Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024) |
PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO |
R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLALIGURIAANNO XIV 1938 |
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Milano, Soc. Ed. D. Alighieri; Albrighi e Segati, 1937.
Se per la folla di coloro tutti, grandi e piccoli, potenti ed umili, nobili e popolani, che nell’età del Risorgimento, con la penna o con la spada, con forza di pensiero nutrito di coltura o con animo innamorato del giusto, molto o anche poco, perché il più era impossibile, fecero per l’Italia, sentiamo ammirazione affetto gratitudine, più simpaticamente ci sentiamo attratti da quelli, che nell’azione propria furono guidati da spontanee doti capaci di puramente elevare e nobilitare la natura umana. Sono essi, inconsciamente, i maestri più autorevoli, perché ognuno non cattivo ne può diventar discepolo, purché credente nella verità che gli ideali più elevati hanno pure in sé qualcosa di necessario agli uomini. Abbiamo detto maestri, ed essi lo sono tanto più, quando, come il Pisacane, all’amore in tali ideali associano la fede proprio nell’efficacia della educazione.
Il Pisacane ha una natura ardentissima d’amore: ciò che gli è caro, e per cui nessun altro può vantare diritti fondati sull’equità, e che può fare la felicità o sua propria o d’altrui, deve trionfare. Deve trionfare l’amore per la donna da lui amata contro ogni ingiusta prepotenza che offende le più sante leggi della natura, anche se protetta da false convenzioni umane; deve trionfare la libertà nella terra dove si è nati, né alcuno ha il diritto di limitarla, o d’offendere i sentimenti di coloro a cui tale terra appartiene. Pel Pisacane questa terra è Napoli, è l’Italia, e poiché tutti gli uomini hanno il diritto al trionfo della giustizia, è il mondo politico del tempo.
L’Italia deve risorgere, l’Italia è capace di farlo con forze proprie, e risorgerà. «.... Tutti quei cittadini che s’intendono di guerra, sono tutti di accordo che l’Italia non deve fidarsi in nessun aiuto straniero: che l’Italia deve e può far la guerra a' suoi nemici e vincere; che l’Italia dev’essere la prima a dare il segnale della rivoluzione, e poi seguiranno gli altri popoli. La quistione è di scegliere il punto ove cominciare: questo punto dev’essere il più lontano dagli eserciti stranieri, il più forte per popolazione, il più che possiede mezzi militari appena rovesciato il governo: questo punto lo vedono anche i ciechi, è Napoli» (ad un ignoto, luglio o agosto 1852).
È naturale che nell’amore vasto e grande per l’Italia, un palpito di particolare intensità fosse per la piccola patria, ed è naturale che a riguardo di essa cerchi di togliere ogni credenza che l’offenda. Gelosissimo dell’onore e della dignità propria vuol salvare anche il buon nome dei suoi concittadini, e scrive al Fanelli: «.... sappiate che non vi è angolo d’Europa e direi del mondo, che non conosce le nefandezze di questo governo e, quel che è peggio, incolpano noi napoletani di una codarda pazienza» (19 febbraio 1856).
Ma ancora quando è alfiere del Corpo reale del genio nell’esercito borbonico, nel 1844, mostrando già di saper dare alle nozioni tecniche e particolari un’ampia e salda base con considerazioni e riflessioni in campo più generale, scrive a Carlo Filangieri: «Coloro i quali senza rimontare alle cause, si fermano alle prime impressioni, giudicano i napoletani non buoni soldati, altri per contrastare quest’idea cercano richiamare alla memoria le antiche gesta dei nostri antenati ricorrendo ad epoche assai remote. Ma parmi che tanto gli uni come gli altri cadano in errore: il valore come tutte le altre virtù spirituali, non è certamente ereditario, ma è figlio dell’educazione: e perciò, secondo i tempi, vediamo le nazioni ora fiorenti ora cadere nell’ignominia.».
«Centomila uomini in armi alla nostra frontiera fanno testa a duecentomila invasori».
E tale fede nell’efficacia dell’educazione lo sosterrà fino all’estremo tentativo suo.
Poiché in lui l’amore alla milizia, se fu pur portato dall’inizio della carriera sua nell’esercito napoletano, venne poi a fondersi con la necessità del trionfo degli ideali che arsero nell’animo suo. Si veda con quali parole si rivolge ai suoi antichi commilitoni:
«Noi vogliamo combattere per una ragione che ci commuove ed accende, e però pessimi soldati regi, siamo fatti per essere invincibili soldati della libertà» (ottobre 1815).
«Combattere per ubbidienza è la più degradante delle azioni, vi rende simili al mastino che al grido del padrone azzanna la preda. Chi deve spendere la propria vita in difesa di una causa, ha il diritto di giudicarne, discuterne, prima di decidersi in suo favore. I romani, primi guerrieri del mondo, discutevano da cittadini in piazza sull’utilità e la giustizia della guerra da intraprendersi, quindi trasformati in militi combattevano. Essi furono, sono e saranno per noi e pei posteri esempio di militar disciplina».
E si veda anche il principio di una lettera d’istruzione da lui come Capo di Stato Maggiore inviata al colonnello Mezzacapo il 25 aprile dei 1849, in un’ora di epico risveglio di sentimenti patri e d’energia guerresca, particolarmente forte perché comune a governo, a soldati ed a popolo, uniti e concordi. «Credo che Ella saprà essere sbarcati in Civitavecchia, ottomila francesi. Questa orribile violazione dev’essere punita. Se dobbiamo cedere alla forza bisogna cedere da forti. Roma, il Popolo, il Governo è animatissimo — il grido di guerra è unanime — la lotta va principiando».
Talvolta dalle lettere del Pisacane s’esplica una forza intima di difesa della coscienza propria quale esplicazione del diritto non diminuibile d’ogni individuo, che è capace di drizzarsi a difensore dei diritti di ciascuno.
Ed al fratello che voleva far passare per un successo per i borbonici la fazione di Velletri, scriveva il 18 settembre 1849:
«Del resto terminiamo a parlare di ciò. Io provo il bisogno di pensare liberamente, di parlare liberamente, di essere sicuro della mia libertà individuale, pronto ad impugnare la spada per l’Italia, onde arrivare ad un punto che il nome italiano sia apprezzato: odio gli stranieri, sono sempre per le leggi e pel popolo. Tu non provi tutti questi bisogni, senti solamente il bisogno di essere l’istrumento del più vile di tutti gli esseri.... basta, bando alla politica».
Ed ogni atteggiamento, che può sembrare affermazione di intransigente superiorità su altri, da qualunque parte venga lo urta e lo irrita; come manifestano alcuni periodi delle lettere sue al Cattaneo a proposito di Mazzini e dei Mazziniani «nemici della discussione e della critica»; ma quell’irritazione pare determinarsi principalmente per riflesso, poiché non è che nella corrispondenza col federalista milanese, e rivela nello stesso tempo, per gli anni in cui appare, il 1851 e il ’52, tutta la forza che ai patriotti italiani occorreva per nutrirsi di speranze e di fede. Ed infatti nella lettera del 31 luglio 1851 al Cattaneo confessava:
«Io sono pienamente d’accordo con voi che in Italia non siavi alcun’idea e concetto rivoluzionario tranne il desiderio di migliorare, ma io vedo nella plebe un elemento che potrebbe da un momento all’altro ingigantirsi, ed oltre a questo non veggo alcuna speranza». Ma quando viene preso da un bisogno irresistibile di azione, quando sente tutta la necessità di gettarsi subito nella lotta per affrontare e debellare, oltre il Borbone, murattisti e monarchici, allora si rivolge al Mazzini, lo vuole alleato, anzi consigliere, ne chiede aiuto, ne riconosce tutta la potenza morale. «Produrre un effetto magico pel nome lo potrebbe solo Mazzini....» (a G. Fanelli 16 aprile 1857).
Egli è riuscito a far rivolgere Mazzini verso il sud, ed a Nicola Fabrizi il 21 aprile 1857 scrive:
«La ragione principale dei nostri disaccordi è che Mazzini ed io vediamo la faccenda sotto un aspetto diverso da quello che lo vedi tu e Kilburn (G. Fanelli). Voi dite.... che bisogna preparare il terreno acciocché la riuscita di rivoluzione sia quasi certa; noi diciamo che la rivoluzione non dipende dagli uomini in particolare; né tu, né io, né alcuno al mondo è nella possibilità: (neanche Napoleone I con un esercito, il quale poteva conquistare il paese ma non già rivoluzionarlo). In questo mi trovo precisamente di accordo colla politica di Mazzini. L’ha egli stesso scritto a Kilburn nell’ultima che gli ho inviata col passato vapore: gli individui possono menare a termine una congiura, la quale sia la cagione che faccia divampare un fuoco latente quando vi è».
Il programma egli l’ha già tracciato con poche parole: «Il puro tricolore senza formule di sette; senza stemmi di municipio o di dinastie è riconosciuto dalle Alpi al Lilibeo, quella è la nostra bandiera, nessuno la rinnegherà (al Fanelli senza data ma del 1856).
S’è visto come il Pisacane scrivendo al Cattaneo dichiarasse l’unica speranza sua. in un ingigantirsi della plebe: in realtà il pensiero suo politico si associa a speranze di rivolgimento sociale, instauratoli di maggior giustizia: nell’Epistolario non si hanno che brevi tracce, come in altra lettera al Cattaneo del 9 luglio '52.
«Ilgerme della futura rivoluzione è nato in Francia, ed anche se le circostanze dessero ad un’altra nazione l’iniziativa materiale, la rivoluzione sarà sempre sociale, epperò francese».
Ma se nella mente sua la questione sociale confondevasi con quella politica, nell’azione, e l’Epistolario è, dirò così, tutta azione, prende esclusivamente posto la seconda.
Il Romano, riconosciuti i meriti dei suoi predecessori nella trattazione del tema, e particolarmente del Falco e del Rosselli, dichiara nella prefazione la cura posta nella ricerca diligente e continua di documenti riguardanti la vita del Pisacane e gli ultimi anni del regno di Ferdinando II: e di ciò benfa attestazione questo preziosissimo volume nel quale, con quelle già correttamente edite, sono numerose lettere o del tutto inedite, o pubblicate incomplete o scorrette. Note opportune e copiose spiegano particolari delle lettere. Seguono infine due appendici, di cui d’importanza grandissima la seconda, costituita dall’istrumento con cui la signora Rosa Morici Dragone, che per quattro giorni, due settimane prima della spedizione di Sapri, aveva ospitato il Pisacane, dà notizie intorno al Comitato segreto napoletano, ed alle cause del fallimento subitaneo dell’impresa. È novella luce che si diffonde su una pagina commovente ed istruttiva della nostra storia.
COSTANTINO PANIGADA
Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura! Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin) |
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