perenne in lontani ed ignoti paesi, a una fine misera ed oscura o a la sospirata libertà?!

IX. Le due navi prima d’arrivare a Gaeta volsero la prua, forse per ordine improvviso del governo. Passando a fianco della Sardegna, quindi presso le Baleari, a traverso lo stretto di Gibilterra approdarono il 26 gennaio a Cadice. Al vice console napoletano Francesco De Ambrosi, che si recò a bordo, gli esiliati chiesero invano di scendere a terra. Rinnovarono la richiesta al comandante Di Brocchetti, il quale dichiarò loro francamente che le istruzioni ricevute gli vietavano di consentire. Allora inviarono una solenne protesta al governatore di Cadice, al governo spagnolo, al deputato Olozaga, ed a i consoli francese, inglese e sardo in Cadice, contro l’arbitrio del governo napoletano che li assoggettava ad una pena non contemplata da le leggi del regno.

Fin dal 10 gennaio il ministro degli esteri napoletano, Carafa di Traetto, aveva telegrafato al console in Cadice di noleggiare una nave mercantileper il trasporto dei proscritti a New Vork. Il console si pose sollecitamente a la ricerca, ma ebbe ad incontrare non lievi difficoltà. Era ornai trapelato lo scopo di tali pratiche: si sapeva che la nave, di cui si chiedeva il noleggio, doveva servire ad una specie di tratta di negri. Quindi o aperti rifiuti o pretese esagerate. Il console credette, dopo lunghe trattative, di essere riuscito ad intendersi con il capitano di una nave mercantile spagnola, quando si accorse che costui chiedeva di inserire nel contratto frasi ambigue le quali davano a sospettare di non volere assumere l’obbligo preciso del trasporto degli esiliati in America. Finalmente gli venne fatto di conchiudere il contratto con un tale Samuele A. G. Prentiis di Baltimora, per un bastimento, che aveva portato da l’Avana a Cadice un grosso carico di tabacco.

Il Prentiis era uomo senza scrupoli, solo intento a guadagnare denaro. Fu convenuto il compenso di ottomila e cinquecento dollari da pagarsi parte anticipatamente, a la partenza della nave, il resto a l’approdo in New York. Il contratto stabiliva l’obbligo del capitano di ricevere a bordo come passeggieri i sessantasei proscritti e fissava il trattamento di essi in modo soddisfacente (538). La nave, destinata al trasporto di mercanzie, non offriva cabine sufficienti; si dovette formarle a bella posta ed ammannire le provviste per l’equipaggio e per i passeggieri.

Verso il tramonto del 18 febbraio un giovane mal vestito, con un cappello di paglia a larghe tese, si presentò al capitano Prentiis, col nome di Iokon. Assumendo di essere cubano e di non avere mezzi per tornare in patria, gli chiese di accettarlo a bordo come cameriere. L’offerta fu accolta ed il nuovo cameriere restò su la nave ove lo si vedeva tutto dedito al servizio.

Durante la permanenza nel porto di Cadice, si inasprì fortemente la bronchite, di cui da parecchi anni soffriva il Poerio. Il comandante Carierò, gli aveva ceduto la sua cabina su lo Stromboli. tutti gli esiliati, che veneravano il loro compagno di sventura, facevano a gara nell’assisterlo: ciò nonostante l’infermo peggiorava. In tali condizioni l’affrontare la lunga traversata dell’Oceano importava un grave pericolo per l’infermo ed i compagni di lui trepidavano per la sua vita.

Tra questi vi erano sei medici, il Mollica, il Braico, il Cuzzocrea, il Nicolò, il Salza ed il Ventra che, adunatisi a consulto, si trovarono concordi con il medico dello Stromboli, Salvatore Pandolfo, che il malato non avrebbe potuto sopportare gli strapazzi del viaggio. Inviarono al comandante Di Brocchetti una relazione in cui dicevano: “L’angustia del luogo abitato da l’infermo, nel fondo di una nave, la scarsità dell’aria, che lo circonda, sempre calda, rarefatta ed inquinata di esalazioni, l’atmosfera grave di umidità ed incresciosa ed i disagi tutti che accompagnano l’uomo non mai adusato alle lungho e pericolose navigazioni, ci mettono nella malaugurata certezza di deplorare il più tristo degli esiti, cui suol terminare una bronchite quando massimamente al povero infermo l’aria arriva scarsa ed impedita ed i rimedi o mal profusi o tardivi” (539). Pregavano il comandante della spedizione di ordinare lo sbarco del malato in Cadice per una cura regolare (540).

Per avvalorare la domanda dei medici gli esuli sottoscrissero negli stessi sensi un indirizzo, redatto dal Settembrini, al Di Brocchetti. Questi si mostrò favorevole a la richiesta: ma il Poerio ricusò pertinacemente di separarsi dai suoi compagni esclamando: “Voglio prima esalare l’anima in mezzo a voi che lasciarvi” (541).

Il 19 febbraio, dopo ventiquattro giorni da l’arrivo a Cadice, a le dieci del mattino gli esiliati passarono da lo Stromboli a bordo della nave americana. Al momento della partenza il console napoletano consegnò a ciascuno di loro un sussidio di dodici ducati ed al Prentiis una gratificazione di mille lire (542). Il Fieramosca accompagnò, secondo l’ordine ricevuto, la Stewart per cento cinquanta miglia per evitare il pericolo di uno sbarco dei proscritti in qualche porto europeo. A le due pomeridiane del 20 febbraio, compiuto il percorso stabilito, le due navi sostarono: il Fieramosca riprese la via di Cadice ove doveva rilevare lo Stromboli: il bastimento americano continuò la sua rotta per New York.

Gli esuli, nonostante che ormai fossero in mezzo dell’Oceano, non avevano ancora perduto ogni speranza di sfuggire a la deportazione. Scomparso il Fieramosca, scrissero, il 22 febbraio, una dichiarazione con cui, invocando la protezione della bandiera americana, chiedevano al comandante di essere sbarcati nel porto inglese più vicino. Soggiungevano “di avere il diritto di non essere trasportati violentemente e contro tutte le leggi del loro paese” e che il Prentiis col contratto assunto “si era reso responsabile dinanzi a le leggi, a i tribunali ed alle autorità supreme degli Stati Uniti, di questo atto violento, che si assomiglia alla tratta dei negri”. Quindi, conchiudevano: “prevengono il comandante che, giunti a New York, adiranno i tribunali per l’attentato consumato scientemente per contratto contro la loro libertà e chiameranno il comandante ed i proprietarii della naveresponsabili di tutte le conseguenze legali del fatto medesimo” (543).

Narra il Castromediano che, mentre gli esuli si affollavano intorno ad un tavolo per sottoscrivere la protesta, si vide apparire un giovane ed elegante ufficiale di marina nel quale riconobbero subito il preteso cubano imbarcatosi come cameriere e che era invece un capitano della marina mercantile inglese, Raffaele Settembrini, il figlio diletto di Luigi (544).

Quando quest’ultimo aveva avuta la condanna di morte, commutata poi nell’ergastolo, un nobile inglese (545) ed Antonio Panizzi, il proscritto del 1831, che aveva acquistato a Londra molta fama come riordinatore del British Museum, si interessarono a la sorte del giovinetto figlio del condannato, lo fecero educare in Inghilterra e lo avviarono nella marina mercantile, nella quale egli il 1858 aveva conseguito il grado di secondo. Il giovane ufficiale, allorché ebbe notizia che il padre era a Cadice, corse colà. Padre e figlio si riabbracciarono dopo dieci anni su l'Ettore Fieramosca a la presenza degli ufficiali di bordo; il giovine stringendosi al padre gli sussurrò nell’orecchio queste parole: “Voi non andrete certamente in America”.

Raffaele Settembrini temeva che suo padre, acciaccato da la vita dell’ergastolo, male avrebbe potuto reggere a i disagi della lunga traversata, su un bastimento a vela. Concepì quindi l’ardito pensiero di imbarcarsi su la Stewart e durante il viaggio imporre al Prentiis, aiutato da gli esuli con le armi a la mano, di sbarcarli in Inghilterra. Era riuscito, ad insaputa del padre, a prendere posto su la nave come cameriere; restava ora ben più difficile impresa, di costringere il capitano a cambiare rotta.

La sera stessa, in cui Luigi Settembrini montò su la Stewart, il prete Felice Barilla, uno dei suoi compagni, lo avverti che il figlio era a bordo come cameriere. La notte padre e figlio si rividero in un angolo riposto della nave ed il giovine manifestò al padre che egli intendeva, quando il Fieramosca avesse ripreso la via di Cadice, presentarsi al Prentiis e con le buone o con la forza indurlo a consentire a lo sbarco dei proscritti in Inghilterra. A l’obbiezione del padre che l’americano avrebbe ricusato, il giovine mostrava due pistole a quattro colpi. A la vista di quelle armi il buon Luigi vietò al figlio ogni violenza, si fece consegnare le pistole che affidò a due suoi compagni, assicurandolo con piena ed ingenua fiducia che avrebbero ottenuto l’intento mediante una fiera protesta al capitano.

Raffaele Settembrini che parlava perfettamente l’inglese, unica lingua conosciuta dal Prentiis, gli presentò, egli stesso, la protesta; ma costui chiedeva, per consentire a la domanda, un compenso di lire duecento per ciascuno degli esuli, come indennizzo del nolo pattuito, e una dichiarazione di averlo essi con la forza indotto a lo sbarco. Essi, mancanti di denaro, non potevano soddisfare la prima pretesa, non intendevano sottostare a l’altra, che li avrebbe fatti apparire rei di un atto di violenza. La nave continuò la traversata.

Il giovane Settembrini insisteva con gli esuli per ricorrere a la forza: si opponevano i più autorevoli tra essi e specialmente il padre di lui. Si presentarono un’altra volta al capitano, insistendo nella richiesta e domandarono che essa fosse trascritta nel giornale di bordo. La domanda turbò profondamente il capitano che temeva di assumere una grave responsabilità di fronte a le autorità del suo paese. Riferisce il Castromediano che a far consentire il Prentiis giovò un lieve incidente. Un marinaio dell’equipaggio trovò per terra una capsula delle pistole di Raffaele Settembrini e riferì ciò al capitano. Nella mente di questo ultimo sorse il sospetto che i proscritti fossero armati e potessero tentare una sorpresa. Erano numerosi, usciti di poco dalla galera e la mente dell’americano non distingueva tra rei di Stato e malfattori comuni! Cedette quindi, e di accordo con gli esuli, diresse la nave a Cork in Irlanda.

A l’alba del 6 marzo essa approdò nel porto di Queenstown nella baia di Cork. Una viva emozione prese gli esuli sentendosi finalmente liberi dopo tanti anni di galera! Si internarono nell’abitato in cerca di alloggio: ma per il loro aspetto sofferente, per gli abiti miseri, non trovarono accoglienza presso gli alberghi. Erano scambiati per francesi, allora colà non molto ben visti. Finalmente venne in chiaro che trattavasi dei proscritti napoletani, di cui i giornali avevano in quei giorni discorso a lungo e narrato le sventure. Trovarono subito alloggio, gratuitamente, ed ebbero da gli abitanti ogni cortesia. Un generoso entusiasmo indusse la buona popolazione della piccola città a festeggiare i nuovi venuti ed a soccorrerli con una larga colletta. Giunta a Londra la notizia di quello sbarco, uomini politici, nobili dame, tutta l’aristocrazia, iniziarono una sottoscrizione che fruttò in pochi giorni diecimila sterline, le quali vennero distribuite tra i proscritti.

In quei giorni un vivo movimento si era destato in Inghilterra per le brusche parole rivolte da l’imperatore Napoleone IIIa l’ambasciatore austriaco barone Hübner nel ricevimento del Capodanno, le quali facevano intravedere a breve scadenza la guerra tra il Piemonte e la Francia alleati e l’Austria. Il governo inglese e la stampa, per quanto benevoli a i liberali italiani, si preoccupavano che la guerra potesse portare un ingrandimento dell’impero francese ed una preponderanza di esso nella penisola (546). Il Mazzini, allora esule in Londra, voleva che l’Italia fosse risorta con le sue forze, senza aiuti stranieri. Egli aveva pubblicato, pochi giorni prima dell'approdo dei proscritti napoletani in Irlanda, nel suo giornale Pensiero ed azione (547) una dichiarazione, in data del 28 febbraio, firmata da centocinquantacinqueemigrati italiani, tra cui il Saffi, il Campanella, il Quadrio, il Crispi, il Mario, Rosolino Pilo e Filippo De Boni, contro l’alleanza e contro la politica del Piemonte.

A la notizia dello sbarco dei proscritti napoletani il Mazzini mandò incontro ad essi due suoi fidi amici, Domenico Piraino, liberale siciliano, e Giuseppe Fanelli, segretario del comitato napoletano che aveva preparato la spedizione di Sapri (548). Dopo la tragica fine di essa il Fanelli, perseguitato accanitamente da la polizia borbonica, era riuscito a fuggire in Inghilterra. Essi consegnarono al Poerio, ritenuto come il capo degli esuli napoletani, una lettera nella quale il Mazzini si congratulava con essi della libertà riacquistata e faceva loro le più cortesi esibizioni (549).

Il grande agitatore genovese, mentre compiva un atto di fratellanza verso proscritti, sperava in pari tempo di trarre profitto dal loro arrivo per procurare grandi manifestazioni popolari a favore della causa italiana. Il Poerio non tacque, nel suo colloquio con i due inviati del Mazzini, che egli ed i suoi compagni approvavano pienamente l’alleanza e la politica del conte di Cavour, tanto che il Piraino scrisse il giorno stesso a Rosolino Pilo: “Ebbi una lunga discussione con il Poerio, che naturalmente è piemontese” (550).

Il Fanelli disse al Poerio che il partito repubblicano era disposto ad intendersi con lui e con i suoi compagni e che egli era venuto ad iniziare le trattative. Il Poerio, pur mostrandosi grato al Mazzini per le fraterne offerte, ricordò che egli ed i suoi compagni avevano propugnato sempre il governo monarchico costituzionale e per queste idee aveano subito tante persecuzioni Ogni comunanza con la parte repubblicana avrebbe posto in dubbio la lealtà dei loro intendimenti ed avrebbe dato colore di verità a la menzogna del governo napoletano, che pretendeva di giustificarsi delle persecuzioni contro i liberali dicendoli faziosi e repubblicani (551).

Gli esuli napoletani seppero che, nonostante questa recisa risposta, il Mazzini, preparava ad essi in Londra non solo le più liete accoglienze, ma grandi dimostrazioni popolari, con significato apertamente ostile a l’alleanza. Ad evitarle, risolsero di partire per Londra a piccoli gruppi. La prima spedizione comprendeva, fra gli altri, lo Spaventa, il Settembrini, il Cuzzocrea; la seconda il Pica, lo Schiavoni, il Riccio; la terza il Poerio, il Braico, il Dono, il Palermo, il Mollica ed il Castromediano. La quarta il De Angelis, l’Argentino, il Pace e molti altri. Dovunque furono ricevuti con feste, quasi trionfalmente, massime a Londra.

Lo Spaventa, il Settembrini ed i loro compagni, giunti tra i primi colà, per impedire le dimostrazioni promosse dal Mazzini, inviarono a i giornali una dichiarazione, in cui, esprimendo la più alta riconoscenza al popolo inglese, lo pregavano vivamente di astenersi da esse (552). Questa pubblicazione non piacque ad altri degli esuli i quali mandarono al giornale Pensiero ed azione una lettera, in cui affermavano di non aver dato mandato ad alcuno di esprimere il loro pensiero e che “se le dimostrazioni dovevano significare soltanto nobili e generose simpatie, essi si sarebbero riuniti al voto dei loro compagni, ma invece ne sarebbero stati lieti se fossero dirette a protestare contro la tirannide del governo napoletano” (553).

Il 15 aprile fu tenuta nella grande metropoli inglese una numerosa adunanza in onore dei proscritti e letto un indirizzo in loro onore. Intervennero i sottoscrittori della lettera (554). Dopo parecchi giorni scorsi tra le più calorose dimostrazioni, i proscritti napoletani, a piccoli gruppi, attraversando la Francia tornarono in Italia prendendo dimora a Torino ed a Genova.

Il governo di Napoli seppe da un telegramma in cifra, inviato il di 8 marzo dal ministro prussiano a Londra conte di Bernstoff, l'impreveduta fine della spedizione mossa da Cadice.

Il telegramma diceva che il capitano Prentiis si era lasciato corrompere: un telegramma del di successivo accennava invece ad una ribellione degli esuli a bordo della David Stewart. La non lieta notizia fu comunicata al re Ferdinando che, comunque gravemente infermo nella reggia di Caserta, continuava ad occuparsi degli affari dello Stato (555).

Dopo tante cure per impedire uno sbarco dei proscritti in Europa, essi erano riusciti ad approdare sul suolo inglese e si preparavano certamente a congiurare di nuovo contro il re! La notizia turbò profondamente il sovrano che seppe di poi, con grande indignazione, le feste del popolo inglese in onore di essi. Ma più forti preoccupazioni affliggevano allora la Corte! La malattia del re si aggravava; le corrispondenze diplomatiche assicuravano imminente la guerra della Francia e del Piemonte contro l’Austria.

Il ministro degli esteri napoletano, Carafa di Traetto, aveva fatto consegnare al capitano Prentiis, a l’atto della partenza della David Stewart da Cadice, lettere contenenti istruzioni segrete per il console a New York. Premeva al Carafa la restituzione di queste carte, nelle quali vi era tra gli altri l’ordine riservatissimo di internare gli esiliati, e si fece premurosamente a chiederle. Il capitano dichiarò che le avrebbe consegnate a patto di avere il saldo del nolo convenuto in 2833 dollari, che gli spettava perché era stato costretto a mancare al contratto da forza maggiore, cioè da violenze degli esuli, come aveva dichiarato in una protesta da lui fatta al console degli Stati Uniti a Cork (556).

Ilre nella riunione del Consiglio di Stato del 10 maggio 1859 ordinò al Carafa di far pratiche, per mezzo del ministro degli Stati Uniti a New York, per persuadere il Prentiis a desistere da le sue pretese Il Carafa in un memorandum successivo faceva umilmente osservare al re che il governo napoletano non possedeva alcun documento per negare la violenza asserita dal capitano. Ignoro come fosse terminata la questione: molto probabilmente il governo di Napoli, per riavere le carte, dovette sottostare a le richieste del Prentiis.

CAPITOLO XIV

L’emigrazione politica napoletana

SOMMARIO. — I. Gli esali napoletani — Paesi cui si rivolsero di preferenza — La vita degli emigrati — Ilgoverno napoletano sequestra loro le rendite — Miserie e dolori dei proscritti — II. Esuli in Francia — Guglielmo Pepe e vari dei profughi di Venezia si stabiliscono a Parigi — Arrivo di altri esuli — Frequenti — ritrovi in casa del Tupputi e del Pepe — Le esequie di Gioberti — Esuli napoletani a Montpellier, a Tours ed a Marsiglia — III. A Londra — La propaganda del Mazzini e dei suoi seguaci — Arrivo di italiani espulsi da la Francia — I manifesti del Comitato nazionale italiano — IV. A Malta — Gli esuli siciliani — Arrivo di Teodosio De Dominicis — Il dott. Nicola Causale — Vigilanza su le corrispondenze delle famiglie degli emigrati — Sequestro delle lettere del Causale — Partenza del Causale per l’Egitto — Giovanni Avossa — Sua corrispondenza col barbiere Facella — Lunghi anni di esilio — Suo ritorno in patria — V. In Toscana — Gli emigranti napoletani a Pisa — La casa della baronessa Begani — Arrivo del D’Ayala a Pisa — Altri emigrati a Firenze — VI. Ospitalità del governo piemontese verso gli esuli — Sussidi a i più bisognosi — Vigilanza del governo su i seguaci del Mazzini — VII. A Nizza — Riguardi delle autorità locali e della cittadinanza per gli emigrati politici — Il comitato di soccorso — Morte del Primicerio e del Giura — Si stabiliscono in Nizza l’Ulloa, l’Assaliti ed il Pepe — Lettera di quest’ultimo al D'Ayala — Le esequie della madre di Garibaldi — VIII. A Genova — Arrivo di molti reduci da la difesa di Roma e di Venezia — Si rifugiano a Genova in gran numero i perseguitati dal governo borbonico — Arrivo degli ex deputati Francesco Mazziotti, Ulisse De Dominicis e di vari liberali salernitani — Fuga di Raffaele Conforti da Napoli — Sua operosità in Genova — Approdo di Francesco Angherà — Le esequie e la commemorazione della madre del Mazzini — Fondazione di una società per l’assistenza dei colerosi — La solidarietà nel bene — IX. A Torino — Uffici concessi dal governo a gli esuli — La casa di Pasquale Stanislao Mancini — Raffaele Conforti prende dimora a Torino — Accoglienze al D'Ayala Arrivo di Giuseppe Del Re — Le esequie di Gioberti — Gli amichevoli ritrovi in casa Tofano — La generosità del De Meis — Onoranze a gli emigrati estinti — I solenni funerali di Guglielmo Pepe — Le prime notizie del Poerio e dei suoi compagni — Arrivo di molti di essi a Torino — Lettera del Cavour a lo Scialoia — Accoglienza dei torinesi — Entusiasmo della popolazione.
I. Dopo la caduta delle repubbliche di Roma e di Venezia parve a i profughi italiani(557)eli poter trovare sicuro asilo soltanto in Francia, a l’ombra della bandiera repubblicana, a Londra ed in Malta sotto la protezione inglese, o nel Piemonte, il solo Stato della penisola che serbasse le pubbliche libertà. Pochi ripararono in Toscana fidenti nella tradizionale mitezza del governo del granduca.

Proprio in quei mesi, mentre i proscritti cercavano un ricovero, erano vive in ogni parte d’Italia le preoccupazioni per il colera già penetrato in varie città. A la vigilanza della polizia contro lo sbarco dei fuorusciti ritenuti pericolosi si aggiungeva quella, anche più severa, delle autorità sanitarie, che imponevano lunghe quarantene, ed il divieto di approdo per coloro che provenivano da luoghi infetti. Gli esuli dovettero quindi andar raminghi di porto in porto, a traverso miserie ed umiliazioni infinite, finché non riuscirono ad approdare in qualcuno di essi eludendo sbirri ed ufficiali sanitari.

Narra il De Sivo (558) che molti reduci di Venezia “imbarcati in trabaccoli, tentarono scendere a Patrasso, a Corfù ed altrove, ma, respinti, ebbero necessità di accostarsi a Brindisi, ove vennero tratti in arresto e poi mandati nei castelli o nelle isole”. Il generale Guglielmo Pepe e gli ufficiali superiori, che avevano preso parte a la difesa di Venezia, non volendo tornare nel regno, andarono a Corfù; ma ivi solo alcuni potettero scendere sottoponendosi ad una quarantena; gli altri approdarono a Missolungi, e si recarono poi a Malta, a Genova e a Marsiglia. Neanche nel loro primo rifugio ebbero pace. Invisi, sospetti come gente turbolenta, furono spesso espulsi e costretti ad imbarcarsi a la ventura senza sapere ove fosse loro dato finalmente di posare (559). Le vicende della sorte e le necessità più imperiose della vita li obbligarono ad una esistenza meschina e randagia. Molti di essi non avevano mezzi di fortuna; a parecchi di coloro che ne avevano il governo napoletano impose il sequestro delle rendite, il quale fu mantenuto fino a la costituzione data da Francesco II nel 25 giugno del 1860 (560). Una gran parte di loro aveva vissuto in patria con l’esercizio di libere professioni e vi aveva acquistato ricca e numerosa clientela, difficile a formarsi in terra straniera, senza relazioni e conoscenze. Dovettero quindi piegarsi quasi tutti a modesti uffici, specialmente di maestri nei comuni rurali, di contabili e di commessi di negozi e ad una vita povera e grama (561). A queste angustie si univano la lontananza da la patria, da i congiunti, da gli amici, le continue tristi notizie eli arresti e di condanne, la ninna speranza di giorni migliori.

Il governo napoletano si mostrò disposto, in seguito a le energiche rimostranze della Francia e dell’Inghilterra, a concedere il rimpatrio, ma a condizioni cosi umilianti che solo pochissimi, stretti da gravi ragioni di salute o di famiglia o da invincibile nostalgia, vi si rassegnarono. I più a tanta vergogna preferirono continuare quella vita di stenti e di dolori. Solo negli ultimi anni del loro esilio intravidero la gioia non lontana del ritorno in patria.

Il Tofano descrive efficacemente cosi la loro vita: “Gli esuli napoletani hanno a tutto rinunciato per la causa, che propugnano: né di ciò menano vanto. Quelli, che possedevano beni di fortuna, ne rimasero senza per gli abusivi ed inqualificabili sequestri: e quelli poi che vivevano con gli utili di onorate fatiche non possono, né per tenace volontà di fare, né per onoratezza di condotta, trovar sempre fuori del loro paese e per quanto si fosse la benevolenza e cortesia dei loro confratelli italiani, in mezzo ai quali vivono, lucrarsi sempre un pane che soddisfi i loro ristretti e naturali bisogni. Bastava ad essi una transazione per non uscire dal regno ed altra basterebbe per rientrarvi; ma pure anteposero gli stenti della vita, la miseria, spesso il doloroso sospetto, che spontaneo s’ingenera in altrui, di avere cioè potuto meritare la pena che sopportano: il vivere lontano dalla cara patria e dai strettissimi congiunti. Vi sono molti mariti e padri che menano giorni disperati divisi dall’amata e virtuosa consorte e dai diletti figli rimasti nel regno perché dividano il tetto e la zuppa di qualche benevolo parente, mentre sulla terra d’esilio l’amoroso marito, l’amorosissimo padre non avrebbe potuto dare ad essi loro né tetto, né pane. E l’ansia di aver nuove dei suoi cari, spesso ritardate e di molto, per squisita ferocia reazionaria: e i palpiti che vi lacerano il cuore in tutti i minuti del giorno sulla salute dei cadenti genitori, dell’amato germano, della tenera moglie, dei figli soavissimi: e l’incomparabile tormento che cotesti ultimi, condannati alla miseria, non sorvegliati dal padre, potessero deviare da retto sentiero e non rendersi cittadini utili ed onesti... tutto, tutto ha sopportato e sopporta l’emigrazione napoletana con imperturbabile costanza, anziché discendere a transazione” (562).

Delle vicende degli esuli in quella vita raminga non resta altra traccia che nelle poche memorie da essi lasciate, unica fonte cui si può attingere, nonessendo permesso di leggere i documenti degli archivi di Stato di quell’epoca. Negli archivi di Torino e di Genova, le due città cui in maggior numero affluirono gli esuli, debbono esservi certamente documenti importanti su essi. Potrò dare soltanto un cenno delle vicende di questi nei vari paesi in cui si rifugiarono.

II. Il 27 agosto 1849, quando Venezia vinta, più che da le forze straniere da l’epidemia colerica, dovette cedere le armi, Daniele Manin con la moglie ed i figli, Guglielmo Pepe, Girolamo Ulloa, Francesco Carrano, Enrico Cosenz e Damiano Assanti, che avevano preso tanta parte a la gloriosa resistenza della repubblica, si imbarcarono sul piroscafo francese Pluton diretto a Corfù e vi giunsero il 30 agosto (563). Pochi giorni dopo, scontata la quarantena, arrivarono a Malta ove rimase il solo Cosenz (564); gli altri proseguirono per Genova Il Manin continuò per Marsiglia e quindi per Parigi ove prese dimora; il Pepe, seguito da gli altri tre, si recò a Torino indi a Parigi (565).

Su la stessa nave, su la quale avevano viaggiato i profughi di Venezia, sali a Malta un ardito giovane della provincia di Salerno, Antonio Guerritore da Pagani, che aveva combattuto su le barricate il 15 maggio in Napoli e poi nella difesa di Roma, come ho precedentemente raccontato. Egli si proponeva di fermarsi a Marsiglia nella speranza di trovarvi lavoro; ma, ben presto disilluso, raggiunse i suoi compagni a Parigi (566).

Ivi i profughi furono accolti con grande cordialità dal Lamennais, da l’Arago, da la Sand e da molti italiani colà residenti. Tra questi il Gioberti, il Mamiani, Michele Amari, il marchese di Torrearsa, Mariano Stabile ed il principe di Butera, che costretti a partire, il 24 aprile 1849 da Palermo, erano andati sul piroscafo francese VOdin (567) a Trapani e colà si erano imbarcati sul postale Rhamsés che partiva per Marsiglia. Ma la nave, poco dopo uscita dal porto di Trapani, era andata ad urtare contro uno scoglio ed i passeggieri erano stati condotti da lo stesso Odin a Malta. I tre proscritti erano giunti a Parigi nel maggio dello stesso anno (568) ricevuti con affetto da Vincenzo Gioberti che, lasciato nel giugno del 1849 l’ufficio di ministro sardo a Parigi, s’era ridotto a vita privata (569).

Il Gioberti si mostrava benevolo verso tutti gli esuli italiani, massime verso il Manin ed il Pepe, in casa del quale recavasi di frequente (570). Ivi i più illustri italiani dimoranti a Parigi solevano raccogliersi reverenti intorno al Gioberti. In seguito a i mandati di arresto, a le persecuzioni, a i numerosi processi politici molti altri cittadini del regno di Napoli ripararono a Parigi. Tra gli altri Ottavio Tupputi veterano delle guerre napoleoniche e della rivoluzione del 1820, Roberto Savarese ed Aurelio Saliceti giunti a Parigi nel gennaio 1850 (571), Giuseppe Pisanelli (572), il marchese Luigi Dragonetti (573),

Paolo Emilio Imbriani (574), Giuseppe Ricciardi, Benedetto Musoimo (575), Ferdinando Petruccelli, Melchiorre Delfico, Vincenzo D’Errico, Antonio Ciccone, Ippolito De Riso, tutti già deputati al Parlamento, e Filippo Capone, Sebastiano De Luca, Pietro Cirella e suo nipote Alfonso, Francesco Sprovieri (576) ed i siciliani Giuseppe Lafarina (577) e Giacinto Carini.

Il marchese Tupputi riuniva spesso nella sua casa ospitale gli esuli italiani, specialmente quelli del regno. Erano soliti di intervenirvi Giorgio Pallavicino, Giuseppe Montanelli ed il Gioberti (578). “Questi — scrive il Massari — mentre mostravasi affettuoso e cortese verso gli italiani, usava distinta amorevolezza ai napoletani quasi per consolarli di non aver potuto mai visitare le loro provincie” (579). La maggior parte di essi ebbero l’onore di conoscere il Gioberti per opera del Massari che a lui li presentava con lettere assai deferenti. Il filosofo e statista torinese ebbe tanta stima per gli esuli napoletani che, in una lettera al Massari in data del 14 dicembre 1859, scrisse: “Napoli, per ingegno e per animo, è il fiore dell’emigrazione italiana” (580).

Nei ritrovi amichevoli presso il Pepe ed il Tupputi la conversazione di consueto s’aggirava su gli avvenimenti di Francia, su i tristi annunzi, che venivano da i vari Stati italiani, di supplizi, di carcerazioni e di condanne. In mezzo a tanti crucci e sgomenti i profughi speravano di avere almeno un asilo sicuro; ma anche questa speranza per molti disparve Il governo francese cominciò a vigilare i fuorusciti e spesso li trasse in arresto e li espulse, come avvenne a l’abruzzese Aurelio Saliceti che dovette nel marzo del 1850 lasciare la Francia e ricoverarsi a Londra (581). Pochi mesi dopo, il 15 ottobre 1851, vari altri emigrati, fra cui il Montanelli e lo Sterbini, vennero parimenti espulsi da la Francia (582).

Peggio accadde allorché si preparava il colpo di Stato e dopo di esso. Anche i più tranquilli esuli ebbero a soffrire molestie. Vincenzo D’Errico, che il Gioberti designava “uomo cauto, assennato, venerando, che mena una vita ritiratissima a Parigi” fu espulso nel febbraio del 1852 (583) ed ottenne, ad intercessione del Gioberti e del Massari, di stabilirsi a Torino (584). Lo stesso provvedimento colpi, il 13 settembre, vari altri emigrati, fra cui il Delfico, il Tripoti e lo Zoccoli (585). Antonio Guerritore accortosi che i gendarmi lo pedinavano, per tema di essere imprigionato, si ricoverò a Londra (586).

Narra il Salazaro che la polizia francese dopo il colpo di Stato sorvegliava rigorosamente gli italiani dimoranti a Parigi. Una sera, mentre egli con molti suoi compagni si tratteneva in una trattoria a Batignolles, vi irruppero i gendarmi e li arrestarono tutti. “Ognuno di noi” soggiunge lo scrittore “pensò allora a trovarsi un rifugio” (587). Anche egli andò a Londra.

Una triste, dolorosa sorpresa colpi gli esuli italiani, la mattina del 25 ottobre 1852, allorché si seppe che il Gioberti era stato trovato morto nella modesta sua casa a la rue de Parme n. 3. La grandezza dell’uomo che spariva, le sue opere immortali, il fresco ricordo della meravigliosa influenza avuta da lui nella rivoluzione politica italiana del 1848, l’ammirazione che gli professavano i maggiori uomini della Francia, la semplicità e la squisita cortesia dell’uomo: tutto ispirava venerazione nei proscritti italiani, cui parve spegnersi una delle faci più luminose dell’avvenire. Qualche mese prima il conte Camillo di Cavour aveva avuto con lui un lungo ed affettuoso colloquio(588). Uomini illustri nelle lettere, nelle scienze, nella politica(589), tutti gli italiani residenti in Parigi, il marchese d’Azeglio ministro di Sardegna a Londra convennero mesti ed addolorati, la mattina del giorno 29 ottobre, nella piccola chiesa della Trinità per rendere a l’estinto le ultime onoranze. Dopo un eloquente discorso del Pons de l’Herault la salma venne trasportata nel sepolcreto della Maddalena per proseguire poi per Torino, ove, come narrerò tra breve,ebbe splendide esequie(590).

Anche in altre città francesi dimoravano esuli italiani. Il governo di Napoli aveva concesso a l’insigne giurista salernitano Domenico Giannattasio di uscire da le carceri e di recarsi in Francia a condizione però di tenersi lontano da Parigi e da ogni porto di mare(591)Il Giannattasio, partì da Napoli insieme con Liborio Romano, cui pure si era inflitto ¡’esilio, e si stabilirono entrambi a Montpellier ove vissero uniti oltre un anno(592). Il Giannattasio, logoro in salute, disperato per la lontananza dal suo paese e dai congiunti, non ebbe la forza di resistere a lungo e si rivolse con reiterate istanze al governo napoletano per ottenere il rimpatrio(593).

Una risoluzione sovrana del 28 maggio 1853 appagò finalmente le preghiere dello sventurato, a condizione però, consueta per parte del governo dei Borboni, che “egli si dichiarasse pentito, promettesse di essere fedele al sovrano, di dimostrarsi non indegno della grazia ottenuta, serbando in emenda del passato condotta irreprensibile A l’umiliante imposizione egli chinò la fronte. Un amico di lui, Antonio Starace, tra i più rinomati avvocati del foro napoletano, presentò la supplica scritta dal Giannattasio in Montpellier il 22 luglio 1853 “redatta secondo gli ordini ricevuti” e cosi il povero vecchio potè rivedere la patria. Tornò a Salerno ove visse Botto la più assidua vigilanza della polizia(594).

Un altro esule napoletano, il Ricciardi, trovando troppo cara la vita nella capitale francese, si trasferì nei primi del 1850 a Tours e vi restò parecchi anni(595). Lo segui colà nel 6 maggio 1853 il Lafarina, che per il fallimento dell’editore che pubblicava le sue opere, si ridusse a fare il maestro di scuola in quella piccola città fino al 21 ago«sto 1854 quando si trasferì a Torino (596).

Un piccolo nucleo di emigrati napoletani si fermò a Marsiglia. Tra essi, i fratelli Agostino ed Antonino Plutino che, espulsi dopo il colpo di Stato, andarono a Torino (597), Salvatore Conforti, Giovanni Carducci, il barone Gennaro Bellelli di Capaccio, già deputato al Parlamento (598), il barone Giacomo Coppola che poi prese dimora in Firenze, Giuseppe Caputo di Barile in Basilicata, capo di una schiera di insorti nei moti del Cilento del 1848. Il Caputo esercitò a Marsiglia la professione di medico fino al 1856, poi si recò a Fultsca nell’impero ottomano Il Bellelli dopo breve sosta a Marsiglia, si stabili a Parigi, e da ultimo a Firenze nel 20 aprile 1852 (599).

In Marsiglia prese dimora Ignazio Turco, napoletano, modesto negoziante di farina, eletto per la sua grande popolarità deputato nel 1848. Più tardi, nell’aprile del 1857, si rifugiava in Marsiglia scarno ed avvilito Emanuele Leanza, cui, come ho precedentemente riferito, Ferdinando II aveva commutato nell’esiglio perpetuo dal regno la pena residuale dei ferri.

III. Londra divenne, dopo i rovesci italiani del 1849, ricovero specialmente dei proscritti devoti al Mazzini(600). Questi vi si era rifugiato nel 1850 dopo l’espulsione da la Svizzera e vi rimase, salvo brevi intervalli, fino al 1859 dopo la guerra d’indipendenza. Intorno a lui con reverenza di discepoli si raccoglievano i più fedeli seguani delle sue dottrine, Aurelio Saffi, Alberto Mario, Maurizio Quadrio, Mattia Montecchi, Giuseppe Libertini, Antonio Mosto i quali con opera instancabile esercitavano in tutte le provincie ita liane una propaganda intensa: causa a i governi della penisola di continue preoccupazioni. A Londra risiedeva il comitato nazionale, eletto da sessanta deputati della repubblica romana negli ultimi giorni di essa, che, presieduto dal Mazzini, pubblicava il 13 ottobre 1850 una protesta contro un prestito che l’Austria tentava nel Lombardo-Veneto(601). E nel 30 settembre 1851 lanciava un altro manifesto a gli italiani per incitarli ad una agitazione rivoluzionaria, unitaria e repubblicana. Il manifesto annunciava le dimissioni, dal comitato, del Sirtori per dissenso e del Saliceti che doveva assentarsi da Londra(602).

I rigori della polizia francese avevano costretto a riparare a Londra come già ho detto, molti profughi italiani, tra cui Aurelio Saliceti, Demetrio Salazaro, Ferdinando Petruccelli ed Antonio Guerritore che entrò nella redazione di un grande giornale inglese e poi imprese con successo a dare lezioni d’italiano. E molti altri esuli vi andarono scacciati dal Piemonte come narrerò tra breve (603).

IV. La maggior parte degli esuli della Sicilia, allorché questa ricadde nel dominio dei Borboni si era stabilita a Malta (604). La vicinanza a l'isola nativa, la completa fiducia nella protezione inglese avevano attirato colà, tra gli altri, il venerando Ruggero Settimo, Matteo Raeli, Giorgio Tamaio, il principe di San Giuseppe, Vincenzo Marsico (605).

Essi consideravano come loro capi Ruggero Settimo, accolto ed ospitato nell’isola dal governo inglese “più da principe che da suddito” (606) e Nicola Fabrizi che, reduce da la guerra di Spagna, aveva preso stanza in Malta fin dal 1837 con il proposito di preparare in Sicilia un moto insurrezionale. Ritornato in Malta dopo la caduta della rivoluzione del 1848, egli manteneva attiva corrispondeva con vari comitati liberali siciliani ed aveva raccolto segretamente una discreta quantità di armi e munizioni (607).

Il 15 maggio 1850 approdava a Malta il bastimento a vela napoletano Isabella su cui si erano imbarcati, come ho precedentemente detto (608), Teodosio De Dominicis, Giuseppe Feola e Giuseppe Verdoliva. Il bastimento, dopo lungo pellegrinaggio su le coste della Sicilia in attesa di vento favorevole, aveva potuto compiere la rotta per Malta. I tre profughi sbarcarono, ma rimasero nell’isola soltanto pochi mesi: il 2 dicembre 1850 partirono su la nave francese Erotos e discesero il giorno 5 successivo a Genova.

A Valletta erasi rifugiato il dottore Nicola Causale di Corleto Monforte. Il 15 luglio 1852 la polizia salernitana rinvenne, nella casa di lui, nel suo paese nativo, diciotto lettere da lui scritte da Valletta a i suoi parenti dal 12 marzo al 22 agosto 1851. L’intendente di Salerno Cav. Valia, indignato di una scoperta così tardiva, con lettere del 2 agosto 1852 scriveva al ministro di polizia: “Mi meraviglio della poca diligenza del giudice regio locale poiché non sono recenti le riservatissime circolari per la vigilanza su le corrispondenze con gli individui che sono a l’estero, specialmente emigrati (609). Il Causale si trasferìpoi da Valletta a Beirut e di là il 26 luglio del 1857 in Alessandria d’Egitto donde tornò novellamente a Malta nell’ottobre successivo” (610).

Una decisione della Gran Corte speciale di Napoli aveva ordinato per Giovanni D’Avossa, l’insigne giurista salernitano, il rinvio innanzi a la Gran Corte speciale di Salerno per rispondere dei delitti politici che gli si addebitavano in quella provincia. Venne quindi trasportato nelle carceri di Salerno in attesa del nuovo giudizio. Le angoscio della nuova prigionia lo indussero a chiedere la facoltà di emigrare negli Stati Uniti di America, ciò che ottenne nel giugno del 1855(611). Difatti qualche giorno dopo s'imbarcò sul piroscafo francese il Telemaco unitamente ad un altro perseguitato politico della stessa provincia, Licurgo Cavallo, ed al suo fido domestico Carmine Guadagno. Il piroscafo arrivò il 26 giugno a Malta, ed il D’Avossa, sofferente in salute, anziché proseguire il viaggio, approdò nell’isola(612)e con una supplica del giorno 29 successivo al governo di Napoli, domandò di poter restare in Malta data la sua salute malferma. La polizia napoletana rispose il 13 luglio che egli doveva proseguire per l’America, cosi essendogli stato rilasciato il passaporto; ma egli, nonostante questo rifiuto, restò a Valletta, ove si ristabilì alquanto. Il suo domestico Carmine Guadagno ebbe dal governo napoletano, il 28 aprile 1854, facoltà di tornare a Salerno (613).

Della dimora del D’Avossa nell'isola ho solo poche notizie che desumo da alcune sue lettere dirette in Napoli ad un tale Nicola Facella, modesto barbiere ma gran galantuomo, amico degli oppressi, servizievole e cortese massime con i liberali. A lui scrivevano spesso il D’Avossa da Malta, il Dragonetti da Parigi, lo Spaventa ed il Settembrini da l’ergastolo di S. Stefano (614).

Il D’Avossa si faceva mandare dal Facella da Napoli le medicine che gli occorrevano. Il 17 maggio del 1855 gli scriveva, chiedendogli una bottiglia di rob. “Questa è certamente l’ultima bottiglia e presto ci rivedremo Il 27 giugno successivo: “La mia salute non va male, le disgrazie si sono accumulate sul mio capo e sono quasi sei anni che l’una succede a l’altra Nel 14 marzo del 1856: “Spero di tornar presto in patria. Sono stanco di vivere fuori della mia patria e le circostanze dolorose di mia famiglia mi costringono di venire necessariamente in Napoli, sia che il governo mi chiami,sia che debba fare io la dimanda di entrare”. Il di 8 aprile 1857: “E la quarta pasqua che passo nell’esilio e Fotta va che passo nella sventura. Spero che quella, che verrà l’anno futuro, sia meno sconsolata delle precedenti. Dovrebbe essere cosi: ma tante volte fu questa mia speranza tradita dal destino che mi viene mancando la fede in essa. Comunque né la forza dell’animo, né la virtù del sapere soffrire mi mancano. Prima di altri due mesi verrò in Napoli”. La corrispondenza del D’Avossa esistente presso la biblioteca di S. Martino, sempre diretta al Facella, salta al 1862. Il dotto giureconsulto, costituito il regno l’Italia, fu nominato, con decreto dittatoriale del 17 settembre 1860, avvocato generale della Corte Suprema di giustizia di Napoli, quindi consigliere di luogotenenza con il portafoglio della giustizia, da ultimo vicepresidente della Corte stessa e senatore del regno (615).

Vivevano tranquillamente in Toscana, parecchi proscritti del mezzogiorno d’Italia.

A Pisa si erano rifugiati fin da l’inizio della reazione in Napoli il prof. Raffaele Piria e labaronessa Begani, vedova del generale Begani, il valoroso difensore di Gaeta nel 1815. Accorse colà nell'11 agosto del 1849 Mariano D'Ayala, accolto con fraterna ospitalità da quella nobile donna, e vi si trattenne fino a l’agosto del 1852 in cui si trasferì a Torino (616). Giungeva a Pisa nel febbraio del 1853 Giacomo Tofano prefetto di polizia durante il periodo costituzionale in Napoli. Ripristinato il governo assoluto, egli aveva ripreso l’esercizio della professione forense; ma, mentre attendeva con nobile zelo a la difesa di Carlo Poerio e di altri imputati nella famosa causa per gli avvenimenti del 15 maggio 1848, era stato arrestato il 1° febbraio del 1850 e tenuto nelle carceri di S. Maria Apparente e poi nel Castello dell’Uovo. La polizia gli impose l’esilio e lo fece imbarcare il 10 febbraio del 1853 per Marsiglia: egli invece, approdato a Livorno, si recò a Pisa ove dimorò cinque anni e mezzo (617). Ivi arrivò da Parigi Roberto Savarese. Questa eletta di esuli soleva radunarsi la sera in casa della baronessa Begani (618).

Fissarono invece dimora in Firenze, tra gli altri esuli, il gen. Ottavio Tupputi e Gennaro Belletti, venuti da la Francia, Enrico Berardi, Saverio Altamura l’insigne pittore ohe avea combattuto su le barricate in Napoli il 15 maggio 1848, il principe Gioacchino Lequile, il barone Tommaso Valiante ricco proprietario del Salernitano, il barone Giacomo Coppola, venuto eli poco da Marsiglia, Ferdinando Ranalli, Ferdinando Fonseca di Potenza ferito nella battaglia di Curtatone, Francesco De Blasiis(619). Ripararono a Firenze nel febbraio del 1859 Gabriele Costa, Giuseppe De Simone, Giovanni De Falco e Giuseppe Vacca(620).

VI. Il maggior numero degli esuli risiedeva nel Piemonte e nella Liguria(621). Il governo sardo fu sempre, meno per i più fervidi proseliti del Mazzini, da i quali temeva disordini, “prodigo d'ospitalità verso gli emigrati e non mancò di conferire cattedre e pubblici uffici a gli esuli più distinti, e di dare sussidi ai più bisognosi” (622). L’indirizzo apertamente nazionale dato dal conte Cavour al governo(623)faceva convergere al Piemonte le speranze di tutta la parte liberale italiana specialmente degli esuli, molti dei quali, dopo il colpo di Stato del 2 dicembre, lasciarono la Francia per stabilirsi in Nizza, in Genova ed inTorino. IlCavour teneva a chiamare a cattedre o a pubblici uffici cittadini di altre provincie come affermazione del sentimento nazionale.

Fin dal 1851 venne stanziata nel bilancio dell'interno del regno sardo una somma di L. 160 mila per soccorso a gli emigranti poveri, provvedimento degno tanto di maggior lode in quanto il Piemonte, dopo i rovesci militari del 1849, lottava con le maggiori difficoltà di finanza. A la distribuzione dei sussidi provvedeva un comitato, presieduto da l’abate Carlo Cameroni (624). Però il governo esercitava su gli esuli una accurata sorveglianza, massime su quelli da cui poteva sospettarsi incitamento ad agitazioni, e molti ne arrestò e ne espulse.

VII. Attirati da la dolcezza del clima e da la bellezza del paese avevano stabilita la loro dimora in Nizza il marchese di Torrearsa (625), Michele Primicerio calabrese, vecchio liberale, compromesso politico fin dal 1842, Filippo Abignenti, Rosario Giura, e dopo qualche anno di permanenza a Parigi P. E. Imbriani (626) e Carlo Gemelli, questi dopo avere dimorato in Inghilterra, in Francia, nel Belgio ed in Toscana (627).

La cittadinanza nizzarda e le autorità locali si mostravano assai benevole a gli esuli, ed il consiglio comunale della città, per aiutare i più bisognosi tra essi, istituì a loro favore, con deliberazione del 22 giugno 1850, un comitato di soccorso (628) diretto da l’Abignenti, il quale non solo distribuiva sussidi a i più miseri, ma procurava l’imbarco gratuito per Genova su i piroscafi postali a coloro che volessero recarsi colà in cerca di lavoro (629).

Quei pochi esuli vivevano affratellati tra loro. Purtroppo il piccolo numero si andò diradando Periva l'11 luglio 1850 il Primicerio, che godeva grande e meritata autorità per l’antico ed illibato patriottismo. I suoi compagni, tra i quali Flmbriani, Michele Amari, che aveva lasciato da poco Parigi, Antonio Mordini, Felice Orsini accorsero a rendergli l’estremo tributo di affetto (630). Nel settembre successivo lo seguiva nel sepolcro l’altro esule napoletano Rosario Giura (631), anche egli vivamente rimpianto da i suoi compagni.

Nel maggio del 1852 si stabilirono a Nizza Girolamo Ulloa, Damiano Assanti e Gugliemo Pepe (632). Quest’ultimo avea lasciato Parigi per non trovarsi presente a le feste dell'incoronazione di Napoleone III, che egli considerava come oppressore della libertà in Francia. Il Pepe prese in fitto una bellissima villa ed ivi spesso accoglieva fraternamente i suoi compagni di esilio. Da essa scriveva al D'Ayala nel 1852: “Io scorro giorni, la cui tristezza non è punto mitigata dalla dilettevole villa che abito la quale non mi fa punto dimenticare le sventure patrie, l’esilio lunghissimo e la perdita del solo fratello a me rimasto di tanta numerosa famiglia: e quale fratello voi il conoscevate” (633).

Un altro lutto raccolse gli emigrati politici Il 19 marzo 1852 moriva in Nizza Rosa Raimondi madre di Giuseppe Garibaldi. Gli esuli residenti nella città, intervennero tutti a le modeste esequie nelle quali “a significare l’affetto di tutti i perseguitati di ogni paese d’Europa verso l’eroe, tennero i cordoni del feretro quattro emigrati, uno italiano, uno francese, uno russo ed uno polacco” (634).

VIII. Genova aveva potenti attrattive su i proscritti delle due Sicilie per le facili e continue relazioni con Napoli mediante i piroscafi postali e per il fascino che esercitava su gli spiriti più vivaci ed arditi con le sue antiche tradizioni repubblicane e come patria di Giuseppe Mazzini(635). Presero dimora in Genova i reduci della difesa di Roma fra cui Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Vincenzo Carbonella Rosalino Pilo, i tre Romeo, Francesco Stocco, Luigi Miceli, Federico. Torre, Filippo Patella, Leonino Vinciprova, Domenico Mauro, Antonio Greco.

A questa prima schiera segui un gruppo dei profughi da Venezia: tra gli altri, come ho già accennato, il Cosenz, Camillo Boldoni, Francesco Carrano, Giuseppe Virgilii, Carlo Mezzacapo che visse in Genova tre anni e mezzo con suo fratello Luigi con il quale pubblicava l a Biblioteca militare (636).

Nei tristi anni, che volsero di poi, affluirono a Genova in gran numero i liberali napoletani colpiti da i processi iniziati dal governo borbonico per gli avvenimenti del 15 maggio, massime gli ex deputati al Parlamento sottoscrittori della famosa protesta Mancini. Tra costoro Francesco Mazziotti che, fuggito da Napoli insieme con Michele Primicerio il 10 ottobre 1849 su la nave da guerra l'Ariel, era andato prima a Malta ove gli fu ingiunto Io sfratto. Un altro ex deputato UlisseDe Dominicis, aveva potuto, come ho già narrato(637), mettersi in salvo il 18 maggio del 1850 in Malta insieme con Giuseppe Verdoliva di Rutino ed il suo domestico Pasquale Feola. Chiesero al console generale di Napoli un passaporto per Marsiglia; ma il console non lo concedette loro che nell’agosto successivo in seguito a ripetute rimostranze del governo inglese(638). Nel corso del viaggio ottennero di approdare a Genova, ove restò il De Dominicis col suo domestico, mentre il Verdoliva andò a stabilirsi a Torino(639).

In Genova presero pure stanza altri tre proscritti della provincia di Salerno, Enrico Mambrini, già segretario di quell’intendenza, il qualecome ho raccontato in altro scritto(640), si era gravemente compromesso in quell’ufficio, Giovanni Carducci, fratello di Costabile ucciso ad Acquafredda, Filippo Vitagliano di Cicerale, uno dei capi della rivolta del Cilento nel luglio 1848 (641), Francesco Curzio e, qualche anno dopo, i germani Francesco Paolo e Michele Del Mastro di Ortodonico.

Raffaele Conforti, l’eloquente avvocato salernitano, ministro dell’interno nel 1848, era stato pochi mesi dopo uscito dal governo, costretto a nascondersi stante un mandato di arresto spedito a suo danno. Per mezzo del ministro francese in Napoli aveva ottenuto, insieme con il Mancini, il Pisanelli, il duca di San Donato ed altri compromessi politici, un rifugio su l’Ari el ove si imbarcò vestito da marinaio. In Genova attese qualche anno a studi di filosofia e di diritto e vi fondò una Accademia di filosofia italica che si riunì la prima volta il 5 gennaio 1851. Una sua conferenza sul migliore ordinamento del lavoro nei ricoveri di beneficenza destò il plauso generata della cittadinanza (642).

Una lieta emozione penetrò l’animo degli emigrati d’ogni parte d’Italia, specialmente del regno delle Due Sicilie, la mattina del 17 luglio 1850 quando si seppe l’arrivo nel porto di Genova della nave da guerra francese S olon che aveva a bordo Francesco Angherà, fuggito miracolosamente da le carceri della Vicaria (643). Andarono in folla a salutare il valoroso, che aveva combattuto nei moti di Calabria del 1848 ed era stato arrestato con i capi della spedizione sicula da la fregata napoletana Lo Stromboli nelle acque di Corfù. I più autorevoli esuli a Genova, tra cui il Conforti e Casimiro De Lieto, ottennero dal Galvagno, ministro dell’interno, che allora si trovava a Genova, il permesso di sbarco per il profugo. A i caldi ringraziamenti degli intercessori il ministro rispose nobilmente “il governo sardo non ha mai negato ospitalità a coloro che, avendo propugnato la causa della libertà italiana, vengono in questa terra a chiedere asilo e che tale ospitalità era dal governo considerata un dovere” (644). L’Angherà andò poi a Torino e Malta, ove visse con suo zio arciprete Domenico Angherà, antico liberale.

A i numerosi emigrati residenti a Genova si aggiunsero dipoi varii altri, che gli avvenimenti di Francia avevano costretto a cambiare cielo. Tra essi i due fratelli Emerico e Michele Amari, il marchese di Torrearsa, Stanislao Cannizzaro, Salvatore Calvino, Bonaventura Mazzarella e molti altri.

Gli emigrati a Genova vivevano quasi tutti con il lavoro, per lo più in modesti uffici. La comune sventura, l’affetto a la patria lontana li affratellavano profondamente. In ogni circostanza di lutto, di commemorazioni patriottiche, di importanti notizie del regno, di lieti avvenimenti domestici si riunivano come una sola famiglia. Presero parte in grandissimo numero, nel 10 agosto del 1862 a le esequie della madre del Mazzini(645)e nel di dei morti de l’anno successivo andarono con la società operaia e con moltissimi cittadini genovesi al camposanto di Staglieno per commemorare la donna che aveva dato i natali al primo apostolo dell’unità nazionale.

Nell’estate del 1854 il colera penetrò in Genova. Gli esuli pensarono di costituire un’associazione tra loro per assistere i malati e dettero l’incarico di formarla a Giacomo Medici, Oreste Regnoli e Filippo Caucci Melara i quali in una circolare ai loro compagni scrissero: “Chi fra noi ha cuore, in questi gravi momenti non può non concorrere operosamente o con la persona o con i mezzi pecuniali a recar sollievo e conforto ai nuovi patimenti che minacciano i nostri compagni, a molti dei quali, oltre i soccorsi medici e la vostra assidua assistenza, è pur uopo recare altro genere di soccorso mercé cui possa provvedersi alla loro cura ed al vitto durante la malattia e la convalescenza. Ninno fra noi, avvezzi già al soffrire, mancherà in uno o in altro modo e secondo le sue forze al suo debito”. A questa iniziativa aderì il giorno stesso, con una breve lettera al Medici, Giuseppe Garibaldi, allora in Genova. Parecchi medici emigrati, tra cui il Bertani, il Giglioli di Modena, il Pasquali di Ancona, il Carbonelli di Bari, Giuseppe La Loggia di Palermo, il Rossi di Parma e il Sacchi di Mantova dettero gratuitamente l’opera loro(646).

Il buon successo di questa associazione incoraggiò gli esuli a costituirne un’altra permanente tra essi che venne chiamata la solidarietà nel bene. Aveva per scopo principale l’assistenza ed il mutuo soccorso tra i soci ed anche a pro di estranei. L’associazione ebbe centoventi componenti, tra cui i napoletani Miceli, Carbonelli, Guglielmo Cenni, Camillo Boldoni, il Cosenz, il Mazziotti, il Pisacane, Licurgo Cavallo, il barone Giacomo Coppola, Francesco De Blasiis, Francesco Carrano, Casimiro De Lieto, Gaetano Giardini, Antonio Greco, Carlo Mileti, Bonaventura Mazzarella, Lorenzo Montemavor, Pietro Romeo, Federico Salomone, Giuseppe Virgilio, Francesco Curzio, i siciliani Vincenzo Cianciolo, Giuseppe Natoli, i fratelli Luigi, Paolo, Salvatore e Giuseppe Orlando, Salvatore Calvino, Achille Campo, Gaetano La Loggia, Vincenzo Natoli, Rosalino Pilo(647). L’associazione possedeva un gabinetto di lettura con molti libri ed oltre un centinaio di giornali(648).

IX.A Torino dimoravano moltissimi emigrati, d’ogni parte di Italia, tra i quali più di cento meridionali. “II numero degli esuli,” scrive il D’Ayala, “cresceva ogni giorno perché ne venivano di Francia, di Toscana, di Malta, quando ciascuno, a mente più serena e con mezzi migliori, ebbe agio di scegliere un domicilio, lasciando quei paesi dove il caso e il bisogno di salvezza l’avevano sbalzato” (649). Presceglievano Torino d’ordinario gli emigrati di idee monarchiche costituzionali. Vi era il fiore dell’ingegno e della coltura meridionale e la cittadinanza li teneva in grande conto. Il Cordova aveva una cattedra di dritto a l’università e quella di statistica nel collegio nazionale e poi divenne direttore del giornale Il Risorgimento (650): Pasquale Stanislao Mancini insegnava nell’università dritto internazionale(651), i fratelli Luigi e Carlo Mezzacapo, stabilitisi a Torino nel 1857, pubblicavano la Rivista militare e godevano molta stima nell’esercito: Stanislao Cannizzaro destava viva ammirazione con l’insegnamento della chimica(652): Antonio Scialoia ebbe dal conte di Cavour, con decreto del 30 luglio 1853, il posto di consultore legale nel catasto(653). Raffaele Piria venne chiamato da Pisa ad insegnare nell’università di Torino ed ivi si trasferì con la moglie e con il fratello di lei Enrico Cosenz(654). Carlo Gemelli, dopo aver fatto per qualche tempo il maestro elementare in Torino, fu mandato a premura del Cordova, ad insegnare Storia nel collegio nazionale di Ivrea e vi rimase parecchi anni(655). Angelo Camillo Meis, che aveva dovuto ridursi nei primi tempi a fare il ripetitore nel collegio delle provincie, fu poi nominato professore nello stesso collegio e vi restò fino al 1860(656). Francesco Campo era maestro nelle scuole di Alessandria(657), Francesco Giordano di Lustra in provincia di Salerno, esercitava la professione di ingegnere e compilò il progetto della ferrovia litoranea da Genova a Pisa. Giuseppe Pisanelli faceva con gran successo l’avvocato, Fing. Francesco Mandoi Albanese insegnava matematiche nell’università.

Dimoravano altresì a Torino gli esuli siciliani Francesco Ferrara insigne economista che fu poi ministro delle finanze nel regno d’Italia, Giacinto Carini, che prese parte a la spedizione dei mille, Luigi e Giuseppe Natoli, Giuseppe La Farina, i napoletani Bertrando Spaventa, Ernesto Del Mercato, Filippo Argentino, Giuseppe Massari, Piersilvestro Leopardi, Aurelio Saliceti, Federico Torre, Ruggiero Bonghi, i fratelli Plutino, Francesco De Sanctis, Pasquale Scura, Salvatore Tommasi, Antonio Ciccone, Cesare Oliva e molto più tardi, nell’aprile del 1860, Gennaro De Filippo e Diomede Marvasi.

Teneva il primo posto nell’emigrazione napoletana il Mancini ohe, oltre a l’insegnamento, attendeva a l’esercizio forense ed a la pubblicazione, insieme con il Pisanelli e lo Scialoia, del magistrale commento al codice di procedura sardo. Per le cause più importanti era chiamato ordinariamente il Mancini che brillava per la grande eloquenza e la mirabile dottrina. A le sue arringhe accorreva numeroso uditorio di oolleghi, di amici, di cittadini desiderosi di ascoltare il potente oratore e l’eminente giurista. La sapienza e sovratutto l’infinita bontà dell’animo generoso gli conciliavano le più vive simpatie e tenaci amicizie nella parte più eletta della cittadinanza.

La sua casa al primo piano del palazzo Molines in via Doragrossa era aperta a tutti, specialmente a gli esuli che solevano spesso la sera raccogliersi intorno a lui. Si cantavano canzonette napoletane e si conversava di arte, di letteratura, e sopra tutto di politica. Egli prestava a i suoi compagni di esilio, con completo disinteresse, l’opera propria, e sovveniva con i larghi guadagni della professione, i più bisognosi. Frequentavano la sua casa i fratelli Mezzacapo(658), lo Scura, il quale, nonostante le patite sventure, che ho narrato in altro scritto(659), mostravasi sempre ilare e vivace(660), il Leopardi, il Mandoi Albanese, il De Sanctis, che poi andò professore a Zurigo, il Saliceti, il Torre, il Massari, il Bonghi, giunto a Torino nel dicembre del 1850(661), i fratelli Plutino.

Il 17 luglio 1852 Raffaele Conforti, lasciando Genova, si stabilì a Torino, e colà, nel successivo settembre, chiese ed ottenne di essere abilitato a l’esercizio dell'avvocatura(662). Istituitasi una

società di mutuo soccorso fra gli emigrati, ne divenne il presidente(663). Il 4 novembre del 1852 parlò eloquentemente in una solenne commemorazione dei martiri della libertà italiana tenuta nel camposanto di Torino.

Nello stesso anno prendeva dimora a Torino Mariano d’Avala che era stato dapprima a Genova. Il Canofari ministro napoletano a Torino comunicava al suo governo, con nota del 14 settembre 1852, l’arrivo del d’Avala soggiungendo: è stato festevolmente accolto da i suoi compagni e si è stabilito qui per iniziare in novembre un corso di matematiche, storia e geografia militare d'Italia” (664).

Riparò parimenti a Torino Giuseppe Del Re anche egli deputato al parlamento napoletano e lo raggiunse colà nel settembre 1856, la sorella Vittoria, vedova di Costabile Carducci, stanca delle continue vessazioni che le infliggeva la polizia. Nello stesso anno il Del Re, seguito da la sorella, andò a Pinerolo a dirigere il giornale “La Specola delle Alpi(665).

La sera del 18 novembre 1852 giungeva da Parigi a Torino la salma di Vincenzo Gioberti che venne esposta per tre giorni nella chiesa di S. Pietro in Vincoli. A i solenni funerali di lui il 23 novembre nella chiesa del Corpus Domini soltanto civili non avendo voluto prendervi parte il clero, intervennero tutti gli emigrati residenti in Torino, il conte di Cavour presidente del consiglio dei ministri, molti ministri, i presidenti delle due Camere, senatori e deputati e gli studenti dell’università. Parlò il sindaco di Torino (666) (667).

Altra casa di fraterni ritrovi per gli esuli era quella di Giacomo Tofano stabilitosi a Torino nel febbraio del 1853. Uno dei suoi compagni più affettuosi ha scritto: “Quasi ogni sera nella casa ospitale del Tofano convenivano il D'Ayala, e gli amici Pisanelli, Conforti, Ciccone, Trinchera, Del Re, Tommasi, De Meis, Imbriani, San Donato, Leopardi, Mandoi, Federico Torre, Marvasi, Giuseppe Moccia, Bertrando Spaventa. Era una famiglia sola. Appena giungeva una lettera da Napoli, uno correva a farla leggere all’altro. Si aspettava sempre l'annunzio di una rivoluzione e si fremeva, lamentando l’ignavia: mentre quei di Napoli palesavano le difficoltà di una sollevazione, l'indifferenza del popolo, la potenza della forza, e i pericoli della non riuscita. Tutti erano più o meno poveri, ma fra essi regnava amore e rispetto maggiori che nei giorni delle ventimila lire all’anno e si aiutavano a vicenda senza invidia. Se c’era un malato, De Meis, Tommasi e Ciccone correvano ad assisterlo amorosamente: se un bambino aveva bisogno di maestri, De Sanctis, Del Re, D'Ayala, Trincherà, Bertrando Spaventa, Rosei, Torre erano pronti a fargli lezione. E nei giorni di festa, come quelli di Pasqua e del Ceppo, quando si facevano più vivi e pungenti il ricordo ed il desiderio della patria lontana e il pensiero correva al chiasso ed a l’arruffio di Toledo, accanto alla pace inalterata delle vie di Torino, i medesimi amici erano invitati alla mensa di quella santa e nobile donna ohe fu Angiola Tofano, la quale a via di stenti e di fatiche voleva imbandire loro i cibi preferiti nel paese nativo. Ed ogni volta il fraterno convegno si scioglieva con l’augurio di celebrare le nuove feste nella patria risorta” (668).

Mirabile per generosità ed abnegazione era sovratutto l’opera di Camillo De Meis. Giustamente ha scritto l’Amante che “a Torino dove il De Meis visse dal 1853 al 1860, non vi fu un emigrato infermo al quale egli non prestasse il soccorso della scienza medica, come non vi fu pure un bisognoso di aiuto al quale egli non aprisse la sua borsa” (669).

Un triste pensiero accorava gli esuli: quello di morire lontani dal proprio paese. Ogni perdita, che si verificava tra essi o nei loro congiunti, si sentiva da tutti come un lutto di famiglia. Col dolore nell’animo accorrevano premurosi a le estreme onoranze a gli estinti e ne ricordavano con parola reverente e commossa le virtù. Cosi avvenne tra gli altri per Raffaele Poerio l'antico e valoroso patriota morto nel 19 novembre 1853 di apoplessia(670)e per Vincenzo D’Errico, insigne avvocato di Potenza che aveva avuto tanta parte negli avvenimenti della sua provincia nel 1848, e che soccombè a Torino nel 1855. E non omettevano di intervenire a commemorazioni patriottiche ed anche di promuoverle come fecero nel 27 giugno del 1850 per il colonnello Cesare Rossaroll morto nella difesa di Venezia(671).

Parve agli esuli italiani in Torino di aver perduto un padre quando la sera del 8 agosto 1855 mori nella villa Radicati presso Moncalieri il generale Guglielmo Pepe che aveva combattuto al ponte de la Maddalena nel 1799 contro le masse del cardinale Ruffo, capitanato la rivoluzione del 1820 e la difesa di Venezia nel 1849. Il vecchio venerando, che personificava nobilmente i più belli episodi del patriottismo italiano, aveva lasciato Nizza per Torino il 7 giugno 1854. Colpito da idropisia fu per varii mesi gravemente infermo senza un istante di riposo tra persistenti sofferenze. Lo assistevano amorosamente la moglie Anna Cowentrygentildonna scozzese da lui conosciuta in Londra nel 1822, Enrico Cosenz, il nipote Damiano Assanti suoi compagni nella difesa di Venezia(672).

Il glorioso veterano ispirava una profonda ammirazione nella Corte piemontese, nella cittadinanza di Torino e nei suoi compagni di esilio. Allorché ne i primi di novembre del 1849 egli era passato per Torino con i reduci di Venezia il re Carlo Alberto aveva voluto vederlo e lo aveva accolto affettuosamente e con grande commozione(673).

Il giorno 11 ebbero luogo le esequie. Il corteo funebre, partendo dalla chiesa della Madre di Dio, si diresse per la via della Posta al camposanto. La salma fu deposta accanto a quella del Gioberti. Parlarono Emanuele Arago, il D'Ayala, l’avv. Pier Carlo Boggio, l’Imbriani, il De Sanctis. Intervennero ministri, senatori, deputati, tutti gli esuli napoletani e siciliani, moltissimi di altre provincie, più di cinquecento guardie nazionali e gran numero di cittadini (674).

Verso la metà del gennaio 1859 i giornali napoletani riportarono la notizia del decreto, con cui Ferdinando II aveva commutata la pena dei ferri in quella dell’esilio al Poerio ed a molti condannati politici. Si seppe successivamente che essi erano stati imbarcati per Cadice per andare quindi negli Stati Uniti d’America. Trepidavano gli esuli al pensiero che tanti uomini generosi, logori da la prigionia di un decennio, avanzati di età non potessero resistere al disagio di una cosi lunga e faticosa traversata a vela. Si attendevano con impazienza notizie dello sbarco a New York quando d’improvviso si conobbe il loro approdo in Irlanda, le liete accoglienze colà ricevute, le grandi feste preparate a Londra per essi. Esultarono i proscritti per le nobili onoranze rese a quelli sventurati, per la generosa ospitalità del popolo inglese conferma della profonda simpatia di esso verso la causa italiana.

Si desiderava il loro pronto ritorno in Italia, specialmente di Carlo Poerio noto più di tutti per le illustri tradizioni familiari, per la grande autorità che godeva tra i suoi compagni, per l’eroico contegno tenuto tra i ferri. Ma il conte di Cavour scriveva nel marzo del 1859 ad Antonio Scialoia:

“Quantunque vivo sia in me il desiderio di vedere il nostro paese onorato dalla presenza dell’illustre Poerio e dei suoi compagni di sventura credo che essi possano ora molto più giovare alla causa nostra rimanendo in Inghilterra che recandosi in Piemonte. Possono colà molto influire sulla pubblica opinione, sia che la guerra si rompa immediatamente, sia che si abbia a subire la fase di un congresso” (675). Lo Scialoia si affrettò a comunicare questa lettera al Poerio ed a rivolgergli la preghiera a nome del Cavour di redigere una memoria su le condizioni del regno di Napoli per presentarla al Congresso(676). Il Poerio, aderendo a l’invito dell’eminente statista, si trattenne qualche tempo a Londra ove ebbe colloqui col Gladstone, col Russel e con i principali uomini di Stato inglesi(677).

Intanto i compagni del Poerio a piccoli gruppi partivano alla volta di Torino ove ebbero le più festose accoglienze. Il giorno 16 aprile ne giungevano a Torino diciotto. A l’annunzio del loro arrivo gli esuli andavano a riceverli con animo commosso da ammirazione e da affetto fraterno: i giornali piemontesi volgevano ad essi un reverente saluto, la cittadinanza di Torino li festeggiava in ogni rincontro. Il giornale L'Opinione del 23 aprile indicava come giunti a Torino trentadue di quei deportati e ne indicava i nomi: Aletta, Bagnato, Giuseppe, Bellantonio, Bianchi, Bozzelli, Castromediano, Crispino, Cuzzocrea, De Gerolamo, De Simone, Dono, Esposito, Dardano, Filace, Mascolo, Mauro, Mazzeo, Mollica, Montano, Notare, Luigi Palumbo, Piccolo, Porcaro, Procenzano, Riccio, Rocco, Salsa, Serino, Surace, Travia, Tripepi. Gli altri giunsero successivamente.

Si era allora a la vigilia della guerra con l’Austria. Vibravano nella popolazione torinese e negli esuli un altissimo entusiasmo, una fede incrollabile nei destini della guerra, una fraterna simpatia verso i proscritti delle altre regioni italiane massime verso i nuovi venuti simbolo dei comuni dolori. Il Poerio ed i suoi compagni di sventura sentivano finalmente, dopo tanti anni di carcere e di galera tra volgari malfattori, la gioia di essere alfine in terra italiana e libera ove tutti palpitavano per la nobile causa coi essi avevano consacrata la vita. Luigi Settembrini uno dei più illustri compagni del Poerio con la sua forma semplice e schietta scriveva in quei giorni: (tt)Torino è bella e mi piace, è terra d’Italia, io sento che il cuore mi batte più forte e più libere(678).

CAPITOLO XV

Gli esuli napoletani e gli avvenimenti politici

SOMMARIO. — I. La notizia del moto di Milano del 6 febbraio 1853 desta grande impressione negli esuli — Distacco di molti liberali dal Mazzini — Arresto ed espulsione di emigrati politici nel Piemonte. —Relazioni di alcuni esuli con Luciano Murat — Idea di una restaurazione murattista — L’opuscolo del Saliceti in favore di essa — Dichiarazione di Daniele Manin — Lettera del Murat al Times — Protesta di molti esuli delle Due Sicilie — Pubblicazione di Francesco Trincherà — Risposta del La Farina e del De Sano tis — Silenzio di molti altri esuli — Erronea interpretazione di questo — Colloquio del La Farina con Cavour — Contegno del grande statista piemontese — Dichiarazioni del Poerio, dello Spaventa e dei loro compagni di galera contro il murattismo. — III. Prime notizie del moto siciliano promosso dal Bentivegna e dell’attentato di Agesilao Milano — Coniazione di una medaglia in onore di entrambi — Carmi di Del Re, di Laura Beatrice Oliva e dell’Imbriani in onore del Milano — Processi per apologia del regicidio. — IV. Lettera del Manin favorevole a la dinastia di Savoia — La parte liberale e gli esuli si raccolgono intorno al programma del Manin — La Farina pubblica il Piccolo Corriere d'Italia — giornale L'Indipendente — Adesione del La Farina al programma del Manin — Fondazione della Società nazionale — Molti esuli si ascrivono ad essa — Lettera del Cosenz —L’adesione di Garibaldi — Costituzione del comitato centrale e dei comitati provinciali — Estese relazioni della Società e sua propaganda continua. — V. Agitazioni in Napoli — Preparativi in Genova per una spedizione nel regno — Lettere del Cosenz e del Pisacane — Il Mazzini in Genova — Dissensi tra gli esuli su la spedizione — Giovanni Nicotera — Partenza della spedizione — Moti in Livorno ed in Genova — Notizia dei disastri di Padula e di Sanza — Arresto ed espulsione di mazziniani — Protesta degli altri esuli. — L’Entusiasmo per il discorso reale del 1859 e per la guerra imminente — Concorso di giovani nell’esercito e nei cacciatori delle Alpi — Dolore degli esuli per il contegno di Napoli — Una lettera di G. B. Riccio — Colloquio di Cavour con Poerio e Scialoia — Conferenza di questi ultimi con il conte di Salmour — Dissensi tra gli esuli — Manifestazione di quelli residenti in Toscana — Invito ad una adunanza in Torino —Dichiarazioni del Poerio, dello Scialoia e di altri — Deliberazioni dell’adunanza degli emigrati — La fine di Luigi Parente, — VII. Tenace lavorio degli emigrati per destare la rivolta nel mezzogiorno — Dolorose delusioni degli esuli — Rapporti del console napoletano a Genova — Pratiche del ministro napoletano a Parigi presso il governo francese — Gli emigrati meridionali insistono per l’insurrezione delle loro provincie — Moto del 4 aprile in Palermo — Il comitato di emigrazione a Genova — Si raccoglie danaro per aiutare il moto siciliano — Riunione degli esuli a Torino — Preparativi per una spedizione in Sicilia — Vi prendono parte molti esuli — Emigrati della provincia di Salerno tra i mille.
I. — Il 7 febbraio 1853 giunse improvvisa a Torino ed a Genova la notizia che schiere di popolani avevano, la sera precedente in Milano, trucidato parecchie sentinelle austriache, assalita la gran guardia ed eretto barricate in varie strade. I profughi lombardi si apprestavano a correre in soccorso della rivolta milanese quando si seppe che il Radetzky l’aveva prontamente domata, messo in stato di assedio la città e mandato al patibolo dodici tra. i più compromessi.

L’avvenimento sollevò un’onda di biasimo e di invettive contro il governo austriaco per gli atti crudeli compiuti e contro i promotori dell’audace sommossa, destinata evidentemente, per mancanza di ogni seria preparazione e di mezzi adeguati, solo a creare nuove vittime ed altri dolori. Le ire si addensavano principalmente contro il Mazzini che, per eccitare la rivolta, era andato in segreto nel dicembre precedente a Lugano e non tornò a Londra che nel maggio successivo(679). La maggior parte dei liberali perdette ogni fede nei creatore della Giovine Italia e volse le sue speranze al Piemonte. Anche fidi mazziniani ed uomini di azione come il Bertani, il Medici, il Cosenz deplorarono il temerario tentativo. “Il Mazzini — scrive la Mario — abbandonato, dopo quei fatti, da molti amici apertamente e da altri tacitamente, continuò per la sua strada, più mesto, col cuore straziato, ma più risoluto che mai” (680).

La stampa retriva trasse pretesto dal moto milanese per insolentire contro il Piemonte che dava sicuro ricetto a tanti esuli e cospiratori. governo sardo usciva allora da una contesa diplomatica con la Francia e con l’Austria per l’ospitalità ad essi concessa Il D’Azeglio, presidente del consiglio dei ministri, aveva fieramente scritto nell’8 marzo del 1852 a Parigi che il governo piemontese non sarebbe mai addivenuto ad una politica di persecuzione contro i fuorusciti(681). Ed invano il conte Buoi ministro degli esteri in Austria aveva rimproverato, con nota del 13 luglio dello stesso anno, il governo sardo per le macchinazioni degli esuli. Parve però in questa circostanza a coloro, i quali dirigevano la politica piemontese, che occorresse mostrare apertamente a la pubblica opinione e specialmente a i governi stranieri il biasimo del governo per le mene mazziniane, che alienavano a la causa nazionale le simpatie della stampa liberale estera ed accreditavano, per l’uso del pugnale avvenuto nella sommossa milanese, vecchie ed odiose leggende contro il buon nome italiano. Volle il governo sardo respingere ogni solidarietà con. si dannose agitazioni espellendo gli esuli più sospetti di favorirle(682).

Uno dei primi a subire lo sfratto fu Giovanni Lacecilia, esule napoletano in Torino, che aveva pubblicato il 9 febbraio, a le prime notizie di Milano, un manifesto incendiario con cui esortava i cittadini ed anche i soldati piemontesi a correre in soccorso degli insorti(683). Nello stesso mese di febbraio vennero espulsi e scortati fino al confine parecchi altri esuli, tra cui Mauro Macchi, Pietro Maestri, il Grioli, il Trenti, il Crispi, allora a Torino, il Pellatis, il Gattai, il Fortunato, il Benato(684). Altri sessantasei emigrati espulsi furono imbarcati a Genova per Nizza su la corvetta sarda S. Giovanni per andare in America(685); altri venti con quattro donne e due bambini partirono il 1° maggio successivo per Malta su L’Ellespont (686) ed altri ventisei vennero condotti a Villafranca.

Continuarono in tutto l’anno gli arresti e gli sfratti. La polizia arrestava, in Genova, la notte tra il primo ed il due settembre sedici emigrati politici e li mandava sul piroscafo Virgilio a Villafranca(687): il 2 ottobre ne imprigionava altri novantasei(688), parecchi altri in Torino il giorno 7(689). Sedici di costoro, appartenenti al ceto operaio, vennero imbarcati a Genova sul medesimo piroscafo Virgilio per Villafranca(690): il 12 ne furono espulsi molti altri in Valenza(691). Il 10 novembre il piroscafo E uri dice salpando da Genova con gli emigrati tratti in arresto nel mese precedente e rimasti sino allora nelle carceri, raccolse a Villafranca altri emigrati chiusi nel lazzaretto, e continuò la rotta per Londra e per l’America(692). Nel dicembre 1854 il governo sfrattava altri sessanta emigrati, che condotti il giorno 18 sul piroscafo Des Genevs della marina regia sarda partirono per New York(693).

Questi provvedimenti esasperarono vivamente la parte liberale. La White Mario raccontando le vicende di quei giorni scrive: “Ilgoverno piemontese arrestò, imprigionò, sfrattò e cacciò in America con accompagnamento di infami calunnie gli uomini più insigni dell'emigrazione, molti dei dei quali si erano astenuti dal tentativo (694).

II.Nel corso del 1850 andava a Torino, come ministro di Francia, Luciano Marat figlio del fucilato di Pizzo. La sua presenza nella capitale piemontese suscitò negli esuli napoletani il ricordo del breve ma non inglorioso regno di Gioacchino e delle grandi simpatie da esso lasciate nel mezzogiorno d’Italia e rese più vive per la tragica fine del valoroso monarca e per le lunghe miserie ed i dolori che la seguirono. Sorse allora in varii esuli napoletani l’idea di scuotere il giogo borbonico riponendo, per rimediare a i mali presenti, la famiglia Murat sul trono di Napoli.

Gli avvenimenti successivi dettero colore e vita a tale pensiero. In tutta l’Europa, massime in Inghilterra ed in Francia, le famose lettere del Gladstoneavevano sollevato contro il governo di Napoli una profonda indignazione, che crebbe di poi per i continui processi politici e per l'ostinata avversione di re Ferdinando ad ogni riforma. La proclamazione del secondo impero in Francia, la grande potenza che esso conquistò, la vigorosa reazione avvenuta contro il trattato di Vienna del 1815, la naturale ostilità del nuovo imperatore francese verso i Borboni, i rapporti affettuosi di lui con i suoi congiunti Murat: tutto sembrava dover favorire il compimento di ciò che da prima era apparso come un sogno.

Il 1° settembre del 1855 usci per le stampe a Parigi un opuscolo intitolato La question italienne, M urat et les Bourbons,il quale sosteneva “la dolorosa convinzione dell’impossibilità, da parte del Piemonte, di ridurre l’Italia sotto un solo scettro” e quindi la convenienza, come unica salvezza per le provincie napoletane, di restaurare il regno dei Murat. L'opuscolo non indicava il nome dell’autore: si seppe ben presto però che lo aveva redatto l’abruzzese Aurelio Saliceti già ministro di giustizia in Napoli nel 1848 poi triumviro della repubblica in Roma. Narra il Nisco (695) che Napoleone 3°, volendo appoggiare il suo parente Murat, incaricò il conte Arese di trovare un illustre napoletano per insegnare a i figli del pretendente le leggi, l’amministrazione e la storia delle Due Sicilie. L’Arese ne avrebbe scritto in Firenze al Salvagnoli e questi a la baronessa Begàni la quale, per consiglio li Roberto Savarese ed altri esuli napoletani in Pisa, indicò il Saliceti che allora esercitava l’umile ufficio di correttore di bozze in una tipografia in Germania. Il barone Giacomo Coppola, esule in quel tempo in Firenze, chiamò il Saliceti in Toscana e lo indusse ad accettare la missione. L’ex triumviro prese dimora infatti a Parigi come istitutore dei due giovani ricusando qualunque compenso per l’opera sua.

L’opuscolo destò la più viva impressione nella diplomazia, nella stampa e tra gli emigrati, reputandosi da tutti che esprimesse il pensiero dell’imperatore francese. Giuseppe Montanelli scriveva da Parigi il 14 settembre al La Farina(696): “Tieni per sicuro che il Bonaparte ha spacciato il re di Napoli e data parola al Murat. Tutte le segrete influenze napoleoniche saranno volte a far prevalere il murattismo.” Lettere di autorevoli persone da Torino a l’Ulloa in Parigi assicuravano che il conte di Cavour, pienamente favorevole al Murat, avesse affidato a i due proscritti napoletani Francesco Stocco, Giovanni Andrea Romeo e Luigi Mezzacapo di trattare con gli agenti di lui e che costoro avessero avuti segreti e ripetuti colloqui con il pretendente a Ginevra(697).

Sembrava a gli esuli ormai assicurato il successo dell'impresa Il La Farina, comunque ad essa tenacemente ostile, scriveva il 16 settembre 1855 al marchese di Torrearsa in Genova: “So di positivo (e non credete ciò che possono dirvi in contrario) che siamo alla vigilia di una restaurazione murattiana a Napoli” (698). E il giorno seguente scriveva a Matteo Raeli in Malta: “Pare che sia convenuto fra i governi di Francia e di Inghilterra di finirla col re di Napoli. Da parte di Murat si lavora attivamente a far nascere in Napoli un qualche movimento, che dia pretesto alle potenze occidentali di intervenire e di mostrare all’Europa che il popolo di Napoli vuole Murat e che esse non l’impongono. Quello che prima si sarebbe creduto impossibile, la restaurazione cioè di Murat col consentimento dell’Inghilterra, è un fatto che può avverarsi da un giorno all'altro” (699).

Daniele Manin, allora a Parigi, scorgendo in una restaurazione murattista un grave pericolo per il concetto unitario, inviò al Siècle il 15 settembre 1855 questa dichiarazione che il giornale parigino pubblicò nel 20 successivo: “Fedele alla mia bandiera Indipendenza ed unificazione io respingo tutto ciò che se ne allontana. Se l’Italia rigenerata deve avere un re, deve essere un solo e questi non può essere che il re del Piemonte” (700). Le vibrate parole dell’ex dittatore di Venezia, autorevoli per l’aureola che circondava il nome illustre di lui, rivelavano il profondo contrasto tra la corrente murattista ed il sentimento unitario. A dissipare tale impressione, attraendo nelle sue file anche i fautori di questo, Luciano Murat pubblicò nel Times del 24 settembre 1855 una lettera in cui diceva: “Dichiari il Piemonte di inalberare la bandiera dell’indipendenza e libertà d’Italia ed io mi obbligo non solo a non preparargli ostacoli, ma anche a dargli tutto il mio aiuto e l’aiuto di tutti quelli che la memoria del passato lega alla mia famiglia, giacché ciò sarebbe recare ad atto le idee di mio padre alle quali rimarrò sempre fedele”.

Nello stesso di, in cui il Times inseriva la lettera del Murat, il giornale I l Diritto (701) pubblicava questa protesta di molti esuli napoletani e siciliani:

“Isottoscritti emigrati politici delle Due Sicilie, conservando ciascuno l’indipendenza della propria opinione, si credono in debito di dichiarare che siccome avversano Fattuale governo delle Due Sicilie perché incompatibile con la nazionalità italiana, per la stessa ragione avversano qualsiasi forma di governo che potesse costituirsi col figlio di Gioacchino Murat e tanto maggiormente che in tal caso quel regno diventerebbe indirettamente una provincia francese. Enrico Cosenz, Carlo Pisacane, Tito Trisolini, Giuseppe Trisolini, Giuseppe Virgili, Giuseppe Badia, Ignazio Rivarola, Baiardi, Gaetano Giordano, Bonaventura Mazzarella, Tommaso Lorusso, Carlo Romualdi, Francesco Curzio, Federico Salomone, Diego De Benedetti, Vincenzo Carbonelli, Luigi Miceli, Ippolito De Riso, Antonio De Blasiis, Stefano Seidita, Carlo Mileti, Giovanni Nicotera, Francesco Sprovieri, Biagio Miraglia, Antonino Plutino, Giovanni La Cecilia, Nicola Lepiane, Filippo Patella, Camillo Boldoni, Francesco Spedalieri, Crispino Vitale, Salvatore Calvino, Francesco Campo, Giuseppe Mustica, Rosalino Pilo, Gaetano Laloggia, Francesco De Sanctis, Francesco Giordano, Guglielmo Diaz, Lorenzo Montemaior, Matteo Mauro A questa dichiarazione si associarono poi nello stesso giornale Francesco Carrano, con una lettera mandata da la Certosa di Pesio(702)e Giuseppe del Re con lettera del 6 ottobre 1855 in cui ricordava che già fin dal 1850 aveva espresso tali sentimenti insieme con il Massari, con Raffaele Poerio, il colonnello Oliva, il cav. Caracciolo ed il duca Proto di Maddaloni(703).

L’esule napoletano Francesco Trinchera diede a le stampe nello stesso anno 1855 un opuscolo, che ribadiva le idee del Saliceti, con il titolo La questione napoletana, Ferdinando Borbone e Luciano Murat (704). Nacquero aspre polemiche. La Farina scriveva il 31 ottobre da Torino al Ricciardi: “Qui tutta l’emigrazione napoletana ò saltata addosso con gran furore al Trinchera e ne hanno fatto strazio. Dei siciliani non vi è alcuno che parteggi pel pretendente, almeno che io sappia. Ciò nonostante Napoli avrà Murat ed io vi dico, ciò che vi parrà incredibile, lo avrà anche la Sicilia. Sì, signore, cosi è: e ritenete queste mie parole, non come notizie di giornali e come supposizione, ma come un fatto positivo, stava quasi per dire un fatto compiuto” (705). Al Trincherà rispondevano molto vivacemente Francesco De Sanctis sul Diritto (706) ed il La Farina nell’agosto 1856 con un altro opuscolo intitolato: Murat e l’ unione italiana (707) cui i sostenitori del pretendente replicarono con un'altra pubblicazione a Torino nello stesso anno: L'Unità italiana e Luciano Murat.

Molti esuli napoletani, in mezzo a tante e cosi vive polemiche, preferirono di tacere. Nelle Memorie del D’Ayala allora esule in Torino, scritte dal figlio di lui, è riportata integralmente la dichiarazione degli emigrati napoletani e dopo di essa si legge: “Nella dichiarazione (che abbiamo integralmente trascritta) dominava il pensiero repubblicano. E Mariano D'Ayala, pure avversando il Murat, reputò prudenza politica di astenersi da ogni manifestazione, di accordo con tutti gli amici che avevano preso parte al governo costituzionale del 1848”. Il silenzio venne interpetrato come adesione a la candidatura Murat per molti emigrati: tra cui il barone Giacomo Coppola, Antonio Scialoia, Enrico Berardi, Raffaele Conforti, Giuseppe Massari, Salvatore Tommasi, Gennaro Belletti, Giuseppe Pisanelli, Francesco Mazziotti, Girolamo Ulloa, Luigi Mezzacapo, Francesco De Blasiis, Diomede Marvasi, Antonio Ciccone, Raffaele Piria, Luigi Dragonetti, Damiano Assanti, Piersilvestro Leopardi, Ferdinando Petruccelli, Angelo Camillo De Meis, Giacomo Tofano(708)che tutti o quasi tutti avevano fatto parte del governo o del Parlamento di Napoli nel 1848. Tacque anche il Mancini e parimenti passò per murattista” (709).

Le Memorie indicate accennano che probabilmente il consiglio dell’astensione venne a quelli esuli dal conte di Cavour; aggiungono anzi che l’eminente uomo di Stato piemontese da principio si mostrò segretamente favorevole a l’impresa murattista e poi mutò pensiero ispirandosi come sempre a gli avvenimenti(710). Si riteneva generalmente in fatti che il Cavour l’appoggiasse. Il La Farina si rivolse direttamente a lui, con lettera del 10 settembre 1856 scongiurandolo a non secondarla(711). Il di seguente l’esule messinese ebbe la risposta del conte che lo invitava per l’indomani ad un colloquio(712)nel quale il Cavour gli disse cosi:

“Ho fede che l’Italia diventerà uno Stato solo e che avrà Roma per capitale: ma ignoro se essa sia disposta a questa grande trasformazione, non conoscendo punto le altre provincie d’Italia. Sono ministro del re di Sardegna e non posso, né debbo dire o far cosa che comprometta avanti tempo la dinastia. Faccia la società nazionale: se gli italiani si mostreranno maturi per l’unità, io ho speranza che l’opportunità non si farà lungamente attendere; ma badi che dei miei amici politici, nessuno crede alla possibilità dell’impresa e che il suo avvicinamento mi comprometterebbe e comprometterebbe la causa che propugniamo. Venga da me quando vuole, ma prima di giorno e che nessuno la veda e nessuno lo sappia. Se sarò interrogato in Parlamento o dalla diplomazia, soggiunse sorridendo, la rinnegherò come Pietro e dirò non lo conosco” (713). Da allora in poi il La Farina cominciò a vedere il Cavour ogni mattina prima dell’alba salendo nella camera da letto di lui per una scaletta segreta.

Documenti irrefragabili dimostrano che il conte di Cavour nell’animo suo non fu mai favorevole a le pretese del Murat. Il 22 marzo 1854 egli scriveva al conte Oldofredi, ministro del Piemonte a Parigi: “Tenete dietro a gli intrighi napoleonici. Furono diretti specialmente in questi ultimi tempi al mezzogiorno d’Italia. Il conte Popoli, nipote del Murat si fermò due mesi a Genova ove lavorò con Pepe (!) ed altri napoletani” (714). Il Cavour inviava continui avvertimenti al governo inglese contro le mene dei fautori del pretendente. In una lettera al conte Corti, incaricato di affari a Londra, esposti i progressi del partito murattista diceva: “In presenza di tali fatti noi ci troviamo in una posizione molto penosa. Egli è evidente che noi non possiamo disporci a combattere Murat ed i suoi partigiani, che sembra agiscano con l’appoggio e l’approvazione della Francia, sopratutto se noi ignoriamo l’opinione vera, il pensiero franco e netto del gabinetto britannico su questa quistione tanto importante ohe delicata”(715).

Il Tofano narra che il Cavour fece sentire a i componenti del comitato nazionale che “la combinazione murattista era la più funesta e la più fatale per l’indipendenza italiana” (716). E lo stesso Cavour scriveva al conte Oldofredi a Parigi il 19 marzo 1857: “Non mi cagiona meraviglia il sentire che la maggior parte degli emigrati si lasci sedurre dalle lusinghe napoleoniche (a pro’ del Murat). Spero che gli italiani rimasti in patria nutriranno altri pensieri” (717). Ma a l’eminente uomo di Stato non era concesso di manifestare a tutti l’animo suo. L’opera della redenzione italiana non poteva iniziarsi finché l’Austria occupava tanta parte della penisola e predominava nel resto di essa. Unico, supremo obbiettivo, innanzi al quale doveva cedere ogni altro, era di scacciare gli austriaci dal Lombardo-Veneto e fiaccarne la prepotenza negli altri Stati italiani. A sì grave compito non bastavano le forze del piccolo Piemonte, occorreva l’aiuto di una grande potenza e questa non poteva essere che la Francia per la tradizione napoleonica rappresentata dal nuovo imperatore, amico sincero della causa italiana, antico cospiratore del 1831. Napoleone IH vagheggiava di riporre sul trono, rinnovando i fasti del primo impero, il suo parente Murat: e sarebbe stato stoltezza contrastare i propositi dell’uomo allora onnipotente di cui si bramava l’alleanza.

Il Nisco riferisce che gli esuli favorevoli al Murat, prima di condurre a fine le trattative, vollero interrogare il Poerio, lo Spaventa, il Settembrini e gli altri condannati politici che trascinavano la vita nelle galere, e mandarono ad essi un memorandum per mezzo di Ferdinando Mascilli, il quale lo fece consegnare segretamente da un medico del bagno al Poerio. Questi, a nome anche dei compagni, rispose “essere esiziale per l’Italia cacciarsi in mezzo un altro straniero, doversi riporre soltanto speranza e salvezza nella unità della nazione, possibile unicamente con Vittorio Emanuele. Ferdinando con la sua tirannia molto la facilitava, un re nuovo a Napoli la guasterebbe Uguale risposta davano Silvio Spaventa ed i suoi compagni nell’ergastolo di Santo Stefano(718).

Dopo queste dichiarazioni declinò rapidamente Firn presa murattista(719).

III. Gli esuli napoletani esultarono a la notizia, giunta in Piemonte il 9 dicembre 1856, dell’attentato di Agesilao Milano contro Ferdinando II. L’avvenimento parve connesso al moto suscitato dal barone Francesco Bentivegna il 22 novembre precedente in Sicilia, ed inizio di una vasta cospirazione nelle provincie del regno e nelle file dell’esercito(720). Varii proscritti siciliani, nell’intendimento di apportare soccorso a i ribelli, corsero da Londra a Genova ed altri partirono per Malta(721)Le liete speranze caddero quando si seppe domata la sommossa e giustiziati il 13 dicembre il Milano ed il 23 seguente il Bentivegna.

“Immensa commozione” scrive il D'Ayala, “provarono gli esuli a l’annunzio inaspettato del sacrificio eroico di Agesilao Milano per vendicare la patria oppressa. Oggi, nella serenità del vivere libero e sicuro, si esce fuori in dissertazioni morali e filosofiche intorno all'assassinio politico e qualche fibra gentile ne sente ribrezzo: ma allora, fra i dolori e i pericoli di una tirannide sanguinaria, in ogni cuore italiano prevalse un sentimento di ammirazione per quell'uomo il quale, obbedendo ad una voce forse ingannatrice della propria coscienza, offriva in olocausto la sua vita per liberare i fratelli. Parve una figura maestosa dell'antichità che doveva entusiasmare di certo ogni anima ribelle al servaggio” (722).

Parecchi emigrati politici meridionali promossero la coniazione di una medaglia, su cui fu incisa da un lato la testa del Milano con il laccio al collo e da l’altro l’immagine del Bentivegna nell’atto di scoprire arditamente il petto a i colpi di fucile(723). Laura Beatrice Oliva moglie del Mancini ed insigne poetessa, Giuseppe Del Re e P. E. Imbriani scrissero carmi in onore del Milano(724).Il giornale l'Italia e popolo ispirato dal Mazzini(725)proclamò il 19 gennaio 1857 il Milano il migl io r figlio d'Italia: il Dritto nel 29 marzo, accennando a la medaglia coniata in onore del regicida, scrisse che “fu fatta con nobile pensiero per raccomandare quel valoroso alla memoria dei posteri” e la Gaz z etta del Popolo nel giorno successivo stampò che il fiero soldato calabrese “aveva ricevuta la palma del martirio” (726).

La procura regia di Torino promosse un processo contro la Oliva ed il Del Re per apologia del regicidio; i due imputati vennero valorosamente difesi dal Pisanelli e dal Tofano(727). Il Del Re rinviato a giudizio innanzi la Corte di Assise di Torino fu assoluto da i giurati il 16 luglio 1857. Nel giorno 24 dello stesso mese la Corte di appello di Torino assolse da eguale imputazione un tal d’Avanzo difeso dal Pisanelli e dal Conforti(728).

IV. La politica ardita, apertamente nazionale del conte di Cavour aveva conquistato la maggior parte dei liberali italiani e degli esuli convinti ormai che solo con l’unione della monarchia piemontese e delle forze democratiche poteva compiersi la redenzione italiana. Daniele Manin, il valoroso dittatore di Venezia, sacrificando il suo antico ideale repubblicano poneva nettamente con una lettera dell’11 settembre del 1855 le condizioni per l’appoggio della parte democratica italiana a la dinastia sabauda, scrivendo al Times: “Accetto la monarchia purché essa sia unitaria, accetto la casa di Savoia purché essa concorra lealmente ed efficacemente a fare l’Italia: vale a dire a renderla indipendente ed una: se no, no” (729).

Intorno a questa bandiera sollevata da Daniele Manin, cui prestò il più valido concorso Giorgio Pallavicino, cominciarono a raccogliersi i liberali e gli esuli italiani, tra cui uno dei primi Giuseppe La Farina. Il 26 aprile 1856 molti emigrati scrissero al Cavour: “Nel congresso di Parigi voi levaste la voce in prò’ dell’Italia nella coscienza del dritto e dovere che era in voi di rappresentarla. Fruttino o non fruttino quelle parole alcun bene alla patria nostra comune, noi sottoscritti emigrati delle varie provincie italiane ne rendiamo grazie a voi ed al governo del quale voi fate parte. L’avvenire dimostrerà che voi faceste ogni sforzo per evitare i mali di una rivoluzione e che se i vostri detti erano liberi e generosi, erano anche savi e prudenti

Il La Farina fondò, nell’agosto del 1856, con parecchi amici il giornale il Piccolo Corriere d'Italia destinato a propugnare le idee del Manin ed a diffondere le notizie del movimento liberale. Questo periodico fece grande impressione anche in Napoli e nella Sicilia(730). Il 29 maggio usci un numero di saggio, il 1° giugno il primo numero. Si stampava in carta velina per penetrare più facilmente da per tutto eludendo la vigilanza della polizia. Nel dicembre dello stesso anno (1856) uscì un altro giornale, l'Indipendente, fondato dall’ex deputato Guglielmi, da lo Zuppetta, dal Laceciliae dal Del Re con questo programma “Fuori lo straniero! Italia una ed indipendente con Casa Savoia”. Si pensò di creare una grande società nazionale con numerosi comitati in tutte le parti della penisola e si diè mano a raccogliere adesioni. Il Manin scriveva da Parigi al Pallavicino: “Finora eravamo noi due, adesso abbiamo arrolato La Farina; tanto meglio; ma non basta, conviene trovarne altri Accettarono il concetto del nuovo sodalizio uomini illustri ed esuli d’ogni parte d’Italia, tra i quali il Tecchio, Bianchi Giovini, Gherardi, Mamiani, Ulloa, Petruccelli, Interdonato,Genelli, Montanelli, Sirtori, Foresta, Tommaseo, Malenchini, Guerrieri, Campello, Sterbini, Macchi, Giuseppe Biancheri, Tommaso Villa(731). Esuccessivamente gli esuli napoletani: Salvatore Tommasi, Francesco Carrano, Pier Silvestro Leopardi, Duca di San Donato, P. E. Imbriani, Carlo Mezzacapo, Enrico Cosenz, Giacomo Tofano, Giuseppe Pisanelli, P. S. Mancini, Cesare Oliva(732).

Quasi tutti gli esuli napoletani, meno pochi tenaci fautori del Mazzini, sottoscrissero il programma della Società Nazionale. Il Cosenz, in una lettera del 6 giugno 1856 al Pallavicino, dichiarava di accettare completamente il concetto di stringersi attorno al Piemonte; confidava però anche nelle forze della rivoluzione e sperava che questa sorgesse nell’Italia meridionale (733).

Ad aumentare le file degli ascritti a la Società Nazionale valse l’adesione di Giuseppe Garibaldi, che ebbe una influenza decisiva su gli uomini di azione del partito. Il valoroso nizzardo, reduce da breve tempo in Italia, era rimasto dolente e disgustato del moto milanese del 6 febbraio ed aveva pubblicato, il 4 agosto 1854, nell’Italia e Popolo una lettera in cui diceva: “Siccome dal mio arrivo in Italia or son due volte che io odo il mio nome frammischiato a dei movimenti insurrezionali che io non approvo, credo dover mio manifestarlo e prevenire la gioventù nostra, sempre pronta ad affrontare i pericoli per la redenzione della patria, di non lasciarsi cosi facilmente trascinare dalle fallaci insinuazioni di uomini ingannati o ingannatori che, spingendola a tentativi intempestivi, rovinano, od almeno screditano, la nostra causa” (734).

In seguito ad un colloquio con Felice Foresta circa gli intendimenti della Società Nazionale che si intendeva formare, Garibaldi dette la sua completa adesione con lettera del 5 luglio 1856 alPallavicino(735), ed il giorno 13 agosto ricevuto dal conte di Cavour usci dal convegno gongolante di gioia e chiamando il gran ministro amico suo (736).

Il 1° agosto del 1857, raccolte le più larghe e numerose adesioni, venne pubblicato e diffuso il programma della Società Nazionale (737). Il 27 seguente una importante adunanza di soci elesse a presidente il Pallavicino, vicepresidente Garibaldi, segretario La Farina, e costituì un comitato di trenta componenti, metà piemontesi e l’altra metà di altre provincie italiane, appartenenti a tutte le condizioni sociali, compreso anche qualche artigiano(738). Il Comitato centrale aveva sede in Torino a la via Goito, n. 15, ove abitava il La Farina, anima della Società(739), ed era in corrispondenza con trentasei comitati provinciali, posti in Genova, Vercelli, Sarzana, Savona, Acqui, Arona ed in altre città del Piemonte, della Liguria e della Sardegna, con comitati segreti nel Lombardo-Veneto, nel Friuli, nel Trentino, nei Ducati, in Toscana, nelle Legazioni, nelle Marche ed in Roma (740), e con la parte liberale napoletana per mezzo di Ferdinando Mascilli (741). Il Piccolo Corriere d'Italia divenne il giornale della nuova Società, che acquistò vive simpatie presso il governo ed il popolo piemontese (742).

IV. Negli ultimi mesi del 1856 e nei primi dell’anno successivo frequenti lettere dal regno di Napoli a gli esuli in Piemonte assicuravano imminenti sommosse (743). Vi si narrava di continui manifesti rivoluzionari, affissi su le mura nella capitale, di coccarde tricolori lanciate dal ponte di Ghiaia e della Sanità nelle vie sottostanti, delle insistenti acclamazioni nei teatri al Verdi e di una clamorosa dimostrazione fatta nella strada di Toledo il giovedì santo del 1857 (744). Si sapeva che in Napoli due comitati segreti fomentavano l’agitazione: l’uno, detto dell'ordine, in corrispondenza della Società Nazionale, distribuiva da per tutto il Piccolo Corriere, l’altro, ispirato dal Mazzini, apertamente repubblicano, era riuscito ad acquistare larghe aderenze nelle provincie, specialmente in quelle di Salerno e di Basilicata. Ad eccitare maggiormente gli animi sopravvenne la notizia di due gravi e misteriosi avvenimenti: lo scoppio della polveriera presso la reggia avvenuto il 17 dicembre 1856 e la esplosione nel 4 gennaio successivo della fregata Carlo III che si apprestava a portare armi e munizioni in Sicilia (745).

Tra gli emigrati napoletani a Genova era viva l’attesa, e si raccoglievano armi e denari per una spedizione nel regno in soccorso della sperata insurrezione. Nel luglio del 1856 il Cosenz scriveva al Pallavicino: “La parte meridionale è disposta a muoversi qualora non sia affatto deficiente di armi; non fuvvi mai opportunità migliore di questa; le necessarie pratiche sono già iniziate, Garibaldi è fra i caldi promotori ed ha già visitati i vapori e li ha trovati adatti allo scopo: però armi e denaro sono indispensabili, tutti accettano il programma: unificazione ed indipendenza della patria” (746). Il 15 agosto 1856 il giornale Italia e Popolo iniziava la sottoscrizione per l’acquisto di dieci mila fucili destinati a la prima provincia italiana che fosse insorta contro il comune nemico (747).

Tra i più ardenti ed operosi nei preparativi erano Carlo Pisacane e Rosalino Pilo, i quali inuna lettera al Bertani, scrivevano il 24 settembre 1856 che: gli accordi erano stati presi, capo della spedizione doveva essere Garibaldi e che le ventimila lire promesse da Adriano Lemmi dovevano servire per il noleggio di un piroscafo, per le armi e per i marinai(748). Il Pisacane infervorava a l’azione con un giornale clandestino apertamente repubblicano intitolato: La libera parola (749).

L’arrivo del Mazzini a Genova nell'aprile del 1857 dette potente impulso a tali pratiche. Il grande agitatore, nascosto in Genova da l’aprile a l’agosto del 1857, sosteneva le condizioni dell’Italia propizie a l’iniziativa e che bisognava credere e tentare. Si sussurrava allora che in Marsiglia si stava allestendo una grande spedizione per riporre sul trono i Murat(750); a sventarla il Mazzini ed i suoi amici ritenevano di estrema urgenza un tentativo risolutamente unitario e repubblicano. L’apostolo della Giovane Italia con lettere infuocate al comitato dei suoi amici di Napoli e particolarmente al Fanelli, incuorava a rompere gli indugi, mentre i suoi corrispondenti confessavano ancora non bene preparato il terreno.

Molti emigrati invece, anche appartenenti al partito d’azione, sconsigliavano risolutamente l’impresa. Giacomo Medici diceva a la White Mario “che egli ormai nulla sperava dalle cospirazioni o da tentativi isolati, e che per combattere i grossi eserciti e le armate potenti ci volevano flotta ed esercito” (751). Agostino Bertani si manifestò cosi recisamente contrario che da allora lo tennero da parte ed a l’oscuro di tutto(752). Gli esuli napoletani, massime quelli della provincia di Salerno, i quali conoscevano come la parte liberale di essa fosse avvilita per le condanne, per le carcerazioni e per l’esilio di molti, non tacquero il sicuro insuccesso. Vincenzo Sprovieri, esule della provincia di Cosenza, scriveva da Genova al Fabrizi pochi giorni dopo la catastrofe, “il tentativo bellissimo in sè, peccava in due cose essenziali, cioè nella cattiva scelta del luogo di sbarco e nel non averlo apparecchiato in verun modo. Lo stesso Pisacane era persuaso che si andava a tentoni e contava su l’impreveduto. Cosenz era anche persuaso di questa mancanza e una sua lettera sequestrata presso la compagna di Pisacane, per quanto mi si dice, conferma le sue parole. De Dominicis, Mazziotti, Carducci (753) ed altri, fin dal primo momento che seppimo essersi scelto Sapri per luogo di sbarco, dubitammo dell'esito dell’impresa e ognuno può attestarvi che prima dell’esito noi facemmo questi discorsi” (754).

I consigli e le esortazioni non valsero a rimuovere il Pisacane e i suoi compagni e più di tutti il Mazzini dal fiero proposito. Era accorso da Torino per prendere parte a la spedizione, un giovane calabrese dal colorito olivastro, da i capelli neri e ricciuti, da gli occhi sfavillanti, Giovanni Nicotera. Questi avea combattuto in Calabria nei moti del giugno 1848, per i quali era stato condannato in contumacia a venticinque anni di ferri. Fuggito a Malta, di là a Corfù e poi a Roma aveva preso parte a la difesa della repubblica. Entrati i francesi a Roma egli si era ostinato, nonostante lo sfratto dato a gli emigrati delle Due Sicilie, a restare nella città; ma la polizia, trattolo in arresto il 4 dicembre 1849 insieme con Benedetto Musolino, Luigi Miceli, Achille Mauri ed altri pochi, li aveva condotti a Civitavecchia e li aveva fatti imbarcare su un piroscafo diretto a Marsiglia. Il Nicotera sceso invece a Genova con i suoi compagni si era recato a Torino (755), ivi sostentando la vita con il copiare carte giudiziarie nello studio forense del Mancini (756).

Sono note le ansie, le dolorose alternative, le terribili incertezze che precedettero la spedizione e non è mio compito narrarle (757). Fissata la partenza si dovette ritardarla: il Pisacane sfidando un grave pericolo corse in Napoli ad avvertire gli amici: finalmente il 25 giugno egli ed i suoi compagni, tra cui principalmente il Nicotera ed il Falcone, salirono sul Cagliari, si impadronirono del piroscafo e lo diressero a Ponza.

Arrivata a Genova la notizia del successo ottenuto a Ponza, giusta gli accordi presi da i congiurati, fu tentata il giorno 30 giugno una sommossa in Livorno, prontamente repressa, e bande armate assalirono in Genova la notte del 29 l’arsenale ed alcuni forti della città con l’intento di provvedersi di armi e di munizioni e partire sul piroscafo Carlo Alberto per Napoli. Questo disegno venne a conoscenza del comando militare; il Mazzini informato di ciò diede un contrordine, ma questo non arrivò a tempo ed un conflitto avvenne al forte Diamante.

Pochi giorni dopo si seppe la tragedia di Padula e di Sanza e la fine atroce del Pisacane, del Falcone e di molti loro seguaci, l’arresto del Nicotera trascinato sanguinante in Salerno. Il governo piemontese iniziò un processo contro Mazzini e gli autori dell’attentato commesso in Genova la notte del 29 giugno ed arrestò molti di essi ed i loro complici tra cui la White Mario(758). Il Mazzini sfuggì a tutte le ricerche della polizia tenendosi nascosto finché potette, il 27 luglio, partire per Londra. Il giorno 8 la polizia arrestò Alberto Mario che ottenne di partire anche egli per l’Inghilterra. Rosalino Pilo fuggi da Genova il 30 giugno per non cadere nelle mani dei gendarmi e riparò a Malta e dopo nel giugno 1858 a Londra insieme con il Fanelli(759). Gli arresti e le espulsioni continuarono per parecchi mesi. Il 25 agosto in Genova la polizia arrestò molti esuli, nel 5 ottobre espulse gli emigrati Acerbi mantovano, Francesco Curzio napoletano e Donghi romagnolo, nel 24 novembre il marchese Montemayor(760).

Queste persecuzioni indignarono fortemente i liberali contro il governo piemontese. Gustavo Modena, l’insigne artista, fervido mazziniano, diceva sdegnosamente: “Meglio il giogo del tiranno dichiarato che la finta libertà dell’umile servo del 2 dicembre” (761).

Gli esuli residenti a Genova, accorati di si severi e gravi provvedimenti contro i loro compagni, pensarono di presentare al Parlamento ed al conte di Cavour un indirizzo per manifestare (M)come la sventura non avesse infiacchiti gli animi e quanto l’emigrazione fosse gelosa della propria dignità e dolente del modo onde era stata trattata” (762). Il Bertani raccolse alcuni di essi in casa sua per intendersi su una protesta che venne redatta da Emerigo Amari; ma nacquero dissensi su la forma che alcuni volevano assai più vivace. Fu dato incarico al D’Ayala, che trovavasi temporaneamente in Genova, di sentire i loro compagni di Torino. In seguito a questi colloqui il D’Ayala scrisse a Michele Amari proponendo, anche a nome di altri, qualche mutamento a lo schema d’indirizzo per attenuarlo; ma ciò non piacque a gli emigrati di Genova Il Bertani, indignato di questi indugi, pubblicò nelV Italia del popolo del 10 ottobre una lettera molto aspra e la protesta letta in quell’adunanza(763).

VI. Una folla di esuli d’ogni parte d'Italia accorreva il 10 gennaio del 1859 al palazzo — Carignano per assistere a l’inaugurazione della nuova sessione legislativa. L’attesa era vivissima: risuonavano ancora come uno squillo di guerra le famose parole rivolte nel ricevimento ufficiale del capodanno da Napoleone III al barone Hubner, ambasciatore austriaco a Parigi. Allorché Vittorio Emanuele con voce alta e vibrata pronunziò la storica frase: “Non sono insensibile al grido di dolore che da tanta parte d’Italia si eleva verso di me” proruppe la commozione degli animi. Quelle parole compendiavano una lunga e tormentosa serie di sventure e di affanni e la fede gagliarda in giorni migliori! Uno dei proscritti presenti al memorabile avvenimento, ha scritto “fu un delirio stupendo, una ebbrezza di gioia(764). Noi poveri esuli — ha narrato il Massari — non tentavamo neppure di asciugare le lagrime che copiose ed irrefrenabili ci sgorgavano dagli occhi e battevamo freneticamente le mani a quel re che pensava a i nostri lutti e ci prometteva una patria” (765). Le liete speranze crebbero quando si seppe vagamente del trattato di alleanza, sottoscritto il giorno 19 in Torino tra il Piemonte e la Francia, e si celebrarono poi, il giorno 29 successivo le nozze della principessa Maria Clotilde con il principe Napoleone. A Torino ed a Genova il re e Cavour che accompagnavano gli sposi “ebbero una ovazione inaspettata, insuperabile, furono festeggiati, applauditi, idoleggiati perché stavano per sguainare la spada contro lo straniero a prò dell’indipendenza italiana” (766).

A i giorni di fervido entusiasmo altri seguirono di profondo scoramento per le pressioni di governi stranieri a favore della pace, per le proposte di disarmo e di un congresso europeo, per le incertezze e le esitanze dell’imperatore dei francesi. Però, anche durante quell’angoscioso periodo, il Piemonte si apprestava a la guerra nazionale, ed il re invitava il 23 febbraio Garibaldi a Torino per l’istituzione dei cacciatori delle Alpi e degli Appennini. Un decreto reale richiamava sotto le armi i contingenti: quasi da ogni parte d’Italia accorrevano giovani animosi ad inscriversi nell’esercito regolare e vecchi soldati della difesa di Roma e di Venezia tra le file di Garibaldi.

Gli esuli del mezzogiorno scorgevano con profonda amarezza che esso non prendeva parte a così generosa gara, a tanto fremito di patriottismo. Uno di essi, Giacomo Tofano, ha scritto: “Per noi dell’emigrazione napoletana fu un morire di crepacuore, stando in Torino o in quelle provincie piemontesi, il vedere che il nostro infelice paese non dava segno di vita durante la guerra dell’indipendenza!” (767). In quei giorni appunto arrivavano da Torino, lieti delle accoglienze ricevute e del ritorno nella patria diletta, Carlo Poerio ed i suoi compagni e anche essi vedevano con infinito sgomento il niun concorso di giovani del mezzogiorno a la guerra di liberazione. Uno di quei proscritti, Giambattista Riccio, anima di soldato, capo di una colonna insurrezionale nei moti del Cilento del 1848, rivolse, nell'Opinione del 20 aprile 1859 un indirizzo a i napoletani. Narrate le accoglienze trionfali ricevute a Londra e durante il viaggio, egli diceva: “Ci duole che nella nobile e commovente gara di quasi tutta la gioventù italiana affluente in Piemonte per aiutare i generosi sforzi di questo italiano governo, noi non vi abbiamo veduto ancora i giovani nostri concittadini. Sappiamo o fratelli che non è vostra colpa, sappiamo che costà non vi ha penuria di anime generose, sappiamo qual’è la causa che arresta i vostri passi (768), ma è probabile che questa causa ben tosto cesserà. Tenetevi dunque pronti al primo appello, onde non accada che i nemici d’Italia abbiano a rimanere digiuni dei colpi dei napoletani”.

Parecchi emigrati napoletani entrarono nelle file dei volontari con i gradi, che avevano avuti nelle guerre o nei moti insurrezionali precedenti. Fecero parte del corpo dei cacciatori delle Alpi il Carrano come capo dello stato maggiore, il Cosenz come colonnello del 1° reggimento, il quale si formava a Cuneo(769)e nel quale militavano da tenenti Francesco Sprovieri, Vincenzo Dono, Stefano Mollica(770)e Giuseppe Pace, che erano stati tra i deportati di Cadice, e Francesco Angherà con il grado di capitano(771).

Fecero parte invece dei cacciatori degli Appennini Girolamo Ulloa come maggiore generale(772), Camillo Boldoni come colonnello, Edoardo Gaetani, Romeo e G. B. Riccio(773)quali capitani, Sarnelli, Cipollino ed Enrico Poerio come tenenti(774). Il Riccio passò il 1° ottobre 1859 a la seconda brigata dei cacciatori delle Alpi(775). Luigi Mezzacapo venne nominato, con decreto del 6 maggio 1859, maggiore generale, suo fratello Carlo colonnello, entrambi nel 2° corpo di esercito dell’Italia centrale (776). Felice Barone di Eboli ebbe il grado di maggiore nell’esercito piemontese e fu addetto a l’intendenza militare.

Finalmente venne il giorno cosi lungamente atteso. Il 23 aprile arrivarono a Torino due ufficiali superiori austriaci latori ultimatum, cui il conte di Cavour rispose il giorno 26 con un reciso diniego: il 29 l’esercito austriaco passò il Ticino e nello stesso di giunsero a Torino i soldati francesi ed insorsero Firenze e Modena scacciando i loro principi. Le forze alleate ebbero una prima vittoria a Montebello il 26 maggio: però ingrossavano le truppe austriache, in modo da far temere una sconfitta degli eserciti alleati che avrebbe forse per sempre perduto la causa italiana e il generoso Piemonte. La mente del conte di Cavour era dominata dal pensiero di apportare un nuovo e potente contributo di armi attraendo nella guerra contro l’Austria il regno di Napoli, che aveva dichiarata la sua neutralità(777). In quei giorni, il 22 maggio, era morto Ferdinando II: il governo sardo, confidando che il nuovo principe dovesse, massime dopo il primo successo degli alleati, mostrarsi meno alieno del padre da la desiderata alleanza, pensava di inviare al giovane sovrano, per richiederla, un ambasciatore straordinario(778).

Il conte di Cavour volle su questa missione udire l’avviso di Carlo Poerio allora tornato da Londra e di Antonio Scialoia. Essi, scrive Carlo De Cesare, risposero di non avere alcuna fiducia nel buon risultato, ma che, se il governo piemontese riteneva utili quelle trattative, avrebbero fatto volentieri il sacrificio delle loro opinioni per vedere liberata la patria dal dominio straniero(779). Il presidente del consiglio, persistendo nel suo disegno, affidò l’incarico al conte di Salmour che tenne in Torino un lungo colloquio con i due esuli napoletani e parti per Napoli il 26 maggio Il giorno seguente il Massari presente al colloquio scriveva al Panizzi a Londra: “Noi, cosi bistrattati da quella scellerata dinastia, abbiamo dato i consigli più opportuni ed efficaci a salvarla” (780).

Le pratiche del governo piemontese con il re di Napoli suscitarono fiere doglianze tra gli esuli meridionali, cui la lunga esperienza insegnava che niuna fede poteva ormai prestarsi a la dinastia dei Borboni e che l’alleanza di questa con il Piemonte avrebbe creato un grande ostacolo a l’unità italiana. Si reputò opportuna una adunanza degli esuli residenti in Torino per concretare una manifestazione concorde interpellando anche i loro compagni dimoranti in altre città.

Il Mancini, postosi a capo del movimento, si diresse a gli esuli lontani da Torino. Per quelli stabiliti in Firenze si rivolse al barone Mazziotti che aveva frequenti rapporti con loro per mezzo di suo genero Francesco De Blasiis. Il 28 maggio il Tupputi, il Mazza, il Bellelli, il Giardini, il De Blasiis mandarono al Mazziotti, per comunicarlo a gli esuli di Torino, un indirizzo con cui esortavano le (tt)popolazioni napoletane di concorrere con ogni mezzo alla santa e generosa impresa di liberare la comune patria da ogni straniera dipendenza” (781).

Avute tali risposte, il Mancini, il Leopardi, il Cordova, il Piria, il Tommasi ed Antonino Plutino diressero il 1° giugno a i loro compagni questo invito: “Isottoscritti, nell’intento di preparare una riunione generale dell’emigrazione delle Due Sicilie per consultare di comune accordo intorno a ciò che meglio convenga farsi dalla medesima, nelle presenti condizioni politiche di quella parte d’Italia, si riuniranno il giorno di lunedi 6 giugno corrente alle ore due p. m. nella casa del signor Mancini”.

Il Poerio, lo Scialoia ed altri sei esuli risolsero di non intervenire a l’adunanza. Essi ritenevano allora vana ogni speranza di unire altre province italiane al Piemonte senza una completa vittoria contro l’Austria. Il Poerio riassumeva tutti i suoi concetti in questa formula: “ottenere a qualunque costo il concorso pronto ed efficace di Napoli a la guerra, dell’indipendenza” (782). E lo Scialoia, in una sua lettera del 3 giugno 1859 al Panizzi, dopo aver accennato che il regno delle Due Sicilie aveva circa dieci milioni di abitanti, un esercito di centomila uomini ed una armata di parecchie diecine di navi, soggiungeva: “Tutte queste forze restano inoperose e logoransi in un ozio ignobile, mentre il resto d’Italia accorre sotto le armi per scacciare lo straniero dominatore” (783). Il Poerio da i colloqui avuti con uomini di Stato inglesi e francesi “aveva tratto il convincimento che né l’Inghilterra, né la Francia avrebbero mai dato un aiuto per scacciare i Borboni da Napoli e, non potendosi sperare che il popolo si levasse contro l’oppressione, non rimanesse altra via che indurre Francesco II a concedere istituzioni civili ed entrare in una confederazione italiana” (784). Fermi in questi concetti essi pubblicarono il 4 giugno la seguente dichiarazione: “Nelle presenti condizioni d’Italia e mentre tanta parte di essa col potente e generosa alleato francesecombatte per liberare l’intera penisola dal giogo straniero, i sottoscritti esali delle Due Sicilie concordemente sperano che, quante volte il governo (napoletano) nella proporzione richiesta dall'ampiezza delle sue forze, tosto e francamente concorra nella causa dell’indipendenza nazionale, sia debito del partito liberale di quelle contrade di dargli pieno e leale appoggio, affinché non manchi nessuna parte della penisola all’opera dell’’indipendenza d’Italia ed all’ordinamento della sua nazionalità”.

L’adunanza indetta dal Mancini e da i suoi compagni ebbe luogo il giorno convenuto. Intervennero trentasette esuli, tra cui il Piria, il Mancini, Liborio Romano, Luigi Traino, Benedetto Castiglia, Castromediano, Di Sandonato, Coppola, Trincherà, Antonino Plutino, Giovanni Andrea Romeo (785). Si lessero le risposte avute da gli emigrati residenti in altre città. Alcuni degli intervenuti, stanchi della dura vita dell’esilio, delle sue miserie e della lontananza da i propri cari, non intravedendo neanche lontanamente la possibilità di una liberazione, sostennero la convenienza di spingere il governo di Napoli su la via della libertà ed avvicinarlo all’idea italiana (786). Con 33 voti contro 4 si deliberò la seguente dichiarazione, che venne pubblicata il 7 giugno con 55 firme stante le adesioni eli parecchi non intervenuti.

“I sottoscritti esuli di Napoli e di Sicilia residenti in Torino, in vista della dichiarazione ufficiale fatta dal governo delle Due Sicilie della sua neutralità nella guerra dell’indipendenza italiana(787), esprimono unanimi:

“1° La loro esecrazione per un tale atto che suggella una storia di dolori e di oppressioni per per quel misero paese.

“2° La loro riconoscenza e la più esplicita adesione alla politica generosa e nazionale di Vittorio Emanuele IIe del magnanimo alleato Napoleone III.

“3° Deliberano che una deputazione composta dei sigg. Mancini, D’Ayala, Castiglia, Poerio e Romeo, con facoltà di aggiungersi altri membri, esponga in una memoria con franchezza e convenienza i precipui fatti e le ragioni per cui sia desiderabile che non venga accettata la dichiarata neutralità del governo napoletano dalla Francia e dal Piemonte e che non sia più lungamente tollerato il presente sistema politico dell’Italia meridionale.

“4° Commettono ai medesimi di scegliere i mezzi più opportuni per richiamare su quel documento la considerazione di coloro, i quali possono efficacemente giovare al trionfo della causa italiana e di proporre la presente all’accettazione degli emigrati non intervenuti nell’odierna adunanza(788).

Nello stesso dì, in cui si pubblicava la dichiarazione, giunse in Torino la notizia della vittoria di Magenta che aprì a gli eserciti alleati le porte di Milano, ove entrarono trionfalmente tra immenso entusiasmo di popolo il giorno 8. Pochi giorni dopo, avvennero, il 24 giugno, la sanguinosa battaglia di Solferino e di S. Martino, quindi la pace di Villafranca dell'll luglio che interruppe dolorosamente per ogni anima italiana la guerra dell'indipendenza.

Durante i tormentosi giorni della guerra una grave e strana sventura colpi uno dei deportati di Cadice,Luigi Parente nativo di Castellabate, in provincia di Salerno. I lunghi anni di galera, gli inenarrabili dolori di quella vita squallida e senza conforto umano, avevano indebolito le sue facoltà s intellettuali. Durante il viaggio da Londra a Torino apparvero i primi segni di alienazione mentale. I suoi compagni, accortisi del suo stato, Io vigilavano e lo assistevano con affetto fraterno. Ma egli un giorno, nel luglio del 1859, si sottrasse a la sorveglianza e fuggito per le campagne, capitava sfortunatamente innanzi ad un campo militare di soldati piemontesi presso Vercelli. II suo contegno incerto, rocchio smarrito, l’aspetto sconvolto misero in sospetto alcuni soldati di cavalleria, che supponendolo uno spione, lo arrestarono, chiudendolo in un locale addetto ad uso di scuderia Il disgraziato, colpito terribilmente da quel sospetto, cadde in tale esaltazione che, trovata una pistola ¿La arcione in una delle selle colà riposte, si esplose un colpo nell’orecchio, restando gravemente ferito e senza sensi.

A la notizia del triste avvenimento il Poerio andava dal conte di Cavour ed, ottenuto ordine dell’immediata liberazione del Parenti, spediva a Vercelli il prete Serino fido amico e compagno di lui per ricondurlo a Torino. Al Serino, che affettuosamente gli domandava la ragione del triste passo rispondeva: “Io spia! Avrei potuto vivere dopo simile onta, con il marchio di spia!” (789). Lo sventurato guariva miracolosamente da l’orrenda ferita; ma la follia rincrudeliva ed egli dovette essere custodito nella casa di salute della Villa Cristina. Delirava continuamente e cercava spesso di attentare a la sua vita: in uno di tali attentati riportò la frattura del femore sinistro(790). Tra atroci sofferenze spirava in quello stabilimento sanitario il 4 dicembre del 1859.

VII. Le maggiori speranze per una insurrezione nel regno di Napoli si volgevano a la Sicilia. Gli avvenimenti del 1848 avevano dimostrato quale impeto e vigoria di spiriti ribelli serbasse l’antica terra del vespri. La forza dell’armi aveva potuto schiacciare la rivolta, non estinguere il fuoco. Lo alimentavano l’odio contro i napoletani, così diversi di temperamento e di indole, la dura oppressione, che pesava su l’isola, le vecchie aspirazioni di autonomia, i comitati segreti in varie città siciliane, l’opera costante degli esuli specialmente di Genova e Malta. Da molti anni Nicola Fabrizi stava in Malta intento a preparare una sommossa in Sicilia.

La polizia esercitava la più accurata sorveglianza su le relazioni tra i liberali dell’isola con gli emi grati e cercava di ottenere rivelazioni da quelli tra essi che, per grazia sovrana, ritornavano in patria. Uno di questi, un tale Salvatore M…..., siciliano, rivelò alcune riunioni tenute in Genova nell’agosto del 1855 per promuovere una rivolta in Sicilia. Vari fuorusciti napoletani e siciliani, tra cui Rosalino Pilo, Casimiro De Lieto, Vincenzo Fomarelli (791), Emerico Amari, il barone D’Ondes, Luigi Orlando, Francesco Ferrara, Vincenzo Fusca, Enrico Cosenz, Giovanni Interdonato, Bertolami ed il principe di Scordia si sarebbero uniti, in casa del barone Giacomo Coppola, con Garibaldi per stabilire uno sbarco di emigrati nell’isola (792). In un’altra riunione si sarebbe dato incarico al M , al Fusca e ad un tale Visiano, tutti e tre di Palermo, di andare colà per preparare il terreno. Essi sbarcarono a Malta raccomandati al Fabrizi, che doveva procurare loro una sperona r a inglese per condurli a Castellamare del Golfo; ma non potettero ottenerla; il Fuscotornò a Genova; gli altri due andarono a Tunisi.

Il 22 novembre 1856 il barone Francesco Bentivegna, come ho precedentemente accennato, promosse la rivolta in alcuni comuni della provincia di Palermo. Una compagnia di cacciatori di linea, guidata da guardie urbane, sorprese i rivoltosi in un casolare e li condusse nelle carceri di Palermo(793).

Nonostante l’arresto del Bentivegna si speravada gli esuli che il moto si estendesse e si pensò a soccorrerlo. 9 dicembre 1856 alcuni di essi residenti in Torino, il Tommaseo, il Cosenz, il Varò, l’Interdonato, il Gemelli, il Mordini, il La Masa, anche per incarico di molti loro compagni andarono dal Pallavicino per invocare aiuto in pro degli insorti. Pallavicino promise tutto il suo appoggio e diede settemila lire per l’acquisto di fucili da mandarsi in Sicilia(794).

La notizia della fucilazione del Bentivegna, avvenuta in Mezzoiuso il 23 dicembre per sentenza di un consiglio di guerra, troncò le attese, non le speranze degli emigrati(795). Il cav. Canofari ministro napoletano in Torino riferiva che, in seguito a le notizie venute da la Sicilia, erano cessati i preparativi di una spedizione, ma proseguiva la raccolta di danaro e di sottoscrizioni per opera specialmente del La Cecilia, del La Masa, del La Farina, del Di San Donato, dell’Anguillara e del Gemelli(796).

La vigilanza su gli esuli era grandissima a Genova da parte del consolato napoletano. Dal 1848 al 1851 lo aveva diretto Domenico Morelli. Gli successe Ippolito Garrone, mente volpina che, coadiuvato dal vice console Anfora, si avvaleva di tutti i mezzi per tenersi informato delle pratiche e dei discorsi dei numerosi proscritti dimoranti nella città. Accarezzava coloro, che gli sembravano meno restii, con promessa di appoggiare le loro domande di grazia per il rimpatrio e teneva spesso la parola con pieno successo. Alcuni dei proscritti versavano nella più squallida miseria ed egli ne profittava per ottenere, mediante denaro, rivelazioni e confidenze. E purtroppo uno o due si prestarono al triste ufficio(797).

Divenne più intensa l’opera del console nel corso del 1859 quando si cominciò in Genova a sussurrare di preparativi per uno sbarco di emigrati su le coste del regno sotto il comando di Garibaldi. Garrone, con lettera del 10 agosto 1859 (798) informava il suo governo di tali mene notando tra i più fervidi e premurosi gli esuli Stocco, Mazziotti, De Lieto, Romeo figlio ed il prete calabrese Soraci.

Il cav. Carafa, ministro degli esteri in Napoli, ordinava al marchese Antonini ambasciatore a Parigi di rivolgere per mezzo del governo francese severe rimostranze al governo sardo contro i preparativi che si ordivano a Genova. L’Antonini, con lettera del 4 agosto 1859, riferiva che il conte Walescki ministro degli affari esteri francese lo aveva assicurato che avrebbe scritto a Torino “quoique tout çaait l’air d’un canard”.A queste parole l’Antonini rispose: “Monsieur le comte, beaucoup de nouvelles qui avaient l’air de canards se sont dernièrement trouvées des faits incontestables”.L’Antonini soggiungeva nello stesso rapporto: “Ho parlato pure con l’ambasciatore di Russia ed al ministro di Prussia dicendo loro che in caso di una repressione energica non si gridi di nuovo a la barbarie del governo” (799).

Le informazioni del console napoletano erano esatte. Durante l’anno 1859 ed i primi mesi del 1860durò tenace e continuo il lavorio da parte degli esuli diretti dal Poerio e da lo Spaventa per destare una sommossa in Napoli simultaneamente ad una invasione di Garibaldi negli Abbruzzi(800). Corrispondevano a tale oggetto con il Comitato dell’Ordine di Napoli. D'altra parte il Crispi, il Pilo e gli esuli siciliani si adoperavano ad una insurrezione nell’isola. Il Crispi con passaporto falso andò il 16 luglio 1859 a Messina e poi a Catania, a Siracusa ed a Palermo e tornò a Messina il 15 ottobre per spronare a l’azione i suoi amici ed i comitati(801). Rosalino Pilo con lettere vibranti ed infuocate lavorava anche egli a lo stesso intento ed il 22 marzo 1860, stanco degli indugi, partì a la volta dell’isola nati va con Giovanni Corrao su una vecchia paranza ed approdò il 9 aprile a Grotte presso Messina(802).

Si attendeva di giorno in giorno l’annuncio della rivolta in Sicilia e da ogni parte si raccoglievano denari ed armi per soccorrerla Il Mazzini, il Mario, ed il Quadrio desideravano che assumesse carattere apertamente repubblicano e volevano a capo della spedizione il Garibaldi comprendendo il grande prestigio di lui che solo poteva entusiasmare le masse ed affidare del successo.

Gli esuli napoletani e siciliani di parte costituzionale si adoperavano anche essi a suscitare un moto nell’isola, ma con intendimento assai diverso. Molti di essi, nelle elezioni indette per il marzo del 1860 nell’antico regno di Sardegna e nelle provincie annesse, erano stati eletti deputati, splendida affermazione del concetto nazionale. Il Poerio risultò eletto ad Arezzo ed a Livorno, il Bonghi a Belgioioso, il Busacca a Borgo S. Lorenzo, il Carrano a Codogno, il Conforti a Broni, il Cosenza Como, il De Blasiis a Bibbiena, l’Imbriani a Pisa, il La Farina a Busto Arsizio, il Longo a Bagnolo, il Mancini a Sassari, il Massari a Castiglione Fiorentino, Io Scialoia a Moncalvo. Essi avevano frequenti rapporti con il conte di Cavour e, in completo accordo con lui, desideravano che l’agitazione in Sicilia non desse il sopravvento a i mazziniani: temevano sovratutto che costoro volgessero le armi dei volontari contro lo Stato pontificio: ciò che avrebbe prodotto un grave e pericoloso conflitto con la Francia.

In mezzo a tante opposte correnti giunse la notizia dell'insurrezione di Palermo del 4 aprile e della formazione di numerose bande nell’isola. L’ora stringeva: parecchi moderati e mazziniani si unirono a preparare la spedizione di soccorso, specialmente il Medici, il Bixio, il Bertani, il Farina. La voce della prossima partenza di essa sipropagò in Piemonte e nella Lombardia e da ogni parte affluirono in Genova gli antichi soldati di Garibaldi e giovani gagliardi desiderosi di prender parte a la ardita impresa. Un esule a Genova tuttora vivente ha narrato(803)che nei primi di aprile del 1860, il cav. Pietro Magenta vice governatore in Genova, consigliò gli emigrati politici Giuseppe Natoli, il Ricciardi, il professore Luigi Mercantini, il Nazari ed il Mazziotti a costituire subito un comitato di emigrazione per aiutare, non tanto, egli diceva, gli emigrati che allora si trovavano a Genova generalmente non bisognosi, quanto quelli che certamente vi sarebbero attirati da prossimi avvenimenti. Non disse di più, ma lasciava indovinare quello che egli taceva(804). Il comitato si costituì con i nomi indicati, a i quali vennero aggiunti il dott. Davide Chiossone, il prof. Emanuele Celesia, il dott. Brnzzo e l’avvocato Pantaleo Bosso ed ebbe sede in Via Canneto Lungo.

Esso diramò il 18 aprile a i numerosi esuli residenti in Genova questa breve circolare: “I sottoscritti costituiti in giunta provvisoria, col fine di rappresentare l’emigrazione italiana residente in Genova, fa istanza a coloro fra gli emigrati che vogliano contribuire al peculio da costituirsi a pro’ della santa causa affinché rechino al più presto le loro offerte al barone Mazziotti e versino il denaro al porgitore segnando la somma versata”. A margine della circolare sono indicati alcuni versamenti di Damiano Assanti, Casimiro De Lieto, I. Mauro, Ulisse De Dominicis (805). Con le somme raccolte, e nella massima parte con somme fornite dal Magenta, vennero somministrati mezzi di sussistenza a molti giovani arrivati in Genova in tale circostanza e forniti passaporti a un gran numero di essi che partirono per la Sicilia come operai e con la simulata destinazione di Malta (806). Gli esuli dimoranti in Firenze formarono, per soccorrere il moto siciliano, un comitato permanente composto dal Tupputi, dal Bellelli, dal Malenchini, dal Menotti e dal Vannucci (807).

L’annunzio dell’insurrezione siciliana, giunto a Torino soltanto la sera del 6 aprile (808) entusiasmò gli esuli. La Società nazionale promosse una sottoscrizione per aiutarla. In presenza dell’importante avvenimento, che rispondeva a i più caldi loro voti, gli esuli meridionali residenti a Torino stimarono necessaria una intesa circa l'opera loro in quei gravi momenti. Si raccolsero la sera del 7 aprile in casa Platino i due Platino, Salvatore Tommasi, Giovanni Interdonato, Giuseppe Lamasa, il Daca di San Donato, G. Del Castillo, Cesare Braico, il Duca di Caballino, Pietro Interdonato, Raffaele Busacca, Leopoldo Sarnelli, Odoardo Gaetani, Diomede Marvasi, Pietro Leopardi, Giuseppe La Farina, Giacinto Carini, Gaetano De Pasquale, Enrico Amato, Filippo Cordova, Angelo Raffaele Piccoli, Giuseppe Bracco, Filippo Patella, Emanuele Bisignano, Gennaro De Filippo, Achille Argentino, G. B. Pentasuglia, Ruggero Bonghi, Domenico Valente, Francesco Stocco, Giovanni Ricciardi, Mario Palizzolo, Luigi Praino, Tommaso Notaro, Rocco Morgante, Raffaele Travia, Rocco Piccolo, Giuseppe Pisanelli, Mariano Fiorentino, P. S. Mancini, Cesare Oliva, Raffaele Conforti, Raffaele Piria, Gaetano Cammarota, Biagio Miraglia, Salvatore Chindemi, Antonio (riccone, Angelo Oddo, Luigi Oddo e Giovanni Raffaele.

L'adunanza volle affermare nettamente il concetto di un completo accordo delle forze rivoluzionarie con la dinastia di Savoia e con il governo piemontese per la redenzione del mezzogiorno di Italia(809). Nominarono un comitato composto del Poerio, del La Farina, del Piria, del Conforti, dell’Interdonato, del Mancini e del Pisanelli(810)Il giorno dodici con un indirizzo a stampa diretto al conte di Cavour, esprimevano “la loro grande esultanza per l’unione delle provincie centrali alla monarchia ed il loro voto e la loro fede che anche le provincie meridionali d’Italia avrebbero concorso alla conquista della reintegrazione della grande patria italiana”.

Sono note, per il racconto di varii scrittori, le incertezze e le crudeli alternative che precedettero la partenza della spedizione. Non si conosceva esattamente se il moto in Palermo perdurasse, se si fosse esteso in altre provincie e quale sorte avessero avuto le bande insurrezionali che scorazzavano la campagna. Le notizie da l’isola venivano con ritardo da Malta per mezzo del Fabrizi in telegrammi cifrati. Stabilita la partenza venne sospesa e licenziati molti volontari per un telegramma del Fabrizi che dava sfavorevoli informazioni.

“Vi erano a Genova” scrive il Calvino “due correnti: i favorevoli a la spedizione e quelli che le erano piuttosto avversi, non per mancanza di patriottismo, ma per varie considerazioni sulla difficoltà dell’esecuzione e dell’esito: considerazioni che non erano da dispregiare(811). Uomini di provata audacia, come il Medici ed il Sirtori non nutrivano fede nel successo dell’impresa. Il Sirtori disse al La Farina che incitava a la partenza, “Voi sarete responsabile del sangue di Garibaldi” (812). Garibaldi stesso non nascondeva menomamente le grandi difficoltà del successo (813).

Un nuovo telegramma del Fabrizi assicurò che l’insurrezione nell’isola persisteva. Vuolsi che questo secondo telegramma di rettifica al primo fosse foggiato dal Crispi: (814) in ogni modo la partenza fu risoluta ed avvenne nella notte del 5 maggio. Partirono tra i mille gli esuli siciliani Francesco Crispi, Giuseppe La Masa, Giacinto Carini, Vincenzo Giordano Orsini, Mario Palizzolo, Alessandro Ciaccio, Giuseppe Oddo Salvatore Catiglia ed i fratelli Achille e Giuseppe Campo, e gli emigrati napoletani Vincenzo Carbonelli, Nicola Mignogna, Tito Trisolini, Francesco e Vincenzo Sprovieri, Domenico Mauro, Francesco Stocco, Antonino Plutino, Achille Argentino, Giuseppe Fanelli, Francesco Bellantonio, Angelo Raffaele Piccoli, Rocco Morgante.

La provincia di Salerno dette a l’ardita spedizione nove dei suoi figli, cioè Giuseppe Pessolani, Ovidio Serino, tutti e due dei deportati di Cadice, Antonio Santelmo, Leonino Vinciprova, Vincenzo Padula, Michele Magnoni, i fratelli Francesco Paolo e Michele Del Mastro, e Filippo Patella, tutti compromessi nelle sommosse del Cilento del 1848 (815).

Giuseppe Pessolani di Atena Lucana apparteneva a famiglia di antichi patrioti. Suo padre Saverio Arcangelo, per la parte presa a i moti del 1820 e del 1828, aveva avuto condanna a morte commutata nell’ergastolo che egli scontò nell’isola della Pantelleria fino al 1833. Giuseppe, nato il 1807, era stato uno dei capi delle agitazioni del 1848 in provincia di Salerno, ed aveva, in seguito anche egli, a condanna di morte commutata nei ferri, passato circa dieci anni nei bagni penali (816). A Torino, per sostentare la vita aveva intrapreso un piccolo negozio di stoffe e di chincaglierie. Partito sul Lombardo come semplice soldato della terza compagnia, comandata da Francesco Sprovieri, combattè valorosamente a Calatafimi e a la presa di Palermo, ove fu promosso capitano, e poi a Milazzo. In un rapporto, che lo Sprovieri faceva da Milazzo il 22 luglio a Garibaldi su quel combattimento si legge: “Il bravo capitano Pessolani cadeva a la testa della propria compagnia gravemente ferito in una coscia ed al capo: e pure non si ristava di rincorare i suoi. Io raccomando questo prode a la considerazione di V. S. perché trovi il meritato compenso in un avanzamento ove venisse a sopravvivere” (817).

Lo stesso Pessolani narrava che, mentre giaceva ferito sul campo di battaglia, un soldato borbonico gli impose di consegnargli tutto ciò che possedeva. Il ferito procurò di difendersi a la meglio con la sciabola, ma l’altro gli arrecò una piccola ferita a la fronte. Fortunatamente un colpo di fucile fece stramazzare quel soldato e, sopravvenuti dipoi i compagni del Pessolani, questi venne portato nell’ospedale militare di Barcellona, ove riri mase per circa due mesi passando dipoi nell’ospedale di S. Sebastiano (?) in Napoli. Uno scrittore (818) da cui desumo queste notizie, riferisce che il Pessolani, a le promesse di un posto ben retribuito o di un eccezionale compenso che gli si faceva, avesse risposto “di non aver bisogno di nulla e bastargli l’onore di avere sparso il sangue per la patria”. Nell'agosto del 1861, collocato a riposo per infermità con una meschina ed irrisoria pensione, tornava al suo paese nativo ove tenne con onore l’ufficio di sindaco. Sorpreso da grave malattia cardiaca soccombeva il 23 novembre 1875 (819).

Ovidio Serino di Francesco, nato il 5 aprile 1813 in Carife, villaggio del comune di Mercato Sanse verino, era un prete ardito e vigoroso. Nei moti del Cilento del 1848 era stato l'apostolo della ri

volta come disse la sentenza della Gran Corte speciale di Salerno del 22 gennaio 1851 che lo condannò a morte. Ho già narrato nei capitoli precedenti come, commutatagli la pena, stette a lungo in galera e come fu anche egli imbarcato per la deportazione in America. Raggiunse nell'impresa dei Mille il grado di maggiore e seguì Garibaldi fino al termine di essa. Ritrattosi quindi nel suo paese vi mori il 5 febbraio 1886 nell’età di 73 anni.

Antonio Santelmo fu Michele, nato in Padula il 25 dicembre 1815, aveva contribuito con i suoi germani Francesco e Vincenzo ad estendere nel nel suo distretto nativo la setta Nuova Carboneria ed a i moti del 1848. Arrestati tutti e tre i fratelli, la Gran Corte di Salerno, nel 10 giugno 1851, li assolse per non provata reità. Subirono un novello arresto ed un altro processo in seguito a la spedizione di Sapri ed Antonio dovette andare in esilio a Genova, ove si ascrisse a i Mille. A Calatafimi ebbe una ferita al ginocchio.

Leonino Vinciprova, nato in Omignano il 14 marzo 1809 da Pietro Paolo Vinciprova ed ElisabettaElia, era stato, come ho narrato in altro scritto (820), uno dei capi delle rivolte cilentane del gennaio e del luglio 1848. Fuggito a Roma, dopo l’insuccesso di esse, aveva preso parte a la difesa della repubblica, poi caduta questa erasi ricoverato a Genova, donde parti con i Mille.

Vincenzo Padula fu Maurizio, sacerdote, nato in Padula il 16 ottobre 1831, era uno dei più operosi liberali, della sua contrada, ed aveva subito persecuzioni, arresti e poi l’esilio. Imbarcatosi con Gariba di combattè anch'egli a Calatafimi. Ferito a la battaglia di Milazzo dovette assoggettarsi nell'agosto del 1860 a Famputazione di una gamba, in seguito a la quale morì in Barcellona di Sicilia. Un decreto di Garibaldi del 24 settembre 1860 dispose: “E promosso a maggiore il capitano Vincenzo Padula, caduto gloriosamente a Milazzo” (821).

Michele Magnoni di Rutino, nato il 2 dicembre 1829, era stato giovanissimo tra gli insorti del Cilento del 1848. Arrestato, stette vari anni in carcere durante i quali lavorava con entusiasmo a preparare un movimento nel Cilento a l’arrivo del Pisacane e dei compagni di lui. Mandato in esilio si recò a Genova il 20 aprile del 1860 e combattè tra i Mille. Morì improvvisamente a Salerno il 6 novembre 1889 destando il più (al)fettuoso rimpianto in tutta la provincia, fiera del l’opera lunga e tenace del benemerito cittadino.

Michele Del Mastro fu Carmine, nato in Ortodonico il 6 marzo 1827, aveva fatto le sue prime armi, giovanissimo, nelle insurrezioni del Cilento. Ho narrato in questo stesso volume (822) come riuscisse audacemente a levare da le mani dei gendarmi suo fratello Francesco Paolo. Dopo una lunga latitanza i due germani fuggirono a Genova nel maggio del 1850, partirono insieme tra i Mille e combatterono a Calatafimi. Il 1° giugno del 1860 a la presa di Palermo Michele riportò una grave ferita al braccio sinistro con frattura dell’osso (823). Sopraggiunta la cancrena, quel valoroso mori la mattina del giorno 9 rassegnato e tranquillo. Le sue ultime parole furono per la patria e per il fratello che si trovava in altro comune anche egli ferito (824). Nei giornali del tempo si legge: “Sabato si facevano i funerali a Michele Del Mastro di anni trentatrè, soldato della sesta compagnia dei cacciatori delle Alpi. Da l’ospedale il feretro fu accompagnato dai legionari, dal clero, dal po polo e da molte signore del paese vestite a bruno, e trasportato nella chiesa di S. Antonio dei Francescani. Il padre Giovanni di Castelvetrano disse alcune commoventi parole sulla spoglia del generoso ribelle” (825).

Francesco Paolo Del Mastro, fratello di Michele, ebbe i natali parimenti in Ortodonico, il 9 maggio 1825. Nella battaglia di Calatafimi si comportò eroicamente e riporto una grave ferita. Garibaldi lo promosse sul campo al grado di capitano. Morì nel 1904 in Ortodonico.

Filippo Patella fu Giuseppe, nato in Agropoli il 26 marzo 1817, era parroco nel suo paese quando scoppiò nel Cilento il moto del gennaio 1848. Egli, che aveva contribuito a prepararlo, guidò una delle colonne insurrezionali«Sopravvenuta la reazione andò a Roma e prese parte a la difesa de la repubblica, quindi fuggi a Genova, ove il 1860 s’imbarcò tra i Mille e fece bravamente il suo dovere. Molti lo ricordano ancora professore e preside nel liceo Umberto di Napoli. Sotto un aspetto alquanto burbero nascondeva un’anima buona di fanciullo. Mori in Napoli, molto compianto da gli amici, da la cittadinanza e sopratutto da i numerosi suoi discepoli, il di 11 gennaio 1898.

CAPITOLO XVI

Liberazione

SOMMARIO— I. Provvedimenti del governo per i compromessi politici — Amnistie, commutazione di pene e grazie — II. Vicende del Nisco, del Pironti e del Lamberti — III. Nuovo indirizzo del governo napoletano dopo la morte di Ferdinando lì. — Mutamenti di funzionari! politici — Indulto del 16 giugno 1859 — Vane premure della famiglia del Pironti — Liberazione del Lamberti e di molti relegati politici — IV. Provvedimenti per i condannati cui si era concesso la commutazione della pena nell’esilio — V. Il decreto del 16 giugno 1859 e gli esuli — La grazia a Michele Aletta — Esclusione del Nisco da la grazia — VI. La concessione dello Statuto in Napoli — Amnistia generale per i delitti politici — VII. L’amnistia e gli esuli — Proteste del Mancini e del Poerio contro le pratiche del governo napoletano per una alleanza con il Piemonte — Riunione degli esuli napoletani e siciliani a Firenze — Indirizzo del Settembrini a la parte liberale del regno — VIII. Il conte di Cavour esorta gli esuli a tornare nel regno — Una lettera del Pisanelli — IlPoerio ed altri ricusano di tornarvi durante il dominio dei Borboni — IX. Ritorno di molti esuli — Dimostrazioni in Napoli a l’arrivo di essi.
I. Il governo di Napoli, per attenuare la tensione con l’Inghilterra e la Francia, aveva cercato di sfollare le carceri e le galere largheggiando in grazie ed in concessioni. Già, fin dal 1852, un decreto reale, pubblicato nel giornale del regno il 22 febbraio, aveva abolita Fazione penale per cento cinquantuno detenuti e duecento quarantasei contumaci imputati di lievi delitti politici. Negli anni successivi, salvo per i condannati e per gli esuli ritenuti pericolosi, bastava una supplica con le consuete dichiarazioni di pentimento e promesse di fedeltà per conseguire il condono della pena od il rimpatrio.

Per alcuni condannati il governo commutò la pena residuale dei ferri nella relegazione. Così, per effetto di un decreto reale del 18 marzo 1856, moltissimi condannati, tra i quali, della provincia di Salerno, Lucio e Salvatore Magnoni da Rutino, Domenico Celestino Sabbatella da Felitto, Angelo Cavallo da Trentinara, Pompeo De Angelis e Nicola Durazzo da Castellabate, Giuseppe Farro e Pasquale Santo mauro da Capaccio, Cosmo Postiglione da Eboli, Nicola Pecori e Vincenzo Pirrone da Sacco ed Angelo Pavone da Torchiara, tolti da la galera, andarono relegati nelle isole (826).

Quando si trattava di condannati molto vecchi od infermi ovvero intervenivano raccomandazioni di persone della corte o di alti personaggi, il governo concedeva anche grazia completa. Un decreto reale del 10 gennaio 1859 la largì a un gran numero di condannati a la galera tra i quali, dellaprovincia di Salerno, Michele Gatto, Domenico Puglia, Francesco Giordano, Onofrio Stornelli, Costabile Guariglia, Alessio Mautone, Pasquale Bonora, Antonio Ronzio da Vatolla, e Giuseppe Vitagliano da Rocca Cilento (827).

Ma l’espediente migliore, per liberarsi di gente cosi molesta, sembrava a i ministri napoletani, quello adottato nel gennaio del 1859 per il Poerio ed i compagni di lui imbarcandoli per l’America. Non si prevedeva allora che costoro potessero sfuggire a la loro sorbe approdando in Irlanda. Il governo borbonico, nell'illusione di aver finalmente risoluto nel modo più felice l’increscioso problema, pensò di applicare lo stesso metodo a molti altri condannati, commutando ad essi la pena residuale dei ferri nell’esilio perpetuo dal regno.

Anzi, per far mostra della maggiore longanimità si volle interrogare i condannati se fossero disposti ad andare in esilio. Quasi tutti quelli, che vennero interrogati, accettarono: fra gli altri Matteo Placco, compagno del Settembrini a S. Stefano, il bravo giovane che sotto la dettatura di lui aveva scritto la traduzione dei dialoghi di Luciano. Consentirono parimenti, della provincia di Salerno, Lorenzo Carnevale di Scorzo(828), Raffaele Ginnari, ano dei più fidi seguaci del Carducci nei moti del Cilento del 1848, Filippo Senese di Olivete allora nel bagno di Ischia, Felice Delli Paoli e Francesco La Greca di San Mango Cilento, Raffaele Lerro di Omignano, Domenico Picone di Torchiara, Francesco Pastore di Sarno, Raffaele Ferolla di Catena, villaggio del comune di Ascea, Gaetano Capozzoli di Monteforte, Felice Barone di Eboli(829). Un decreto reale del 18 marzo, 1859 commutò per costoro e per parecchi altri la pena dei ferri nell’esilio perpetuo(830).

Ma importanti avvenimenti fecero sospendere l’esecuzione del decreto. In quei giorni si annunciava imminente la guerra contro l’Austria; il nove del mese di marzo era giunto da Bari nella reggia di Caserta, gravemente infermo, il re Ferdinando. E nello stesso giorno si seppero con la più viva sorpresa, dal governo di Napoli l’approdo del Poerio e dei compagni di lui in Irlanda e le festose accoglienze da essi ricevute! Come pensare, dopo questa notizia e fra tali preoccupazioni, a l’imbarco di altri condannati per l’America? Il provvedimento sovrano non ebbe allora alcun effetto e non si pensò neanche, per il momento, al Nisco, al Pironti ed al Lamberti, rimasti in galera dopo la partenza dei loro compagni per Cadice.

II. Il Nisco aveva ottenuto, ad istanza della moglie, di andare in Baviera presso il suocero e si attendeva per farlo partire il consenso del governo bavarese. Durante tali pratiche, non brevi, il Nisco restò, con la catena al piede, nel castello di Montesarchio che a l’uscita di lui doveva per ordine reale essere chiuso, trasferendosi gli altri detenuti in altri luoghi di pena(831)Il governo bavarese diede finalmente il suo assenso, ed il Nisco venne il 22 marzo 1859 trasferito nel carcere di Avellino e poi il 17 aprile in quello della polizia in Napoli. Il 1(o)maggio del 1859 fu imbarcato su un piroscafo del Lloyd per Trieste; ma le autorità austriache ricusarono di concedergli il passaggio, ed allora lo sventurato fu spedito a Malta ove giunse il giorno 4 accolto fraternamente da gli esuli napoletani(832).

Anche il Pironti aspettava invano nella galera di Nisida l’adempimento della promessa fattagli da i commissari del re, allorché gli fu concesso di non imbarcarsi per Cadice. Costoro gli avevano detto: “Spinti dal dovere e consigliati da la pietà,, ci affrettiamo ad annunciarvi che, dietro nostro telegramma in Puglia, S. M. il re si è compiaciuto di rispiarmiarvi i disagi ed i pericoli di un viaggio per mare. Quindi vi si assegna abitazione comoda e speciale a Nisida, fuori il recinto della galera, dove rimarrete sino a nuova disposizione” (833). Altro che abitazione comoda e speciale! Egli si trovava assai peggio di prima. Abituato per molti anni a l’assistenza affettuosa dei suoi compagni di sventura sentiva nel profondo dell’animo l’amarezza e lo sconforto della separazione da essi. Nei primi giorni dopo di questa ebbe a fianco un bravo giovane che gli prestò tutte le cure, ma dopo breve tempo gli venne tolto. Il povero infermo scriveva il 15 febbraio del 1859 da Nisida a sua sorella Mariannina (834): “Io anderei alquanto mediocremente se non fosse l’abbandono in cui sono; dopo otto giorni perdetti quel buon giovine che mi era stato assegnato, e son capitato in mar i di un birbaccione che mi ha fatto soffrire gli estremi bisogni e se non era quest’ottimo ufficiale che ha ordinato ai soldati di avermi cura, sarei languito di stento. Mi raccomando a mio fratello Alfonso pel solito denaro perché qui debbo pagare a chiunque mi stenda un braccio e tutto debbo far venire da Napoli e Dio sa che governo si fa di me da questa gente.” Finalmente una ministeriale del 30 marzo 1859 ordinò il passaggio di lui nel carcere del suo circondario; ma anche quest’ordine restò senza effetto ed egli dovette ancora continuare la misera vita nella galera di Nisida al pari di Pasquale Lamberti, che rimase parecchi mesi ancora nella galera di Procida.

III. Intanto il 22 maggio 1859 moriva in Caserta dopo tormentosa malattia il re Ferdinando. Suo figlio Francesco II «aliva al trono tra le più vive preoccupazioni per i successi degli eserciti alleati contro l’Austria. Il 6 giugno la vittoria di Magenta apriva ad essi le porte di Milano, ove entrarono in trionfo. Il conte di Cavour, per assicurare maggiormente le sorti della guerra, voleva indurre ad un’alleanza con il Piemonte il giovine sovrano, cui ripugnava profondamente lo schierarsi contro l’Austria. In mezzo a tante difficoltà, Francesco Il vide giunto l’istante di chiamare al governo, giusta il consiglio datogli negli estremi momenti dal padre, il generale Carlo Filangieri. Questi propugnava un mutamento radicale nell’indirizzo del governo e specialmente un accordo completo con il Piemonte e la concessione delle franchigie costituzionali. Il nuovo ministro prevedeva i grandi ostacoli che si opponevano a si ardito programma; ma confidava di superarli gradatamente ed intanto, per conciliarsi le simpatie e l’appoggio della parte liberale, cambiava molti funzionari politici in Napoli e nelle provincie vennero tramutati in gran parte gli intendenti ed i sottointendenti; fra l’altro nella provincia di Salerno dove, con decreto del 30 giugno, in luogo dell'intendente cav. Salvatore Mandarini trasferito a Caserta, andò il cav. Francesco Morelli antico magistrato allora intendente nell’Abbruzzo ulteriore(835). In pari tempo il governo disponeva lamino del re ad atti di clemenza verso i compromessi politici. Un decreto reale del 16 giugno 1859(836)condonò la pena residuale a i condannati a i ferri, a la reclusione, a la relegazione ed a la prigionia per reati politici non contemplati nei decreti del 27 dicembre 1858 e 18 marzo 1859(837). Per effetto di quel provvedimento conseguirono la libertà il 25 giugno successivo numerosi condannati, tra i quali, della provincia di Salerno, G. B. Del Buono del comune di Futani, Giuseppe Cairone di Cicerale, Pasquale De Luca di Catona, Carmine Magno di Camelia, Angelo Antonio Agrillo di Matonti, Francesco Romano di Eboli, i quali però subirono il domicilio forzoso nei loro paesi.

Del provvedimento sovrano, che condonava a i condannati la pena residuale dei ferri, avrebbe dovuto godere anche il Pironti. La famiglia di lui, ansiosa di rivederlo libero dopo tanti anni, si diede ad affrettare le pratiche necessarie con la cooperazione specialmente del suo congiunto Giuseppe Belli, il quale scriveva al Pironti, ancora in Nisida, il 7 luglio 1859: “Stamattina è pervenuta la sovrana risoluzione(838)e in breve ora si è comunicata all’ispezione, la quale ha fatto subito le liberatorie per te e per Lamberti. Potrò venire sabato a prima ora per rilevarti, al più tardi domenica.” Ignoro quali ostacoli sopravvennero per fare rimanere il Pironti a Nisida fino al febbraio del 1860 quando fu inviato a domicilio forzoso a Montoro suo paese nativo. Tornò finalmente libero in Napoli soltanto nella primavera successiva accolto con vivo entusiasmo da la cittadinanza.

Invece per il suo compagno Pasquale Lamberti, compreso nella stessa ministeriale, non si incontrarono difficoltà. Il 13 luglio 1859 giunse a l’ospedale di Procida, ove egli si trovava ancora infermo, l’ordine di liberarlo. Corsero colà la povera moglie di lui Nicoletta Bianchini con tre figliuoli ed ebbero la gioia di ricondurlo il giorno 23 in Salerno, antica loro dimora.

In virtù dello stesso decreto del 16 giugno 1859 vennero prosciolti da la relegazione i due fratelli Lucio e Salvatore Magnoni da Rutino, Pompeo De Angelis e Nicola Durazzo da Castellabate, Domenicantonio Bronzo da Acquavella, Giuseppe Ametrano da Aquara, Giuseppe Farro da Capaccio, Nicola Pecori e Vincenzo Pirrone da Sacco. Cosmo Postiglione da Eboli, Angelo Cavallo da Trentinara, Michele D’Alto di Diano ed Alfonso Dragone da S. Cipriano che erano quasi tutti a Ventotene e Gaetano Capozzoli che era alla Pantelleria. Furono il 25 giugno trasportati a la darsena di Napoli e di là nelle carceri della polizia ove stettero parecchi mesi. Il intendente di Salerno, con nota del 31 gennaio 1860, dichiarava che sarebbe stata grave imprudenza far restare nella provincia i relegati ad essa appartenenti e li faceva inviare a domicilio forzoso in vari comuni specialmente a Mercato Sanseverino, a Baronissi ed a Montefusco sotto rigorosa sorveglianza.

IV. L’indulto del 16 giugno escludeva però esplicitamente i condannati compresi nel decreto del 18 marzo precedente, che aveva commutato per cinquantotto individui la pena residuale dei ferri nell’esilio perpetuo dal regno: provvedimento rimasto ineseguito come ho precedentemente narrato. Bisognava pure prendere una risoluzione per costoro che languivano tuttora nelle galere dopo il provvedimento sovrano! Lasciarveli ancora sarebbe stata una vergogna da sollevare giustamente nuove ire e proteste contro la corte borbonica! Dorarli completamente non si voleva perché sembrava pericoloso. Dopo alcuni mesi di incertezze di perplessità si ricorse ad un mezzo termine: quello di facoltarli a scegliere tra l’esilio ed il domicilio forzoso. Quasi tutti naturalmente prescelsero quest’ultima proposta, e Francesco II, in un Consiglio di Stato tenuto in Quisisana il 29 agosto 1859, sottoscrisse un decreto con cui disponeva il loro invio a domicilio forzoso, ove difatti furono inviati il Carnevale, il Senese, il Lerro, il Picone, il Pastore, il Ferolla, il Ginnari ed il Barone. Quest’ultimo nell’ottobre successivo venne trasferito a Chieti.

V. Nello stesso giorno 16 giugno 1859, in cui si era provveduto a favore dei condannati a i ferri e a la relegazione, si pubblicava un altro decreto con il quale si “concesse il rimpatrio a centotrentasette individui che si trovavano a l’estero per la condotta da essi serbata nei politici sconvolgimenti degli anni 1848 e 1849” (839). Erano quasi tutti siciliani, tra i quali Stanislao Canizzaro, Filippo Cordova, i due fratelli Campo e Domenico Piraino, pochissimi delle provincie continentali del regno. Il De Sivo scrive “in virtù di tale provvedimento rimpatriarono cento trentasette fuorusciti e poco stante altri cinquantatré — schiuma di congiuratori o lance del Cavour e del Mazzini, i quali per gratitudine si sparsero tosto nelle provincie a prepararvi la rivoluzione: il Mazziotti a Salerno, il Ricciardi ad Avellino, il Petruccelli in Basilicata, il Romeo ed il Musolino in Calabria ed altri nelle Puglie, in Terra di Lavoro e in Abbruzzo” (840).

Il decreto per i centotrentasette esuli siciliani è inserito nel giornale ufficiale, ma non menziona in alcun modo né il Mazziotti, né il Ricciardi, né il Petruccelli, né il Musolino, né i Romeo. Del decreto successivo, che riguarderebbe altri cinquantatré esuli, non vi è traccia nel giornale ufficiale, né io sono riuscito ad averne sicura notizia. Dubito quindi che il De Sivo, scrittore iniquo e partigiano nei giudizii, ma d’ordinario diligente ed accurato nei fatti, sia caduto in grave errore.

Il decreto, che concedeva il rimpatrio a i centotrentasette esuli “si riservava di provvedere per coloro che faranno pervenire suppliche e che prometteranno di vivere a l’ombra delle nostre leggi, come ad ogni onesto suddito si conviene”. Difatti ebbero luogo, con provvedimenti separati, simili concessioni: fra gli altri a Michele Aletta. La moglie e i due figli di lui, che si trovavano a Salerno nel più squallido abbandono, si presentarono supplichevoli al re in Quisisana e lo commossero di pietà per il loro genitore decrepito e quasi cieco. Un decreto del 19 dicembre 1859 fece grazia a lo sventurato vecchio che s’imbarcò a Genova per Napoli, donde fece ritorno in Monte San Giacomo suo paese nativo (841).

Varii condannati inoltrarono suppliche per il rimpatrio ed alcuni di essi l’ottennero. Non l’ottenne il Nisco allora in Malta. Egli, mediante un passaporto rilasciatogli dal console piemontese nell’isola, parti il 12 luglio 1859 sul piroscafo francese Pausilippe ed approdò a Livorno donde prosegui per Firenze. Ivi trovò il Poerio, il Braico, il Castromediano, suoi compagni di galera, il Settembrini, lo Spaventa, Girolamo Ulloa, il marchese Dragonetti, Ferdinando Fonseca, Carlo Gemelli, Federico Quercia, Francesco De Blasiis ed Enrico Pessina. In Firenze il Nisco collaborò al giornale La Nazione (842).

VI. Il giovane re Francesco atterrito da gli avvenimenti, massime da le vittorie degli eserciti alleati e da le rivoluzioni avvenute nell’Italia centrale, con atto del 25 giugno 1860, dopo premure degli ambasciatori di Francia e di Inghilterra da breve tornati a Napoli, promise gli ordini rappresentativi (843), una completa amnistia per i delitti politici ed un accordo con il Piemonte. Il Ministero Spinelli, sorto in seguito a tali promesse, collocava a riposo, con decreto del 29 giugno, i più famosi commissari di polizia, tra i quali il Merenda, il Campagna ed il Morbilli e cambiava i funzionari politici nelle provincie. Il giorno 27 dello stesse mese entrava nel governo Liborio Romano, ds pochi anni tornato da l’esilio, assumendo da prima il dicastero della polizia, poi, con decreto del 14 luglio anche quello dell’interno. Il suo compagno d’esilio, l’avv. Domenico Giannattasio andava il 10 luglio intendente a Salerno, sua città nativa, in luogo del Morelli richiamato nella magistratura.

Un decreto reale del 30 giugno 1860 (844) abolì “l’azione penale per tutti i giudizi per imputazione di reato politico e condonò ogni pena principale ed accessoria pronunciata per tali delitti”. In seguito a questo provvedimento ebbero completa libertà tutti coloro che per condanne riportate trovavansi negli ergastoli, nelle galere, in carcere, relegati nelle isole o a domicilio forzoso. Tra questi ultimi Felice Barone di Eboli ed Angelo Pavone di Torchiara. Entrambi tornarono liberamente a i loro paesi.

VII. Il decreto di amnistia condonava, tra le altre pene, anche quella dell’esilio e “facilitava a rientrare nel regno coloro che per disposizione di prevenzione motivata da politici addebiti ne erano usciti L’amnistia quindi comprendeva tutti gli esuli, sia che fossero fuggiti a l’estero per non espiare condanne o per non sottostare a processi, sia che vi fossero stati indotti da timore di arresto o di persecuzioni.

Parecchi emigrati erano già tornati in patria per concessione sovrana: tra gli altri il famoso medico Vincenzo Lanza che aveva presieduto la riunione preparatoria dei deputati in Monteoliveto il 15 maggio, l’ex deputato Amodio(845), il Giannattasio e Liborio Romano come precedentemente ho narrato. La Gran Corte di Salerno il 3 luglio 1865 applicò l'amnistia a molti compromessi iscritti nell’albo dei rei assenti, tra i quali i due fratelli Coco di Perdifumo, Nicola Causale di Corleto, Ernesto Del Mercato, Filippo Patella, Leonino Vinciprova, Giovanni De Angelis, F. P. Del Mercato, Giuseppe Caputo e Giovanni Guerrieri.

Gli avvenimenti di Napoli e sovratutto la promessa di re Francesco, di un accordo con il Piemonte, turbava gli esuli. Essi ricordavano che pochi mesi prima la Corte borbonica non aveva voluto accettare, dopo la morte di Ferdinando II, le proposte di alleanza rivoltele dal Piemonte. Ora il nuovo sovrano si apprestava ad offrire ciò che egli stesso aveva respinto(846). Avrebbe accolto le proposte il conte di Cavour? Temevano gli esuli, cui ormai balenava quasi sicura la speranza di una Italia unita, che l’eminente statista piemontese, preoccupato dell’eventualità di una nuova guerra contro l’Austria, potesse fare buon viso a le offerte(847)e vollero, per mezzo dei più autorevoli fra loro, protestare contro ogni possibile intesa del Piemonte con la Corte di Napoli.

L’occasione si presentò presto propizia. Discutendosi nella Camera dei deputati a Torino il 29 giugno 1860 un disegno di legge del governo per un prestito, il Mancini ed il Poerio, allora deputati, protestarono contro le richieste della Corte borbonica. Il Poerio, tra l’altro disse: “Ilgoverno di Napoli iniquamente e codardamente operando cangia ora politica, chiede rifugio presso questo governo e ne vuole l’assistenza. Ma ogni alleanza deve mettere avanti le sue condizioni. Quali sono quelle del governo di Napoli? Il tradimento e lo spergiuro” (848).

Parve necessaria una riunione di emigrati napoletani e siciliani per intendersi circa la loro azione nel regno e venne tenuta in Firenze il 4 luglio 1860 in casa di uno di essi, Ferdinando Fonseca. Gli intervenuti si trovarono concordi nel concetto di non aderire al governo costituzionale di Francesco II e di propugnare l’unione delle provincie napoletane al Piemonte. Si deliberò di rivolgere un indirizzo a i popoli delle Due Sicilie a lo scopo di impedire che la parte liberale si fosse acquietata a le tardive concessioni del nuovo re. Il Settembrini, per incarico di tutti i convenuti, scrisse l’indirizzo nel quale diceva a i Borboni: “Avete regnato abbastanza; via bombardatori di popoli, via carnefici che non avete dignità di principi, non avete fede di galantuomini, non avete senso ed umanità di uomini”(849).

Stimavano alcuni degli esuli che essi, respingendo le concessioni della Corte borbonica, non dovessero per sentimento di coerenza e di lealtà rientrare nel regno. Alcuni di loro non avevano fede nel governo di Napoli e temevano, tornando colà, di essere arrestati (850). Altri invece per circostanze familiari, per bisogno, per nostalgia non sapevano resistere al desiderio di rivedere la patria ed i congiunti; ma avrebbero voluto non partir soli.

Il Settembrini nello scritto citato espresse così le loro incertezze: “Tutti gli esuli vorrebbero accordarsi in un consiglio comune e decidere se tornare o rimanere. Io per me credo che questo accordo generale sia impossibile. Chi può dare un consiglioa tanti esuli? Dopo dodici anni di esilio, di miseria, di fame, di dolori di ogni specie, si apre finalmente una porta per tornare e rivedere la cara patria e i figliuoli, e le madri ed ogni persona diletta: chi può dire a chi ha tanto sofferto e soffre ancora: non tornare e soffri un altro poco: chi torna accetta in parte quello che il popolo con tanto senno ha rifiutato. Chi può dire: va ed opera se la polizia, i Borboni ed i loro cagnotti possono costituzionalmente incarcerare chiunque loro capita nelle unghie? Non è solamente questione di fare, ma ancora di doveri e di affetti privati, che sono anche sacri. Però consiglio non bisogna chiederne, né darne: ognuno faccia quello che coscienza gli detta. Una cosa dobbiamo far tutti: operare, operare per toglierci dal collo i Borboni e fare l’Italia. Chi crede di poter meglio operare li, vada ed operi: chi no, no: chi poi vuol sapere la via più breve e più bella, vada in Sicilia dal Garibaldi”.

Silvio Spaventa dopo aver chiesto circa il ritorno in patria il parere del governo piemontese, scriveva in una lettera del 9 luglio da Torino a suo fratello Bertrando: Tutta la questione ora sta che Napoli conservi il contegno che si trova di aver preso, si rifiuti all’attuazione delle concessioni e che aspetti che Garibaldi venga. Se essa si mostra riconciliabile con i Borboni, difficilmente Garibaldi passerà, impedendolo la diplomazia e difficilmente l’impresa può riuscire, caso che possa tentarsi. Il ritorno degli esuli deve avere principalmente questo scopo, mantenere il paese nel contegno preso; se si giunge alle elezioni, astenersi; se si eleggono i deputati, farli dimettere ed eleggere deputati impossibili in Napoli e che per il significato del loro nome dicano ciò che Napoli vuole, per esempio Cavour, Farini etc.” (851).

VIIIA questi intendimenti corrispondeva il pensiero del Cavour che il 12 luglio 1860 scriveva al marchese D’Azeglio ambasciatore a Londra: “J’ai engagé tous les émigrés napolitains à rentrer chez eux pour yproposer le programme national. Poerio toutefois refuse de rentrer à Naples, tant que les Bourbons seront sur le trône. Cela a un bon côté. Cela prouve à l’Europe et surtout à l’Angleterre, que les libéraux honnêtes n’ont aucune confiance dans la bonne foi du roi” (852).

I più autorevoli tra gli esuli consentivano pienamente nel programma del Cavour. Giuseppe Pisanelli scriveva in quei giorni da Torino al D’Ayala:“II governo di quacrede che sia utile che gli esuli rientrino almeno per alquanti mesi e questa è pure la mia opinione. Conviene a noi lasciare in questi momenti il nostro paese senza il nostro aiuto? Io dunque partirò nella settimana entrante e spero che la più gran parte degli esuli faccia altrettanto” (853).

Per alcuni esuli la ripugnanza a tornare nel regno sotto il governo dei Borboni restò invincibile. Cosi per il Poerio e per Giacomo Tofano nonostante le vive premure ad essi rivolte da i loro compagni di sventura e da i loro congiunti di Napoli(854).

IX. Partirono da Genova per Napoli, tra i primi, il 9 luglio, gli esuli calabresi Luigi Premio di Cassano, Giovanni Mosciaro, Giuseppe Tripepi e Raffaele Travia da Reggio, Gregorio Filace di Laureana e Carlo Pavone di Torchiara. Questo ultimo, uno dei deportati di Cadice, si era trattenuto vani mesi a Londra(855).

La sera del 13 dello stesso mese si imbarcarono a Genova per Napoli sul piroscafo Capitole delle Messageries imperiali Silvio Spaventa, Carlo Mezzacapo, Ruggiero Bonghi, i fratelli Gennaro e Francesco De Filippo, Antonio Tripoti, Cesare Oliva, Gaetano Giardini, Carlo Romualdi, Giuseppe Ricciardi, Leonino Vinciprova, Pier Silvestro Leopardi, il barone Francesco Mazziotti, Giuseppe Pisanelli, Giovanni Carducci, Gaetano, Odoardoe Giuseppe Samelli, Antonio Ciccone, il duca di S. Donato, Carlo De Angelis, Giuseppe del Re, Francesco Serao, Valerio Foti, Achille Zamparelli, Domenico dell’Antoglietta, Federico della Monica, Nicola Mignogna, Nicola Paolesi, Francesco Sargentini, Diego Baderò, Filippo Falconi, Luigi Ruffini, Barone Vittorio Ciambella, Giuseppe Libertini, Antonio De Biasio, Salvatore Faucitano, Pietro Marrelli, Francesco Gaston e Cristoforo Muratori che veniva da Marsiglia.

Su lo stesso legno si imbarcarono a Livorno Bernardo Bonolis, Giuseppe Fiorelli, Ippolito ed Eugenio De Riso, Giosuè Vespoli, Giovanni De Falco, Carlo Mezzacapo dei marchesi di Atonierosso, Enrico Berardi, Giuseppe Vacca, Nicola Nisco, Domenico Lopresti, Gennaro Bomba, Leopoldo Perez De Vera, Gaetano Vanacore (856). Sul medesimo piroscafo viaggiava Emilio Visconti Venosta inviato dal Cavour in Napoli.

Il23 si imbarcarono a Genova per Napoli sul piroscafo Pausilippe Francesco Carrano, Camillo Boldoni, Michele Mastrilli, Angelo Pellegrino, il barone Saveria Fava, Luigi Indelli e Vincenzo Carbonella Ed a Livorno il marchese Gioacchino Salluzzo, Mariano D'Ayala, Girolamo Ulloa, Giuseppe De Simone, Luigi Acquaviva duca d’Atri, Demetrio Salazaro, Gennaro B ell elli, Saverio Altamuracon il figlio, ed il marchese Di Bella(857).

Il 24 luglio giungeva a Napoli da Malta Claudio Del Bene, napoletano(858).

Il 30 luglio sbarcarono in Napoli da Genova Luigi Zuppetta, Vito Porcaro, Francesco Procensano (859), Simone Capodieci, Raffaele Salerno di Castrovillari, Pietro, Giovanni Andrea e Domenico Romeo; da Livorno Pasquale Villari, il barone Giacomo Coppola. Il 5 agosto da Genova Emilio Petruccelli, il 6 da la stessa provenienza Carlo Miletì, Licurgo Cavallo, Angelo Camillo De Meis, Diomede Marvasi, Francesco De Sanctis, Gaetano Cammarota, Girolamo e Luigi Palumbo, Giuseppe De Vincenzi; da Livorno Aniello Ventra, Filippo Abignenti, Raffaele Piria, Bernardo Ranalli. Su lo stesso piroscafo andò in Napoli Giuseppe Zanardelli.

Il giorno 9 giunsero da Genova Raffaele Conforti, Biagio Miraglia, Francesco Mandoi Albanese, Angelo Raffaele Lacerenza, ed il 13 parimenti da Genova Luigi Mezzacapo, Francesco Materazzo. Ernesto Bianco, Vincenzo Oliva, Valerio Del Mercato, Angelo Sessa, Giovanni La Cecilia col figlio Cesare, Salvatore Tommasi, l’insigne fisiologo abbruzzese, Diego Taiani ancora vivente. Il 16 agosto da Marsiglia Emilio Maffei della Basilicata ed il 27 da Genova Nicola Antonio Causale di Corleto. Il 30 successivo parimenti da Genova Emanuele Leanza, che per tanti anni era stato in galera per delitto politico, e Bonaventura Mazzarella, pugliese, bravo patriota divenuto famoso dopo il 1860 per le sue argute e frequenti interruzioni nella Camera dei deputati. Il 2 settembre da Genova Ulisse De Dominicis, Ferdinando Fonseca,Filippo Delfico abbruzzese, Giovanni Cozzoli pugliese, l’ing. Ettore Alvino di Napoli e Vincenzo Dono da Teggiano. Quest’ultimo, dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, divenne ispettore di pubblica sicurezza: ufficio che tenne fino alla sua morte avvenuta il 19 dicembre 1875. Lasciò due figlie, Concetta e Filomena entrambe maritate (860).

Soltanto il 19 ottobre 1860 tornarono, sul piroscafo Conte di Cavour, il Poerio, il Tofano ed il Mancini ed altri di cui ignoro i nomi (861). Erano a riceverli numerosi parenti ed amici.

Ognuno di questi esuli era festeggiato da la cittadinanza napoletana con l'entusiasmo che suscitava in anime meridionali cosi aperte ed espansive il ritorno, dopo tanti anni, di uomini che avevano logorato la vita, per amore di patria, nelle galere e nell’esilio. La commozione diveniva più alta per la presenza delle famiglie degli esuli le quali potevano finalmente dopo lunghi dolori e privazioni riabbracciare i loro diletti.

Una delle più splendide dimostrazioni accolse i numerosi proscritti giunti il 16 luglio(862). I giornali della città rivolsero ad essi un reverente saluto. L’antico giornale L’Omnibus del 18 luglio scriveva:

“Salutiamo con gioia il rimpatriare che fanno questi martiri di un’idea, la quale trionfa ora fra noi e facciamo voti perché questo ritorno sia pegno di novella concordia ed inizio di tempi migliori. Che nessuna crudele reminiscenza venga a turbare il bel sereno di questi giorni e l’intera dimenticanza dei passati dolori sia il primo sacrificio degno di liberi tempi e di uomini liberi. A questo modo l’avvenire sarà per noi”.

Il Racioppi, in un lavoro scritto dopo breve tempo da quei giorni, dice: “A gli esuli rientranti in trionfo pareva non difficile il compito assunto: perché rientravano salutati dal plauso di tutto un popolo: col credito che impronta il martirio nobilmente per la patria sofferto: col prestigio che ai durati dolori per la patria aggiunge l’ingegno temperato all’esperienza degli uomini e delle cose: col riflesso della luce di quella libera e nobile terra del Piemonte, ove tutte le aspirazioui degli italiani petti si erano appuntate per dodici anni. Non essi si imposero al paese: ma il paese apri le braccia a riceverli: e la festa della rivoluzione non fu dello Statuto risorto alla vita di un di, ma per il ritorno degli esuli, mente, braccia e cuore dell'italica famiglia” (863).

Narra il D’Ayala che nel pomeriggio del sei settembre erano raccolti su la nave regia sarda Maria Adelaide il Pisanelli, lo Scialoia, il Mezzacapo ed alcuni altri esuli napoletani da breve tempo tornati nel regno(864). Sotto i loro occhi si compieva un singolare avvenimento! Il re Francesco II, il discendente di una dinastia che aveva regnato nel Mezzogiorno d’Italia per ben centoventisei anni, abbandonava per sempre la sua capitale su una piccola nave, senza combattere, senza un tentativo di resistenza! Sventurato principe che espiava in un istante colpe non sue! Era finita per quelli esuli una vita di amarezze e di dolori, che incominciava invece per il derelitto sovrano, riservato dal destino a morire in terra lontana, nello sconforto e nell’oblio.

FINE.

APPENDICE

I
Lettera di Luigi Leanza a la moglie quando la gran Corte di Napoli stava per pronunziare la condanna a morte di lui(documento indicato a pag. 108 di questo volume).
Mia cara ed affezionata moglie,

Mentre la G. C. decide della mia sorte, e forse a. quest’ora avrà sentenziata la mia morte, io con animo tranquillo prendo la penna per intrattenermi teco un’altra volta e forse l’ultima.

Io non pavento la morte, più volte l’ho sfidata sui campi di battaglia, al passaggio della Beresina, nelle pianure di Lipsia e sul Faro, allorché militavo fra le schiere del primo capitano del mondo, ma ora sento impicciolito il mio coraggio, pensando al tuo cordoglio ed a quello dei cari ed amati figli; ma sta pur certa che non si vedrà mai sul mio volto alcun segno di viltà; saprò morire da forte e non lascerò a' miei figli la marca di essere nati da chi non ha saputo sopportare il martirio per la patria. Possa il mio sangue e quello dei miei compagni fruttare un giorno a quest’infelice paese quelle concessioni che il Principe concesse e giurò, e che una iniqua frazione ha manomesse ed attende la distruzione dei veri amici dell'ordine; possano i loro odi spegnersi nel nostro innocente sangue, e cessare una volta di desolare queste belle contrade.

In questo giorno per ben due volte ho provato angosce di morte: la prima nel dividermi da te, da Nicoletta e Giuseppina, la seconda nel partire ch’han fatto da me i cari Ciccillo e Napoleone; ho inteso spezzarmi il cuore, e la mia fermezza è vacillata; mi credevo più forte, ma ho conosciuto che l’affezione di marito e la tenerezza di padre sono di gran lunga superiori al mio coraggio.

Mia cara Raffaella, qualunque sia la sentenza che verrà domani ad esser pronunziata sulla mia sorte, sopportala con coraggio, rammenta che i figli non hanno altro appoggio che te, tu sola sei la loro stella polare 1 Hai in questa sventura conosciuto che i veri amici sono pochi; ed i cari figli non possono contare che sopra di te sola.

Unico tuo scopo deve essere il decoro della famiglia, l’educazione dei cari figli.

Rammenta loro sempre di essere attaccati all’onore e di essere onesti e buoni cittadini.

Se la mia vita va a terminare su di un patibolo ciò non reca disonore alla famiglia, la mia morte è chiesta per causa politica e non per delitto infamante.

I miei figli potranno vantare il mio nome. Nella carriera delle armi mi distinsi, e mi feci rimarcare; i brevetti che sono in famiglia e le decorazioni acquistate col prezzo del mio sangue lo attestano. Da privato ho vissuto onestamente: le perquisizioni lette in pubblica discussione han dimostrato che per 63 anni di vita il mio nome non ò segnato sui registri penali.

È superfluo raccomandarti Mariannina perché tu l’ami al par di me, baciala più volte per conto mio.

Benedico i cari figli un per uno, inculco loro di amarsi teneramente, ad esser con te rispettosi ed affezionati; possa il sommo Iddio guidarli e farli figurare nella società. Se io non posso goderne ne godrai tu per me; rammenta loro spesso il mio nome, di’ loro quanto li amavo. Li benedico col cuore cento volte; possa il sommo facitore benedirli dal cielo.

Napoleone è più ragazzo, te lo raccomando particolarmente; il suo carattere vivace lo fa alle volte trasmo

dare, afbbi pazienza, soffrilo per me e riconducilo con dolci maniere; a Ciccillo raccomando lo studio, di guidare il fratello e di fuggire i compagni facendosela sempre solo. Alle affezionate e giudiziose Nicoletta e Giuseppina raccomando caldamente te e stante i belli loro sentimenti son certo che avranno di te tutta la cura e ti saranno di sostegno nell’orribile sventura piombata sulla nostra infelice famiglia. Raffaella mia oh! quanto vorrei dirti, ma taccio per non straziarti il cuore! Possa il sommo Iddio darti forza e coraggio. Fino all'ultimo momento di mia vita il mio pensiero sarà sempre a te, ed ai cari figli e non proferirò altri nomi, che il tuo e le quattro pupille care degli occhi miei; in questi momenti supremi te lo giuro.

Dai criminali di Castelcapuano giovedì 7 ottobre a mezzanotte

l’infelice tuo marito

Luigi.

Alla signora D. Raffaella Leanza.
II.
Lettera, di Michele Pironti a suo fratello Luigi da la galera di Montesarchio(Pag. 251 di questo volume)(865).

Ti scrissi sabato 9 delle mie tristi preoccupazioni in ordine alla proposta che domenica 8 del corrente era stata fotta a venti persone di questo bagno, d'andare coloninella repubblica argentina, e del nostro diniego di lasciare patria, famiglia e quanto abbiamo di caro siila terra per entrare in una condizione nuova nella storia delle umane miserie, della quale da Wibefore a Madame Struwe non fu deplorata la più luttuosa. Dissi nostro diniego poiché, cosa incredibile e vera! il mio nome, il nome di un emiplegiaco languente da due anni in fondo, ad un ospedale e da quattro fra i dolori di fiero morbo che mi consuma lentamente la vita, si trova nella lista di cotesti sventurati addetti a dissodare la gleba americana, stanchi delle loro persone e privi dei loro averi(866)per i capitali avaramente anticipati da gente straniera, sotto la minaccia perpetua di rientrare colà in galera. So certo che in mancanza del nostro assentimento, che pur si chiedeva, non ne sarà più nulla di siffatto divisamente, anche perché cosi da tutti si tiene; ma è assolutamente necessario che il mio stato deplorabile si faccia noto alle autorità superiori, poiché la sventura di trovarmi in questa lista suppone l’ignoranza della mia triste posizione. Dico ignoranza poiché non può presumersi che vi siano uomini tanto alieni da ogni sorta di umanità e di religione da privare un condannato ed un infermo di quei soccorsi e protezione, cui le leggi mi danno dritto. Ma perché un errore simile potrebbe portare per me conseguenze funestissime e ne potrebbe andare questo avanzo di vita, ho scritto alla signora Dono che volesse per me farne richiamo all’on. gen. Palumbo perché il mio stato sia conosciute dal ministero e non mi vegga da un momento a l’altro segno di qualche misura che nello state mio sarebbe fatale.

A suo avviso non mancare di recarti presto in Napoli e fare presso il generale suddetto e presso il ministero pervenire i miei richiami ed esatta informazione dello stato mio ché presso la maggiorità esiste rapporto di questa autorità, da cui è accertato. Comprendi bene quanta sia l’urgenza e l’importanza.

Ora ti scrivo di un altro avvenimento che ti sembrerà tenere dello strano e che per noi è stato cagione di non mediocre sorpresa. Dopo otto anni furono aperte le inaccesse porte del nostro carcere e ci apparvero due esseri che non fossero i consueti visi degli aguzzini e dei gendarmi dei quali eravamo usi di leggere la minaccia e l’oltraggio, se non ce ne avesse campati la inalterabile nostra prudenza e quella serena tranquillità con cui ci siamo serbati ad ogni strazio di fortuna. Erano dessi due negozianti inglesi Mr Turner e Mr Guppv. Perché e donde venissero è per noi un arcano, ma certo venivano da alto luogo ed ebbero l'aria di voler visitare le nostre prigioni ed esaminare lo stato ed informarsi da ciascuno del come eravamo trattati. Presero conto delle nostre sofferenze ed ascoltarono la triste Iliade dei nostri dolori, poiché sebbene fossero accompagnati dalle autorità tutte del luogo, né potessimo mettere in dubbio la inopportunità della compagnia, pure era tale la lealtà che ne proffersero e la cortesia, con cui cercarono di lenire la triste narranza de' nostri guai, che noi non credemmo di dissimulare nulla della luttuosa nostra istoria, dissimulando per carità di patria e per onore della razza umana quello che ci parve convenevole fosse ignorato da stranieri, per quanto filantropi. Dalle loro parole condite de' più sentiti conforti, due cose raccogliemmo: l’una che dovevamo dimenticare il passato, cosi triste, nella speranza di un avvenire migliore: l’altra che questa galera sarebbe continuata, ma si sarebbe cercato qualche alleviamento alle tante privazioni onde il sistema eccezionale ha aggravato le misere condizioni della stessa galera, privandoci di abbracciare le famiglie nostre, di scrivere fidentemente le nostre pene senza che un occhio straniero penetrasse nel santuario domestico ed un ghigno malefico irridesse alle lagrime segrete cadute dal ciglio del tribolato. Forse ci sarebbe permesso qualche libro onde ergere la mente dalla perennità del nostro supplizio, confortare il cuore dall'assiduo morso della memoria degli affetti da cui siamo stati distolti.

Ecco fratello mio, quanto dopo nove anni di lenta ago nia, dopo perduto tutto tranne la nostra virtù e la dignità nella sventura, ci ò permesso sperare. Ma la confidenza in Dio che finora ci ha salvi, non si smentirà giammai, essa prevale al proposito d’ogni mortale e visita il letto degli affannosi. Ti ho voluto scrivere questo episodio della nostra sventura per la strana sua verità. Sarà bene? Sarà male? Questo è ciò che non ci è dato presumere, ma in questo caso ultimo non sarà una presunzione, cui vogliamo ricorrere con la mente. A me giova ritenere di avere parlato a due uomini d’onore e le cose dette in loro presenza possono essere ripetute senza che ne abbia apprensione, poiché non temerei dirle, sul testimonio della mia coscienza, in presenza di tutte le autorità. Attendo con ansia nuove della sventurata nostra famiglia, di cui ti sommetto assiduo pensiero, sopra tutto della povera madre mia, di questa veneranda vecchia e delle care sorelle. Ti stringo al cuore con tutti.

Provvedi al più presto a ciò che sai essere di mestieri e rimettendomi al buon Dio che vorrà ragguardare ai nostri dolori sono

tuo aff.mo fratello

Michele.

Montesarchio, 13 maggio 1857.
III.
ELENCO ALFABETICO DEI SESSANTACINQUE CONDANNATI NAPOLETANI INVIATI A CADICE PER LA DEPORTAZIONE IN AMERICA
(capitolo XIII di questo volume).
1. Abagnato Giuseppe di Gragnano, dal bagno di Procida.

2. Agresti Filippo, di Napoli, id. di S. Stefano.

3. Aletta Michele, di Monte S. Giacomo, id. id.

4. Argentini Achille, di S. Agata dei Lombardi, id. di Nisida.

5. Barilla Felice, di Moiano, dal bagno di Nisida.

6. Bellantonio Francesco, di Reggio Calabria, id. di S. Stefano.

7. Bianchi Ferdinando, di Cosenza, id. di Nisida.

8. Bozzelli Domenico, di Gragnano, id. di Procida.

9. Braico Cesare, di Brindisi, id. di Montesarchio.

10. Castromediano Sigismondo, di Caballino, id. id.

11. Colafìore Michelangelo, di Reggio Calabria, id. di S. Stefano.

12. Crispino Raffaele, di Napoli, id. id.

13. Cuzzocrea Vincenzo, di Reggio Calabria, id. di Procida.

14. Damis Domenico, di Cosenza, id. di Nisida.

15. De Angelis Carlo, di Castellabate, id. id.

16. De Girolamo Camillo, di Aquila, id. di S. Stefano.

17. De Simone Francesco, di Cosenza, id. id.

18. Del Drago Giuseppe, di Bari, id. di Nisida.

19. Dell’Antoglietta Domenico, di Lecce, id. id.

20. Dono Vincenzo, di Teggiano, id. di Montesarchio.

21. Esposito Antonio, di Gragnano, id. di Procida.

22. Faivano Giustino, Prov. di Caserta, id. di Nisida.

23. Falconi Filippo, di Leonessa, id. di S. Stefano.

24. Filaci Gregorio, di Reggio Calabria, id. di Procida.

25. Faucitano Salvatore, di Napoli, id. di S. Stefano.

26. Garcea Antonio, di Catanzaro, id. di Montesarchio.

27. Gerace Rocco, di Reggio Calabria, id. di Procida.

28. Grillo Achille, di Teramo, id. di Nisida.

29. Lamenza Stanislao, di Cosenza, id. di Procida.

30. Maffei Emilio, di Basilicata, id. di Nisida.

31. Marrelli Pietro, di Aquila, id. id.

32. Mascolo Gaetano, di Gragnano, id. di Procida.

33. Mauro Raffaele, di Cosenza, id. di Nisida.

34. Mazzei Ignazio, di Tropea, id. di S. Stefano.

35. Mollica Stefano, di Messina, id. di Montesarchio.

36. Montani Pasquale, di Basilicata, id. di Procida.

37. Morgante Rocco, di Reggio Calabria, id. di S. Stefano.

38. Nicolò Antonio, di Reggio Calabria, id. di Nisida.

39. Notaro Tommaso, di Sellingiano (Catanzaro) dal bagno di S. Stefano.

40. Pace Giuseppe, di Castro vi Hari, id. di Nisida.

41. Palermo Nicola, di Grotteria (Reggio Calabria) id. di Montesarchio.

42. Palumbo Girolamo, di S. Giovanni a Piro (Salerno) id. di Procida.

43. Palumbo Luigi, id. id.

44. Pavone Carlo, di Torchiara, id. id.

45. Pellegrino Angelo, di Aquila, id. di Nisida.

46. Pellegrino Luigi, di Castellabate (Salerno) id. id.

47. Pessolani Giuseppe Maria, di Atena (Salerno) id. di Procida.

48. Petruccelli Emilio, di Basilicata, id. id.

49. Pica Giuseppe, di Aquila, id. di Montesarchio.

50. Piccolo Angelo Raffaele, di Castagna (Cosenza), id. di Nisida.

51. Poerio Carlo, di Napoli, id. di Montesarchio.

52. Praino Luigi, di Cosenza, id. di Nisida.

53. Procenzano Francesco, di 8. Cipriano (Salerno), id. di S. Stefano.

54. Porcaro Vito, di Ariano, id. id.

55. Riccio G. B., di Torchiara (Salerno), id. di Procida.

56. Ruocco Raffaele, di Gragnano, id. id.

57. Salsa Angelo, di Savignano (Capitanata), id. di Nisida.

58. Schiavoni Nicola, di Manduria (Lecce), id. di Nisida.

59. Serino Ovidio, di Carife (Salerno), id. id.

60. Settembrini Luigi, di Napoli, id. di 3. Stefano.

61. Sodano Filadelfo, di Pollica (Salerno) id. id.

62. Sorace Francesco, di Reggio Calabria, id. di Nisida.

63. Spaventa Silvio, di Bomba (Chieti), id. di S. Stefano.

64. Travia Raffaele, di Reggio Calabria, id. di Procida.

65. Ventra Aniello, di Terra di Lavoro, id. di Nisida.

STATO NUMERICO DEGLI IMPUTATI POLITICI NEL GIUGNO1851.

Numero degli imputati presenti

IV
STATO NUMERICO DEGLI IMPUTATI POLITICI NEL GIUGNO 1851

provincia

Numero degli imputati presenti OSSERVAZIONI
in carcere con modo di custodia esteriore

Le controscritte cifre desunte dagli ultimi stati rimessi al Minist. di G. e G. han già subita una diminuzione, perciocché varie cause, dopo l’invio dei stati medesimi, sono state esaurite e la sovrana indulgenza del 19 scorso maggio a favore di una determinata classe d’imputati politici relativi a 212 cause ne ha ridotti molti in libertà.  

Non pochi giudizi vanno poi ad espletarsi nel volger del corrente giugno e nei principii dell’entrante luglio.

Napoli 18 giugno 1851, L’ufficiale capo del 8° ripartim. del Ministro di  G. e G. Cav. Giovanni  Pasqualoni.

Napoli 228 28
Terra di Lavoro 80 6
Principato citra 881 12
Principato ultra 4
Molise 48 -
Basilicata 156 11
Abbruzzo citra 6
Abbruzzo ultra II 94
Abbruzzo ultra I Calabria citra 1
298 7
Calabria ultra II 54
Calabria ultra I 844
Capitanata 112 15
Terra di Bari 20
Terra di Otranto 8
Totale 1819 79

(Pubblicato nell’opera II sig. Gladstone ed il governo napoletano. Raccolta di scritti intorno alla questione napoletana per cura di Giuseppe Massari. — Torino, 1851, pag. 185.)

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NOTE

(1)Costabile Carducci ed i moti del Cilento del 1848.

(2)Elenco dei deputati pubblicato nel Diario del Parlamento delle DueSicilie di Carlo Colletta, parte 2, pagina 150, Napoli, stamperiadell’iride, 1864. Fu rieletto anche il Carducci, che vennesostituito dopo che si accertò la sua morte. Di altri due degliantichi eletti l’uno, il Pironti, era entrato in magistratura,l’altro, Domenico Abatemarco, era stato nominato pari.

(3)Posto che corrisponderebbe ora a quello di questore

(4)Nisco, FerdinandoII ed il suo regno 1pag. 223.

(5)Nato in Monteleoneil17 gennaio 1785.

(6)L’ho narrata nel mio libro Larivolta del Cilento nel 1828.

(7)Vittorio Imbriani nel suo lavoro AlessandroPoerio a Venezia(pag. 493) scrive: il Landolfi (genero del Valia) mi assicura che inSalerno, per non rispondere all’intenzione del Peccheneda, ebbepersecuzioni che lo uccisero con uno scirro al fegato e che lasciòla lunga famiglia in poverissimo stato, buon documentodell’integrità della vita». Il Valia mori in Napoli il di 8aprile 1855.

(8)Il Belli si ritirò nel suo paese nativo e venne iscritto da lapolizia tra gli attendibili. Dopo il 1860 fu prefetto del regno invarie provincie, tra cui Salerno e Cosenza. Mori nel maggio del1877. Parlarono sul feretro di lui Francesco Pepere ed AngeloSantangelo e scrisse dell’estinto nel giornale Il Piccolodel 80 maggio Giuseppe Massari.

(9)Il Landi promosso il 1854 intendente a Cosenza perdette il postodopo l’attentato di Agesilao Milano, essendoglisi fatta una colpadell’accettazione di lui come soldato.

(10)Uscirono dal governo anche il Ruggiero ed il Gigli; vi restarono ilCarrascosaai lavori pubblici, l’Ischitella a la guerra ed a la marina.

(11)Nisco, operacitata,pag. 288 — Racioppi,Storiadei moti di Basilicata e delle provincie contermini nel 1860, pag.29—De Sivo, Storiadelle Due Sicilie dal 1847 al 1861, vol. 1°,pag. 365. Quest’ultimo scrittore dice che il governo avrebbedovuto abolire esplicitamente la costituzione anziché lasciarlacadere tacitamente, come fece.

(12)DeCesare, Finedi un regno,8 edizione, parte 1% pagine 11 e 12 — H Bilotti(Spedizionedi Sapri,pag. 893) riporta quest’altra formula adottata da un comune dellaprovincia di Salerno: Sacra Beai Maestà. Il corpo municipale, ilclero e privati cittadini del comune di... prostratia piè del Real Tronoimplorano dalla Maestà Sua che alla fin fine voglia compiacersitogliere le forme libere dell’attuale governo e restituire lostesso nello stato come si trovava prima del 1848. Cosi solamentepotrà ritornare il godimento di quella bella pace, che i passatirivolgimenti fecero perdere. Tanto sperano dalla Maestà Sua el’avranno a grazia singolare (Archivioprovinciale di Salerno,fascio 458).

(13)De Cesare,ivi.

(14)Archivio di Salerno,anno 1855, fascio 540 — Anche il Micchitelli(Storiadelle rivoluzioni nel reame delle due Sicilie,vol. 8°, pag. 29) conferma che il governo stesso sollecitava questepetizioni.

(15)Nisco, operacitata,pag. 288 — DeSivo,pag. 865.

(16)DeSivo, operacitata,pag. 865.

(17)De Sivo, operacitatapag. 866 — IlRacioppi,operacitata. §7, conferma ciò scrivendo: «... un popolo che non si ordinò mai,che non quetò mai, né mostrò principio di quotarsi, continuamenteversantesi in agitazioni e tumulti, che gli mettevano nel sangue unvigore effimero ed una infermità vera».

(18)Db CESARE,ivi.

(19)Atto di accusa del procuratore generale Angelillo.

(20)Formato di duecentoventisette volumi.

(21)Imprigionato il 3 agosto, usci sette od otto giorni dopo.

(22)Nisco, operacitata,pag. 281.

(23)Il Giordano, l’autore del famoso progetto della ferroviaEboli-Reggio, fu poi deputato al Parlamento italiano.

(24)Le horaccontate nel mio libro CostabileCarducci e i moti del Cilento nel 1848,vol. 1°.

(25)Nisco, operacitata,pag. 224.

(26)Il MICCHITELLInarra, operacitata,vol. 3°, pag. 37 a 39, che due consiglieri della Corte suprema digiustizia vennero tolti di ufficio e collocati a riposo per un votoda loro dato nel giudizio a carico del giornale L'Indipendenteefu rimosso il giudice Giambattista Albarella, funzionante dapubblico ministero, perché procedette contro un ufficiale che senzaprocesso aveva fatto passare per le armi due calabresi. Per semplicesospetto di idee liberali il sostituto procuratore generale RosarioGiura venne da Napoli sbalzato in Calabria e dovette dimettersi,perdettero l’ufficio Giuseppe Aurelio Lauria, procuratore del re,ed il giudice Capomazza, entrambi a Salerno; Domenico Abatemarcodovette lasciare il posto di consigliere della Suprema Corte digiustizia, e lo riebbe soltanto dopo il 1860.

(27)Archivio di Napoli,ministero giustizia, fascio 4894, nota del 28 dicembre 1849.

(28)Nisco, operacitata,pag. 225.

(29)De Sivo, operacitata,pag. 376.

(30)D’Ayala, Calendariopolitico Il Ferrariera di Mammola in provincia di Reggio Calabria.

(31)Console sardo in Napoli era il Perret, sostituito poi il dicembredel 1861 dal Fasciotti.

(32)Ollivier, EmpireLibéral,vol. 2°, pag. 245.

(33)Scritti vari,vol. 2°, pag. 423. Il Fagan stette in quell’ufficio per ventianni (Epistolariodel Settembrini, pag.114, nota). A premura del governo borbonico fu inviato, perallontanarlo dal regno, segretario di ambasciata a Berlino. Ottenneperò dopo alcuni mesi’ di tornare in Napoli, ove era ancora il1854. Mori a Caracas il lo aprile 1869.

(34)Archivio di Napoli,ministero polizia, fascio 114, vol. 1099.

(35)Per l’età molto avanzata ottenne il rimpatrio nel novembresuccessivo. Archiviodi Napoli,ministero esteri, espulsi,fascio 8651.

(36)Notizie desunte da l’Archiviodi Napoli,ministero polizia, fascio 114, vol. 1099, e ministero esteri,espulsi.Dellafuga del Mancini e del Pisanelli fa cenno l’articolo dellaPierantoni Mancini Unapagina di storia (Nuova Antologia,fase, di maggio 1898). Accenna a lo scopo dei viaggi dell’Arielil Guerritore, operacitata,pag. 19.

(37)Archivio di Napoli,ivi.

(38)Archivio di Napoli,ministero di polizia, fascio 15, incart. 636, vol. 13.

(39)La strada che da Salerno conduce a Vallo, capoluogo del circondario,si inerpica con una serie di curve su le colline del comune diOgliastro.

(40)Archivio di Salerno,processi politici, fascio 2820.

(41)Memoriedi Carlo De Angeli s ,pag. 53.

(42)Archivio di Napoli,processo per la setta dell’Unità italiana, vol. 7.°

(43)L’ex intendente di Salerno.

(44)Ho accennato alla fuga del Vinciprova nel mio libro CostabileCarducci,vol. 2°, pag. 83.

(45)Nato in Pagani il 1826 da Massimo CriscuoloeMaria Sanseverino.

(46)Guerritore Antonio, Echidel passatopag. 40 e seguenti.

(47)Archivio di Napoli,fascio 165, vol. 27, n. 2231.

(48)Guerritore,ivi.

(49)Archivio di Napoli,ministero esteri, espulsi,fascicolo 8855.

(50)D’Ayala,Vitedegli italiani morti combattendo.

(51)D’Ayala,Vitedegli italiani morti combattendo.

(52)D’Ayala,Vitedegli italiani morti combattendo.

(53)Pantheon dei martiri,vol. 2«, pag. 149.

(54)Il giornale L’Italiadel 27 luglio 1860 dice l’Iorio sepolto nel camposantodiVenezia. Lo confermano i documenti ufficiali.

(55)D’Ayala,ivi.

(56)Archivio di Salerno,anno 1849, fascio 41.

(57)Vi è l’elenco di essi formato dal console nel settembre 1849.Archiviodi Napoli,fascio 219. Tra i documenti vi è pure l’elenco, per provincia, dicoloro che avevano militato all’estero (voi. 2°, n. 4821).L'elenco di Salerno comprende ottantadue persone, dodici delle qualinon tornarono nel regno.

(58)Archiviodi Salerno,anno 1849, fascio 40.

(59)Carceri e galere politiche,vol. 1°, pag. 249.

(60)A Brindisi ve ne erano 540.

(61)Archivio di Napoli,doc. dal 1848 al 1856, fase. 145.

(62)Archiviodi Napoli,carte dal 1848 al 1850, fascio 305, espediente 7013.

(63)Protocollo ministero giustizia, verbale del 12 febbraio 1852.

(64)Archivio di Napoli,fascio 305, espediente n. 7015.

(65)Archivio militare di Pizzo falcone,1° ripartimento,1°carico, n. 2401.

(66)Desumo le notizie su la carriera militare del Palma dal suo stato diservizio.

(67)Il decreto non accenna a le ragioni del provvedimento, ma esse sonochiare. Si vollero escludere gli ufficiali ammessi nel periodocostituzionale, cioè dopo la sommossa di Nola.

(68)Relazione del Palma dello stessogiorno al ministro di guerra e marina, n. 5343. comando generale,fol. 2515,Archivio militare indicato.

(69)Relazione del Palma dello stessogiorno al ministro di guerra e marina, n. 5343. comando generale,fol. 2515, Archiviomilitare indicato.

(70)Relazione del Palma, da Salerno, in data del 8 settembre 1849,Archiviomilitare indicato,comando generale, n. 2439, fol. 2508, n. 274.

(71)Fece arrestare tra gli altri, il 31 maggio 1850, l’ingegnereFrancesco De Pascale di Salerno, sospetto semplicemente perchéfiglio di Gaetano De Pascale gravemente complicato per i fatti del1820, come narrerò in un prossimo lavoro L’arresto risulta da unanota dello stesso giorno del commissario di polizia di Salerno chelo esegui, (Ivi, anno 1850, fascio 40).

(72)Relazione del commissario di polizia Nicola Scafati. Il Borrellidivenne dopo il 1860 un valoroso ed eloquente magistrato.

(73)Tra gli arrestati per tali motivi furono Giovanni MaterazzieGiovanni Rossi di Castellabate.

(74)Archivio di Napoli,ministero di polizia, documenti dal 1848 al 1850, fascio 140.

(75)Nato in Campora il 22 maggio 1818 da Elena Ciardo e da GiuseppeFeola.

(76)Archivio di Salerno,carte sparse, fascio 8, incartamento 474.

(77)Cronistoria documentata della rivoluzione in Basilicata del 1860,pag. 8.

(78)Fine di un regno,parte 2°,pag. 834.

(79)Echidi Sapri,appendice al volume su i Motidella Basilicata,pag. 894.

(80)Lacava,opera citata, pag. 44.

(81)Alludeva ai tenui assegni stabiliti con la soppressione degli ordinireligiosi.

(82)Dal processo esistente presso l’archivio provinciale di Salerno.Il Tardio fu condannato a morte con sentenza 18 dicembre 1872; maquesto procedimento fu annullato con altra sentenza della Corte diAssise di Salerno del 15 ottobre 1874, annullata a sua volta il 13maggio 1875 dalla Corte di Cassazione di Napoli che rinviò la causaa le Assise di Avellino. Ignoro i fatti successivi.

(83)Nato in Sarno il 16 aprile 1814.

(84)Processo a carico di Bernardo D’Ambrosio ed altri del circondariodi Sarno esistente presso l’archivio provinciale di Salerno.

(85)Come ho già narrato nel mio libro: CostabileCarducci ed i moti del Cilento nel 1848,vol. 1°,pag. 159.

(86)Archiviodi Napoli,fase. 65, vol. 46. e fase. 82, vol. 11. Idem, nota del vescovo del 8agosto 1849, Archiviodi Napoli,fase. 65, incart. 636, vol. 52.

(87)Archiviodi Napoli,fase. 65, vol. 46. e fase. 82, vol. 11. Idem, nota del vescovo del 8agosto 1849, Archiviodi Napoli,fase. 65, incart. 636, vol. 52.

(88)Archivio di Napoli,ministero di polizia, fase. 65, vol. 46, e fase. 82, vol. 11.

(89)Archivio di Napoli,ministero di polizia, carte dal 1848 al 1850, fase. 267, espediente8443.

(90)Nota successiva del vescovo del 8 agosto 1849, Archiviodi Napoli,ministero di polizia, fase. 65, incartamento 686, vol. 52.

(91)L’imbarco di lui si desume da un suo appunto inserito nel libroDiscorsie scritti di Filippo A lb ignentipag.713. Nonostante le più diligenti ricerche non mi è riuscitotrovare cenno di alcun processo a carico dell’Abignenti. Eppureegli rimase in esilio fino al 1860.

(92)Lettera del sottintendente di Vallo del 12 marzo 1849, Archiviodi Salerno,fascio 244.

(93)Archivio di Salerno, anno1849, fascio 598.

(94)Nota dell'intendente di Salerno del 31 luglio 1852. Archiviodi Napoli,prefettura di polizia, incart. 4251, fascio 476, vol. 9, anno 1852.

(95)Ho narrato la loro tragica fine nel libro Larivolta del Cilento nel 1848(Biblioteca del risorgimento italiano, serie IV, n. 9). ’

(96)Archivio di Salerno,anno 1660, fascio 537. In quel tempo le opere pie erano in ogniprovincia amministrate sotto la sorveglianza di un Consiglio degliospizi.

(97)Reclamo di Amalia Capozzoli del 30 agosto 1849, Archiviodi Salerno,anno 1849, fascio 4.

(98)Archivio militare di Pizzofalcone,comando generale, incartamenti 2561 e 5073.

(99)Supplica accennata del 2 novembre 1849 del padre.

(100)Atto di morte del giorno successivo, registro degli atti dello statocivile del comune di Polla.

(101)Nota del sottintendente di Vallo cav. Dentice e verbale di arrestodello stesso giorno, Archiviodi Salerno, K.P., n. 50.

(102)Archivio di Napoli,doc. dal 1848 al 1850, fascio 230, n. 4591.

(103) Archiviodi Salerno,carte sparse, incart. 492.

(104)Notiziefavoritemi cortesemente dal colonnello Giuseppe Del Re, nipote dellaCarducci, al quale rendo i più vivi ringraziamenti.

(105)L’agglomerazione rendeva malsana l’aria e frequenti le malattie,specialmente il tifo. Vi morirono nel 1852 Luigi Causale diAltavilla, Angelo Pironti di Salerno, ed ignoro con precisione inquale degli anni successivi. Salvatore Garofalo di Torchiara eMichele De Robertis di Giffoni.Nel 1856 vi soccombé Gennaro Corasio di Agropoli. I loro nomi sonoriportati dal D’Ayala nel suo opuscolo Inostri mortie dal giornale l’Italiadel 6 agosto 1860.

(106)Ho narrato ciò nel mio lavoro 11Carducciecc., vol. I, pag. 153.

(107)Come è noto la setta dei calderari sosteneva dopo 1820 il governoassoluto in opposizione a' i carbonari.

(108)Nota in data 22 febbraio, Archiviodi Salernoanno 1850, fase. 205. La minuta della lettera non porta firma.

(109)Nota dell’intendente di Salerno del 21 febbraio 1850, Archiviodi Salerno,anno 1850, fase. 205.

(110)Archiviodi Salerno,ivi.

(111)Archivio di Salerno,ivi.

(112)Lettera del 4 gennaio 1849 al colonnello Garofalo, Archiviomilitare di Pizzofalcone,comando generale delle armi al di qua del Faro, incartamento n. 29.

(113)Ordinanza di S. M. per il governo, il servizio e la disciplina dellereali truppe nelle piazze, dell’anno 1831, Archiciò militare di Pizzo falcone.

(114)Archivio di Napoli,ministero di polizia, fascio 212, incart. 4164.

(115)Cosi erano chiamate le persone politicamente sospette al governo.

(116)Il Bottiglieri era ancora a Potenza nel 1854.

(117)Il Pessolano, figlio di Saverio Arcangelo, uno dei più ardenticarbonari del 20, era stato arrestato in Salerno il 29 settembre1849 (processo Aletta). Era ancora a Laviano nel 1856.

(118)Archivio di Napoli,ministero di polizia, atti dal 1848 al 1850, fascio 804, incart.7018.

(119)Arrestato di nuovo nel 1851, liberato il 10 febbraio dello stessoanno, poi arrestato per la terza volta.

(120)Archivio di Salerno,carte sparse, fascio 4, incartamento 474.

(121)Racioppi, Storiadei moti della Basilicata e delle provincie contermini,pag. 29.

(122)Archivio di Napoli,ministero di polizia, carte dal 1848 al 1850, fasc.241.

(123)Tra tali sette quelle denominate la croscae la fratellanza.

(124) Archivio di Sederne,fascio 345, vol. 8°.

(125)A Rutino vennero applicate a quattro persone il 25 gennaio 1850.

(126)Archivio di Napoli,ministero di polizia, carte dal 1848 al 1850. fase. 212 e 241.

(127)Ivi, fascio 212.

(128)Ne ebbe il comando il 15 luglio 1849.

(129)Costituita il 18 dicembre 1849.

(130)D’Ayala, Vitadel re di Napoli,pag. 42.

(131)Il grano corrispondeva a quattro centesimi.

(132)Rapporto dell'intendente Valia del 1° febbraio 1850 Id. delsottintendente di Vallo del 21 gennaio (Archiviodi Napoli,fascio n. 141 incart. IV, anno 1848).

(133)Archiviodi Napoli,anno 1848, fascio 3141, incar.16.

(134)Archiviodi Napoli,anno 1848, fascio 3141, incar.16.

(135)Rapporto del 16 giugno 1851, Archiviodi Napoli,anno 1848, fascio 3141, incart. 16.

(136)Lettera sua del 30 giugno 1848, ivi.

(137)Ivi.

(138)Lettera del De Lozza del 3 luglio 1351, ivi.

(139)Ivi.

(140)Ivi.

(141)Archivio militare di Pizzo falcone,reale segreteria di guerra, 1° ripart. 2° carico, n. 58. Lo¡sostituì a Salerno il maresciallo Emanuele di Gaeta. Il Palmamori poi di colera in Napoli il 2 agosto 1854.

(142)Ho raccontato questi precedenti nel Carducci,volume 1°, pag. 115.

(143)Larga venti palmi, lunga dieci, alta poco meno della statura mediadell’uomo.

(144) Ilproprietario del terreno e della grotta era allora un tale DomenicoAmato detto il Mossuto. Ora appartiene ad Antonio Amato fu Nicola.

(145)Archiviodi Salerno,Consiglio di guerra P. C., 1849, vol. 2°. Le ribalderieconsistevano unicamente ned precedenti politici del De Cesare.

(146)Filiazione di Saverio Vignes di Francesco nel processo perl’assassinio del De Cesare. (Consiglio di guerra di PrincipatoCitra, 1849, vol. 2°).

(147)Filiazione di Saverio Vignes di Francesco nel processo perl’assassinio del De Cesare. (Consiglio di guerra di PrincipatoCitra, 1849, vol. 2°).

(148)Processo suindicato, vol.4°.

(149)Divenuto poi famoso perché si trovò giudice regio nel mandamentodi Vibonati quandovi sbarcò Carlo Pisacane con la sua spedizione nel luglio del 1857.Il Fischietti scrisse, per farsi merito presso i superiori, un opuscoloapologetico dell’opera sua in quella circostanza.

(151)Processo indicato, vol. 4°.

(152)Nota del ministro di polizia del 22 agosto 1849, n. 2055, processoindicato, vol. 4°.

(153)Processo suindicato. La lettera porta la firma del De Liguoro.

(154)Relazione del maresciallo Palma del 3 settembre 1849. Comandogenerale, n. 274, fol. 2508.

(155)Relazione indicata. In essa si legge che la concessione avvenne peril conflitto del 17 ottobre 1849.

(156)Dichiarazioni di Crescenzo Di Vece, Domenico D’Amato, PasqualeLepore e molte altre tutte concordi del 9 novembre 1849.

(157)Ministero giustizia, anno 1850, 29 agosto, n. 4.

(158)Archiviodi Salerno,Gran Corte Criminale di P. C., fase. 3361. Processo a carico delVignes, vol. 6». Vi è l’originale dell’ordine del Comando.

(159)Archiviodi Salerno,Gran Corte Criminale di P. C., fase. 3361. Processo a carico delVignes, vol. 6°. Vi è l’originale dell’ordine del Comando.

(160)Sue istanze, tra cui una del 9 gennaio 1861.

(161)Atto di morte di pari data, n. 62.

(162)Idem, n. 55.

(163)Il Faucitano fu legato sopra una sedia e gli si fece credere chedoveva essere fucilato. Rimase parecchi giorni a pane ed acqua esenza letto in un orrido criminale.

(164)Conclusioni del procuratore generale Filippo Angelillo innanzi laGran Corte speciale di Napoli nel dicembre del 1850, pag. 48.

(165)CASTROMEDIANO, operacitata,vol. 1°, pag. 348. Nelle informazioni di polizia si legge «espulsoper cattiva condotta politica».

(166)Debbo alcune di queste notizie al mio egregio amico dottor GaetanoD’Elia, conterraneo del Dono.

(167)Del maresciallo Del Carretto mandato dal re a sedare la rivolta.

(168)Processo per la setta dell Unitàitaliana. Lapolizia chiamava i liberali malintenzionati,cioè gente di cattive intenzioni.

(169)Castromediano,ivi, pag. 349. — Nisco, operacitata, pag.82.

(170)Conclusioni accennate dell’Angelillo.

(171)Carducci,vol. 1.

(172)Processo dell'Unità italiana.

(173)Operacitatapag. 285.

(174)Opera citata,pag. 876.

(175)Processo indicato, vol. 48.

(176)Trascrivo quasi a parola la descrizione del Nisco, operacitata,pag. 291.

(177)Trascrivo quasi a parola la descrizione del Nisco, operacitata,pag. 291.

(178)Nisco, pag. 292.

(179)Archivio di Napoli,fascio 133, processo della setta dell'Unitàitaliana.

(180)Nisco trascrive la relazione del Casillo, operacitata,pag. 294.

(181)Lo dice successivamente lo stesso Nisco, pag. 295.

(182)Il Massarinel suo libro IIsig. Gladstone ed il governo napoletano,a pag. 167, dice: «il presidente Navarca informò i medici addettia le prigioni che le loro coscienzedovevano trovare i mezzi di certificare che Leipnecher avevapossibilità di assistere al dibattimento. La mattina seguente iostavo al tribunale con unamico ed ivi incontrammo uno dei medici, col quale quel mio amicoera legato d’amicizia. Incominciò a parlare di Leipnecher e disseche, quantunque costui fosse pencolo’ semente infermo, la propriaposizione però era tale da non poter certificare con sicurezzal’impossibilità, in cui. era il Leipnecher d’intervenire al’udienza».

(183)Narrazione di lei in una istanza che molti anni dopo, il 26 ottobre1890, rivolgeva al ministro Crispi (Incartamento di lei presso laCommissione per i danneggiati politici napoletani, Ministerodell’interno).

(184)Processo detto, fascio 133.

(185)Processo indicato, fascio 183. Narra lo Spaventa (Letteree documentipag. 115) che la povera donna visitava di frequente lui e gli altridetenuti nell’ergastolo. Essa sposò poi un tale FerdinandoPerrone. Un decreto di Garibaldi del 26 ottobre 1860 le concesse unalieve pensione e poi un modesto impiego come direttrice a S.Francesco di Sales. Morì in Napoli a 85 anni il 1° maggio 1901nella sua casa di abitazione posta alla via del Duomo, n. 147,lasciando tre figlie, Ida, Gilda ed Emanuelita. (Notizie desunte dagli atti della Commissione dei danneggiati politici napoletani).

(186)Processo indicato.

(187) Settembrini,Ricordanze,vol. 2°.

(188)Settembrini,ivi.

(189)Carducci,ecc., vol. 1°, pag. 56.

(190)Nisco, operacitata,pag. 298.

(191)Settembrini,ivi, vol. 2°, pag. 21 e seguenti.

(192)Opera citata,pag. 57.

(193)Vol. 2°,pag. — 67.

(194)IlSettembrini aggiunge. per stizza,(Ricordanzevolume 2°, pag. 48).

(195)Ivi, pag. 61.

(196)Ivi, pag. 61.

(197)Ivi, pag. 52.

(198) Settembrini,Epistolario,pag. 4.

(199) Settembrini,Epistolario,pag. 4.

(200)L’ho narrato nel mio lavoro sul Carducci,vol. 1°.

(201)Spaventa, Letteree documenti. Letteraa Giuseppe Massari, pag. 68.

(202)Settembrini, Ricordanze,vol. 2», pag. 34.

(203)Leopardi, Narrazionistoriche,pag. 428.

(204)Archivio di Napoli,fascio 83, vol. 83.

(205)Carlo De Cesare, AntonioScialoia. LoScialoia era stato arrestato il 26 settembre 1849.

(206)Ministero giustizia, fascio 5366. Incart. 155.

(207)Tra essi, della provincia di Salerno, Salvatore Conforti, CamilloAlemagna, Michele Sorgente ed i fratelli Alfonso, Raffaele eGiuseppe Sica. La Corte dispose per costoro la conservazione degliatti ip archivio.

(208)Art. 48 della costituzione approvata con atto sovrano del 10febbraio 1848.

(209)DeSivo, operacitata,vol. 1°, pag. 337.

(210)È singolare che nelle conclusioni dell’Angelillo ed anche nellasentenza della Corte non si fa più parola dell’imputato PasqualeConforti. Dal quadro degli imputati unito a la sentenza risulterebbeassoluto.

(211)Riporto integralmente la lettera nell’appendice di questo volume.

(212)Parole del decreto pubblicato nel Giornaledelle Due Siciliedel 20 ottobre 1852.

(213)Nisco, op. ci t.,pag. 810 — Appunti di Giuseppina Leanza.

(214)Il D’Aiutolo, bravo ed onesto patriotta arrestatoci 1851, vennepoi da la Gran Corte speciale di Salerno con decisione del 30ottobre 1852 condannato a diciannove anni di ferri. Un rescrittoreale commutò la pena in dieci anni di reclusione. Lo sventuratomori in carcere durante il 1857.

(215)Archiviodi Napoli,Ministero di giustizia, protocollo del Consiglio di Stato, sedutadel 25 gennaio 1855.

(216)Protocollo del Consiglio ordinario di Stato, Ministero giustizia,verbale del 3 agosto 1855.

(217)Ivi, verbale del 28 luglio 1856.

(218)Con decisione del 19 aprile 1853.

(219)Per il D’Avossa la requisitoria dell'Angelillo del 81 maggio. 1851aveva chiesto il rinvio a giudizio; ma la Gran Corte con decisionedel 16 luglio 1851 aveva ordinato invece un prosieguo d’istruzione.

(220)Archivio di NapoliPrefettura di polizia, fascio 426, incartam. 8334, anno 1847.Relazione del Salvi in data del 28 maggio 1847.

(221)Di lui ho scritto nel mio libro già accennato «La rivolta, ecc.».

(222)Arch. di Napoli,Ministero esteri, espulsi, fase. 3842.

(223)Pari a L. 2250.

(224)Desumo questa narrazione da i documenti dell'Archiviodi Napoli,fase. 65, incart. 636. vol. 46, e da altri che indicherò.

(225)Rapporto del sottointendente Colaianni del 1° maggio 1850 daPollice. Archiviodi Salerno,anno 1850, vol. 51.

(226)Rapporto del sottointendente del 31 maggio 1850. Archiviodi Salernoivi.

(227)Rapporto dello stesso Vignes in data del 10 maggio 1850 al capitanoFilippo Nappa e rapporto del medesimo di eguale data, ivi.

(228)Rapporti suindicati.

(229)Nota del Ministero degli affari esteri, fascio 65, incart. 636, vol.46.

(230)Ministero esteri, espulsi, fascio 8842.

(231)Lettera dell’intendente Valia dell’11giugno 1850. Arch.Napoli,fase. 65, incart. 636, vol. 46.

(232)I fratelli Marsicano nel 19 luglio 1850, il De Rosa il 28 giugnodello stesso anno.

(233)Desumo queste notizie da un diario del Mazziotti. A procurarel’imbarco si adoperò un tale Browon addetto a la legazioneinglese in Napoli.

(234) Il Bellelli era ritornato da la Francia a Napoli.

(235)Art. 473 suindicato.

(236)Le ho narrate nel miolibro:IlCarducci,vol. 1°, cap. 2°.

(237)Archiviodi Napoli,incart. 636, fase. 66, vol. 76. Giuseppe Maresca ebbe dipoi il postodi tenente nelle guardie di finanza, che dovette lasciare in seguitoper una infermità.

(238)Nota del ministero dell’interno dell’ll dicembre 1850, Archiviodi Salerno,carte sfuse, incart. 492.

(239)Archiviodi Napoli,ministero giustizia, affari penali, fase. 4894.

(240)Archiviodi Napoli,ministero giustizia, protocollo del Consiglio di Stato del 7settembre 1850, n. 5.

(241)I componenti della Gran Corte erano i giudici Mancinelli, Lagreca,Quinto, Cotini, Mariottini e Ricca. Pubblico Ministero ilprocuratore generale Angelo Gabriele. Difendeva il De Mattia l’avv.Nicola Mottola.

(242)Archiviodi Salerno,processo Maresca, 40150, vol. I. Deposizioni scritte ripetute poinel dibattimento orale.

(243)Archiviodi Salerno,processo Maresca, 40150, vol. I. Deposizioni scritte ripetute poinel dibattimento orale.

(244)Processo Maresca,vol. I.

(245)Ho narrato il fatto nel libro IICarducci,vol. I, pag. 107.

(246)Mazziotti, Larivolta del Cilento nel 1828,pag. 141.

(247)Carducci,ecc., vol. I, pag. 106.

(248)Relazione del 19 novembre 1849. Archivio di Napoli, fase. 66,incart. 636, vol. 76.

(249)Archivio di Salerno,carte sfuse, fase. 28.

(250)Stefano e Gervasio Passero, Luigi De Mattia, Francesco Jannotti diVallo e Raffaele Mariani di Vallo (ivi).

(251)De Angelis Carlo, Memorie,pag. 24. Ancheio sono caduto in questo errore nel mio libro LaRivolta del Cilento,appendice pag. 281, non avendo allora potuto trovare il processo.

(252)Archivio di Napoli,fascio 66 come sopra.

(253)Il De Angelis nel libro citato dice erroneamente che la condanna delDe Mattia ebbe luogo con voti tre contro uno.

(254)Lo dice anche il De Angelis, operacitata,pag. 68.

(255)Archivio di Salerno,carte sfuse, fascio 65.

(256)Il registro dice cosi in data del 14 ottobre del 1850: «Incomunione Sanctae Matris Ecclesiae animam Deo reddidit, sancissimoviatico defectus et sacri olei unctione roburatus».

(257)Nota del 15 ottobre 1850, Archiviodì Salerno,ivi.

(258)Erroneamente il registro dei defunti della parrocchia suddettadesigna in data del 14 ottobre 1850 avvenuta l’esecuzione nellocale stesso delle carceri. Lo smentiscono la nota citata del 13ottobre del Gabriele che accenna al solito luogo delle esecuzioni,ed il registro dello stato civile che afferma la morte avvenutafuoriporta orientale,

(259)Nota dello stesso del 14ottobre, Archiviodi Salerno, ivi.

(260)Vite degli italiani benemeriti uc cis idal carnefice,pagina 240.

(261)Cosi mi riferisce il prof. P. E. Bilotti, mio cortese amico,benemerito direttore dell'Archivioprovinciale di Salerno.

(262)Doc. succennati fascio 145.

(263)Doc. succennati fascio 145.

(264)Doc. succennati fascio 145.

(265)Archiviodi Salerno,fascio 4929 del 1849, vol. II.

(266)Decisione del 10 marzo 1852, Archiviodi Salerno,idem.

(267)Narrata nel mio libro IICarducci,vol. 1°, cap. 2°. Il comune si chiama ora Casalvelino.

(268)Archivio di Salerno,carte sfuse, fascio 5.

(270)Per i precedenti dell’Aletta e per l’episodio cui accenno,veggasi IICarducci,vol. 1°, pag. 143 e seguenti.

(271)Archivio di Salerno,processo Aletta, fascio 2660 vol. 20.

(272)Memoriedi Carlo De Angelis,pag. 45.

(273)Ivi, pag. 57.

(274)Verbale di arresto del 1° dicembre 1848, Archiviodi Salerno,anno 1849, fascio 405. Venne imprigionato anche il loro ospite. IlGambone faceva parte della Commissione mobile di pubblica sicurezzacomandata da l’alfiere Gaetano Ferrara.

(275)Carducci,vol. 2% capitolo 1° e 2°.

(276)Carducci,vol. 2°, pag. 14.

(277)Questi documenti vennero stampati ufficialmente dal governo nellaraccolta intitolata «Documenti dell’insurrezionecalabra» poiché il moto del Cilento venne considerato comeconnesso, e di fatto lo era, con quello della Calabria.

(278)MariniSerra, Allegazioniscelte,vol. 2«, pag. 286, Napoli, tipografia De Angelis, 1869.

(279)De Angelis, Memorie,pag. 7§.

(280)Archivio di Sale rno,carte sfuse, fascio 20, n. 1221.

(281)In questo stesso volume, cap. I.

(282)La Rivolta del Cilento nel 1828.

(283)Castromediano, Carcerie galere politiche, pag. 190.

(284)Nota del direttore Peccheneda del 26 novembre 1851, Archiviodi Salerno,anno 1849, fase. 4°.

(285)Archiviodi Napoli,ministero polizia, 14, vol. 36.

(286)Archivio di Napoli,ministero esteri, espulsi, fascio 8842.

(287)In questo stesso libro, cap. 5.

(288)Archivio di Salerno,R. P., vol. 6.

(289)Il Carducci,vol. 2°, cap. 2°.

(290)Requisitoria del procuratore generale presso la Gran Corte CriminalediSalerno Angelo Gabriele nella bausa a carico dei contumaci.

(291)La moglie ottenne poi il rimpatrio nel 13 settembre 1858. —Archiviodi Napoli,ministero esteri, consolato di Genova, affari diversi, fascio 2646.— Ivi, espulsi,tfascio8858.

(292)Nota del ministero degli esteri del 14 maggio 1856 a l’intendenzadi Salerno, Archiviodi Salerno.

(293)Nel mio lavoro IICarducci,vol. 2°, cap. 2°.

(294)Era ancora trattenuto a Salerno il 9 aprile 1856.

(295)Archiviodi Napoli,ministero giustizia, proto collo del Consiglio di Stato del 28luglio 1856.

(296)Archiviodi Napoli,ministero giustizia, proto collo del Consiglio di Stato del 28luglio 1856.

(297)Archiviodi Napoli,ministero giustizia, proto collo del Consiglio di Stato del 28luglio 1856.

(298)Nota del sottintendente di Vallo, Giuseppe Mollo, del 1°febbraio, 1850, Archiviodi Salerno,anno 1850, fase. 8.

(299)Verbale di arresto del 7 maggio 1850, incartamento suindicato.

(300)Nota dell'intendente di Potenza al suo collega di Salerno dellostesso giorno. Arch, diSalerno}anno 1850, fase. 18.

(301)Nota dell’intendente di Potenza dello stesso di, ivi.

(302)Ufficio corrispondente a quello attualmente di segretario.

(303)Il Calderaro era accorso ad Acquafredda a premura. del preteVincenzo Peluso, come ho narrato nel Carducci, vo l .2°,pag. 8. Aveva preso parte a Passassimo del Carducci.

(304)I consiglieri comunali si chiamavano decurioni.

(305)La sentenza narrando l’avvenimento di Acquafredda, disse consolenne mendacio che il Carducci aveva gridato «viva larepubblica».

(306)Venuti i nuovi tempi il Ginnari ebbe la nomina di ftenentedi dogana il 18 novembre 1860. Mori a Lagonegro, come ricevitoredelle privative, il 8 febbraio 1865, lasciando tre figli, un maschioa nome' Casimiro, che divenne ispettore nelle ferrovie, a duefiglie. La moglie di Raffaele Ginnari morì di colera il 1855.

(307)Archiviodi Salerno,gabinetto anno 1859, s. z, n. 6, carte sfuse, fascio 14, n. 929.

(308)Archiviodi Salerno,gabinetto anno 1859, s. z, n. 6, carte sfuse, fascio 14, n. 929.

(309)Il benedettino Luigi Marincolafuabate di Cava dal 1840 al novembre 1844. Poi visse a Napoli ove moriil 21 gennaio 1851.

(310)Archivio di Salerno,decisione della Gran Corte speciale, Memoriedel De Angelis.

(311)Desumo le notizie riportate in questo capitolo in massima parte daun incartamento dell’archivio militare di Pizzofalcone, comandogenerale guerra, fase. 2530, pratica 461, n. 7, e da gliincartamenti della prefettura di polizia di Napoli.

(312)Archiviodi Salerno,fascio 13.

(313)Archivio di Napoli,prefettura di polizia, anno 1853, fase. 8119, vol,1°.

(314)Paolo Mencacci, Memoriedocumentate,vol. 1(0),p. 1, pag. 225.

(315)L’accusa contro la signora Mazziotti era completamente falsa.

(316)Archivio di Napolianno 1854, n. 6760, vol. 7°. Nota dell’intendente di Salerno del22 febbraio 1854, che riassume i precedenti della pratica.

(317)Archiviomilitare di Pizzofalcone,ministero guerra, 1° ripartimento,1° carico, n. 1481. L’Umbeli, come ho — narratonel cap. 2°, aveva seguito il maresciallo Palma nel disarmodel Cilento.

(318)Archiviodi Stato di Napoli,ministero di polizia,anno 1853, espediente 6760, rapporto dell'intendente del 22 febbraio1854.

(319)Suo rapporto del 13 dicembre 1853. Ivi.

(320)Ivi, espediente n. 5131 del 1850.

(321)Ivi, espediente n. 5131 del 1850.

(322)Incart. indicato, espediente n. 6760.

(323)Divenuto poi sindaco di Napoli, senatore del regno.

(324)Una nota della prefettura di polizia del 19 aprile1854 indica le lunghe ricerche fatte in tutti i quartieri dellacittà.

(325)Sua relazione del 21 dicembre, ivi. Il Laudi nel 1854. fu sostituitocome sottointendente a Vallo dal cav. Angelo Santilli.

(326)Morto nello scorso anno in Napoli.

(327)Archivio di Napoli,prefettura di polizia, anno 1853, fascio 8119 vol. 2°.

(328)Archivio di Napoli,ministero di polizia; anno 1853, espediente 6760. La giovine, natail 10 settembre 1833, sposò poi il sig. Camillo Monaco.

(329)Archivio di Napoli,prefettura di polizia, anno 1859, fascio 3119, vol. 2°.

(330)Nota del 10 febbraio 1854, n. 474, archiviomilitare di Napoli,segretariato n. 276, personale n. 15952.

(331)Ministero della guerra, 1° ripartimento, 1° carico, n. 1481. —Prefettura di polizia di Napoli, anno 1854, fascio 650, vol. 2°.

(332)L’art. 862 dello statuto penale militare, approvato con legge del30 gennaio 1819, stabiliva per i delitti commessi da sotto ufficialie soldati «l’esacerbazione di un numero di giri di bacchetta dastabilirsi dal Consiglio di guerra a misura della maggiore o minoregravità del reato.» Nell’art. 879 si soggiungeva: «Questa penanon arreca infamia».

(333)Cioè la radiazione da l’esercito.

(334)Lettera del 15 marzo 1854 del ministro al prefetto di polizia,archivioNapoli,prefettura di polizia, anno 1854, vol. 1°.

(335)Verbale del 17 marzo, ivi.

(336)Finora non mi è riuscito di trovare tale regolamento.

(337)Fine di un regno,vol. 1°.

(338)Relazione del 20 marzo 1854 del comandante del forte.

(339)Dichiarazione scritta del Rossi in data del 19 marzo 1854, archiviomilitare di Pizzo falcone.

(340)Lettera del comandante del forte del 25 marzo, ivi.

(341)Lettera del comandante del forte del 25 marzo, ivi.

(342)Rocco Brienza.Lamia crocepag. 97.

(343)Giornale delle Due Siciliedel 4 settembre 1860.

(344)Nota del 15 marzo precedentemente indicata.

(345)Il ministro francese a Napoli era allora il cav. De La Cour. A lalegazione francese erano addetti il conte De Banneville comesegretario, il visconte De Digeon come alunno (Almanaccoreale,1850, pag. 61).

(346)Il passaporto è ora presso l’autore di questo scritto.

(347)Giornale LaStampadel 13 giugno e CorriereMercantiledi Genova del 15 successivo.

(348)Archivio di Napolianno 1854, espediente n. 70, vol. II.

(349)Opera citata,pag. 30.

(350)Ivi pag. 802. La giovinetta subi dipoi, per avere accompagnato ilGladstone, gravi persecuzioni. Sposò in seguito un sarto, certoGiobbe, da cui ebbe un figlio, Mario, valoroso pubblicistasuicidatosi in questi ultimi anni. La Prota è morta recentemente.

(351)Nisco, ivi, pag. 802.

(352)Nisco,ivi, pag. 802.

(353)Un decreto del 81 gennaio 1823 ordinò la formazione di un luogo dipena nella località ove era situata l’antica città di Ischia.L’attuazione del provvedimento ebbe luogo con R. decreti del 12agosto 1823 e 11 settembre 1825.

(354)Operacitata,pag. 808.

(355)Castromediano,vol. lo, pag. 351.

(356)Nel volume delle decisioni manca questa del 29 luglio; però nelfoglio di udienza di quel giorno vi è il dispositivo.

(357)Castrombdiano,ivi, pag. 349.

(358)La medesima sentenza assolse per eguali imputazioni Raffaele LaFrancesca e D. A. Vacca pure di Eboli, arrestati il 6 maggio 1850.

(359)Nel Carducci,vol.1°,pag. 148, e nel presente lavoro cap.2°,pag. 46 e seg.

(360)Castromediano,vol.1°,pag. 350.

(361)Castromediano, op.citata,vol. 1°, pag. 268. Il Nisco, op.citata,pag. 816.

(362)Nisco, pag. 816; Castromediano,vol. 1°, pag. 284.

(363) Castromediano,ivi. Il comiteera il capo dei custodi.

(364)Seguo la narrazione del Castromediano e del Nisco.

(365)Nisco, pag. 817.

(366)Nisco, pag. 317; Castromediano,vol. 1°, pag. 298.

(367)Il Castromediano,ivi, pag. 806, pubblica questo regolamento speciale. Il regolamentogenerale formava il titolo 18° della ordinanza della R. Marinaapprovata con R. Decreto del 2° ottobre 1818, n. 1388, dipendendo ibagni dal ministero della marina. Distingueva i bagni in due classisecondo lo stipendio dei funzionari ad essi addetti. Erano dellaprima i bagni della darsena, del Carmine e dei Granili in Napoli, diCastellamare, di Procida, di Brindisi e di S. Stefano; della secondaquelli del Granatello, di Pozzuoli, di Gaeta, di Ponza, di Cotrone edi Pescara, di Ischia, di Capua e di Montefusco. Un decreto realedel 19 marzo 1885 pose i bagni sotto la dipendenza di un ispettoredella marina detto ispettore dei ramialieni eche aveva a la sua dipendenza anche i telegrafi. Nel 1857 i bagnipassarono a la dipendenza del ministero dei lavori pubblici.

(368)Nisco, pag. 817; Castromediano,DaP rorida a Montefuscopag. 17.

(369)Castromediano,vol. 1°, pag. 833.

(370)Ivi, pag. 839; Nisco,pag. 818.

(371)Ivi, pag. 839; Nisco,pag. 818.

(372)Ivi, vol. 2°, pag. 12 — Archiviodi Napoli,polizia, anno 1854, nota del 15 marzo 1854 — Nisco, pag. 218.

(373)Castromediano,vol.2°, pag. 12 — Archiviodi Napoli,polizia, anno 1854, nota del 14 marzo 1854 — Nisco, pag. 218.

(374) Croce, Letteradi Silvio Spaventa al Bonghigià citata. Le punizioni erano il bastone ed il puntale.

(375)Documenti indicati.

(376)Castromediano,ivi.

(377)I quartiglierierano condannati, per reati comuni, messi nel bagno per provvedere ala pulizia dei locali e per spiare i loro compagni.

(378)Castromediano,ivi, pag. 23; Nisco, 818— Il Settembrini(Ricordanze,vol. 2°, pag. 128), descrive il supplizio delle legnate.

(379)IlDono comunicava la malattia del Pironti al fratello di lui Luigi conlettera dell’ottobre 1853, pubblicata da la Gazzettad'Italianel 2728 novembre 1885, n. 397.

(380)Lettera esistente presso la biblioteca del museo di S. Martino inNapoli. Questa ed altre lettere dei detenuti vennero consegnate dale famiglie al corrispondente del Timesin Napoli Henry Wreford che, per mezzo dell’ambasciata inglese, letrasmetteva al Gladstone ed al Russel i quali ne lessero alcune a laCamera dei Comuni.

(381)Lettera del Dono a la moglie, ivi.

(382)Idem del 4 novembre 1858, ivi.

(383)Lettera del Dono a la moglie del 4 novembre 1853.

(384)Lettera del Dono a la moglie del 4 novembre 1853.

(385)Ivi, lettera del 16 giugno 1854.

(386)Nisco, operacitata,pag. 318.

(387)Lettera del Dono del 4 novembre 1853.

(388)La famiglia Treppitelli.

(389)Lettera esistente nella biblioteca del Museo di S. Martino inNapoli.

(390)Vol.1°, pag. 809 e 810.

(391)Nisco, operacitata,pag. 318. Gli altri erano lo Schiavoni,ilBraico, il Mollica, lo Staglianò, il Pica, il Tuzzo, il Serafini,lo Sticco, lo Zeuli, il Russo, il Morelli, il Lopresti,ilFerraro, il De Gennaro, il Mistorni, il Garcea, il Perri,ilBarini, il Palermo, l’Errichiello.(Centromediano,vol. 2°, pag. 73).

(392)Il Castromediano,operacitata,pag. 72, dice erroneamente 28 maggio 1856, mentre avvenne il 28maggio 1855, come risulta da una lettera del Dono dell’8 giugnosuccessivo.

(393)Castromediano,pag. 73. — Lettera del Dono dell'8 giugno 1855.

(394)Dono,lettera dell’8 giugno 1855.

(395)Castromediano,pag. 75.

(396)Castromediano,pag. 75. Il Dono nella lettera citata dell’8 giugno 1855 alfratello scrisse «le stanze che occupiamo sono proprie, anzidecenti: però un poco umide».

(397)Lettera del 20 luglio 1855 del Dono ala moglie.

(398)Castromediano,pag. 76.

(399)Dono,lettera del 22 giugno 1855. Castromediano,pag.77.

(400)Dono,lettera del 22 giugno 1855. Castromediano,pag.77.

(401)Dono, letteracitatadel 22 giugno 1855. Non so propriamente in che consistesse lamaniglia.

(402)Soltanto dopo parecchio tempo, come ho narrato, gli venne tolta lacatena.

(403)Castromediano,ivi, pag. 78 e 79.

(404)Lettere citate.

(405)Ivi.

(406)Lettera del 24 maggio 1856, ivi.

(407)Idem del 21 giugno 1856, ivi.

(408)Castromediano,pag. 99; Nisco, pag. 817.

(409)Castromediano,vol. 1°, pag. 142.

(410)Lettera indicata.

(411)Lettera del 21 ottobre 1856.

(412)Con il nome di Bettinasi indicava la sig. (a)Rosalia Cianciulli moglie di Ferdinando Mascilli, benemeritopatriota non abbastanza ricordato. Si usava il soprannome per nonfar comprendere che la famiglia del Mascilli, allora detenuto nelcarcere di S. Maria Apparente, aveva relazioni con i condannati a lagalera. Debbo la comunicazione di questo prezioso autografo e dialtri documenti e notizie a la cortesia della famiglia Pironti.

(413)Lettera ivi.

(414)Idem del 6 maggio 1857.

(415)Lettera del 9 maggio 1857.

(416)Anche questo autografo mi è stato gentilmente comunicato da lafamiglia Pironti.

(417)Risulta da una lettera della Cecilia a Mariannina Pironti, sorelladi Michele, in data del 3 giugno 1856.

(418)Ricordanze,vol. 2°, pag. 158. Il palmo corrisponde a ventitré centimetri,quindi sedici palmi a m. 4. 16.

(419)Collezione delle leggi,anno 1824, 1° semestre, pagina 849.

(420)Lettera dello Spaventa al Bonghi del 15 settembre 1888, pubblicatanel DailyTelegraphdel22 successivo e riprodotta dal Ricci, NuovaAntologia,fase, del 1° febbraio 1896.

(421)Art. 1° del decreto citato del 16 giugno 1824.

(422)Nato in S. Giacomo nel Vallo di Teggiano il 20 maggio 1794.

(423)Di lui parla lo Spaventa in una lettera del 22 gennaio 1856 da S.Stefano — Croch,op.cit.

(424)Settembrini, Epistolario,pag. 99. La relegazione si espiava a Ventotene ed a Ponza.

(425)Settembrini, Ricordanze,vol. 2°, pag. 186.

(426)Epistolario,lettera del 18 settembre 1854.

(427)Settembrini, Epistolario,pagina 54. Nell’agosto del 1855 Antonio Panizzi noleggiò inInghilterra un piroscafo per l’evasione del Settembrini e delloSpaventa, ma il piroscafo naufragò in vicinanza di Nisida.

(428)B. Croce,Letteree documentidi SilvioSpaventa, pag.115. Il buon Facella dopo il 1860 ebbe la nomina di portinaio delpalazzo municipale in Napoli e mori nel 1898.

(429)Settembrini, Ricordanze,vol. 2°, pag. 214.

(430)Id.,Epistolario,pag. 75.

(431)Settembrini,Epistolario,pag. 167.

(432)Settembrini,Epistolario,pag. 167.

(433)Castromediano,vol. 2°, pag. 108. Il De Stefano è compreso negli elenchi deimorti nell'ergastolo pubblicati dal giornale 1 Italiadel 22 e 81 luglio 1860 e dal D'Ayala.

(434)Croce, operacitata.

(435)Epistolario,pag. 160.

(436)Desumo queste notizie dalle carte della Maggioria generale (Ramialieni), anno 1856, esistenti presso la Direzione delle carceri diPozzuoli.

(437)Cap. VII.

(438)Sono poche pagine intitolate: Ilprimo giorno della mia galera. Debbocopia di esse a la cortesia della vedova del compianto patriota,signora Camilla Riccio.

(439)Archivio di Napoli,ministero di polizia, vol. 1850.

(440)De Angelis, Memorie,pag. 25.

(441)Opera citata,vol. 1°, pag. 200. Anche lo Spaventa afferma che la gran massa deigaleotti era a Procida. (Croce,op.cit.,pag. 19). Ve ne erano infatti in quel tempo mille e duecento, deiquali quattrocento politici.

(442)Il sonetto porta in piede le iniziali N Q, ma non mi è riuscito disapere il nome dell'autore.

(443)CASTROMEDIANO, vol. 1º, pag. 204.

(444)Memorie, pag. 76.

(445)DE ANGELIS, Memorie, pag. 81.

(446)DE ANGELIS, Memorie, pag. 81.

(447)La lettera sequestrata dal comando trovasi nei documenti. Archiviodi Salerno. Carte politiche varie.

(448)Archivio militare di Pizzo falcone,comando generale della marina (1° ripartimento, 1° carico).

(449)Memorie,pag. 79.

(450)Ivi, pag. 78.

(451)Archivio di Napoli,carte dal 1848 al 1850, fascicolo 237, vol. 21.

(452)Archivio di Napoli,ministero giustizia, fase. 5380, incart. 131.

(453)DbAngelis, Memorie,pag. 84.

(454)DbAngelis, Memorie,pag. 84.

(455)Db Angelis, Memorie,pag. 94; Archiviodi Napoli, documentiindicati.

(456)DeSivo, operacitata,vol. 1°, pag. 398.

(457)I colerosi dei luoghi di pena della capitale vennero raccolti inapposito ospedale nella caserma dei Granili.

(458)Desumo questa notizia da i documenti dell’archivio militare diPizzofalcone in Napoli.

(459)Mi ha cortesemente inviato copia dell'atto di nascita ed alcunenotizie il dott. Serafino Mauro di Bellosguardo, cui ne rendo vivegrazie.

(460)I Carbonari di Salerno nel 1820.

(461)Deliberazione del clero del 18 giugno 1819.

(462)Id., id. del 29 settembre 1820.

(463)Deliberazione del clero dell’8 settembre 1824.

(464)Carducci,vol. 2°, pag. 47 e 48.

(465)Archivio di Salerno,fase. 886, vol. 5°. Vi è la lettera originale del Farro.

(466)Archivio di Salerno,R. P., n. 58, relazione del cav. Vairo del 8 luglio 1849.

(467)D'Ayala,1nostri morti,pag. 12.

(468)Castromediano,vol. 2°, pag. 103. Erroneamente però questo autore dice che ilLeanza mori in Procida.

(469)Appunti indicati.

(470)Matricola dei rei di Stato della galera di Nisida.

(471)Archivio di Napoli,ministero esteri, espulsi, fascio 8868, vol. 318. Un decreto del 20ottobre 1860 pubblicato nel Giornaledelle Due Sicilie,supplemento n. 38, concesse un modesto assegno a la famiglia.

(472)Castromediano,operacitata,vol. 2°, pag. 86. Id. da Procidaa Montefusco,pag. 17. — Nisco, pag. 317. Questo ultimo scrittore aggiunge tra imorti di colera Michele Torquato di Castiglione. Il D'Ayalanell’opuscolo Inostri mortili indica tutti come sepolti nel cimitero di Montefusco, omettendoperò l’Amitrano. Nel bagno di Montefusco morì pure nel 17ottobre 1855 un altro condannato politico, Vincenzo Cavallo.

(473)Castromediano,operacitata,vol. 2°, pag. 86. Id. da Procidaa Montefusco,pag. 17. — Nisco, pag. 317. Questo ultimo scrittore aggiunge tra imorti di colera Michele Torquato di Castiglione. Il D'Ayalanell’opuscolo Inostri mortili indica tutti come sepolti nel cimitero di Montefusco, omettendoperò l’Amitrano. Nel bagno di Montefusco morì pure nel 17ottobre 1855 un altro condannato politico, Vincenzo Cavallo.

(474)Non conosco a quale comune appartenessero.

(475)Morto il 23 agosto 1854. Atto di morte nel comune di Ventotene dellostesso di, n. d’ordine 27.

(476)Atto di morte nel comune di Ventotene, n. 25, dello stesso anno.

(477)Archivio militare di Pizzofalcone,ministero guerra e marina, ramo guerra, 4° riparto, 1° carico, n.8771.

(478)Opera già citata: Inostri morti.

(479)Matricola dei rei di Stato in Procida.

(480)La famiglia mi riferisce che il Sabbatella mori invece il 21novembre del 1853 nell’ospedale di Procida e non il 21 novembre1854.

(481)In qualche documento trovo accennato che l’Antonelli fu trucidatoinvece nel bagno di Pescara il di 11 aprile 1854.

(482)Un altro condannato della provincia di Salerno, Giuseppe Caprio moripure di colera nel 1854 nel bagno di Pescara (Castromediano,vol. 2°, pag. 103).

(483)Il Castromedianonarra nelle sue Memorie(voi. 2°) i fatti ohe riferisco in questo capitolo. Avrei rimandatosenza altro il lettore a quel bellissimo libro se alcuni documentinon mi avessero fornito nuovi ed interessanti ragguagli. Anche ilSettembrininelle Ricordataaccenna ad alcuni episodi in un racconto a frammenti, mameraviglioso per la forma. Un esulo napoletano allora a LondraAntonio Guerritore, di Pagani(inprovincia di Salerno) pubblicò su questo argomento nel 1859 undramma con il titolo I deportati.

(484)Il DeSivoha scritto: «Da Francia, Inghilterra e Italia (sic)piovevano giornali e opuscoli da inondare l’Europa sugli orrori dire bomba». Vol. 1°, pag. 425.

(485)Nota del 80 maggio 1856 del ministro degli affari esteri Carata diTraetto a i governi francese ed inglese. — Nisco, op.cit.,pag. 338; DeSivo,ivi, vol. 1°, pag. 420.

(486)Settembrini, Ricordanze,vol. 2°, pag. 188 e 99.

(487)Opera citata,vol. 2°, pag. 188 e 99.

(488)Lettera del Dono del 10 dicembre 1856, doc. citati.

(489)Settembrini, Ricordanze,vol. 2°, pag. 257.

(490)Castromediano,vol. 2°, pag. 92. — Lettera del Dono del 12 maggio 1857, doc.citati.

(491)Settembrini,Epistolario,pag. 110, lettera a suo fratello Giuseppe.

(492)Settembrini,Epistolario,pag. 110, lettera a suo fratello Giuseppe.

(493)Settembrini, Scrittivarii,vol. 2°, pag. 388.

(494)Pubblico in appendice la lettera in data del 13 maggio 1857.

(495)Settembrini,Ricordanze,pag. 252. — Spaventa,lettera dell’8 giugno 1857 pubblicata dal Croce,operacitata, Pag.200.

(496)Croce,ivi, pag. 236.

(497)Settembrini, Epistolario,pag. 262.

(498)Idem, ivi, pag. 122.

(499)De Sivo,vol. 1°, pag. 457. — Nisco, pag. 362.

(500)Erano morti durante l’espiazione della pena: a S. Stefano GiuseppeDardano il 18 gennaio 1956, Emilio Mazza il 14 agosto 1852,Innocenzo Veneziano il 5 luglio 1858: in Nisida Luigi Leanza il 10agosto 1854, il padre Girolamo da Cardinale il 10 settembre 1855, inProcida Leopoldo Lo Cascio il 25 dicembre 1853, Francesco SaverioComite il 30 gennaio 1857, Alfonso Sabatino il 12 maggio 1857,Girolamo Serbi il 7 novembre 1858: in S. Francesco Giuseppe Caprioil 10 novembre 1854, Domenico Cimmino il 80 luglio 1858: inMontefusco Giuseppe Cimmino.

(501)Nota ministeriale dell’8 gennaio 1859.

(502)Relazione degli stessi giudici, del 10 gennaio.

(503)Relazione citata. Il DeAngelis,che narra pure la lettura del decreto, non dice parola sul lorocontegno, però dopo alcune considerazioni esclama: «Ma infinel’uscire dalla galera era pure gran cosa»(Memorie,pag. 108).

(504)Ivi.

(505)Relazione indicata

(506)Le Ricordanzedel Settembrini, le lettere di lui e quelle dello Spaventa finorapubblicate non contengono alcuna notizia su questa scena. Vi accennasoltanto una lettera dello Spaventa del 13 gennaio 1858 a suo padre.Croce,operacitata,

(507)Opera citatavol. 2°, pag. 101.

(508)Operacitata,pag. 103. Il giudice regio comunicò al Nisco la facoltàconcessagli di andare in esilio in Baviera presso i parenti dellamoglie.

(509)Castromediano,pag. 105. — DelGiudice,If ratelliPomo,pag. 83. Lettera di Carlo Poerio del 9 gennaio a sua zia Antonia.

(510)Relazione del giudice del 9 gennaio 1859.

(511)Lettera comunicatami cortesemente da la famiglia Pironti.

(512)Castromediano,pag. 106. — DeCesare, Lafine di un regno,parte 1.

(513) Lettera del 13 gennaio 1859.

(514)Relazione della Commissione del 20 gennaio 1859.

(515)Relazione della Commissione del 20 gennaio 1859.

(516)Il magistrato Pica scriveva a suo figlio Giuseppe detenuto aMontesarchio: «Sono stato assicurato che di là (a Cadice) ciascundi voi potrà recarsi ove meglio gli piace.»— Lettera di Carlo Poerio pubblicata nel libro di DelGiudice,pag. 89.

(517)Il DeSivo(voi. 1°, pag. 458) dice: «Allorché venne dal Salvati datalettura del decreto reale ai condannati il Poerio per tutti rispose,gli altri atteggiati a commozione dettero in vivaal re » .

(518)Op. cit.,vol. 2, pag 107.

(519)Relazione della Commissione in data del 20 gennaio. Essa fece trerelazioni.

(520)Castromediano, operacitata,vol. 2°, pag. 111.

(521)Relazione del 18 gennaio al re allora in Bari. Il Nisco tace su diciò.

(522)IlCastromedianodice: «Ci fecero spogliare della nostra assisa di galera e se laritennero: e ci fecero rivestire con paletot#,pastrani, calzoni e berretti comprati da chi sa qual fetidorigattiere»,op. ci t.,vol. 2°, pag. 109).

(523)Lettera del Poerio alla zia Antonietta, pubblicata dal DelGiudice, operaindicata,pag. 95.

(524)Intendeva dire forza d'animo.

(525)Del Giudice, op.cit., p&g. 96.

(526)Relazione citata.

(527)La relazione citata dice testualmente il Pironti «fermo nell'ideadi compiere il viaggio». Lo conferma una lettera di Carlo Poeriodel giorno 16 a sua zia (DelGiudice, operacitata,pag. 96).

(528)De Angelis, Memorie,pag. 104; Castromediano,pag.116.

(529)Relazione citata. Essa aggiunge che l’infermosi mostrò riconoscente della grazia ottenuta.

(530)Gli altri erano Bellantonio, Colafìore, Crispino, De Girolamo, DeSimone, Falconii, Mazzei, Morganje, Notaroe Purcaro.

(531)Il Poerio ricusò il denaro, come aveva ricusato gli abiti,dichiarando di esserne stato fornito da i parenti. La piastraequivale a L. 6. 10. Lasomma totale erogata fu di ducati 816 pari a L. 8468 IlCastromedianodice erroneamente lire 61 per ciascuno (operarii.,pag. 118).

(532)Relazione del 18 gennaio. Ministero LL. PP., terzo ripartimento.

(533)Relazione del 18 gennaio, Ministero dei LL. PP., terzo dipartimento.

(534)Relazione del 18 gennaio della Commissione, fasci colo 13.

(535)Castromediano, operacitata,pag. 118.

(536)Nell’archivio di Napoli, ministero esteri, espulsi, fase. 3878, viè l’elenco completo che riporto in appendice e che è statopubblicato dal Castromediano, vol. 2°, pag. 120, dal Musci«Storiadei cinque mesi del reame delle Due Sicilie da gennaio a maggio1859 »e dal M°cacci,Larivoluzione italiana,vol. 2°, parte 1(a).

(537)Seguo il racconto del Castromedianoe del Settembrininelle Ricordanzee ne ll’ Epistolario.

(538)Il Castromedianoriferisce alcuni articoli del contratto, operacitata,pag. 167.

(539)Rivistadi Roma,anno 1901, anno V, fase. 1°.

(540)Rivistadi Roma,anno 1901, anno V, fase. 1°.

(541)Castromediano, operacitata,pag. 154.

(542)Notizie desunte da una relazione del console stesso del 21 febbraio.

(543) Castromediano, operacitata, pag. 171.

(544)Opera citata,vol. 2°, pag. 171. — Questi episodi sono stati narrati dalSettembrininelle Ricordanzein un capitolo intitolato Ricordidi Raffaele.

(545)Il Castromedianone tace il nome.

(546)Questa corrente si accentuò nei mesi successivi. Silvio Spaventa il12 aprile del 1859 scriveva da Londra a suo fratello Bertrando:«L’opinione generale è contraria al Piemonte e a la suapolitica, che la più parte di noi amiamo ed approviamo di tuttocuore, ma è favorevolissima come sai, a noi e alla causa dellalibertà napoletana». Croce,operaindicata,pag. 245.

(547)Numero del 1° marzo 1859.

(548) Castromediano,ivi, pag. 196; DbAngelis, Memorie,pag. 115.

(549) Castromediano,ivi.

(550)Rivistadi Roma,anno 1899, pag. 1222, articolo di GiuseppePaolucci.

(551)Castromediano,pag. 196.

(552)Pubblicata nel Timese nel MorningChronicledel 22 marzo 1859.

(553)Numero del 1° aprile 1859. Sottoscrissero la lettera il Ventra,Emilio Petruccelli, Emilio Maffei, Angelo Pellegrino, DomenicoDell’Antoglietta, Filippo Agresti, il Faucitano, il Marrelli, ilMorgante ed il Gerace.

(554)Pensiero ed azione,numero del 16 aprile 1859.

(555)Lo disse il giornale ufficiale del regno; lo conferma il DbCesare, operacitata,pag. 426.

(556)Memorandumdel 9 aprile 1859 al re.

(557)Il D'Ayalanelle Memorie,pag. 280, calcola gli esuli delle Due Sicilie approssimativamente a860.

(558)Opera citata, vol. I, pag. 838.

(559)Sprovieri,Ricordipolitici e militari,pag. 32. Roma, tipografia delle Mantellate,1894. Lo Sprovieri, sbarcato a Genova, venne poche ore dopo espulso:ottenne di andare a Torino donde nell’ottobre del 1851 si recò aParigi.

(560)Carlo Poerio scriveva il 16 agosto 1859 ad Antonio Panizzi (Letteread Antonio Panizzi)pag. 354) che il governo borbonico aveva sequestrate le rendite agli emigrati Mazziotti, Imbriani, De Dominicis, Conforti,Dragonetti. Il Massari (nel libro Gladstoneed il governo napoletano,pag. 209), aggiunge a tali nomi questi altri: G. A. Romeo, VincenzoD’Errico, Mancini, Pisanelli, Liborio Romano, Musolino, DomenicoCardente, Tommaso Ortale, Stocco, Mosciaro, Saverio Boccardi,Piscicelli, Scala, Raffaele Dellago, Michele Liov, Tiggiani, dott.Orofino, Principe della Rocca Michele Cito, Giovanni Mosca, Amedei,Emilio Petruccelli, Giovanni Cozzoli, Guglielmo Nicotera, Ippoliti.

(561)Il colonnello Guglielmo Cenni faceva il legatore di libri, GaetanoSacchi l’assistente di lavori, Carlo Gorini dirigeva un negozio dioggetti ortopedici con lo stipendio di due lire al giorno (Cadolini,Memoriedel risorgimento,pag. 203).

(562)TOFANO,Letteraai suoi elettori. Appendicepag. 18.

(563)Carrano Vitadi Guglielmo Pepe,pag. 222 e seguenti; Comandini,opera citata,80 agosto 1849.

(564)Guardione, Il gen, EnricoCosenz,Cosenz andò poi nel 1850ka Genova e nel 1856 a Torino.

(565)CarranoL'Italiadal 1789 al 1870,vol. IV, pagina 188. — Pepe,Casid'Italia,pag. 457 Il Pepe era stato consigliato a stabilirsi a Parigi da suofratello Florestano, come narra nella vita di quest’ultimo ilCarrano.

(566)Guerritore, Echidel passato,pag. 58.

(567)Francesco Bertolininel suo scritto: Dueillustri siciliani dei tempi nostri, Vincenzo Fard ella di Torrearsa e Michele Amari,dice invece che partirono su una fregata inglese (NuovaAntologia,1889, pag. 709).

(568)Lettera dell’Amari del 3 settembre 1849 (Letteread Antonio Panizzi),

(569)Con lettera del 29 gennaio 1850 il Gioberti ringraziava il Massaridi avergli presentato il Savarese, il Saliceti ed i due esulisiciliani. L’Amari, il Lafarina, lo Stabile ed altri nel dicembredel 1849 pubblicarono nel giornale LaRéformeuna protesta contro il governo napoletano. (Guardione, Ildominio dei Borboni in Sicilia. vol. II,pag. 30).

(570)Massari, Ricordibiografici e carteggio di Vincenzo Giobertiultimo volume, pag. 446.

(571)Id.,pag. 476; Guerritore,operacitata)pag. 60. Il Savarese si trattenne qualche tempo a Parigi, ilSaliceti ne fu espulso, come dirò tra breve.

(572)Il Pisanelli andò a Parigi nel luglio del 1850 e vi restò dueanni. Il primo luglio 1852 era a Torino (Massari, operacitata)pag. 480).

(573)Era a Parigi ancora nel 26 settembre 1856. Daniele Manin in quelgiorno presentava, con una sua lettera, anche a nome del marcheseDragonetti, a Giorgio Pallavicino il giovane emigrato napoletanoNicola Indolii, che si recava in Piemonte (Maineri,operacitata)pagina 199).

(574)Era a Parigi nel 14 luglio 1851 (Massari, ivi,pag.543).

(575)Il Musolino era stato prima in Piemonte ed in Inghilterra: stettepoi a Parigi fino al 1859. SaverioMusolino, Larivoluzione del 1848,pag. 80.

(576)Andò a Parigi nel 1851 da Malta.

(577)Era fuggito nel 23 aprile 1849 da Palermo; riparò a Marsiglia e dilà a Parigi nello stesso anno.

(578) Guerritore, operacitata,pag. 62.

(579) Massari, operacitata,ultimo volume, pag. 446.

(580)Massari, ivi,pag. 480.

(581)Lafarina, Epistolarivol. I, pag. 850, lettera numero 188.

(582)Comandini,operacitata)18 settembre 1852.

(583)Massari,ivipag. 505507).

(584) Massari,ivipag. 505507).

(585)Comandini,operacitata,13 settembre 1852.

(586) Guerritore, operacitala,pag. 67. Francesco Sprovieri racconta (Ricordipolitici e militari,pag. 42), che credette prudente di lasciare Parigi.

(587)Cenni su la rivoluzione italiana del 1860,pag. 9.

(588) Massari,iv i,pag.610.

(589) Tra cui il Rendu,il Lesseps, il Pons de l’Herault.

(590)Massari,iv i,pag.618. — Giornale L'Opinionedel 1° novembre 1852.

(591)LiborioRomano,Memorie, pag. 46. — Archiviodi Stato di Napoli, prefettura di polizia,incart. 2550, anno 1850, vol. HL

(592)LiborioRomano,Memorie, pag. 46. — Archiviodi Stato di Napoli, prefettura di polizia,incart. 2550, anno 1850, vol. HL

(593)Protocollo del Consiglio di Stato, ministero di polizia, n. 688.Archiviodi Staio di Napoli.

(594)Il Giannattasio divenne dopo il 1860 presidente della Gran Cortecriminale di Salerno, poi consigliere di Cassazione. Mori in Napolil’11novembre1869 nell’età di settantun anni. Ne disse l’elogio F. A.Casella. Pirro DeLucadettò per lui questa iscrizione: A — Domenico Giannattasio —salernitano — nell’avvocatura — ne’ magistrati —nell’amore del sapere — della libertà — dell’Italia —elei suoi — ammirabile — che l’11novembre 1869 — qui — raggiunse la madre poco innanzi sepolta.

(595)Vi era ancora nel febbraio 1858. Lafarina,Epistolario,lettere al Ricciardi del 28 marzo e successive.

(596)Biundi,DiGiuseppe Lafarina,vol. I, pag. 7.

(597)OLIVIERI,Ifratelli Fiutino,pag. 32.

(598)Archivio di Napoli,ministero esteri, espulsi,fascio 8842. Il Bellelli andò a Marsiglia nel maggio del 1849.

(599) Guerritore, operacitata,pag. 87.

(600)Tra i pochi costituzionali, era Londra, nel dicembre 1860l’abbruzzeseGiuseppe De Vincenzi (Massari,letteradel Gioberti del 14 dicembre 1860, operacitata, pag.480). — D’Atala,operacitata,pag. 280.

(601)Riportatadal Guardione,Ildominio dei Borboni in Sicilia,vol. Il, pag. 88. Porta le sottoscrizioni del Mazzini, del Saffi,del Saliceti, del Sirtori, del Montecchi e di Cesare Agostini.

(602)Comandini,operacitata,80 settembre 1861.

(603)Guerritore,operacitata,

(604)Il D'Ayala,Memorie,pag. 230, dice che erano un centinaio. Lo Sprovieri, nel librocitato, dice settecento, cifra che parmi esagerata.

(605)Il D'Ayala,Memorie,pag. 230, dice che erano un centinaio. Lo Sprovieri, nel librocitato, dice settecento, cifra che parmi esagerata.

(606)Scritto di F. Cordova su Buggero Settimo. — Rivista IlC imento,1852, vol. Il, pag. 321.

(607)Villari Raffaele, Cospirazionee rivolta, p a g.392-93— TREVELYAN,operacitata,pag. 191.

(608)Cap. 5° di questo volume.

(609)Archivio di Napoli, prefettura di polizia,incartamento 4261, fascio 476, vol. IX, anno 1852.

(610)Archiviodi Napoli,ministero esteri, espulsi, fascio 8842. Un altro esule, VincenzoGiordano Orsini, andò da Malta in Turchia, prese parte a la guerradi Crimea e poi fu addetto a lo stato maggiore di Lord Reacleandquale delegato del governo ottomano. (Tonano, NuovaAntologiadel 16 giugno 1810).

(611)Archiviodi Napoli,ministero esteri, espulsi,fascio 8869.

(612)Archiviodi Napoli,ministero esteri, espulsi,fascio 8869.

(613)Archivio di Napoli,ministero esteri, espulsi,fascicolo 8866.

(614)Settembrini, Ricordan z e,vol. 2°, pag. 226. Le lettere del D’Avossa trovansi presso labiblioteca nel museo di S. Martino in Napoli, vol. n. 892dell’inventario.

(615)Il D’Avossa mori di tifo il 21 aprile 1868 nella sua casa alpalazzo Rossi (ora Bruno) a piazza Dante. feretro fu portato fino ala chiesa di S. Maria Verteccelie, per cura del Pironti sopraintendente di quello stabilimento,trasportato il 24 successivo nel camposanto.Ale esequie intervennero gran numero di cittadini e le autorità,specialmente la magistratura ed il foro. (Giornaledi Napoli,23 aprile 1868). Fu commemorato al Senato il 3 giugno seguente, dalpresidente.

(616)D'Ayala, Memorie,pag. 160 e 208.

(617)TOFANO, Letteracitata, pag. 105. A premura dello Scialoia e di altri amici andònel 1856 a stabilirsi a Torino. Il Mancini gli offri generosamentecolà la sua casa e la sua mensa. (Ivi).

(618) Tofano, ivi.

(619)Archivio di Napoli,ministero esteri, consolato di Genova, affaridiversi,fase. 2648.

(620) D'Ayala,op. cit.,pag. 273.

(621)Il D'Ayala(op. cit.,pag. 230) calcola gli esuli a Genova ed a Torino in trecento.

(622) CAPOLINI, Memorie,cap.4°.

(623)Ebbe il portafoglio dell’agricoltura nell’ottobre 1850, lapresidenza del consiglio il 4 novembre 1852.

(624)D'Ayala(op. cit., pag. 231).

(625)Passò tutto il periodo dal 1849 al 1860 prima a Parigi, poi aTorino, da ultimo a Nizza (F. Bertoldi,operacitata. pag.715 NuovaAntologiadel 1889).

(626)Erano in quell’epoca a Nizza anche il Cuccchiari ed il Cialdini (Cabrano, opera citata, pag. 229).

(627) Guardione, CarloGemelli.

(628)Comandini,operacitata,22 giugno 1850 — Archiviodi Stato di Napoli,atti del consolato di Genova, affari diversi fascio 2645.

(629)Nei manoscritti della biblioteca nazionale di Roma trovansi moltelettere dell’Abignenti relative a l’incarico da lui tenuto.

(630) Comandini, operacitata,11 luglio 1850.

(631)Archivio id.,ivi, fase. 2646. Il D'Ayala dice il Giura morto nel 1858, ma ritengopiù sicura la notizia del console napoletano.

(632) D'Ayala, Memorie,pag. 213 — Cabrano,operacitata, pag.229.

(633)D'Ayala, Memorie,pag. 265. Allude a suo fratello il gen. Florestano Pepe.

(634) Comandini, operacitata, 19 marzo 1852.

(635)Accennano a questa preferenza per Genova il Cadolini nelle Memorie,ed il Loero nella bella conferenza «Gli emigrati politici inGenova».

(636)Carlo Mezzacapo da Venezia era andato a Genova per via di terra ecolà chiamò suo fratello Luigi rifugiatosi a Malta dopo lacapitolazione di Roma. I due fratelli si stabilirono nei primi del1858 a Torino. — FerrarelliG., Ilgen. Luigi Mezzacapo ed i suoi tempi —Pìsci Ugo, Ilgen, Carlo Mezzacapo ed U suo tempo.

(637)Capitolo5°.

(638)Archivio di Napoli,carte dal 1848 al 1850; fascio 818, n. 7852, lettera del ministerodegli esteri del 15 giugno 1852.

(639)Verdoliva ottenne il rimpatrio il 25 gennaio 1860.

(640)Carducci,vol. I, cap. 8 Il Mambrini era a Genova fin dal giugno 1852. Nelfebbraio del 1855 ottenne di tornare in Napoli, ove esercitòl’avvocatura sempre però vigilato da la polizia.

(641)Mori in Genova il 1856.

(642)Luigi Conforti, Ricordied arringhe celebri di Raffaele Conforti,pag. 99; DeGubernatisAngelo, Ricordibiografici,pag. 815.

(643)L’Angherà ha narrato egli stesso il sorprendente avvenimento inun opuscolo intitolato: Fugadalle prigioni di Napoli di Francesco Angherà,Genova, tip. Moretti, MDOCCLXII.

(644)Ivi, pag. 44. L’Angherà fu poi condannato a morte in contumaciada la Gran Corte speciale di Catanzaro nel 5 febbraio 1862.

(645)Archiviodi Napoli,ministero esteri, consolato di Genova, affari diversi, fascio 2646.

(646)LoeroAttili, G li emigrati politici in Genova,Bologna, Zanichelli, 1911, pag. Il e seguenti.

(647)Il Loero,nellaconferenzacitatapubblica i nomi di tutti i soci.

(648)Cadolini,operacitata,cap.4».

(649)D'Ayala,operacitata,pag. 210.

(650)Il Cordova partito da Palermo, il 21 aprile 1848 approdò aMarsiglia e nel luglio si stabili a Torino (Cordova,operacitata),

(651)Con nomina del dicembre 1850. Inaugurò il suo corso il 21 gennaio1851 (Comandini, operacitata).

(652)Cordova, librocitato,pag. 89.

(653)Lo Scialoia fu eletto il 23 agosto 1853 deputato per il collegio diTrino; ma reiezione fu annullata il 15 novembre successivo stantel’ufficio che occupava. (Attiparlamentari,15 novembre 1853).

(654)Guardione, Ilgen, Enrico Cosenz,pag. 27. Il Cosenz era stato prima a Genova.

(655)Guardione, CarloGemelli,Verona, Kaiser 1881.

(656)Amante, Unmagistrato, un ministro, un professore, pag.68. Il De Meis era fuggito a Genova su la nave inglese Oberon.Fecea Torino il ripetitore, a Parigi il reporterdi un giornale. Tornò a Torino nel 1853.

(657)Marietta Campo, Vitapolitica della famiglia Campo dal 1848 al 1860.

(658)Abitavano al terzo piano dello stesso palazzo del Mancini. «La serascrive il Pesci scendevano abitualmente in casa Mancini e talvolta,mentre nella vasta sala si cantavano le canzonette napoletane, in unangolo della sala da pranzo Giuseppe Pisanelli, il Cosenz ed ilMezzacapo discutevano con altri di politica e sostenevano lanecessità di una lega nazionale per combattere il Mazzini ed irepubblicani» (Pasci, operacitata, p&g. 55).

(659)Carducci,vol. 2°, cap. 8°.

(660)GRAZIA PIERANTONI MANCINI, Impressionie ricordi,

(661)Lettera del Gioberti a Massari del 14 dicembre 1880 (Massari, operacitata,pag. 480).

(662)Conforti, librocitato,pag. 108.

(663)Archivio di Napoli,ministero esteri, espulsi,fascio 8842.

(664)Archivio di Napoli,ministero esteri, affari diversi, consolato di Genova, fascio 2646.

(665)Archiviodi Napoli,ministero esteri, espulsi,fascio 8867.

(666)Nel 1860 il Del Re venne eletto deputato dal collegio di Gioia delColle. La Camera annullò reiezione nella seduta del 10 aprile 1861perché reietto era allora direttore della stamperia reale inNapoli. Il Massari, che riferì su reiezione, disse: «reietto èuno dei più chiari letterati e dei più distinti patrioti diNapoli». Il Del Re mori in Firenze il di 11 novembre 1865. Locommemorarono degnamente a la Camera il Massari ed il Ricciardi.Vittoria Del Re mori in Napoli il 29 agosto 1868.

(667)Comandini, 28 novembre 1852. Massari,Carteggiobiografico diF. Gioberti.

(668) D'Ayala, op.cit.,pag. 229.

(669)AMANTE, librocitato,pag. 68.

(670)Comandini, operacitata,detto giorno.

(671)La commemorazione ebbe luogo nella chiesa di S. Francesco in Torino.

(672)Il Cabrano,Vitadi G, Pepe,pag. 236. Il Corrano cita, tra coloro che assistevano l’infermo,un Oliva che pure era stato in quella difesa ed il gen. TeodoroLechi.

(673)Il colloquio avvenne il 2 novembre 1849. È raccontato da FilippoCordova in una lettera al nipote Vincenzo (VincenzoCordova, Ricordidella vita di Filippo Cordova,pag. 65, e dal Massarinella Vitadi V. E.,vol.1°, pag. 125.

(674)Opinionedell’11agosto 1855, n. 219. — LaFarina, Epistolario,lettera del 16 agosto 1855. — Cabrano,Onoranzefunebri a Guglielmo Pepe. — D'Ayala,Memorie,pag.279.

(675)Chiala,Letteredi Cavour,vol. 9°, pag. 60 e 51.

(676)De Cesare G, Lavita, i tempi e le opere di Antonio Sciatoria pag.100.

(678)Settembrini, Scrittiinediti.

(679)JessieWhite Mario, AgostinoBertani e i suoi tempi,pag. 195. Il Mazzini, il Saffi, il Quadrio e ¡’Agostini avevanopoco tempo prima diretto, a gli italiani, in nome del Comitatonazionale, un manifesto violentissimo, che esortava a la rivolta e ala guerra a coltello. È trascritto nella GazzettaPiemontesedel 10 febbraio 1853.

(680)BianchiN., Storiadella diplomazia europea in Italiavol. VII, pag. 97.

(681)BianchiN., Storiadella diplomazia europea in Italiavol. VII, pag. 97.

(682)Il Giornaleufficiale del regnodel 10 febbraio 1853, n. 85, dice: il governo decretò quest’oggil’immediata espulsione di quei pochi emigrati che abusaronodell’ospitalità ricevuta.

(683) Lacecilia, Memoriedal 1820 al 1816. Eglisi rifugiò in Svizzera.

(684)Arrivarono a Nizza il 21 febbraio e proseguirono per Villafranca.

(685) Crispi, IMille,pag. 17. Il Crispi andò a Malta, donde venne espulso nel 18dicembre 1854; quindi a Londra, poi nel 1856 a Parigi ove fuparimenti espulso dopo l’attentato Orsini.

(686) Comandini, operacitata,1° maggio 1853.

(687)Comandini,operacitata,date corrispondenti.

(688)Comandini,operacitata,date corrispondenti.

(689)Comandini,operacitata,date corrispondenti.

(690)Comandini,operacitata,date corrispondenti.

(691)Comandini,operacitata,date corrispondenti.

(692)Comandini,ivi.

(693)Comandini,ivi.

(694)Operacitata,pag. 194.

(695)Opera citata,pag. 827.

(696)La Farina, Epistolario,voi.!, pag. 544.

(697) De Sivo, operacitata,vol.1°, pag. 418.

(698) La Farina, Epistolario,vol. 1°, pag. 544.

(699)LaFarina,ivi, pag. 547.

(700)Giornale I l Siècledel 20 settembre 1855. — MAINERI,operacitata,pag. 440.

(701)Il Diritto,anno 1855, n. 327.

(702)Il Diritto,n. 281.

(703)Il Diritto,n. 284.

(704)Pubblicato senza indicazione della tipografia. Torino, 1855. Pressola biblioteca V. E. di Roma vi è una edizione del 12 ottobre 1856;forse fu una seconda edizione.

(705)LaFarina, Epistolario,vol. 1°, pag. 567.

(706)N. 287 del 1885.

(707)BUINDI, op.cit.,pag. 827.

(708) Cosi li indica il PupinoCarbonellinel suo libro NicolaMignogna,pag. 162, insieme con i Romeo, Francesco Stocco e Giuseppe Moocia.Anche il La Farina indica alcuni di essi.

(709) La Farina, Epistolario,vol. 1°, pag. 566, lettera a Ricciardi del 81 ottobre 1855.

(710) D’Ayala, operaaccennata,pag. 228.

(711)LaFarina, operacitata,pag. 22. — Buindi,operacitata,pag. 847.

(712)LaFarina, operacitata,pag. 22. — Buindi,operacitata,pag. 847.

(713)Chiala, Letteredi Cavour,vol. 8», n. 144.

(714)Chiala,ivi, pag. 296 — BianchiNicomede, Lapolitica del conte di Cavour,pag. 107. Castelli,Carteggiopolitico,vol.1°,pag. 865.

(715)Chiala,vol. 2°, lettera n. CCCCLXII, del 5 settembre 1856, pag. 457.

(716) Lettera a i suoi elettori,pag. 101.

(717)Chiala, operacitata,vol. 2°, pag. 480.

(718)Nisco, operacitata,pag. 342. — Castromediano,volume 2°,pag. 37 e 38, non indica il tempo in cui ciò avvenne. IlSettembrininelle Ricordanzeaccenna l’avversione a la candidatura del Murat, ma non ad alcunainterrogatone degli esuli in proposito.

(719)La pratiche per la restaurazione murattista furono attivissime IlD’Ayala narra nelle sue Memoriea pagina 223 che il Saliceti mandò a Napoli Giuseppe Moccia perpreparare una insurrezione a l’arrivo delle squadre francese edinglese. Molti proclami furono diffusi nel regno di Napoli incitandol’esercito a scacciare il Borbone e a proclamare il Murat. Ilgiornale LaCorrispondenza Italianapubblicò in Torino il 14 marzo 1857 uno di tali manifesti.

(720)Rapporto del regio incaricato di affari a Torino, del 20 dicembre1856, al governo napoletano pubblicato dal Guardione,operacitata,vol. 2°, pag. 100.

(721)Ivi.

(722)D’Ayala,operacitata,pag. 232.

(723)D’Ayala,operacitata,pag. 232.

(724)LAURA DEATRIO E OLIVA, Patriaed Amore: Canti Urici, —I versi del Del Refurono stampati a Torino senza indicazione di tipografia. — Versidi Paolo Emilio Imbriani.

(725) Dirigeva il giornale in Genova Bartolomeo Savi. Lo scrivevano inmassima parte Maurizio Quadrio ed Alberto Mario.

(726)De Sivo, operacitata,vol. 1°, pag. 459.

(727)D’Ayala, operacitata,pag. 233.

(728)Comandini operacitata, 24 luglio 1857.

(729)Pallavicini, Memorie,vol.3°, pag. 130. Il Manin mandò la dichiarazione al Valerio perinserirla nel Dritto.

(730)La Farina, Epistolario,vol. 2°, pag. 20.

(731)SALAZARO, operacitata, pag. 11.

(732)MAINERI,operacitata,pag. 292, lettera del Pallavicino al Manin 7 aprile 1857. —Pallavicino,Memorie,volume 3°, pag. 384.

(733)Guardione,nel suo libro: Ilgenerale Enrico Cosenz,riferisce, a pag. 28 e seguenti, due lettere del Cosenz alPallavicino.

(734)CIAMPOLI, Scrittipolitici e militari di G. Garibaldi pag.76.

(735)Pallavicino, Memorie,vol. 3°, pag. 269. — Ciampoli,G. Garibaldi,scritti politici e militari,pag. 77.

(736)MAINERI, operacitata,pag. 172. — Pallavicino,Memorie,vol. 8°, pag. 295.

(737)LaFarina,proemio a l'Epistolario,pag. LXXIII.

(738)La Farina, Epistolario,vol. 2°, pag. 56. Un mese dopo il 22 settembre moriva in Parigi ilManin in età di 53 anni. Il Tommaseo, il Tecchio e Carlo Mezzacapopromossero in Torino una sottoscrizione per onorarne la memoria.

(739)Die Sivo, operacitata,pag. 464. Questo scrittore dice che la Società comprese da primanovantaquattro persone.

(740)La Farina, Epistolario,vol. 1°, pag. 56.

(741)Nisco, operacitata,pag. 324.

(742)LaFarina, Epistolario,vol. 1°, pag. 40.

(743) Il La Farina scriveva da Torino, il 6 agosto 1856, al Ricciardi:«Lenotizie che mi giungono da Napoli e Sicilia mi fanno presagireprossima una rivoluzione gagliarda»(Epistolario,vol. 2°, pag. 18). Anche il Mordini scriveva, nel 1857, al Fabriziche si avevano buone notizie da Napoli (Rivistadi Roma,anno 2°, fase. 30).

(744) Nisco, operacitata,pag. 350.

(745) De Sivo, operacitata,pag. 429.

(746)White Mario, operacitata,vol. 1°, pag. 224. — Maineri,operacitata,pag.

(747)Capolini, operacitata,pag. 267.

(748)White Mario,ivi, pag. 225. Il Pilo, in una lettera scritta da Genova il 20gennaio 1857 a Fabrizi, accenna a raccolta di danaro, di munizioni edi fucili Rivistadi Roma,anno 2°, fase. 14.

(749)L'ultimonumero usci nel febbraio 1857.

(750)Nisco, operacitata,pag. 851.

(751)White Mario, operacitata,pag. 234.

(752)White Mario,ivi, pag. 242. Il Medici scriveva il 20 settembre 1856 da Genova aGaribaldi contro i preparativi mazziniani per un altro tentativorivoluzionario (Comandini,operacitata,detto giorno).

(753)Giovanni Carducci, fratello di Costabile, trucidato per opera delprete Peluso, nel 5 luglio 1848 in Acquafredda.

(754)Lettera del 4 agosto 1857, Rivistadi Roma,anno 2°, fase. 85.

(755)WhiteMario, Inmemoria di Giovanni Nicotera — Bilotti,Laspedizione di Sapri,pag. 426.

(756)Pierantoni Mancini, librocitato. — WhiteMario, librocitato,pag. 3. Il Nicotera aveva lasciato in Torino la giovine, che amava,Gaetana Poerio, figlia del generale Raffaele Poerio, la quale poisposò dopo il 1860. Egli aveva assistito nell’ultima malattia ilPoerio a Torino.

(757)Il lavoro più completo su questo splendido tema è quello delBilotti, giù citato.

(758)PaolucciG., RosolinoPilo, Memorie e documenti dal 1857 al 1860 (Archivio storicosiciliano,anno 24, pagina 223).

(759)Comandini,operacitata,date corrispondenti.

(760)Arrestata il 3 luglio e condotta nel carcere di S. Andrea (opera diessa citata, pag. 244) la Mario fu poi, in seguito ad ordinanza delmagistrato del 18 novembre, messa in libertà.

(761)White Mario, operacitata,pag. 244. Vi furono, per erronee informazioni dei governatori,sfratti ingiustificati. La stampa amica del governo ed il governostesso riconobbero l’errore.

(762) D’Ayala, operacitata,pag. 236.

(763) White Mario,ivi, pag. 25. — D’Ayala,operacitata, pag.237.

(764)D’Ayala, operacitata,pag. 246. —La Farina, Epistolario,vol. 2°, pag. 112, lettera dell’11gennaio 1859 —Cabrano, L’Italiadal 1789 al 1870,voi 4°, pag. 288.

(765)Vita di V. E,,vol. 1°, pag. 866.

(766)WhiteMario, operacitatapag. 818.

(767)Lettera citata,pag. 159.

(768)Non si comprende a quale causa alluda.

(769)Il secondo era comandato dal Medici.

(770)Il Mollica andò poi come chirurgo maggiore nell’esercitodell’Emilia.

(771)Si dimise il 30 giugno 1860 per raggiungere Garibaldi in Sicilia(opuscolo dell’Angherà precedentemente citato, seconda edizione,Napoli, tip. Prete, 1867).

(772)Decreto reale 25 aprile 1860. L’Ulloa ebbe poi l’incarico diorganizzare l’esercito toscano.

(773)DELA VARENNES, Les chasseurs desAlpes et des Apennins.

(774)DELA VARENNES, Les chasseurs desAlpes et des Apennins.

(775)Suo stato di servizio.

(776)Gli esuli napoletani e siciliani in Toscana fecero unasottoscrizione a beneficio del secondo corpo di armata dell’Italiacentrale e mandarono la somma a Firenze. Erano sottoscritti Tupputi,Bellelli, Vincenzo Dono, De Blasiis ed altri (Opinionedel 5 giugno 1859).

(777)Il Canofari ministro napoletano a Torino comunicò la neutralità algoverno sardo con nota del 4 maggio 1859.

(778)Questa alleanza si desiderava vivamente da molti emigratinapoletani. Uno di essi, il duca di San Donato aveva scritto il 16aprile 1859 a Francesco, allora principe ereditario di Napoli,esortandolo ad adoperarsi per l’alleanza con il regno di Sardegnanella guerra di indipendenza. Il Guardionepubblica la lettera del duca nel suo lavoro IIDominio dei Borboni,ecc. vol. 2°, pagina 122.

(779)La vita, i tempi e le opere di Antonio Scialoia, pag.106 — Massari,Vitadi V. E.,vol. 2°, pag. 27.

(780)Lettere ad Antonio Panizzi,pag. 812.

(781)Questo indirizzo è presso di me. Duolmidi ignorare le risposte degli esuli stabiliti in altre città.

(782)Panizzi, Lettere,pag. 814.

(783)Ivi, pag. 818.

(784)D’Ayala,operacitata,pag. 262. — Tofano,operacitata,pag. 152. Il D’Ayala aggiunge che lo Scialma esprimendo ilpensiero di Cavour aveva scritto a Napoli: «Raccoglietevi intornoal giovine principe».

(785)D’Ayala, operacitata,pag. 263.

(786)Lettera di B. Castiglia a Mainerò Maineri, operacitata,pag. 487.

(787)I giornali torinesi riportarono il 6 giugno la dichiarazione dineutralità pubblicata dal Giornaleufficiale delle Due Sicilie.

(788)D'Ayala,opera alala, pag. 268.

(789)Castromediano,opera citata,vol. 2°, pag. 186. — Archiviodi Napoli, espulsi,fascio 8878.

(790)Rapporto del medico curante dott. Salvati, fasci» suddetto.

(791)Napoletano.

(792)Nota del luogotenente del re in Sicilia al ministro degli esteri indata di Palermo 28 dicembre 1886 pubblicata dal Guardione,operacitata,vol. 2°,pag. 102.

(793)Da Sivo,operacitata,libro 14°, pag. 841. In Napoli seguirono nel 9 gennaio 1857 moltiarresti di liberali, tra cui Avitabile, Mascilli, Matina.

(794)Maineri, operacitata,pag. 249, lettera di Pallavicino a Manin del 10 dicembre 1856 —Pallavicino,Memorie,pag. 854.

(795)Gli esuli siciliani in Torino fecero celebrare il 12 gennaio 1857 unfunerale per il Bentivegna nella chiesa di S.Maria degli Angeli.

(796)Nota del Carata del 20 dicembre 1856, Guardione,IlDominio dei Borboni in Sicilia,pag. 162.

(797)Il Bilotti,nel lavoro più volte citato, pag. 57 e seguenti, dà interessantinotizie su l’opera del console Garrone a Genova.

(798)Archivio di Napoli,ministero degli esteri, consolato di Genova, fascio 2650.

(799)Ivi, consolato di Genova, fascio 2650.

(800)Del Giudice, Ifratelli Poerio,pag. 57 — RaffaeleDe Cesare, SilvioSpaventa ed i suoi tempi, NuovaAntologia, luglio 1893. Lo Spaventa andò a Firenze per intendersi atale oggetto con gli emigrati napoletani in Toscana, ma giunto aBologna seppe l’arrestodi Garibaldi alla Cattolica e tornò indietro.

(801)Crispi, operacitata,pag. 81.

(802)Paolucci, RosolinoPilo,pag. 210.

(803)Prof. LuigiNazari. Ilracconto è riprodotto nel pregevole lavoro di sua figlia IdaNazariMicheliintitolato: Cavoure Garibaldi nel 1860, cronistoria documentata,pag. 70, Roma, Tip. Cooperativa Sociale, 1911.

(804)Il Magenta coadiuvò poi di intesa con il Cavour a far trasportarele armi necessarie a la spedizione da la stazione di Genova a VillaSpinola (Trevelyan,Garibaldie i Mille,pag. 238).

(805)Il comitato si sciolse il 6 giugno del 1860. Con lettera dellostesso dì, pubblicata nel giornale genovese IIMovimentodue dei componenti del comitato, il Ricciardi ed il Mazziotti reseroconto del denaro raccolto e delle spese erogate.

(806)Chiala,operacitatavol. IV, pag. CX.

(807)Chiala,operacitatavol. IV, pag. CX.

(808)Nota del cav. Carata al governo napoletano, del 30 aprile 1860,pubblicata dal Guardione,operacitata, pag.237.

(809)Il Salazaro,operacitata,dice che degli ottantaquattro presenti solo quattro dissentirono.

(810)Verbale pubblicato da GiovanniOlivieri, IFiutino nel risorgimento nazionale,pag. 103. Il Salazaro aggiunge Platino, Imbriani, Stocco.

(811)Notedi Salvatore Calvino su la spedizione dei Mille —pubblicate dal Guardione — operacitata,pag. 884.

(812) La Farina, epistolario,vol. 1°, pag. 432.

(813) Trevelyan,operacitata,pag. 256.

(814) PalamenghiCrispi, IMille.

(815)Elenco dei Mille,pubblicato nel supplemento a la Gazzettaufficiale del Regnodel 12 novembre 1878.

(816)In questo stesso volume, cap. 8°.

(817)Relazione pubblicata nell'opuscolo di Benedetto

(818)Giordano «Uncospiratore at e nate»,pag. 37.

(819)Opuscolo indicato.

(820)Accenna a lui anche il libro di MicheleLacava Storiadi Atena Lucana,Il D’Ayala scrisse su la morte del Pessolani nel giornale «ilPungolo». Aveva sessantanove anni essendo nato in Sala Consilina daVincenzo Pessolani ed Angela Vecchio, il 27 marzo 1806.

(821)Carducciin tutti e due i volumi.

(822)Giornale ufficiale di Napolidel 28 settembre 1860

(823)Cap. 1°, pag. 20.

(824)Da una lettera di Leonino Vinciprova, uno dei Mille, la quale èpresso di me.

(825)Menghini, Laspedizione garibaldina,pag. 99.

(826)Prefettura di polizia, anno 1809, fascio 806, incart. 37, vol. 148,parte 1.

(827)Il Vitagliano fa nel 1860 tenente nella guardia nazionale del suopaese. Il 10 aprile 1863 venne trucidato da ignoti malfattori lungola via che da le Mattine conduce ad Ogliastro. (Incartamento deidanneggiati politici napoletani n. 57066 presso il Ministerodell’interno).

(828)Era compreso nel decreto relativo al Poerio ed a gli altri, ma nonpotette allora partire dal bagno di Monte sarchio perché infermo.

(829)Ministeriale dei LL. PP. del 22 febbraio, archiviodi Napoli,Ministero di giustizia.

(830)Archiviodi Napoli,ivi, fascio 50 Il Picone, il Ferolla, il Ginnari, il Pastore eranoal bagno di Procida,il Barone, ed il Capozzoli nel castello di Montesarchio.

(831)Tale ordine fu dato dal re con lettera del maggiore AgostinoSeverino del 22 febbraio.

(832)Adriano Nisco, Ricordibiograficidi NicolaNisco, pag.180 e seguente.

(833)Castromediano, operacitato,vol. 2°, pag. 144.

(834)Lettera esistente presso la famiglia Pironti e da essa gentilmentecomunicatami.

(835)Giornale delle Due Sic iliedel 9 luglio 1859 Il Mandarini era stato destinato a Salerno pochigiorni prima, cioè il 9 giugno.

(836)Giornale delle due Siciliedello stesso giorno.

(837)Il decreto 28 dicembre 1858 aveva, come ho detto nel cap. 14°,commutato la pena dei ferri in quella dell’esilio al Poerio e adaltri novanta condannati. L'altro decreto del 18 marzo 1859conteneva, come ho narrato in questo stesso capitolo, egualeprovvedimento per altri cinquantotto rei di Stato.

(838)Ministeriale del 7 luglio 1859, N. 2969, che ordinava, laliberazione del Pironti.

(839)Pubblicato nel Giornaledelle due Siciliedel 25 giugno 1859.

(840)Opera citata,vol. 1°, libro XVI, paragrafo 24.

(841)Archiviodi NapoliMinistero esteri, espulsi, fascio 3873. Dopo il 1860, per darglimodo di sostentare la vita fu impiegato, nonostante la sua età,nelle poste. Mori nel 3 luglio 1868 in Napoli nella sezione di S.Ferdinando, lasciando la vedova Carolina Cuttica, una figlia a nomeFrancesca, maritata ad Antonio Ferrante di Salerno, modesto operaio,ed un’altra figlia a nome Maria, vedova di Giovanni Di Bella diSassano.

(842)Ricordi d el Nisco,precedentemente citati, pag. 140.

(843)Come è noto, con decreto reale del I(o)luglio1860 si richiamò in vigore lo Statuto del 1848 e si formarono icollegi elettorali per la nomina dei deputati.

(844)Giornalecostituzionale delle Due Siciliedel 2 luglio 1860, n. 143.

(845)Il DeSivoindica, tra coloro che nel 1856 ebbero facoltà di tornare inpatria, Carlo Pisacane che non profittò del permesso e morì poi aSanza, opera citata,vol. I, pag. 420.

(846)Il 12luglio 1860 partirono per Torino, per trattare raccordo, gli inviatinapoletani Winspeare e Manna.

(847)Il Cavour scriveva infatti al Lafarina il 14 agosto del 1860 diritenere certa la guerra con l'Austria ed in una lettera successivasoggiungeva: «sessantamila austriaci stanno per passare le Alpi». Lafarina,Epistolario,vol. Il,pag. 416.

(848)Atti parlamentari,seduta del 29 giugno 1860.

(849)Nisco, FrancescoII,pag. 65. Lo scritto del Settembrini è riferito integralmente dalSalazaro,operacitata,pag. 41.

(850)Questi timori manifestava, tra gli altri, Bertrando Spaventa, alloraa Bologna, per suo fratello Silvio in una lettera dell’8 luglio1860. Croce,operacitata,pag. 291.

(851)Croch, operacitata,pag. 292. Un decreto reale del 1° luglio 1860 convocava ilParlamento pel 10 settembre 1860.

(852)N. Bianchi,Lapolitique du comte de Cavour,pag. 870-871—Chiala,Letteredi Cavour.

(853)D’Ayala, Memorie,pag. 282284. Così pure pensava Silvio Spaventa (Croce,op. cit,lettera dell’8luglio).

(854)Tofano, Letteraa gli ele ttoridi Cesena ed A irol adel18 gennaio 1861. Il Tofano, portato in quei due collegi, risultòeletto nel secondo di essi.

(855)Arrivi del 9 luglio da Genova (Giornalecostituzionale delle Due Siciliedell’11successivo). Segno in corsivo i nomi degli esuli appartenenti a laprovincia di Salerno.

(856)Giornalecostituzionale del regno delle Due Sicilie del19 luglio 1800, n. 155.

(857)Giornale indicato.

(858)Idem del 26.

(859) Tornò a 8. Cipriano suo paese nativo e vi mori il 4 giugno 1871.

(860)A Teggianosua patria vivono i figli di suo fratello Vincenzo.

(861)Pierantoni Mancini Grazia, Impressionie ricordi, pag.170. — Non designa che quei tre nomi. Nel Giornaledelle due Sicilienon sono indicati gli arrivi di quel giorno.

(862)DeCesare, Lafine di un Regno,vol. 2°, pag. 264. Il D’Ayala nelle Memorienarra la dimostrazione fatta il 23 luglio a l’arrivo suo e deisuoi compagni.

(863)Moti della Basilicata e delle provincie contermini, 2edizione, pag. 111.

(864)Memorie,pag. 816.

(865)Questa lettera come molte altre dei galeotti politici napoletani,furono copiate da una gentile giovinetta, di animo nobilmentevirile, figlia di Ferdinando Mascilli, di un patriota benemeritoingiustamente dimenticato. La famiglia Mascillimandava le lettere al Wroford corrispondente del Timer, che permezzo della ambasciata inglese le inviava al Gladstone per leggerleal Parlamento britannico. L’ardita giovane sposò dopo il 1860Michele Pironti.

(866)Il senso non è chiaro, forse manca qualche parola.



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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















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