GLI AVVENIMENTI D’ITALIA DEL 1860CRONACHE POLITICO-MILITARI DALL’ OCCUPAZIONE DELLA SICILIA IN POI________________ VOLUME II. - 02A ________________ VENEZIA PREM. TIPOGRAFIA DI GIO. CECCHINI EDIT. 1861 |
I.
Sua Maestà Francesco II in Gaeta costituì il suo ministero. Eccone la composizione:
Presidente del Consiglio, ministro della guerra e ministro degli affari esterni ad, il generale Casella.
Ministro di grazia e giustizia e ministro dell’interno e poliziaad interim cav. Pietro Ulloa fratello del generale.
Ministro di finanza e ad interim dell’istruzione pubblica e de’ lavori pubblici, barone Carbonelii.
Ministro della marineria, il retro-ammiraglio del Re.
II.
L'armata regia napoletana, ai primi di settembre, era già riformata, riorganizzata e le sue forze erano ben superiori
a quanto comunemente si credeva. A Capua e a Gaeta, tra queste due città e nei villaggi delle montagne, vi erano circa 60, 000 uomini. Nell’8 settembre Capua e Gaeta erano già poste in serio stato di difesa. Il maresciallo Salzano comandava a Capua.
Si emanavano decreti che mettevano in istato di assedio le Provincie ov’era impegnata la lotta.
Il Re diresse alla sua armata il seguente proclama:
«Soldati,
» È tempo che, in mezzo alle vostre file, s’oda la voce del vostro Sovrano, di quel Sovrano, eh’ è cresciuto in mezzo a voi, e che, dopo avervi consacrato tutte le sue cure, ha finito col dividere oggi i vostri pericoli e la vostra sventura.
» Coloro che, illusi o sedotti, han gettato il Regno nelle calamità e nel duolo, non sono più tra voi. E sono io che vengo a fare appello al vostro onore, alla vostra fedeltà, alla ragione medesima, affinché voi cancellate l'onta della viltà, l’infamia del tradimento, con una serie di gloriosi combattimenti e nobili imprese.
» Noi siamo ancora in numero bastevole per affrontare un nemico, che non combatte con altre armi, tranne quelle della seduzione e dell’inganno. Sino ad oggi, io ho voluto risparmiare a molte città, e specialmente alla capitale, l'effusione del sangue e gli orrori della lotta; ma respinti sulle rive del Volturno e del Garigliano, vorremmo noi aggiungere nuove umiliazioni alla nostra qualità di soldati?
Permetterete voi che il vostro Sovrano cada dal trono per vostra colpa, e vi abbandoni ad una eterna infamia? No mai.
» In questo supremo momento, noi ci stringeremo tutti intorno alle nostre bandiere per difendere i nostri diritti, il nostro onore e il nome napoletano, già troppo avvilito; e se vi fossero ancora dei seduttori tra voi per additarvi l’esempio degl’infelici, che si sono dati vilmente al nemico,, voi non seguirete che quello dei prodi e valorosi soldati, che, legandosi alla sorte del loro Re Ferdinando II, raccolsero gli elogi di tutti, i beneficii e la gratitudine dello stesso monarca.
» Questo bell’esempio di fedeltà sia per voi argomento di generosa emulazione; e se il Dio degli eserciti protegge la nostra causa, voi potete anche sperare quello che, con diversa condotta, non otterreste giammai.
» Gaeta, 8 settembre.
» Francesco.»
III.
Nel 16 settembre il ministro segretario di Stato degli affari esteri napoletano fece la seguente comunicazione a tutt'i rappresentanti delle corti estere accreditate presso S. M. il re di Napoli:
«Continuando la carriera delle sue inaudite usurpazioni, il generale Garibaldi ha pubblicato, dopo la sua entrata nella città di Napoli, tra diverse disposizioni, tre decreti, sui quali il sottoscritto ministro della guerra, provvisoriamente
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incaricato del portafoglio degli affari esterni, ha l'onore di chiamare, per ordine del suo augusto Sovrano, l’attenzione, del signor... inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M.
» L’uno di tali decreti, in data del 7 dello andante, contiene testualmente le seguenti parole:
«Tutti i bastimenti da guerra o mercantili, appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali, materiali di marina, sono aggregati alla squadra del Re d’Italia, Vittorio Emanuele, comandata dall’ammiraglio Persano.»
I due altri dei tre sono concepiti ne’ seguenti termini:
«Tutti gli atti della pubblica Autorità e dell’amministrazione della giustizia saranno emanati ed intitolali in nome di S. M. Vittorio Emanuele, Re d’Italia. — I suggelli dello Stato, delle pubbliche amministrazioni, ed i pubblici Uffizii, avranno lo stemma della reai Gasa di Savoia, con la leggenda: Vittorio Emanuele, Re d’Italia.»
«Quando, sul principio della spedizione, che l'Europa attonita, ma impassibile, vede da quattro mesi, il Gabinetto di Napoli domandava delle spiegazioni ai Governo piemontese, il conte di Cavour rispondeva, in nome di S. M. sarda, che quegli attentati contro il diritto delle genti si facevano contro i suoi ordini, e dichiarava espressamente che, nel prendere la bandiera di Sardegna e assumere il nome di Vittorio Emanuele, il generale Garibaldi commetteva un atto di manifesta ed onnina usurpazione.
» Ma, malgrado queste esplicite dichiarazioni, le imprese piratiche continuavano a prepararsi nel territorio piemontese. Dal 6 di maggio ultimo sino a questo dì, più di 25, 000 uomini, legni, vapori, ed anche artiglierie, sono usciti pubblicamente da' porti di Genova, Livorno e Cagliari. Uffiziali dell armata sarda, membri del Parlamento di Torino, venivano a dirigere le operazioni militari e politiche del condottiero della invasione. Numerosi Comitati agivano senza mistero, tanto a Torino quanto a Genova, per provocare e mantenere l'insurrezione nel nostro territorio. La forza straniera si combinava con la rivoluzione interna, eccitata potentemente da questo aiuto. L’occupazione della Sicilia, e l'invasione di una parte del continente napoletano, sono state le forzose conseguenze della inconcepibile tolleranza del Piemonte, massime. dopo la dichiarazione del conte di Cavour del 26 di maggio.
» E mentre che i porti degli Stati sardi servivano di asilo inviolabile a questa scandalosa pirateria, mentre che la bandiera del Piemonte ne copriva le bande, le fortezze ed i legni, le relazioni tra’ Gabinetti di Torino e Napoli erano pacifiche, ed un ministro del Re di Sardegna, accreditato presso S. M., assicurava ogni giorno, e fino all'ultima ora, il Sovrano delle Due Sicilie delle amichevoli disposizioni del suo Sovrano.
«Conciliante fino all'ultimo momento, desideroso di evitare nuovi conflitti all'Italia, appoggiandosi al suo incontrastabile diritto, S. M. siciliana sperava respingere l'invasione e finir la guerra, senza aggiungere alle difficoltà interne le quistioni internazionali. Ma le cose son venute ad un punto, in che è forza fare appello alla ragione,
alla giustizia e all'interesse il più legittimo d'Europa.
» Le bande, organizzate nei porti di uno Stato amico, hanno occupata una parte considerevole di questo Regno e la sua capitale.
» La rivoluzione non procedeva affatto la loro marcia, ma la secondava e la seguiva.
» Il capo dell'invasione, assumendo la dittatura, fa un dono della flotta napoletana a quello stesso Sovrano, la mette sotto gli ordini di un suo ammiraglio, comanda che si renda la giustizia nel suo nome, e gli attribuisce tutti i titoli della sovranità in un’antica Monarchia, che, costituita da solenni trattati, forma parte degli Stati indipendenti d'Europa.
» Nel protestare nella forma più decisa ed esplicita, in nome del Re, suo augusto Signore, contro questi atti di usurpazione e di violenza, il sottoscritto crede suo dovere chiamare l'attenzione di S. E... sul nuovo diritto pubblico, che tali fatti tendono a stabilire nella culta ed incivilita Europa. Il Governo di S. M. spera ancora che il Re di Sardegna si affretterà a respingere con l'indignazione, che si conviene alla lealtà, questo regalo, offensivo al suo onore, della flotta e del territorio di un Sovrano amico, fattogli da un uomo, ch’egli stesso ha chiamato usurpatore.
» Il Governo di S. M. crede che, in vista dei disastri e dei mali prodotti dalla eccessiva ed inesplicabile tolleranza del Governo sardo, il Re di Sardegna non permetterà più che il suo nome e la sua bandiera servano all’invasione di uno Stato pacifico, allo spargimento di sangue
innocente, al conculcamento dei trattati, che formano il diritto pubblico europeo.
» Nè lascierà pure di protestare contro questo nuovo titolo di Re d’Italia, proclamato dal generale Garibaldi, che fa supporre la distruzione di ogni diritto riconosciuto ed il completo assorbimento degli Stati indipendenti, che restano ancora nella penisola.
» Ma, in ogni caso, il Governo di S. M. siciliana protesta di nuovo contro i mentovati decreti del generale Garibaldi, dichiarandoli nulli, irriti, illegittimi, e nulle ed illegittime le loro conseguenze, appellando alla giustizia dell'Europa contro una condotta, che facendo del Mediterraneo, mare della civilizzazione e del commercio, un campo apèrto alla pirateria, lascia ad una nazione tutto il profitto di una conquista, senza la responsabilità ed i pericoli della guerra.
» Il sottoscritto prega S. E... di portare questa comunicazione a conoscenza del suo Governo, e coglie con piacere questa opportunità di rinnovarle gli attestati della sua più distinta considerazione.
» Francesco Casella.»
IV.
Nel settembre venne pubblicato il seguente ordine del giorno indirizzato dal re Francesco II, datato da Gaeta, ai soldati che trovavansi nella cittadella di Messina:
«Soldati,
» Lontano da voi e dai bravi e coraggiosi ufficiali, che vi Comandano, io provo il vivo desiderio di attestarvi tutta la mia soddisfazione per la vostra buona condotta militare e pei buoni sentimenti che avete dimostrato nelle attuali circostanze.
» I patimenti e le fatiche che avete sostenuto, e quelli, che probabilmente avrete a sopportare in avvenire, aumentano la vostra gloria e la riputazione delle truppe napoletane.
» Siate dunque sempre obbedienti ai vostri superiori; è nell’obbedienza, che consiste il primo elemento della vittoria. Rammentate che io sono Re soldato, e che cresciuto in mezzo a voi, il mio cuore palpita di gioia quando apprendo un vostro successo.
» Ricordatevi che voi siete chiamati a difendere una fortezza storica.
» Il mio pensiero è sempre volto verso di voi. Coraggio adunque; il Cielo benedirà le vostre armi. Un giorno ognuno di voi potrà dire: Nel 1860 io era nel numero dei difensori della cittadella di Messina..
Presa di Pescara. Occupazione del forte Sant'Elmo. Ricognizione Intorno a Capra e combattimento.
I.
Nella notte dal 14 al 15 sono partite da Santamaria diverse compagnie di bersaglieri per fare sloggiare i regii dalle posizioni prese attorno al paese. In fatti, circa le dieci e mezzo, il cannone della piazza tuonò e s’intese un fuoco di moschetteria verso S. Angelo, villaggio poco distante dal Volturno. Circa cento bersaglieri avevano sforzato la posizione di S. Angelo, occupata dal 9.° di linea e da uno squadrone di cavalleria, attaccandoli alla baionetta. I regii sono fuggiti a Capua senza colpo ferire, perdendo dei loro un capitano e parecchi soldati.
II.
Pescara (1) si arrese ai 15 settembre. Due mila soldati abbassarono le armi senza combattimento e senza capitolazione. Si fece la consegna della piazza, ricca di ogni maniera di provvigioni, alla guardia nazionale di Spoltore.
(1) Pescara, città nell'Abruzzo Citeriore sull'Adriatico a 16 leghe E. da Aquila, alla foce del fiume di tal nome, ha 4200 abitanti.
III.
La guarnigione del forte Sant'Elmo era composta di quattro compagnie del 6.° di linea e di una compagnia di artiglieri. Essa erasi ammutinata ai 15 di settembre sulla notizia che la si voleva mandare a Capua. Essendosi un colonnello d’artiglieria presentato al forte per domandarne lo sgombro a nome del ministero della guerra, trovò i ponti alzati, i cannonieri sui loro pezzi e fu ricevuto a colpi di fucile.
Informato del fatto, il dittatore mandò a dire, col telegrafo, agli uomini della guarnigione, ch'erano liberi di tornare alle case loro, sé lo desiderassero.
Gran festa si fece a questa notizia. Alcuni uffiziali andarono da Garibaldi a dirgli che il forte era a sua disposizione. Intanto la guardia nazionale era già entrata, i soldati presentarono le armi e il tenente colonnello Grazia fece consegnare le chiavi.
Il comandante non oppose alcuna resistenza, furono consegnati anche la polveriera ed i cannoni, ed il popolo alle grida di Viva Garibaldi salì sulla spianata del castello, lacerò la bandiera collo stemma borbonico e inalberò una piccola bandiera, che aveva portata, colla croce di Savoia.
Non vi rimanevano più che 600 soldati, i quali uscirono con arme e bagagli. Scaricarono per istrada i loro fucili e sparsero al vento le munizioni. Domandarono di poter raggiungere il resto del loro corpo a Capua.
Furono trovati nel forte 63 pezzi d’artiglieria, 5 obici, un mortaio da bombe e gran provvigione di viveri e di munizioni.
Nel 18 ottobre il generale Tiirr, comandante della città e Provincia di Napoli, pubblicò il seguente decreto:
«Dietro ordine del dittatore, è incaricata la Direzione d’artiglieria di togliere tutti i cannoni ed altro materiale da guerra del forte di Sant’Elmo. Appena finita questa operazione, si daranno opportuni ordini regolari per la distruzione del forte Sant’Elmo.»
IV.
Non poca truppa è raccolta a Capua. Sulla cinta sono postate in batteria 120 bocche da fuoco. Vi sono avamposti e le truppe trovansi scaglionate fino a Gaeta.
Tutte le scale e i ponti da Triflisco e Pietramala furono tolti onde non fosse girata la posizione, come altra volta si è dovuto fare con ponti da guerra da tutti coloro che hanno voluto impossessarsi, per blocco o per assedio, di questa piazza.
Garibaldi nella notte del 16 al 17 si recò a Santa Maria, e chiamate quattro guardie nazionali, andò carponi sino sotto le mura di Capua, dove ha esplorato la città e poscia è ritornato a Santa Maria.
Ogni giorno avvenivano scaramucce tra le truppe di Garibaldi e gli avamposti regii. In una ricognizione che questi ultimi spingevano fuori di Capua furono fatti prigionieri 30 lancieri, tre cacciatori e parecchi soldati di linea.
Nella mattina del 15 settembre una frazione della sezione comandata dal generale Tùrr, che faceva parte della brigata Eber, agjli avamposti di Santa Maria, fu attaccata dai regii. Essa, mantenendosi freddamente al posto, respinse vivamente un primo ed un secondo assalto di cavalleria, costringendola in iscompiglio a ritirarsi.
Respinta la cavalleria, i regii avanzarono un grosso corpo di fanteria; i bersaglieri della brigata Eber ed i cacciatori del battaglione Garrano si fecero tosto ad incontrarlo. Scambiate le prime fucilate, i bersaglieri volontarii si spinsero arditamente coi compagni all’assalto ed incalzarono il nemico fin sotto le mura di Capua, entro le quali si riparò in rotta ed in fuga, protetto dal fuoco dei cannoni dei forti di quella città.
La mattina del giorno 16, anche gli avamposti di San Leucio della brigata Poppi, ebbero uno scontro di ricognizione, a cui presero parte il terzo battaglione maggiore Ferracini, e la seconda compagnia del genio, capitano Tessera, sotto gli ordini del colonnello Winckler. I regii, che in grosso numero occupavano la riva destra del Volturno, si ritirarono cedendo all’impeto, con cui i volontarii si slanciarono sulla riva sinistra, quantunque non avessero ponti, né altro mezzo possibile per guadare.
I.
Nel mattino del 18 settembre a Capita si appiccò il fuoco tra i regii ed i garibaldini. In due siti nel medesimo tempo avveniva combattimento.
I garibaldini investivano Capua dalla parte di Santa Maria, mentre un altra colonna dell’esercito, varcando il Volturno, cercava impadronirsi di Caiazzo per circondare la fortezza. Grave e sanguinoso fu il combattimento. I regii dalla parte di Santa Maria combattevano dalle mura; i soldati di Garibaldi cercavano di puntare cannoni di rincontro alla porla di Capua per aprirla. La mitraglia della fortezza tirava contro i soldati di Garibaldi, che, situati in una lunga via piana, resistevano al fuoco, poco micidiale e niente pericoloso pei regii, che combattevano dal forte. I cannonieri de’ garibaldini in breve furono uccisi. Si ordinò allora a’ soldati di prendere i cannoni e portarli sulle braccia. Ma, nell’eseguire questa operazione, la mitraglia di Capua faceva fuoco inesorabilmente su’ garibaldini, che giunsero in fine a prendere i cannoni e riportarseli.
In questo la cavalleria de’ dragoni fece una sortita da Capua e si cacciò audacemente sui soldati italiani,
i quali, a vederli li respinsero a colpo di moschetto, onde i dragoni rientrarono nella fortezza avendo patito perdite gravissime.
Miglior ventura toccava intanto ai militi che varcarono il Volturno. Trovato in piedi un ponte, passarono all'altra riva é dopo breve combattimento, occuparono Caiazzo. I regii, accortisi del fatto, accorsero e cercarono cacciarli, ma vennero respinti, onde i garibaldini tennero ottime posizioni.
Il generale dittatore arrivò quando la battaglia era cominciata. Stando sempre ne’ luoghi, ove maggior era il pericolo, egli era segno alle bombe ed alla mitraglia de’ regii, che accoglieva sorridendo.
II.
Dopo l’espulsione de’ regii da Caiazzo, questa città venne occupata dal 3. battaglione della divisione Medici comandato dal colonnello Vaccheri, della compagnia bolognese, comandata da Gattabene e da qualche frazione d’altri battaglioni, in tutto circa 1000 uomini
Vedendo che la posizione era pericolosa, il colonnello Vaccheri aveva chiesto rinforzi al generale Tùrr, ma questi rinforzi non furono spediti (1).
(1) Garibaldi era lungi dal luogo dell’azione. Egli si era recato col suo stato maggiore all'ovest di Capua, sopra alcune alture, donde si scorgeva la città e il circostante paese. Il generale Eber, con 2000 uomini circa lo aveva seguito. Il generale Tùrr, con forze considerevoli, combatteva a 6 miglia circa di là, al sudovest della città dove cercava di sforzare il passaggio del Volturno.
Nel 22 verso mezzogiorno i garibaldini di vedetta segnalarono una colonna di regii, che sortiva da Capua e prendeva la via di Caiazzo, lungo il Volturno. Questa colonna costava circa 8,000 uomini, dei quali 3, 000 svizzeri e bavaresi; cinque squadroni di cavalleria, una gran quantità di cannoni di tutt’i calibri, fra’ quali alcuni obici.
Il colonnello Vaccheri, per non compromettere la città, e per meglio difenderla, fece battere la generale e sorti di Caiazzo, andando incontro al nemico.
Il combattimento cominciò ad un’ora e si prolungò no’ ora senza che i garibaldini cedessero un palmo di terreno, malgrado una tempesta di granale e di biscaini. Terminate le munizioni, il colonnello fece sonare la carica alla baionetta, ma i bavaresi e gli svizzeri non si mossero e ricevettero fermi la carica. La mischia divenne una carnificina.
Non potendo resistere a forze sì straordinariamente superiori e ad un così terribil fuoco di artiglieria, il colonnello Vaccheri diede l’ordine di ritirarsi in città.
Egli credeva di trovarvi una difesa ed un asilo, ma trovò in vece nemici. I contadini ed alcune persone influenti sul popolo, dietro le porte e le finestre, lo accolsero a colpi di fucile e si scagliarono su esso colle falci e colle asce, e così i garibaldini si trovaron tra due fuochi.
Non iscoraggiati, cominciarono ad 'erigere barricate, sperando di essere soccorsi da Medici, che sapevano a Caserta e che avevano fatto sollecitare. Ma l'artiglieria de’ regii non diede loro il tempo. Le barricate, appena alzale, vennero sfondate e la città si trovò subito innondata dai soldati del Re.
Allora non fu più un combattimento, ma un’altra carnificina. Si servirono del pugnale una parte e l’altra. Una quarantina di garibaldini si gittò nel Volturno e lo passò a nuoto per salvarsi. I napoletani li fulminarono colle granate. Bisognò alfine cedere e disperdersi, ed ognuno cercò salute, come meglio potè, a traverso le montagne e sfidando i gorghi del fiume.
Si calcolarono a 400 i garibaldini messi fuori di combattimento in questa terribile ripresa di Gaiazzo. La compagnia bolognese fu distrutta.
Al principio dell'azione i regii avevano fatto quattro prigionieri. Essi li volevano costringere a gridare Viva il Re ma i garibaldini risposero Viva l'Italia, e furono immediatamente fucilati.
Anche le perdite dei regii furono gravi, ma minori di quelle de’ garibaldini, perché questi non avevano cannoni, anzi mancavano di tutto, persino di munizioni ed erano uno contro otto. Un cannone fu preso dai garibaldini e poi ripreso dai regii.
Dopo che i garibaldini perdettero l’importante posizione di Caiazzo, le truppe napoletane furono in istato di poter minacciare.
III.
Il ministro della guerra di S. M. Francesco II, incaricato provvisoriamente degli affari esteri, dirigeva nel 25 settembre ai rappresentanti delle Corti estere il seguente Memorandum:
«S. M. il Re del regno delle Due Sicilie, nell'atto in cui si allontanava dalla capitale per andare a combattere sulla linea del Volturno gli avventurieri, che avevano eccitata la rivoluzione, di cui erano stati essi stessi i promotori ed avevano invaso il suo territorio, s'affrettò ad indirizzare a tutte le Potenze dell'Europa, per formalmente protestare contro gli atti dell’avventuriere Garibaldi e contro la scandalosa ed inqualificabile invasione, la quale minacciando il Regno di prossima ruina, distruggeva altresì tutt'i principii di diritto pubblico, sui quali sono fondate la sicurezza e l'indipendenza delle nazioni.
i» Dal punto in che la rivoluzione, organizzata regolarmente in tutta l'Europa, trovava un capo ed un' armata, che una vicina Potenza le permetteva inalberasse il suo vessillo, i suoi porti le fornissero armi, una marina e soldati, il Re poteva sperare che, essendo solo a combattere contro tutte le forze della rivoluzione europea, l'Europa accorrerebbe in suo aiuto, per impedire almeno che il territorio del Piemonte servisse di quartier generale e d'asilo a queste inesplicabili intraprese.
Ma gli Stati dell'Europa non hanno creduto essere eziandio loro dovere ed interesse l’opporsi a questo minaccioso procedimento della rivoluzione; e il Regno delle Due Sicilie, lasciato alle sole sue forze, minato dal tradimento nell’interno, dagli attacchi al di fuori, e indebolito da una situazione, in cui la Sardegna aveva lutt’i vantaggi della guerra, senza subirne gl’inconvenienti e i perigli, è nel pericolo di soccombere.
» Ma nel cadere, va ad aprirsi un èra novella per l’Europa; gli antichi trattati sono distratti; è consacrato un nuovo diritto pubblico;
il mondo conosce, mediante il nostro esempio, essere concesso agli avventurieri della 'rivoluzione non solamente di venire a combattere armata mano i troni meglio stabiliti, ma di solcare liberamente coi loro vascelli questo mare Mediterraneo, in cui tutte le nazioni del golfo hanno interessi commerciali e politici. Nello spazio di quattro mesi l’Europa ha veduto, sorpresa, ma impassibile, migliaia di soldati della rivoluzione passare, ira mezzo a Squadre di tutte le nazioni marittime, sopra bastimenti carichi d’armi e munizioni; i porti di una Potenza, in relazioni di pace e di amicizia col Regno delle Due Sicilie, servire di asilo e di rifugio inviolabile a coloro, che venivano ad invadere il nostro territorio; e la bandiera della marina reale sarda proteggere impunemente la flotta ed i battaglioni del corpo rivoluzionario, gli atti del quale il Governo del Re di Sardegna aveva disapprovato, accusandolo d'attentato e di usurpazione.
» Questo esempio non sarà perduto, e in presenza della sanzione accordata dagli eventi a questa distruzione degli antichi diritti delle genti e del diritto pubblico, tutti gli Stati indipendenti del mondo debbono sentirsi egualmente minacciati. Le conseguenze non si faranno aspettare: ed in fatto, il rovesciamento della dinastia e del Governo legittimo del Regno delle Due Sicilie non è ancora interamente consumato, che già gli eserciti piemontesi invadono senza motivi apparenti gli Stati della Chiesa, e senza allegare altro pretesto se non di venire in aiuto delle rivoluzione.
» La lettera del generale Fanti al generale Lamoriciére è la prova più evidente che il diritto delle genti e il diritto pubblico dell’Europa non esistono più.
» Dopo aver compiuto, per quanto le sue forze il comportavano, il difficile compito toccatogli in sorte, combattendo in una volta la rivoluzione interna e l'invasione al di fuori, l'una sospinta dall’altra, al Re delle Due Sicilie non rimane se non il dovere d’indirizzarsi novellamente a tutte le Potenze d’Europa per constatare la legittimità della sua causa, segnalare lo scoglio contro il quale ha fatto naufragio e sul quale altri troni naufragheranno, protestare contro gli atti e le conseguenze dell’invasione di cui è vittima, e lasciare all’imparzialità dell’opinione pubblica l’apprezzazione degli eventi che lo sforzano a combattere per la monarchia, ch’egli ha da Dio, dal suo diritto e dall’amore de’ suoi popoli.»
I.
Verso la metà di settembre i pubblici fogli occupavansi molto di certo antagonismo che dicevasi insorto tra Cavour e Garibaldi e che si considerava di gran momento per l'Italia. Asserivasi che il Governo piemontese avesse ricevuto una lettera di Garibaldi con cui questi, in termini bensì rispettosi, ma risoluti, domandava la dimissione dei ministri dell'interno e degli esterni, siccome condizione indispensabile pel buon accordo del Governo dittatoriale di Napoli ed il Governo sardo (1).
I fogli di Torino negavano che il Governo sardo avesse ricevuta quella lettera, ma il Constitutionnel assicurava che il capitano Trecchi era ripartito per Napoli nel 18 settembre colta risposta del Re alla lettera di Garibaldi. «Tale risposta, diceva quel foglio, è stata fatta senza consultare i ministri, poiché si trattava di quistioni che li riguardavano di persona. Vittorio Emanuele vi parlò il linguaggio del Sovrano, rammentò come abbia saputo resistere sempre alle suggestioni
(1) Dicevasi che la lettera contenesse le seguenti parole: » Sire, licenziate Cavour e Farini; datemi il comando di una brigata delle vostre truppe; datemi Pallavicino Trivulzio per prodittatore, ed io rispondo del resto.»
ed agli influssi delle Potenze esterne, anche quand'esse erano minacciose; ed a maggior ragione dichiarò di non voler cedere alle pretensioni sì strane che gli vengono per parte di un uomo, che i suoi trionfi paion traviare. — Non si sà, soggiungeva Io stesso foglio, qual effetto produrrà la risposta reale, ma se Garibaldi persiste nei suoi disegni e segue da sua parte un assalto contro Roma, il Governo del Re respingerà tale assalto, d’accordo coi suoi alleati, che che possa avvenire, poiché il re Vittorio Emanuele si pose alla testa del movimento italiano per dominare ed evitare la rivoluzione e non per secondarla».
Ma, dicevano altri giornali, riguardo all’effetto che produrrà la risposta reale su Garibaldi dopo gli ultimi atti di questo, il proclama ai palermitani in cui il dittatore ripeteva di voler fare l'annessione soltanto a Roma (1), la lettera a Brusco (2), la nominazione di Mordini e Sirtori
(1) Ecco il proclama del dittatore:
Italia e Vittorio Emanuele.
» A Roma, popolo di Palermo, noi proclameremo il Regno italico, e là solennemente santificheremo il gran consorzio di famiglia tra liberi e gli schiavi ancora, figli della stessa terra.
A Palermo si volle l’annessione perché io non passassi lo Stretto.
A Napoli si vuol l'annessione perché io non possa passare il Volturuo.
Ma fin quando vi saranno in Italia catene da infrangere, io seguirò la via, o vi seminerò le ossa.
» Mordini vi lascio per prodittatore e certamente egli sarà degno di voi e dell’Italia.
Mi resta ringraziar voi e la brava mia milizia nazionale, per la fede avuta io me e nei destini del nostro paese.
«Palermo 17 settembre 1860.
(2) Dicevasi che Garibaldi avesse scritto a Brusco ne’ seguenti termini: «Voi mi assicurate che Cavour dia ad intendere di essere d’accordo con me ed amico mio. lo posso assicurarvi che, disposto, come sono stato sempre, a sagrificare sull’altare della patria qualunque risentimento personale, non potrò mai conciliarmi con uomini che hanno avvilito la dignità nazionale e venduta una provincia italiana.»
a prodittatori del Siciliano e del Napoletano, sembra che il dubbio non possa ormai più sussistere.
Se pure egli inclinasse a cedere, nel tratterrebbero gli uomini, onde si è circondato, e per ciò la lotta si può dire appiccata.
II.
Sopra tali dissidii tra il ministero sardo e Garibaldi si possono vedere le discussioni della Camera de’ deputati e del Senato sul progetto di legge riguardanti le annessioni delle Provincie meridionali al Regno di Piemonte, che noi esporremo in appresso. Per altro gli avvenimenti posteriori, e specialmente il contegno di Garibaldi dopo il passaggio delle truppe piemontesi sul Napoletano, fecero conoscere quanto s’ingannassero i periodici sulle conseguenze di questi dissidii.
I.
Il dittatore Garibaldi persisteva nell’opinione non essere ancor giunta l'ora in cui la Sicilia doveva essere chiamata a votare sulla sua annessione al Regno di Piemonte, poiché, riunita la Sicilia alla corona sabauda, egli trovavasi impedito nell’attuazione del suo programma primitivo, cui non poteva rinunciare, non volendo egli deporre le armi se non quando fosse libera tutta Italia.
I faccendieri annessionisti avevano mandato un invito ai varii sindaci siciliani per eccitarli all'annessione, ma ad essi non venne risposto come se l’aspettavano. I municipii o rifiutaronsi a raccogliersi, come fece quello di Caltanisetta, o decisero altrimenti, siccome avvenne nella città di Piazza. Il voto, laddove venne espresso, fu adesione pura e semplice al volere del generale Garibaldi.
II.
Mentre nelle Provincie si agiva in tal modo, in Palermo, sotto gli sguardi del Governo, si spingevano i cittadini a firmar petizioni anche nel senso di un’immediata annessione.
Nel 5 settembre le petizioni piovvero da tutt’i lati e tutte in contraddizione. Chi voleva l'annessione oggi, chi all’entrata di Garibaldi in Napoli, e chi finalmente, e fu II maggior numero, quando ciò verrà ordinato dal generale dittatore. Alle petizioni tennero dietro i cartelli, e a questi si aggiunsero le dimostrazioni.
Il Governo, che già si era occupato del gravissimo argomento, sin dal primo del mese di settembre aveva mandato il cav. Piota appo il generale Garibaldi per chiedergli il permesso di far votare immediatamente l’annessione. 11 segretario di Stato della marina ritornò dal campo il giorno 5, portando lettera del dittatore, nella quale era detto francamente non essere venuto il momento in cui la Sicilia dovesse esser chiamata a pronunziarsi sui suoi destini.
Nella mattina del 6 il signor Crispi, per mancanza di accordo coi suoi colleghi, si dimise dall'uffizio di segretario di Stato dell’interno, ed i segretarii di Stato, rimasti al potere, si affrettarono a mandare altra volta il cav. Piola al campo, per vedere di persuader Garibaldi a cedere ai loro voti.
Frattanto venne la notizia dell'entrata di Garibaldi in Napoli e la partenza di colà di Francesco II. Gli annessionisti non ebbero più la loro forza.
I.
Nel 12 settembre venne promulgato il seguente decreto di Garibaldi:
Art. 1. Il ministero dell'interno, che attualmente comprende anche il ramo della polizia, è diviso in due distinti dicasteri, l'uno denominato dipartimento dell’interno, e l'altro dipartimento della polizia.
Art 2. L’avvocato sig. Raffaele Conforti è incaricato del dipartimento della polizia, continuando l’incarico già affidato del dipartimento dell’interno all’avvocato sig. Liborio Romano.
I governatori delle Provincie sono le prime Autorità civili ed amministrative delle Provincie.
Gl’intendenti, che per la nomina de’ governatori delle Provincie cessano dal loro ufficio, saranno chiamati ad altre funzioni.
Dal giorno d’oggi:
I beni della Gasa reale;
I beni riservati alla Sovrana disposizione;
I beni de’ maggioraschi reali;
I beni dell'Ordine Costantiniano amministrati già sotto la dipendenza del ministero della Presidenza de’ ministri;
I beni donati da reintegrare allo Stato;
Sono tutti dichiarati beni nazionali.
A Napoli fu nominato prodittatore Sirtori in luogo di Depretis dimissionario, il quale voleva la pronta annessione della Sicilia al Piemonte, e si ritirò nel momento in cui il generale Garibaldi abbracciò il partito contrario. L’esempio di Depretis fu seguito anche dai segretarii di Stato, ch’erano dello stesso avviso.
II.
Al ministero della Sicilia vennero chiamati i più moderati, uomini quasi tutti riputati onesti e di senno e che avevano il nome di Cavouriani, locché fece gran meraviglia perché asserivasi la discordia tra Garibaldi e Cavour. Un decreto del dittatore del 17 settembre da Palermo conteneva le seguenti nomine:
Art. 1. È nominato prodittatore in Sicilia il sig. Antonio Mordini, uditore generale dell’esercito;
Art. 2 Sono nominati ancora i seguenti segretarii di Stato:
1.° Per la finanza, Domenico Peranni.
2.° Pei lavori pubblici, Paolo Orlando.
3.° Pel culto ed istruzione pubblica, il rev. monsignor D. Gregorio Ugdulena.
4.° Per l’interno, Enrico Parisi.
5.° Per la giustizia, il barone Antonio Scrofani, conservando 1‘ufficio di presidente della gran Corte dei conti.
6.° Per la sicurezza pubblica, Giorgio Tamajo.
7.° Per la marina, il commissario generale della marina, D. G. Battista Fauché.
8.° Per la guerra, il colonnello brigadiere, D. Nicola Fabrizi.
9.° Per gli affari esterni e commercio, Domenico Piraino.
Art 5. Il segretario di Stato per l'interno è incaricato della esecuzione del presente decreto.
I.
Il segretario generale Bertani aveva ridotto il ministero a condizione tale cui difficilmente altri potevansi acconciare. I dicasteri della presidenza e della guerra erano stati annullati e richiamati alla segreteria generale, e di fatto questa esercitava le attribuzioni degli altri dicasteri; il ministero degli affari ecclesiastici era privo del ministro da qualche tempo e non si credè neppure di affidarne provvisoriamente il portafoglio a qualche ministro di altro dicastero.
In breve, dicevasi che il segretario generale Bertani agiva come se non esistesse un ministero responsabile. Egli è perciò che i ministri presentarono la loro dimissione col seguente, rapporto:
«Signor generale dittatore,
».... I sottoscritti, amando sopra ogni altra cosa l’Italia ed il paese, a cui appartengono, e dove riposano le ceneri dei loro maggiori,.... erano lieti di unire alla stima ed all’affetto dei loro concittadini l’onore di essere prescelti da voi, e di meritare la vostra fiducia.
» Essi credevano che si volesse lasciare loro il carico gravissimo di assumere la responsabilità dell'Amministrazione interna, sotto l'alto Governo del dittatore, e speravano di entrare arditamente mallevadori de’ loro proprii consigli verso il dittatore medesimo, e verso il paese, in cui siede la più eminente sovranità.
» Con grave dolore dell’animo loro, e sotto l'imminente pericolo di cedere nella peggiore delle anarchie, in quella cioè del Governo medesimo, i sottoscritti finora furono testimoni di atti che farebbero argomentare d’essere altra la via che vuole tenersi nell’attuale temporaneo Governo di questa parte d'Italia.
» Nelle Provincie furono istituiti governatori, i quali col diminuire le imposte, col nominare impiegati, e col prendere altri provvedimenti, che in Napoli non potrebbero essere presi da altri che dal dittatore, operano come se fossero superiori al Ministero, e pari in giurisdizione al dittatore medesimo.
» Il Ministero quindi propose istruzioni per frenare questo arbitrio, ma non vennero ancora sancite. Propose nomine di governatori, ma non vennero accolte. Aggiungasi che, mentre altrove i ministri sottoscrivono gli atti, che essi propongono, in Napoli solamente i decreti dittatoriali escono senza portare alcun segno, che distingua quelli i quali furono realmente proposti dal Ministero. Sicché, né il pubblico sa di quali atti rendere responsabili i ministri, né il dittatore di quali consigli chiamarli a sindacato; né infine essi medesimi sanno più ritrovare in tal procedere il modo di conservar illeso quel rispetto, che pur debbono alla propria dignità personale;
quanto all’universale pare che essi temessero di svelarsi ai loro concittadini consiglieri degli atti del Governo.
» Partiti avversi più o meno alla formola gloriosa, con la quale s'intitolano quegli alti, si agitano; ed il Ministero, composto di nomi che qui, nel loro paese, sono, dopo la profonda ed immutabile fede vostra, una guarentia che, così nelle grandi come nelle piccole cose, quella formola sarà sacrosantamente rispettata, sente l’impotenza di concorrere con efficacia a reprimere le più o meno aperte macchinazioni, se gli sono spezzati nelle mani i fili dell'amministrazione.
» Le finanze non possono rispondere delle entrate, se queste vengono alterate, senza che il dittatore decreti e che il Ministero proponga di farlo, né rispondere delle spese, se, al modo medesimo, vengono creati impieghi, ed ordinate opere dispendiose.
» Certamente non mancherà al dittatore né mente né animo di rimediare a tali inconvenienti. Ma nascendo quelli dal non essere la condizione del Ministero quale gl’individui, che lo compongono, credevano che avesse ad essere, i sottoscritti, da una parte, invocano caldamente dal dittatore che vi ponga riparo, e dall’altra, dichiarano ch’essi non vorrebbero essere di ostacolo all’applicazione degli opportuni rimedii, e pregano il dittatore di tenerli come dimessi dal loro ufficio, se egli pensa che con altri uomini possa più facilmente riuscire all’intento.
I sottoscritti debbono all’Italia, a queste Provincie, dove nacquero, alla riconoscenza verso il generale Garibaldi, all'ossequio pel dittatore, ed alla propria dignità, questa franca dichiarazione,
che essi fanno colla fiducia di aver meritato un istante la stima del dittatore, ed assicurandolo eh’ egli ha interamente l'affetto loro e la loro ammirazione.
» 10 settembre 1860.
«Ministri
» Romano, Cosenz, Sciatola,
D’Afflitto, Conforti.
» Direttori
» Ciccone, Sortigli, Giacchi, De Cesare, De Blasio, Arditi.
Continuando gli abusi del segretario generale, i ministri ridomandarono la dimissione col seguente atto:
«Signor dittatore,
«Quando acclamato dalle popolazioni, ella venne tra noi e formò il presente Ministero, noi, che credevamo poter meritare la fiducia del paese, fummo altamente compiaciuti di aver potuto ottenere, anche per un istante, la sua, ed accettammo senza esitanza.
«L’alto scopo del Governo era scritto sulle sue gloriose bandiere, il suo grande effetto per Italia e per Vittorio Emanuele ci affidava che tutti gl’italiani avrebbero proceduto al nobile intento con divisamenti concordi; con questi pensieri entrarono i sottoscritti nell’Amministrazione, proponendosi segnatamente di sanare le piaghe,
da cui era contristato il paese, di promuovere tutte le sorgenti della sua potenza, di apparecchiarlo all’unione con le altre Provincie italiane, di preservarlo dall’anarchia.
» Ma, per verità, fin dai primi giorni del nostro Ministero, ci avvedemmo quanto fosse malagevole di adempiere il compito assunto. Molti decreti si emanarono senza che fossero stati proposti o discussi da’ ministri, e parecchi alti, deliberati nel Consiglio, non erano pubblicati. Ciò rendeva responsabili i ministri d'atti, a cui non erano concorsi, e vane in gran parte le loro cure.
» Spesse volte con franchezza e con sincerità le manifestammo le nostre osservazioni sopra questo ed altri punti, ed in varie guise ci studiammo di attenuarne gl'inconvenienti; ma i nostri voti non ebbero effetto.
» Noi pertanto dubitammo se avessimo conservato la sua fiducia. 1 fatti avvenuti posteriormente hanno accresciuto questo dubbio, e per quanto profondo sia il nostro dolore, altrettanto è vivo il nostro desiderio di rendere più spedita l’azione governativa.
» Ella è certamente guidata da un pensiero alto e generoso, quello di porre in accordo la sua volontà colla volontà della maggioranza del paese; ma la nostra coscienza, l’amore che portiamo alla nostra patria, e l’ossequio che abbiamo pel dittatore, c’impongono il dovere di richiamare la sua attenzione sulle arti, che adoperano alcuni partiti, per rappresentarle come opinioni del paese quelle che sono di pochi individui, e discordi affatto dai veri sentimenti della gran maggioranza de’ cittadini.
Essi tentano di respingere queste popolazioni sopra vie, cui assolutamente ripugnano, mentre queste popolazioni abbandonarono il malgoverno precedente, e si affidarono alle sue mani gloriose, con la certezza di formare, col Regno d'Italia, un Regno unico, sotto lo scettro di Vittorio Emanuele.
» Ella, ch’è alla cima del potere, può scorgere da qual parte sia l'errore, e a noi non rimane altro cómpito che quello di rassegnare il nostro ufficio.
» 22 settembre 1860.
» Ministri
» Romano, Pisanelli, Sciatola, Coseni,
Conforti.
» Direttori
» Giacchi, Ciccone, Scoigli De,
Arditi, De.»
Al quale, perdurando gli arbitrii del segretario generale, aggiunsero un terzo, nelle forme seguenti:
«Signor dittatore,
» Quantunque dimissionarii, noi conserviamo ancora il potere, e saremmo grandemente colpevoli se tralasciassimo di richiamare la vostra attenzione sui gravi pericoli, da cui è minacciato il paese
» Fin da' primi giorni del nostro Ministero, noi vi esponemmo i gravi danni che potevano derivare dall'istituzione di tanti governatori, con poteri illimitati, per quante sono le Provincie.
» Accogliendo le nostre dimostranze, voi approvaste un regolamento intorno ai poteri dei governatori, ma non pare questo provvedimento abbia portato tutto l'effetto che si sperava.
» Noi ripetiamo la causa di ciò dall’istituzione della Segreteria, la quale si è arrogata la facoltà di dare importanti provvedimenti, senza discuterli in Consiglio e senza che alcuno de’ ministri ne fosse consapevole.
» Per riparare a siffatti inconvenienti, i qui sottoscritti dimandarono più volte che ciascun atto fosse discusso in Consiglio e contrassegnato da un ministro, cosa da Voi consentita perché ragionevole, ma non mai effettuata. Anzi, nel medesimo giorno, in cui uno dei sottoscritti si recava da voi, ed, in presenza del vostro segretario, otteneva il vostro assentimento su questo punto e il corrispondente ordine del segretario medesimo, si pubblicavano atti importantissimi senza la discussione e la firma dei ministri.
» Ora ecco lo stato del paese. Qui in Napoli l’opinione pubblica è fortemente preoccupata per la irregolarità che si scorge nell'emanazione dei decreti della dittatura.
» Nella maggior parte delle Provincie, le popolazioni sono agitate da gravi apprensioni, e costernate.
» Alcuni governatori hanno inteso il loro mandato in modo da esautorare del lutto l’amministrazione centrale, destituendo e nominando impiegati che qui in Napoli voi solo potreste nominare, disponendo a lor modo delle cose pubbliche, alterando a lor grado le pubbliche imposte.
» In qualche Provincia taluni, o ignoti o malvisi, arrogandosi poteri, di cui il Ministero ignora la sorgente, commettono atti arbitrarli e soprusi, e spaventano tutti gli onesti cittadini.
» Quali possano essere le conseguenze di questi fatti, è agevole il comprendere.
» L’ultima parola che i qui sottoscritti vi rivolgono, e che è loro ispirata dall’affetto vivissimo che hanno per l’Italia e per la loro terra natale, dall’ossequio per la vostra persona, e dall’ammirazione per la vostra virtù, è questa: voi dittatore, preceduto dalla vostra fama, circondato dalle glorie immortali, siete venuto tra noi, acclamato da queste fidenti popolazioni; ma provvedete che, dietro ai vostri passi, non resti un solco di lagrime e di dolore.
» 25 settembre.
» Ministri
» Romano, Pisanelli, Scialoia,
Conforti.
» Direttori
» Giacchi, Ciccone, Sanigli, De Cesare,
Ardili, De Biasio.»
II.
Con decreto 27 settembre, datato da Caserta, Garibaldi accettò la dimissione di. Liborio Romano, ministro degli affari esterni; di Giuseppe Pisanelli, ministro di grazia e giustiziaci Antonio Scialoia, ministro delle finanze; del marchese D’Afflitto, ministro dei lavori pubblici; di Antonio Ciccone, direttore dell’istruzione pubblica.
Collo stesso decreto vennero nominati: ministro dell’interno e polizia Raffaele Conforti; ministro de’ lavori pubblici, Luigi Giura; ministro della giustizia, Pasquale Scura; ministro della marina, il capitano di vascello Amilcare Anguissola; direttore dell'istruzione pubblica, Francesco de Sanctis.
I.
Abbiamo veduto nel primo volume come le truppe piemontesi, dopo il fatto d’Ancona si avanzassero sul territorio napoletano.
Nel 24 settembre una colonna sarda era a tre ore dal confine napoletano a Grottamare. Il Tripoli, comandante della Provincia, mandò a domandare a Garibaldi come la avrebbe dovuto ricevere se avesse voluto entrare. Garibaldi rispose: «Come i vostri migliori fratelli.» Cialdini, in seguito, scrisse per dispaccio: «Passo le frontiere; che cosa ne dite?» Garibaldi rispose: «Vi aspetto subito.» Inoltre Garibaldi scrisse al Re Vittorio Emanuele. «Venite, io rimetterò il potere nelle vostre mani.» Tutto ciò fece vedere che Garibaldi aspettava dalla politica piemontese il compimento del programma italiano (1).
(1) Dicevasi che in seguito a rimostranze fattegli da Bixio, indignato dell’ordine spedito dal segretario generale Bertani al dottor Tripoli, comandante un migliaio di uomini presso il confine, perché si opponesse colle armi all’ingresso dell’esercito piemontese nel napoletano, Garibaldi avesse revocato Bertani, il quale andò a Genova.
A tale proposito la Gazzetta di Torino recò la seguente corrispondenza telegrafica:
Nel 29 settembre un ordine del giorno di Garibaldi, datalo da Caserta, diceva: «I valorosi piemontesi entrano nel territorio napoletano. Presto avremo la fortuna di stringere quelle destre vittoriose.»
Il segretario generale Bertani al sig. dottore Antonio Tripoli,
comandante le armi in Giulia.
Radunatevi al confine in numero grande, e se i piemontesi volessero entrare, dite loro che prima di permetterlo dovete chiedere istruzioni al dittatore. Napoli 23. Ore 12 poni.
Il segretario generale Bertani al sig. Tripoli, comandante le forse.
Chieti o dove si trova.
Riscontro i vostri dispacci del 24 e 25 corrente. Organizzate difese colle vostre forze. Usate ogni mezzo rivoluzionario. Movete le guardie nazionali. Non dividete le truppe. Spero in breve mandarvi buone nuove decisive.
Napoli 26, trasmesso 27, ore 11, 30 ant.
Bertani al governatore di Teramo.
Daterai immediatamente notizia dell armata sarda. Ditemi dove si trova e dove pare diretta. Avete nuove di Roma?
Napoli 28, ore 4, trasmesso giorno 28, ore 8, per linea occupata.
Il comandante la guardia nazionale di Giulia al sig. governatore di Teramo.
In conformità ai suoi ordini, le trascrivo il telegramma testi ricevuto dal nostro dittatore:
Se i piemontesi entrano nel nostro territorio, accoglieteli come fratelli.
Da Santamaria, 24 settembre, ore 1 pomeridiana.»
Giulia, 24 detto, ore 7. 90 poni.
Il ministro della guerra al governatore di Teramo.
Giungendo costà i piemontesi, si i certo che saranno loro fatte le più affettuose accoglienze come fratelli.
Napoli, 25 settembre, ore 8.
Il ministro dell’interno al Governo di Teramo.
All’appressarsi delle truppe regolari piemontesi, ella. saprà dare tutte le disposizioni convenienti, e farà trovare preparati i quartieri per accogliere gli onorevolissimi ospiti.
Napoli 25 settembre, ore 42. 30 pom.
Ma il sig. Bertani in una lettera all’editore della Perseveranza dichiarò falsa e calunniosa l'accusa ch'egli abbia mandalo ordine di opporsi colla forza all'ingresso delle troppe piemontesi e che sia revocato da Garibaldi.
II.
Ai ultimi di settembre fu positivamente spedito l’ordine al generale Cialdini di marciare a grandi giornate in Napoli col corpo d'armata.
Nel 9 ottobre il Re partì da Ancona per le frontiere napoletane, ed in questo stesso giorno le truppe entrarono per tre punti su quel territorio.
Ecco il tenore di quella lettera:
Al Giornale La Perseveranza in Milano.
Il vostro dispaccio particolare di ieri, che mi riguarda, è completamente erroneo.
Non mandai ordine a Tripoli di opporsi colla forza all’ingresso delle truppe regie subalpine negli Abruzzi. Non poteva Bixio reclamare contro di me, per un ordine non dato.
Non sono punto revocato, né separato dal generale Garibaldi. Non giunsi da Napoli che ieri mattina e non arrivai qui che ieri sera coll'ultima corsa. Non indirizzai parole ai miei elettori, protestando contro la supposta defezione di Garibaldi, il quale rappresenta e rappresenterà sempre coi suoi atti il popolo armato per la libertà ed unità dell’Italia.
» Bertani.
E nel giorno 3 ottobre lo stesso sig. Bertani scriveva al direttore della Gazzetta di Torino.
«Sig. direttore della Gazzetta di Torino,
Venuto ieri in Torino, come deputato, trovai la pubblica opinione violentemente eccitata contro di me, principalmente per due accuse.
1. Che io abbia mandato dispaccio da Napoli al signor Tripoli in Teramo ingiungendogli di opporsi colla forza all’ingresso delle truppe regie subalpine negli Stati napoletani.
» 2. Che io abbia consigliato e propugnato l’immediata occupazione di Roma, anche a costo di un conflitto coi francesi.
» Oppongo alle due accuse una franca smentita e dichiaro:
» Che né al generale Garibaldi, né a me venne mai in pensiero di provocare stoltamente ostilità contro la Francia.
» Che in proposito di oppormi all'ingresso dell’armata regia subalpina, è una delle tante calunnie con cui si volle colpirmi, ed è la più infame.
» Antonio Bertani. »
Il seguente Manifesto, che il Re nel giorno della sua partenza diresse ai popoli dell'Italia meridionale spiega la sua politica:
«Ai popoli dell'Italia meridionale.
In un momento solenne della storia nazionale e dei destini italiani, io rivolgo la mia parola a voi, popoli dell’Italia meridionale, che, mutato lo Stato nel nome mio, mi avete mandalo oratori di ogni ordine di cittadini, magistrati e deputati de’ Municipii, chiedendo di essere restituiti nell'ordine, confortati nella libertà ed uniti al mio Regno.
» Io voglio dirvi quale pensiero mi guidi e quale sia in me la coscienza de' doveri, che deve adempiere chi, dalla Provvidenza, fu posto sopra un trono italiano.
» Io salii al trono dopo una grande sventura nazionale. Mio padre mi diede un alto esempio, rinunziando alla corona per salvare la propria dignità e la libertà de’ suoi popoli. Carlo Alberto cadde colle armi in pugno e mori nell’esilio: la sua morte accumunò sempre più le sorti della mia famiglia a que Ile del popolo italiano, che da tanti secoli ha dato a tutte le terre straniere le ossa de’ suoi esuli, volendo rivendicare il retaggio di ogni gente, che Dio ha posta fra gli stessi confini e stretta insieme col simbolo di una sola favella.
» Io mi educai a quello esempio, e la memoria di mio padre fu la mia stella tutelare.
» Fra la corona e la parola data, non poteva per me essere dubbia la scelta mia.
» Raffermai la libertà in tempi poco propizii a libertà, e volli eh’ esplicandosi essa gittasse radici nel costume dei popoli, non potendo io avere a sospetto ciò che ai miei popoli era caro. Nella libertà del Piemonte fu religiosamente rispettata la eredità, che l'animo presago del mio augusto genitore aveva lasciato a tutti gl’italiani.
» Colle franchigie rappresentative, colla popolare istruzione, colle grandi opere pubbliche, colla libertà dell’industria e de’ traffichi, cercai di accrescere il benessere del mio popolo; e volendo sì rispettata la religione cattolica, ma libero ognuno nel santuario della propria coscienza, e ferma la civile autorità, resistetti apertamente a quella ostinala e procacciante fazione, che si vanta la sola amica e tulrice de’ troni, ma che intende comandare in nome dei Re ed a frapporre fra il Principe ed il popolo la barriera delle sue intolleranti passioni.
» Questi modi di governo non potevano essere senza effetto per la rimanente Italia. La concordia del Principe col popolo nel proponimento dell’indipendenza nazionale e della libertà civile e politica, la tribuna e la stampa libere; lo esercito che aveva salvata la tradizione militare italiana sptto la bandiera tricolore, fecero del Piemonte il vessillifero e il braccio d’Italia. La forza del Principato non derivò dalle arti di un'occulta politica, ma dallo aperto influsso delle idee e della pubblica opinione.
» Così potei mantenere nella parte di popolo italiano, riunita Sótto il mio scettro, il concetto di una egemonia nazionale, onde nascer doveva la concorde armonia delle divise Provincie in una sola nazione.
» L’Italia fu fatta capace del mio pensiero quando vide mandare i miei soldati sui campi della Crimea, accanto i soldati delle due grandi potenze occidentali. Io volli far entrare il diritto d’Italia nella realtà de’ fatti e degli interessi europei.
» Al Congresso di Parigi i miei legati poterono parlare per la prima volta all'Europa dei vostri dolori. E fu a tutti manifesto come la preponderanza dell'Austria in Italia fosse infesta all'equilibrio europeo e quanti pericoli corressero la indipendenza e la libertà del Piemonte, se la rimanente Penisola non fosse francata dagl’influssi stranieri.
» 11 mio magnanimo alleato, Vimperatore Napoteone 111, sentì che la causa italiana era degna della grande nazione, sulla quale impera. I nuovi destini della nostra patria furono inaugurati da una giusta guerra. I soldati italiani combatterono degnamente. accanto alle invitte legioni della Francia. I volontarii accorsi da tutte le Provincie e da tutte le famiglie italiane sotto la bandiera della Croce sabauda, addimostrarono come tutta l’Italia mi avesse investito del diritto di parlare e di combattere in nome suo.
» La ragione di Stato pose fine alla guerra, ma non ai suoi effetti, i quali si andarono esplicando per la inflessibile logica degli avvenimenti e dei popoli.
» Se io avessi avuto quella ambizione, eh’è imputata alla mia famiglia da chi non si fa addentro nella ragione dei tempi, io avrei potuto essere soddisfatto dallo acquisto della Lombardia. Ma io aveva speso il sangue prezioso dei miei soldati, non per me, per l’Italia.
» Io aveva chiamato gl’italiani alte armi: alcune Provincie italiane avevano mutato gli ordini interni per concorrere alla guerra d'indipendenza, dalla quale i loro Principi abbonivano. Dopo la pace di Villafranca, quelle Provincie domandarono la mia protezione contro il minacciato ristauro degli antichi Governi. Se i fatti dell’Italia centrale erano la conseguenza della guerra, alla quale noi avevamo invitato i popoli, se il sistema delle intervenzioni straniere doveva essere per sempre sbandito dall’Italia, io doveva conoscere e difendere in quei popoli il diritto di legalmente e liberamente manifestare i voti loro.
» Ritirai il mio Governo; essi fecero un Governo ordinato; ritirai le mie truppe: essi ordinarono forze regolari, ed a gara di concordia e di civili virtù vennero in tanta riputazione e forza, che solo per violenza d’armi straniere avrebbero potuto esser vinti:
» Grazie al senno dei popoli dell’Italia centrale, l’idea monarchica fu in modo costante affermata, e la monarchia moderò moralmente quel pacifico moto popolare. Così ritalia crebbe nella estimazione delle genti civili, e fu manifesto all’Europa còme gf italiani siano accónci a governare sè stessi.
» Accettando l’annessione, io sapeva a quali difficoltà europee andassi incontro. Ma io non poteva mancare alla parola data agl’italiani nei proclami della guerra. Chi in Europa mi taccia d’imprudenza giudichi con animo riposalo che cosa sarebbe diventata, che cosa diventerebbe l’Italia il giorno, nel quale la monarchia apparisse impotente a soddisfare il bisogno della ricostituzione nazionale!
» Per le annessioni, il moto nazionale, se non mutò nella sostanza, pigliò forme nuove: accettando dal diritto popolare
quelle belle e nobili Provincie, io doveva lealmente riconoscere l’applicazione, di quel principio, né mi era lecito il misurarla colla norma de' miei effetti ed interessi particolari. In suffragio di quel principio, io feci, per utilità dell’Italia, il sacrificio, che piu costava al mio cuore, rinunziando due nobilissime Provincie del Regno avito.
Ai Principi italiani, che han voluto essere miei nemici, ho sempre dati schietti consigli, risoluto, se vani fossero, ad incontrare il pericolo, che l'accecamento loro, avrebbe fatto correre ai troni, e ad accettare la volontà dell" Italia.
» Al Granduca io aveva indarno offerta alleanza prima della guerra. Al Sommo Pontefice, nel quale venero il Capo della religione de' miei avi e de' miei popoli, fatta la pace, indarno scrissi offerendo di assumere il Vicariato per l'Umbria e per le Marche (1).
(1) Il Re Vittorio Emanuele scrisse una rispettosa lettera al S. Padre, in cui gli proponeva di assumere il Vicariato per l’Umbria e per le Marche. «Al Sommo Pontefice, disse il Re in altra circostanza, nel quale venero il Capo della religione de’ miei avi e de miei popoli, fatta la pace, indarno scrissi offerendo di assumere il Vicariato per l’Umbria e per le Marche. Vi sarebbe modo di stabilire non solo nelle Romagne, ma altresì nelle Marche e nell’Umbria tale stato di cose, che, serbalo alla Chiesa l'alto suo dominio ed assicurando al Pontefice un posto glorioso a capo dell’italiana nazione, farebbe partecipare i popoli di quelle Provincie de’ benefizii, che un Regno forte ed altamente nazionale assicura alla massima parte dell’Italia centrale. Le Legazioni (soggiungeva il Re), le quali da tanti mesi si governano da sè, non danno più segni di malcontento e si governano nel modo il più lodevole. Si è provveduto alla cosa pubblica, alla sicurezza delle persone, al mantenimento della tranquillità e. alla tutela della stessa religione. È cosa nota che io ebbi cura di verificare essere ora nelle Legazioni i ministri del culto rispettati e protetti, i templi di Dio più frequentati, che non lo fossero prima.
» Era manifesto che queste Provincie, contenute soltanto dalle armi di mercenarii stranieri, se non ottenessero la guarentigia di governo civile, io proponeva, sarebbero tosto o tardi venate in termine di rivoluzione.
Non ricorderò i consigli dati per molti anni dalle Potenze al re Ferdinando di Napoli. I giudizii, che nel Congresso di Parigi furono proferiti sul suo governo, preparavano naturalmente i popoli a mutarlo, se vane fossero le querele della pubblica opinione e le pratiche della diplomazia.
» Al giovane suo successore io mandai offerendo alleanza per la gmerra dell’indipendenza. Là pare trovai chiusi gli animi ad ogni affetto italiano e gP intelletti abbaiati dalla passione.
» Era cosa naturale che i fatti, succeduti nell'Italia settentrionale e centrale, sollevassero più e più nella meridionale.
» In Sicilia, questa inclinazione degli animi ruppe in aperta rivolta. Si combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode guerriero, devoto all’Italia ed a me, il generale Garibaldi, salpava in suo aiuto. Erano italiani che soccorrevano italiani: io non poteva, non doveva rattenerii!
» La caduta del Governo di Napoli raffermò quello, che il mio cuore sapeva, cioè quanto sia necessario al Re l’amore, ai Governi la stima dei popoli!
» Nelle due Sicilie il nuovo reggimento s’inaugurò col mio nome. Ma alcuni atti diedero a temere che non bene interpretasse per ogni rispetto quella politica, ch'è dal mio nome rappresentata. Tutta l’Italia ha temuto che all'ombra di una gloriosa popolarità, e di una probità antica,
tentasse di rannodarsi una fazione, pronta a sacrificare il vicino trionfo nazionale alle chimere dei suo ambizioso fanatismo.
» Tutti gl'italiani si sono rivolti a me perché scongiurassi questo pericolo. Era mio obbligo il tarlo, perché, nell'attuale condizione di cose, non sarebbe moderazione, non sarebbe senno, ma fiacchezza ed imprudenza, il non assumere con mano ferma la direzione del moto nazionale, del quale sono responsabile dinanzi all’Europa.
» Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell’Umbria, disperdendo quell'accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che qui era raccolta, nuova strana forma d’intervento straniero e la peggiore di tutte.
» Io ho proclamato l’Italia degli Italiani, e non permetterò mai che l’Italia diventi il nido delle sette cosmopolite, che vi si raccolgano a tramare i disegni o della reazione o della demagogia universale.
» Popoli del? Italia meridionale !
» Le mie truppe s’avanzano fra voi per raffermare l’ordine. Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a far rispettare la vostra.
» Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà, il voto che deporrete nell’urna.
» Qualunque sia la gravità degli eventi io attendo tranquillo il giudizio dell'Europa civile e quello della storia, perché, ho la coscienza di Compiere i miei doveri di Re e d’italiano!.
» In Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli colla stabilità delle monarchie.
» In Italia so che io chiudo l’èra delle rivoluzioni.
» Dato in Ancona li 9 ottobre. 1860.
» Vittorio Emanuele.
» Farini.»
I.
Il ministro della guerra, incaricato del portafoglio degli affari esteri, ha diretto, in data o ottobre, la seguente Nota a’ rappresentanti esteri accreditati presso S. M. il Re di Napoli in seguito all’arrivo in Napoli dell'armata piemontese:
«Il Governo di S. M. ha ricevuta la notizia dello sbarco a Napoli di un certo numero di battaglioni piemontesi. Non sono questi i volontarii che, in numero così formidabile, sono usciti pubblicamente dal Piemonte, per rivoluzionare ed invadere il Regno delle Due Sicilie. Sono soldati dell’armata reale di Sardegna, appartenenti alle truppe regolari del Piemonte, che vengono, con la loro organizzazione e disciplina, ad aiutare Garibaldi e le sue bande nelle operazioni del Volturno.
Malgrado gli strani avvenimenti, che da ben cinque mesi si succedono nell’isola di Sicilia e nel continente napoletano, il Re mio augusto Signore ha esitato a credere unsimile attentato contro il diritto universale delle genti, contro la lealtà de’ Sovrani e la fede delle nazioni.
» Tra il Regno delle Due Sicilie ed il piemontese non esiste nessuna cagione di rottura di guerra. La buona intelligenza non 'è stata alterata mai da parte del Governo dèi Re, ed il mondo intero sa ino a qual punto ha portato S. M. siciliana il suo desiderio di un’alleanza intima col Piemonte. In questo momento esistono ancora ne’ due Regni i ministri accreditati dalle due Corti; e, malgrado i giusti e conosciuti motivi, che aveva il Governo del Re, per lagnarsi della condotta della Sardegna, non ha voluto dare pretesto di ninna sorte per una rottura delle relazioni tra i due Stati.
» È dunque in una posizione di pace fra i due Governi e senza dichiarazione di guerra che le truppe regolari dell’armata sarda invadono il territorio dei Regno di Napoli, combattono, contro il Re e prestano aiuto a’ suoi nemici.
11 sottoscritto ministro, provvisoriamente incaricato del, portafoglio degii affari esteri, si vede un’altra volta nella dispiacevole necessità di denunziare attentati di questa natura atta giustizia dell’Europa.
» Per ordine del suo angusto Sovrano egli adunque protesta, nella ferma la più solenne ed esplicata, contro questa invasione di soldati dell’armata sarda, e nel pregare Sua Eccellenza, ecc., di recare questa protesta a conoscenza del. proprio Governo, profitta della favorevole opportunità per rinnovarle gli attestati dell’atta sua considerazione.»
II.
Lo stesso ministro della guerra, incaricato del ministero degli affari esterni, diresse nella stessa data del 8 ottobre il seguente dispaccio a tutt’i rappresentanti di S. M. il Re di Napoli all’estero:
«Dopo avere spogliato il Re N S. de’ suoi Stati, la rivoluzione trionfante lo spoglia pure della sua privata e legittima fortuna. Con essa sono stati confiscati i maggiorati de’ principi, le doti delle principesse, il prodotto delle loro particolari economie, tutte le proprietà in somma, che, costituite dalle leggi civili, sono, in tutt’i paesi inciviliti e da’ più anarchici Governi, rispettate.
» Ma questo attentato non meriterebbe altro che lo sdegno di S. M», che avrebbe creduto al di sotto della sua dignità farvi attenzione, se allo spoglio non si accompagnasse la calunnia.
» Il giornale di Napoli del 90 settembre N. ® 8, nel rendere conto di questo fatto al pubblico, procura raccomandarlo o scusarlo, dicendo che, sapendo ministro di polizia di Garibaldi come grandi ricchezze, a scapito del popolo accumulato i principi di casa Borbone si diede a veder modo onde una parte almeno di esse fosse reintegrata al Tesoro della Stato. Raccontando poi la trasmissione violenta di una somma di 184, 608 ducati di rendita ed aggiungendola ad un’altra di ducati 317, 186, prodotto annuo dei maggiorati ed economie private della Casa reale, calcola il capitale di questa doppia rendita in undici milioni, legittimamente, aggiunge, rivendicata alle finanze dello Stato.
» Mentre che negl'inqualificabili atti, che hanno luogo nell’invasione del Regno, s'invoca soltanto il diritto della rivoluzione, il Governo di S. M. lascia alla Provvidenza, alla opinione pubblica ed alla giustizia dell'Europa il giudizio di uno stato di cose, che, opponendosi a tutt'i principii sociali, non può essere né accettato né durevole. Ma quando si parla di legge e di diritto, nello stesso tempo che si conculcano tutt'i diritti e tutte le leggi, il Governo di S. M. non crede dover lasciare agl'invasori ed ai rivoluzionarii il beneficio dell'impunità delle calunnie.
» Le rendite occupate violentemente dal signor Conforti e violentemente confiscate dal Governo di Garibaldi, si compongono di quelle due partite accennate nel suo giornale di Napoli. La prima cioè, quella di 184,608'ducati, rappresenta l'eredità lasciata ai suoi dieci figli ed ai poveri dal defunto re Ferdinando II.
» Questo è il frutto delle economie personali di 30 anni di regno; e dichiarare illegittima questa eredità val tanto che attaccare la legittimità della lista civile e del patrimonio, che hanno posseduto tutt'i monarchi delle Due Sicilie.
» L'altra partita si compone, nella maggior parte, dei maggiorati dei reali principi e delle doti delle reali principesse, costituite in virtù delle antiche e finora sempre rispettate leggi. Là stanno pure piccole economie, fatte in favére di orfani durante fa loro infanzia, come può rilevarsi dalla fiata stessa pubblicata nel giornale della rivoluzione, trovandosi due sole partite appartenenti al Re, una di 5415 ducati,
economie della sua assegnazione di principe ereditario, e un'altra di 67,509, interessi composti, ed accumulati durante ventitré anni, della dote ed eredità propria della sua illustre e venerabile madre, Maria Cristina di Savoia.
» La dote di questa principessa piemontese è stata confiscata dal Governo di Garibaldi, in nome del Re di Piemonte, e si contesta al figlio il diritto a quella santa e legittima eredità di sua madre, dovutagli in virtù di un trattato colla Sardegna!
» Nel permettermi, dopo le instanti mie preghiere, di trasmetterle queste necessarie spiegazioni, mi ha ordinato il Re N. S. di prendere per base la pubblicazione stessa, fatta dal Governo rivoluzionario, che si è impadronito dei suoi Stati in nome del Re di Sardegna. Non è certo l’animo di S. M. di lagnarsi dello spoglio di tutta la sua fortuna particolare; S. M. ne aveva fatto il sacrifizio, quando costantemente, anche nei giorni i più minaccianti della lotta e dell'invasione, si rifiutò ostinatamente a far vendere le sue rendite di Napoli per piazzarle con più sicurezza in fondi di altri e più fortunati paesi. Potrebbe sì compiangere la sorte di nove fratelli e sorelle condannati, senz’altro delitto che il loro nome, a vedere confiscati dalla rivoluzione tutt’i loro mezzi di fortuna; ma, qualunque sia il loro avvenire, sia la loro sorte vivere nell’esilio e nelle più dure privazioni, S. M. è sicura che sapranno sopportare l’avversità con costanza degna della loro stirpe e del rango, in che, per esempio gli altri, li fece nascere la Provvidenza. In mezzo a queste miserie della rivoluzione, splende più alta e più gloriosa la magnanimità del nostro augusto Sovrano.
I palazzi i musei che ha lasciato, nel partire, pieni dei tesori dell’inestimabile eredita de’ suoi antenati, attestano al mondo il completo disinteresse e la generosità d’animo di Francesco II.
» Unita la sua causa a quella dei suoi popoli, non ha voluto il Re trasportare fuori del paese neanche la stia particolare fortuna, come si sdegnasse salvare per sè una tavola nel naufragio generale del Regno. La sua indifferenza pei beni materiali della vita è proverbiale: né pure i grandi dolorosi avvenimenti, che hanno avuto luogo nel breve, ma difficile periodo della sua ascensione al trono, avrebbero permesso queste cure ad uno spirito esclusivamente occupato della pace e della prosperità de’ suoi sudditi.
» Non sono necessarie queste spiegazioni per quelli, che conoscono lo stato delle cose in Napoli; ma come potrebbe avvenire che trovasse eco in codesti paesi la calunnia, credo del mio dovere tenerla al corrente dei fatti, perché sia in grado di smentirla. Non sono tesori, che la casa di Borbone portò seco nell'abbandonare la capitale: sono i suoi palazzi, i suoi musei e la santa eredità de’ suoi antenati, che lascia come monumento della sua generosità nel suo sempre amato Regno, senza curarsi dell’eventualità dell’avvenire. La dote della madre del Re, l’eredità particolare di suo padre, i maggiorati, le economie de’ principi e delle principesse; tutto quanto costituisce la fortuna privata della famiglia reale, quanto assicurano le leggi civili, quanto rispetta il diritto comune de’ popoli, tutto è stato confiscato dal Governo rivoluzionario di Napoli, senza che il Re si degnasse ne anche protestare contro questo scandaloso spoglio, trovando al di sotto della sua dignità occuparsi
de’ suoi interessi particolari quando cadono i grandi interessi dello Stato. Nè avrebbe annuito alle rappresentazioni rispettose e ripetute del suo Governo, se non fosse dovere de' suoi ministri respingere con indignazione le false imputazioni, che possono agire sugli spiriti prevenuti od ignoranti.
» Ella è autorizzata a fare di questa comunicazione l'uso, che stimerà nella sua prudenza conveniente, e a rilasciarne copia a codesto ministero degli affari esterni.»
I.
Nel 7 ottobre il barone Winspeare, ministro di Napoli, che, come vedemmo nella parte seconda, capitolo secondo del primo volume, trovava si quale inviato del suo Governo presso il ministro piemontese conte Cavour, annunziò colla seguente lettera diretta allo stesso ministro Cavour, che abbandonava Torino:
«Eccellenza!
» L'occupazione del Regno delle Due Sicilie per parte dette truppe piemontesi, della quale io ebbi notizia mediante comunicazioni di Vostra Eccellenza, in data di ieri, è un fatto tanto apertamente contrario alle basi di ogni legge e di ogni diritto, che sembrerebbe quasi inutile che io mi dilungassi a dimostrarne l’illegalità. I fatti, che hanno preceduto questa invasione e i vincoli di amicizia e di parentela, tanto intimi, quanto antichi, ch'esistevano tra le due Corone, la rendono tanto straordinaria e tanto nuova netta storia delle nazioni moderne, che lo spirito generoso del Re. mio augusto padrone, non sapeva risolversi a crederla possibile;
ed infatti, nella protesta che il generale Casella, suo ministro degli affari esterni, indirizzava il 16 settembre scorso, da Gaeta, a tutt'i rappresentanti delle Potenze amiche, era chiaramente dimostrato che S. M. aveva la fiducia che S. M. sarda non avrebbe mai potato dare la sua sanzione agli atti di usurpazione, compiuti sotto l'egida del reale suo nome, nel seno della capitale delle Due Sicilie. È parimenti cosa superflua per me il cercar di dimostrare a Vostra Eccellenza che questa protesta solenne, unita a varii proclami del mio augusto Sovrano ed agli eroici sforzi fatti sotto le mura di Capua e di Gaeta, rispondono in modo incontestabile alla strana argomentazione dell'abdicazione di fatto di S. M., che io fui sorpreso di leggere nella comunicazione summentovata di Vostra Eccellenza.
» L'anarchia ha trionfato negli stati di S. M. siciliana in conseguenza di una rivoluzione traboccante, della quale, fino dal primo momento, tutti presentavano manifestamente i disordini futuri, ed alla quale il Re, mio padrone, proponeva già da gran tempo, ma invano, a S. IVI. il Re di Sardegna di opporre, con un comune accordo, una diga, affinché essa non potesse straripare e non potesse mettere in pericolo, coi suoi eccessi, la vera libertà e l’indipendenza d’Italia.
» In quest’ora fatale, in cui uno Stato, che conta dieci milioni d’anime, difende colle armi alla mano gli ultimi avanzi dell’istorica sua autonomia, sarebbe cosa vana il ricercare da chi questa rivoluzione sia stata sorretta, tanto da diventare un colosso, e(i in qual maniera essa abbia potuto arrivare a tanto da effettuare tutti quegli sconvolgimenti ch’esse aveva progettato.
Quella Provvidenza divina, della quale Vostra Eccellenza ha invocato il santissimo nome, pronuncierà, prima che scorra gran tempo, le sue. decisioni air ora del combatti mento supremo; ma, qualunque sia per essere questa suprema decisione, la benedizione del cielo non discenderà sopra coloro, che si apprestano a violare i grandi principii dell'ordine sociale e morale, facendosi credere gli esecutori di un mandato di Dio.
» La coscienza pubblica, dal canto suo, quando sopra di essa non peserà più il giogo tirannico delle passioni politiche, saprà determinare la vera indole di un' impresa usurpatrice, cominciata coll'astuzia e terminalo colla violenza.
» La cortese accoglienza fattami da questa popolazione ne generosa e leale, accoglienza della quale sarà sempre viva nel mia cuore la rimembranza, mi vieta di addentrar» mi più ancora nella critica severa degli atti del Governo di S. M. sarda; ma Vostra Eccellenza vorrà bene intendere' le ragioni, per cui un più lungo soggiorno a Torino del rappresentante, di S. M. siciliano sarebbe incompatibile colla dignità di S. M., come pure colle usanze internazionali.
» É per questi motivi, protestando solennemente contro l'occupazione militare sopraindicata e contro qualunque usurpazione dei sacri diritti di S. M. il Re del Regno delle Due Sicilie, già intrapresa e che sta per essere attentata, per opera del Governo di S. M. il Re di Sardegna; riservando inoltre, nello stesso tempo, al Re Francesco II, mio augusto padrone, il libero esercizio del potere sovrano, che a lui spetta, di opporsi, con tutti que mezzi ch’egli stimerà più opportuni, a queste aggressioni ed usurpazioni ingiuste, come pure di fare tutti gii atti pubblici e solenni,
ch'egli stimerà essere più utile alla difesa della sua reale corona; per questo, io dico, io mi appresto ad abbandonare questa residenza appena avrò terminato di porre in ordine alcuni affari particolari di S. M., relativi alla successione dell'augusta sua madre, di santa memoria.
» Prima di partire, io avrò l'onore di presentare a Vostra Eccellenza il sig. De Martini, il quale sarà semplicemente incaricato di trasmetterle le comunicazioni che il Governo del Re, mio padrone, trovasse più tardi conveniente d’indirizzare ancora al Governo di S. M. sarda.
» Mi permetta, signor Conte, di prendere congedo da Vostra Eccellenza, ringraziandola degli atti cortesi, ch’ella ha voluto usare con me nelle nostre relazioni personali, ed aggradisca, ecc.»
II.
Il ministro piemontese, conte Cavour, così rispose al barone Winspeare:
«Ill. barone.
» Gli avvenimenti, che seguirono in Napoli, or sono alcuni mesi, aveva indotto il Governo del Re ad inviare in quel porlo parecchi legni da guerra, con truppe a bordo, a fine di provvedere alla sicurezza di sudditi sardi. D’allora in poi lo stato degli affari di quella città divenne ogni giorno più allarmante. Il Re Francesco II abbandonò la sua capitale, e così de facto abdicò la sua corona in presenza del suo popolo.
La guerra civile arde nei territorio napoletano, e la mancanza di un Governo regolare pone in grande pericolo quei grandi principii, su cui è fondato ordine sociale.
» In tale frangente, i cittadini e le Autorità costituite dei Municipii di Napoli spedirono e presentarono al Re Vittorio Emanuele indirizzi con numero infinito di firme (1) implorando l’aiuto di quel Sovrano, a cui la Provvidenza affidò la missione di ricostituire e pacificare l’Italia.
» Ricordando i doveri che questa missione gl’impone, S. M. il Re, mio augusto Sovrano, ordinò che un corpo di truppe fosse spedito a Napoli. Questa misura, che pone termine ad uno stato di cose, da cui può derivare il disordine e l’anarchia, salverà l’Italia e l'Europa da gravi pericoli e toglierà ogni ulteriore spargimento di sangue.
» Nel compiere il dovere di significare a Vostra Eccellenza questa misura, colgo l’opportunità, ecc.
III.
Nel giorno 8 ottobre venne emanato in San germano il seguente atto in nome di Francesco IL
» Verranno formati de’ battaglioni di volontarii comandati da ufficiali del reale esercito. Tutti quelli che vorranno arrotarsi per la causa dell’ordine, si presenteranno ai sottintendenti di Mola,
(1) Nel primo settembre fu Inviata una deputazione siciliana al Re per la immediata annessione della Sicilia al Regno di Vittorio Emanuele.
Nel SS settembre cittadini napoletani presentarono un indirizzo al Re Vittorio Emanuele perché si recasse a Napoli a ristaurare la tranquillità.
Sora e Piedimoate, che ti spediranno ai deposito generate di Sangermano.
» Ad ogni volontario sarà corrisposto carlini 3 per giorno.
» Coloro che s'ascrivono come volontarii, potranno dichiarare, se lor piace, di voler poi prendere servizio regolare nelle milizie. In tal caso, avranno un premio di ducati 50 all’atto della loro reggimentazione, e ducati 90 finito l'ingaggio.
» Riconquistate le Provincie da’ volontarii, verrà loro contato come servizio militare tutto il tempo, che avranno servito come volontari!.
» Il maresciallo di campo, commissario del Re con Alter ego
«Luigi Scotti.»
_______________
I.
Il forte di Baia, con una guarnigione di circa 200 fra artiglieri e veterani, comandata dal maggiore Livrea, serviva di deposito generale delle polveri del Regno. Lo stesso Livrea, aveva pure il comando eventuale di Pozzuoli (I).
Due battelli a vela erano andati a caricare di polveri pei bisogni di Gaeta. Nel 19 settembre un maggiore dei garibaldini, con un seguito di cinquanta individui, si recò a Pozzuoli e fece conoscere che lo scopo della sua venuta era di condursi nel forte di Baia a farsene fare la consegna. Ne fu avvertito il maggior Livrea, che dapprima non rispose, ma poscia dichiarò che non cederebbe il forte se non dietro un ordine di Francesco II.
(1) Pozzuoli, o Pozzuolo, città e buon porto tul golfo età leghe 0. da Kapoli, conta 8200 abitanti.
Sapendosi che il forte non aveva provvigioni che per una ventina di giorni, a scanso di stragi, si è creduto meglio tenerlo assediato mediante un drappello di guardie nazionali di Baia e Pozzuoli, oltre i cinquanta ch'erano col maggiore garibaldino.
Verso le 6 antimeridiane del 23 settembre dal comandante il forte Baia si mandò ad intimare al capitano, comandante il distaccamento dei garibaldini, di allontanarsi colla sua truppa dalla posizione che occupava, fra due ore; in caso opposto, avrebbe fatto fuoco su essi.
Il capitano de' garibaldini corso in Pozzuoli per segnalare a Napoli tale intimazione; ma prima che fosse spirato il tempo, il forte cominciò a far fuoco e tirò 14 colpi di mitraglia.
La guarnigione del forte, sotto la protezione dell’artiglieria, fece una sortita, correndo per la campagna a prendersi ciò che le veniva fatto di trovare, e disarmò il posto di guardia doganale che rimaneva a poca distanza dal forte.
Il distaccamento di garibaldini, che componevasi di 60 individui, si ritirò in punti, ove non poteva essere offeso dal tiro di cannone, e non soffrì alcuna perdita.
Ma nel 6 ottobre il forte Baia a Pozzuoli si arrese ai patti. Il comandante pretendeva di trasferire la guarnigione con armi e bagagli a Gaeta e trasportarvi pure tutta la polvere da sparo, ch'era del peso di circa 500 cantaia, ma non venne concesso.
I prigionieri s’imbarcarono per Genova.
II.
La città di Messina era vessata da reiterati allarmi che cominciarono dal 23 settembre e non cessavano neppur di notte.
La cittadella, intanto che la truppa e la guardia nazionale accorrevano per respingere il fuoco degli avamposti, mandava dentro la città le sue granate.
Nei giorno 24 i due consoli inglese e francese, accompagnati dai rispettivi comandanti dei due legni da guerra, e preceduti dalle loro bandiere nazionali, si abboccarono nel terreno neutrale di Terranuova col generale Fergola, comandante della fortezza.
Il risultato sembrava rassicurante, giacché si era convenuto di richiamare in vigore il trattato già stabilito fra il generale Medici e il maresciallo Clary, da noi esposto nel volume primo, alla pagina 97, cioè di rimanere inoffensivi da una parte dall’altra. Ma alla notte nella città si sentì di bel nuovo il cannone.
Ecco la spiegazione di questo fatto.
Secondo gli accordi presi con Garibaldi, fu stabilito che la cittadella di Messina, baluardo formidabile, resterebbe fra le mani de’ napoletani fino a che fosse definitivamente decisa la sorte della Sicilia. I garibaldini, volendo obbligare i regii a lasciarla loro nelle mani, impedirono che giungessero alla guarnigione i viveri necessarii.
Il generale Fergola cominciò contro la città un fuoco assai vivo, il quale non cessò se non quando gli abitanti della stessa città obbligarono i garibaldini a dare i viveri alla guarnigione.
III.
Nel 3 ottobre alle 9 antimeridiane giungeva da Gaeta a Messina il vapore francese il Protis al servizio del re Francesco, portando un capitano dello stato maggiore, di Guillamatt, che si recò tosto alla cittadella.
Verso le ore 4 pomeridiane il suddetto Guillamatt portossi a bordo del pacchetto francese l’Imperiale, di stazione in porto, per dire al comandante Le Févre che i regii ritenevano rotta la convenzione 28 luglio, stanteché, da parte dei siciliani, non si erano osservate tutte le convenzioni della stessa, fra le quali la provvista dei viveri giornalieri, sospesa da qualche giorno, e la consegna dei materiali ed artiglierie dei due forti Gonzaga e Castellaccio; conchiudendo che il Re aveva dato ordine di svincolarsi da ogni impegno, e che la truppa a suo bell’agio avrebbe preso le offensive.
Il comandante Le Févre rispose convenevolmente, facendogli per ultimo osservare che i legni da guerra stranieri erano entrati in porto dietro un formale invito del maresciallo Glarv, il quale a suo tempo lo aveva assicurato che, in esito a convenzione stata firmata fra esso lui ed il generale Medici, i forti della cittadella non sarebbero per tirare sulla città se non quando venissero aggrediti dai siciliani, oppure si vedessero costruire approcci offensivi. 11 capitano Guillamatt soggiunse che, qualora riprendessero le ostilità, i comandanti dei legni stranieri in porto ne sarebbero avvertiti ventiquattrore prima.
Le Févre fu sollecito d’avvertire dell’accorso il comandante la fregata inglese lo, Lambert, e costoro, coi rispettivi consoli, stimarono opportuno, nell’interesse del paese, di recarsi immediatamente in cittadella onde chiarire qualche malinteso, che avesse potuto esservi di mezzo.
Richiesto del generale Pergola, questi non si fece vedere, ed invece i consoli, coi comandanti, furono ricevuti da diversi ufficiali di stato maggiore, compreso Guillamatt. Costui, in modo arrogante ed altero, ripetè lo stesso discorso tenuto al comandante Le Févre, ed alle osservazioni dei consoli soggiungeva che il Re, avendo la forza in mano, avrebbe usato tutt’i mezzi che stavano in lui per sedare la rivoluzione, non escluso il bombardamento, per distruggere Messina e l'invasione della stessa, per metterla a sacco ed a fuoco.
Dietro tutto ciò, è facile comprendere da quale scoraggiamento sia stata assalita la città, sapendo che non trovavasi truppa sufficiente da respingere un’invasione borbonica, operazione per altro che avrebbe condotto alle più tristi conseguenze.
Verso le 2 pomeridiane dello stesso giorno, i consoli suaccennati si recarono dal comandante della Provincia signor D’Antoni, per cercar modo d’evitare qualunque spiacevole conflitto, che avrebbe potuto accadere da un momento all’altro.
£rano le cose a questo punto quando giunse un ufficio del generale Fergola, dalla cittadella, col quale si dichiarava che da parte dei militari s'intendeva volersi osservare rigorosamente la convenzione dell'8 luglio.
Il comandante D'Antoni assicurò i prefati consoli che avrebbe disposto Toccorrente onde fossero immantinente secondati i reclami dei regii, ed in conferma di ciò andava a rispondere analogamente al generale Fergola.
Sparsasi in paese questa novità, la popolazione si rassicurò alquanto, e la emigrazione per la campagna, ch'era incominciata, fu naturalmente sospesa.
I.
La città di Capua, di Santa Maria, di Caserta e di Maddaloni si trovano presso che esattamente sur una medesima linea, dall’ovest al sud. Tutti questi punti sono uniti fra essi da molte strade, ed hanno di dietro altre strade che portano a Napoli. L’armata di Garibaldi occupava queste posizioni a partire da Santa Maria ed accampava sur una linea di dodici chilometri. Santa Maria sulla sinistra, di fronte il Monte Sant’Angelo, all'estrema destra Maddaloni, ed alle spalle il villaggio di San Tammaro. Quest’ultimo si trova nella posizione di una linea parallela al Volturno, che cadrebbe ad angolo retto sulla linea di battaglia, passando lungo i bastioni e il campo trincerato a Capua. La città di Caserta ha davanti San Leucio e il Monte Caro. Maddaloni estrema destra, è posta in faccia al Ponte della Valle.
II.
Il generale dittatore comandava il corpo di armata di Santa Maria e aveva scelto per posto la sommità del Monte Sant'Angelo, intanto che i generali Tiirr e Medici tenevano Santa Maria, e il colonnello Fardella, San Tammaro.
Il generale Sirtori si trovava a Caserta., il generai Bixio a Ponte della Valle e Maddaloni.
Il generale napoletano Ritucci si decise a riprendere l'offensiva cd a spingere le sue truppe verso Santa Maria, Sant’Angelo e Maddaloni. A tale oggetto si disposero tre colonne. La prima, sotto gli ordini del generale Von-Mechel, formando l’ala sinistra dell’esercito, muover doveva per Dugento e Maddaloni, a fine di riconoscere il nemico da quel lato.
Delle altre due colonne, runa comandata dal maresciallo Afan da Rivera e dai due comandanti di brigata generale Barbalunga e colonnello Polizzi, riconoscer doveva le fortificate alture di Sant’Angelo in Formis ed il sottoposto villaggio: l’altra, comandala dal generale Tabacchi, aveva ordine di minacciare sulla fronte Santa Maria e distrarre il nemico da qualunque operazione militare che avesse potuto fare contro il generale Von Mechel.
La cavalleria, in seconda linea, doveva sostenere le colonne, che procedevano innanzi, in caso di positivo combattimento, ed in pari tempo guarentire l’ala destra dell’esercito napoletano.
III.
All’alba del primo ottobre la fortezza di Capua fece varie scariche, e quindi i napoletani sortirono dalla piazza, dirigendosi in colonne serrate ed in tre corpi sul monte Sant’Angelo, Santa Maria e San Tammaro. Alla stessa ora Sirtori era attaccato a Caserta e Bixio a Ponte della Valle. L’armata napoletana marciò, con vigore e compatta sa tatto il fronte di battaglia.
I napoletani che s’avanzavano, contro il monte Sant’Angelo, si misurarono col dittatore in persona. Garibaldi non ha che pochi uomini con lui, e questo piccolo numero di combattenti non è nemmeno de’ suoi migliori. Egli slancia in avanti, contro il nemico che si arrampica sulle rocce, il battaglione siciliano, comandato da alcuni inglesi; ma i regii si spingono innanzi, tagliando la comunicazione con Santa Maria e involgono il dittatore.
La posizione del pugno d’italiani è compromessa. Si telegrafa per chiamar Bixio, ma Bixio dalle otto del mattino combatte ed ha respinto quattro volle l’assalto de’ regii. Alle tre pomeridiane gl’italiani avevano perduto due cannoni.
Garibaldi non si perde di coraggio, grida che la giornata debb’essere degl’italiani, e comprende che la vittoria si deciderà a Santa Maria. I suoi uffiziali, il suo stato maggiore, e le guide mettono mano alla sciabola. Cento uomini si slanciano, col dittatore alla testa, dalla parte della città, riaprendo la comunicazione, riprendendo due pezzi e ritornano riconducendo soccorsi e prigionieri.
Allorché Garibaldi ordinò questa mossa, vi fu alcuno il quale disse che si mancava di cartucce. Egli rispose che avevano le baionette.
Il dittatore restò un momento a Santa Maria; vide che i suoi soldati tenevano fronte a’ regii e che questi non avrebbero potuto riacquistare la batteria in posizione e ripartì di galoppo per monte Sant’Angelo.
Arriva e trova i napoletani battuti, che abbandonavano, ritirandosi le chine del monte, verso le 5 ore e mezzo di sera. L’estrema destra era vittoriosa.
Da una parte e dall’altra si era combattuto con accanimento, con perdite enormi. I volontarii avevano resistito con un coraggio impareggiabile.
Ma l’armata italiana è sempre sotto la minaccia di una sconfitta. San Tammaro non è più suo. 1 garibaldini, che v’erano, si sono ritirati verso Santa Maria, lasciando ai regii il villaggio, che saccheggiarono ed incendiarono. La cavalleria del re aveva caricato sei o sette volte nella giornata su’ piani di San Tammaro ed aveva recati gravi danni.
D’altra parte il dittatore sente che Sirtori aveva perduto terreno a Caserta.
Ed, in fatti, ecco ciò che era avvenuto da quella parte. Sirtori era stato attaccato dal grosso delle forze regie, all’improvviso, cioè da colonne vegnenti da Caserta Vecchia e S. Leucio. La metà de’ soldati italiani ebbe appena il tempo di schierarsi in battaglia. I calabresi ritiravansi battendosi male; il generale batte la ritirata abbandonando Caserta e fa fronte più lungi. Invia a domandar da tutte le parti soccorsi, ma tutti sono impegnati. Allora egli telegrafa a Villamarina, ministro di Sardegna, esponendo la posizione come disperata. Gli si risponde che i piemontesi arriveranno, ma che bisogna loro accordar tempo per arrivare. Sirtori si vede battuto, sente Garibaldi compromesso, ma sa che Bixio è vincitore e si sostiene sempre, gettando in prima linea i migliori de’ suoi soldati.
La giornata intera si passa senza che la situazione migliori, anzi diventa più grave. La notte pose fine al coni battere.
IV.
Ecco come viene narrato il fatto avvenuto al 1 ottobre dalla Gazzetta di Gaeta del 4, dietro i rapporti uffiziali:
» Alle 2 antimeridiane dei l.° ottobre uscirono le truppe da Capua, liete e fidenti nel loro valore, per la porla di Napoli.
» All'alba, aprirono il fuoco i cacciatori dell'ala sinistra ed il battaglione tiragliatori della guardia, che per la prima volta combatteva e con valore.
» Allo avanzarsi dei nostri uscirono gli avversarli da Santa Maria e discesero da Saul' Angelo, ma in breve tempo furono vigorosamente respinti ed obbligati di ritornare alle lor forti posizioni. La colonna de' cacciatori alla sinistra, con vivo fuoco di fucileria, protetta dalle artiglierie di montagna, si spinse risolutamente innanzi, e, giunta sulla dominante posizione di Sant'Angelo, conquistò alla baionetta tre batterie colà piautate, i pezzi delle quali parte furono inchiodali, altri rovesciati ne' sottoposti burroni, trasportò nella piazza sei pezzi di artiglieria da campo e di montagna, e procedendo sempre innanzi superò la prima e la seconda barricata del villaggio di Sant'Angelo in Formis, fece molti prigionieri, prese armi e munizioni in gran copia, cavalli e muli, e poscia si ristorava colla zuppa preparata pei nemici, vinti e messi in fuga.
» Non è a descriversi l’energia e l'ardore dimostrato dagli uffiziali e soldati de' cacciatori e dalla cavalleria di questa colonna nella ricognizione di Sant'Angelo, e la bravura degli uffiziali e soldati di artiglieria, i quali, colla precisione de’ loro tiri, furono di possente aiuto alla fanteria.
» Nè altrimenti poteva avvenire, poiché la presenza di S. M. il Re in quel punto animava e sosteneva il coraggio de’ prodi, che combattevano, e coi quali in seguito divise la gioia del successo.
» La colonna, destinata a minacciare Santa Maria, riconobbe il nemico e tentò un attacco, nel quale alcune compagnie del 9.° e del 10.° di linea, ed altre dei tiragliatori, con islancio incredibile, giunsero nel paese, superando le prime barricate sotto il fuoco micidiale di molte batterie.
Le LL. A A. RR. il Conte di Caserta e il Conte di Trapani non lasciarono dal guidare quelle colonne, e divisero colle truppe le fatiche e pericoli. Meritate lodi si debbono all’artiglieria, la quale perdè diversi uffiziali, sott’uffiziali e soldati nell’attacco delle prime batterie di Santa Maria, ove si vide obbligata di lasciare due pezzi, solo perché, feriti e morti il maggior numero degli animali, tornava impossibile di ritirarli sotto il vivo fuoco della mitraglia nemica.
» Eguale onorevole menzione meritarono i cacciatori a cavallo pel loro brillante modo di combattere.
» Sulla destra della linea, il brigadiere Sergardi, con meno di diie squadroni di lancieri ed un distaccamento di zappatori e quattro pezzi, attaccò il villaggio fortificato di San Tammaro, superò le barricate, se ne impossessò, prese una bandiera e tolse al nemico molte armi, munizioni e prigionieri.
» Il generale Colonna, rimasto sulla sponda destra del Volturno, impedì al nemico di passare il fiume a Trifrisco, ove si presentò con forze imponenti, le quali furono respinte nel bosco di San Vito, e poscia da bravi cacciatori snidate e disperse.»
V.
Dalla parte di Bixio, non vi fu, in paragone agli altri combattimenti, che una scaramuccia. Sirtori aveva dinanzi a sé 8000 uomini; Bixio non ne aveva che 2000, tenendo pure al Ponte della Valle sei pezzi di cannone trincerati.
I napoletani, che lo avevano attaccato, invece di venire da Capua, come le colonne di Santa Maria e di Caserta, vennero lungo il corso del fiume, da parte di Salapala e di Lumatola.
Il generale garibaldiano fece ripiegare i suoi avamposti e attese dietro i cannoni che il nemico lo assalisse; allora ordinò il fuoco ed una carica alla baionetta. I napoletani vennero respinti.
Bixio ebbe cognizione della posizione di Sirtori, e appena si sentì libero, lasciò qualche compagnia a Ponte della Valle e si portò a passo di corsa sulla strada di Caserta.
VI.
In questo fatto si narra il seguente episodio riguardante a Garibaldi:
Garibaldi era partito col suo stato maggiore da Caserta alle 5 e un quarto del mattino, e, arrivato a Santa Maria, saliva m calesse e si avviava alla volta di Sant'Angelo.
Tre carrozze seguivano il cocchio del generale, in cui trovavansi il colonnello Deideri, il capitano Baffo e due altri ufficiali. Missorì e Paverini erano nella seconda, col conte Arrivabene, che aveva preso il posto accanto al cocchiere. Altri dieci ufficiali seguivano nelle altre due.
Mezz’ora prima della partenza di Garibaldi da Caserta, il capitano Gusmaroli aveva ricevuto l’ordine di scortare un pezzo da 18 a Sant’Angelo, e fu egli incontrato da Garibaldi a 400 metri dal piccolo ponte, che attraversa la strada consolare, a un miglio da Sant’Angelo.
Giunte che furono le quattro carrozze a 100 metri dal ponte, un battaglione di cacciatori napoletani, movendo dalla direzione di Capua, era giunto a 80 passi dalla strada consolare che esse percorrevano. Il pericolo era imminente, ed ove i regii fossero arditamente corsi alla carica, avrebbero indubbiamente avviluppati ed arrestati que’ cocchi. Ma invece di precipitarsi sulla strada, i cacciatori napoletani aprirono un vivissimo fuoco contro le carrozze, che già strascinate dal corso velocissimo dei cavalli, erano giunte a 20 passi dal ponticello. La pioggia di palle era talmente fitta, che uno dei cavalli della seconda carrozza cadeva morto in un col cocchiere che lo guidava. A vedere que’ calessi, sembrava impossibile che coloro che gli occupavano avessero potuto salvarsi. Vennero essi traforati da centinaia di palle.
Arrestati i cocchi, Garibaldi scese il primo; gli ufficiali lo seguirono, e, come per orizzontarsi in quel periglioso tafferuglio, scesero nel fossato, che corre perpendicolarmente alla strada.
Serrarsi tutti attorno di Garibaldi, fu un momento; eglino erano decisi a Tendere a caro prezzo le loro vite minacciate. Gli avamposti di Medici, che guardavano quel punto, erano bensì indietreggiati, ma ordinatamente e senza cessare il fuoco.
Erano eglino milanesi, ed alla voce di Garibaldi, che gli eccitava a resistere, quel pugno d'uomini perdurava nel fuoco, dietro le piante della strada e dietro il parapetto del ponte. Quell’ordine fu dato ed eseguito in un momento, ed accadeva che i napoletani, sebbene s’avanzassero sempre, pur il facessero lentamente. Più dei soldati di Medici, però, valeva ad arrestarli il cannone del Gusmaroli, il quale, avvedutosi come Garibaldi e 1 suoi compagni fossero sul punto d’esser fatti prigionieri, aveva diretto il pezzo contro gl’irrompenti cacciatori. Garibaldi aveva guadagnato cinque minuti, e per lui cinque minuti non è breve corso di tempo.
Calmo e sereno, cogli occhi sfolgoranti d'ardire, rinvenne egli sulla strada per giudicare la situazione, e, sguainando la spada, al grido di Viva l'Italia, s’apprestava a caricare i napoletani.
Erano venti ardimentosi, che intendevano opporsi allo avanzare di un intero battaglione. Veduto però come i cacciatori napoletani avessero rallentata la marcia, quello stuolo scese di bel nuovo nel fossato, seguendo la via che, attraverso le radici di quei colli, conduce a Sant'Angelo.
In questa via Arrivabene, poggiando troppo nella direzione di S. Prisco, fu ferito in una gamba e poi fatto prigioniero dai napoletani, che avevano girato il monte.
VII.
Garibaldi, sendo nella notte andato a visitare la posizione di sinistra trovò che Monte Sant’Angelo era bene difeso, e che Santa Maria aveva poco sofferto. Finalmente sentì che i napoletani, vincitori a San Tammaro, avevano abbandonato quella posizione e si erano ripiegati con quelli eh’ erano stati battuti a Santa Maria e a Monte Sant'Angelo. Il dittatore vide che non v’era nulla a temere da questa parte e corse immediatamente a Caserta.
Intanto Villamarina, ministro sardo, aveva ricevuto i dispacci di Sirtori il cui linguaggio era pressante. Il ministro divise le inquietudini del generale ed inviò sul campo di battaglia 1500 piemontesi, cioè un battaglione della brigata del Re e due batterie che si trovavano in città. Questi soldati, partiti la sera, arrivarono nella notte al campo.
Vili.
Allo spuntare del giorno 2 ottobre Garibaldi, Sirtori, Bixio e i 1500 piemontesi si trovavano fra Marni e Caserta.
Il segnale della partenza era dato e si marciava in avanti.
I napoletani nella notte non istabilirono alcun trinceramento e neglessero le cautele le più elementari della guerra. Affaticati, si riposarono nel parco di Caserta.
I piemontesi marciavano alla testa ai garibaldini, e, da frappe fresche, piombarono con furore sui regii storditi.
I soldati di Francesco II resistettero, ma senz'ordine; vennero stretti su tutt’i punti, si sbandarono e vennero fatti in gran parte prigionieri.
Alle ondici ore del mattino non vi era più resistenza in nessuna parte, e Garibaldi potè scrivere alle 2 ore pomeridiane: La vittoria è completa su tutta la linea.
IX.
Un milite che si trovò in questo combattimento così scrive: «Dirvi con qual furore si combattesse colè non sarebbe possibile. Io ho fatta Vultima campagna di Lombardia, mi sono trovato a Magenta ed a Solferino, ma ora credetti assistere un’altra volta a quelle orribili carneficine. Le posizioni de' garibaldini furono prese e riprese tre volte alla baionetta. La mitraglia solcava profondamente il suolo. Cosa strana! si combatteva senza neppure levare un grido, con un silenzio fremente. Il cannone solo rimbombava da tutte le parti; il cielo era sereno: il sole brillava con tutta la pompa de’ suoi splendori.»
Tutte le forze regie, che hanno preso parte air azione, erano in numero di 2o mila contro soli 10 mila garibaldini. Il re Francesco II comandava in persona vestito da borghese, e fu veduto qualche volta al fuoco.
Garibaldi trovavasi, quasi per miracolo, dappertutto e specialmente dove più ferveva la lotta e maggiore era il pericolo. Durante il fiero combattimento visitò tre volte tutt'i punti annunciando la vittoria ed incoraggiando i suoi soldati alla tenzone.
Icarabinieri genovesi fecero prodigii di valore. Essi soli fecero prigioniero un battaglione di napoletani. L carabinieri non toccarono gravissime perdite. La quinta brigata stette sempre in prima linea a Sant'Angelo e si segnalò per rara intrepidezza di fronte alla mitraglia nemica.
Il maggiore Morici con soli 50 uomini riprese una batteria dalle mani de' regii con ardimento ed intelligenza incomparabili. Garibaldi lo promosse al grado di tenente colonnello.
Il brigadiere Assanti, dopo aver combattuto co' suoi tutta la giornata del l.° ottobre, apportando gravi perdite al. nemico, nel successivo giorno indefessamente continuò, a combattere con tutta la sua brigata, a seguito del generale dittatore da|la parte di Caserta Veccipa, una colonna di regii che ascendeva a 8000 uomini, costringendo il nemico a, la, sciare un' immensità di prigionieri circondati dalle sue colonne, e grave danno arrecandogli per morti e feriti.
X.
Ecco l'ordine del giorno pubblicato da Garibaldi dopo questo fatto, in data 2 ottobre:
«Militi dell'armata italiana!
» Combattere e vincere è il motto dei valorosi che vogliono ad ogni costo la libertà dell'Italia, e voi l'avete provato in questi due giorni di pugna.
» Ieri su tutta la linea la vittoria vi coronava. Oggi in Caserta e sulle sue alture si compiva uno di que’ fatti d'armi che la storia registrerà tra i più fortunati.
» I prodi e disciplinati soldati del settentrione, comandati dal valoroso maggiore Luigi Soldo, hanno mostrato oggi di che è capace il valore italiano riunito alla disciplina, e se sarà calpestata ancora questa antica regina del mondo, quando i suoi figli sieno concordi tutti al riscatto della loro terra, guai!»
Nella rivista che nel giorno 6 ottobre Garibaldi fece a Caserta, il dittatore volse parole cortesi a tutti, ma allorché si trovò dinanzi di un decimato corpo di bersaglieri, Turr disse a Garibaldi: — Eccovi i bravi bersaglieri milanesi. — Il generale li osservò e disse loro: — Mi ricordo; sono quei prodi che caricarono così bene nella giornata del primo ottobre, e eh' io ebbi occasione di vedere. Bravi! vi batteste da veri italiani, da vecchi soldati; io vi ringrazio a nome anche d'Italia. —
IX.
Poco mancò che le schiere di Francesco II piombassero sulla capitale. La strage dell'una e dell'altra parte fu grande, e dopo il tripudio del popolo nelle prime ore del cessato pericolo, la capitale era atteggiata a serietà confinante colla mestizia pensando allo sparso sangue italiano.
La mancanza di cavalleria e la scarsità di artiglieria dei garibaldini fece risaltare la loro prodezza, ma rese assai più lunga e sanguinosa la lotta.
La vittoria riportata da’ garibaldini al Volturno occupò non solo la stampa napoletana, ma quella di tutta Europa. L’importanza, la durata e la ferocia dell’azione, lungamente dubbiosa, l’ardito tentativo del Borbone, sebben fallito, e il capitale pericolo che corse Garibaldi, scossero l’opinione pubblica.
Dopo i fatti del 1 e 2 ottobre Garibaldi mandò al sig. Villamarina, ministro sardo, un suo aiutante, per ringraziarlo dell’aiuto che gli avevano recato i piemontesi.
I.
Un corpo d'esercito piemontese venne destinato ad operare nello Stato di Napoli. Esso si componeva di 25,000 uomini senza noverare le truppe speciali. Questo corpo aveva a sua disposizione un'artiglieria numerosa ed un parco di assedio per le operazioni contro le piazze forti. Ai primi di ottobre esso era in parte giunto a sito.
Il rimanente dell’esercito pigliava posizione nella Romagna e nei Ducati.
II.
Dopo i fatti del 1 e 2 ottobre le posizioni di S. Tammaro, S. Maria, S. Angelo e Monte Tifato vennero rafforzate con opere avanzate di fortificazione passeggiera di terra e barricate coronate di cannoni.
Caserta divenne così una vasta piazza d’armi, in cui si era nuovamente organizzato il servigio de' viveri, d’ambulanza, d’equipaggiamento e munizioni.
Il passo di S. Leucio e la valle di Maddaloni vennero pure validamente munite con nuova forza di grosse artiglierie rigate, messe al coperto da trincere e fossati.
III.
Garibaldi ai 4 ottobre diresse in persona una ricognizione verso Capua. Ei riscontrò che la linea del Volturno era ancora fortissimamente guardata, e che le truppe regie, malgrado il loro ultimo rovescio, erano in grado di difenderla vigorosamente.
Ei si recò al ponte di Treflisco, situato a cinque chilometri sopra Capua e riconobbe che nuovi fortini, protetti da numerosa artiglieria, erano stati pure di recente rizzati su quel punto, e ch’era divenuto impossibile, in conseguenza di tali disposizioni, rigirar la piazza dal settentrione.
IV.
Dopo il combattimento del 1 e 2 ottobre non avvenne altro scontro dinanzi a Capua sino al giorno 8.
In questo giorno fu tentato dalle truppe garibaldine un reiterato assalimento dalla parte di San Lazzaro, che venne gagliardamente respinto dai regii. In tale fazione le artiglierie regie, sotto lo sguardo de' principi reali, fecero gran danno al nemico,
che soffrì gravi perdite in morti e feriti, mentre il colonnello napoletano di Liguri, colle sue truppe rinforzate dai tiragliatori della guardia, occupò una posizione de' garibaldini e v’inchiodò un cannone.
V.
Nello stesso giorno 8 avvenne un combattimento nelle posizioni di Sant'Angelo, che, ristretto sul cominciamento a poche fucilate tra sentinelle avanzate, prese in seguito serie proporzioni (1).
Dal campo napoletano e garibaldiano ingrossò il soccorso d armi. I napoletani trovarono modo, colle molte zattere di cui disponevano, di passare il fiume.
Il combattimento durò sei ore, ma in fine i garibaldini ributtarono i nemici al di là del fiume e poterono stabilirsi propriamente dietro l’argine del medesimo, dove non avevano mai potuto fino ad ora fermarsi a lungo.
In questo fatto la brigata Eberardt tolse due cannoni ai nemici.
I garibaldini perdettero 29 uomini ed ebbero molti feriti.
.
(1) Questo fatto d’arme dicevasi provocato dal brigadiere garibaldino Eberardt, il quale credeva di esser egli e la sua brigata in cattivo concetto presso il dittatore.
Pertanto il brigadiere Eberardt si portò con un aiutante fin presso la riva del Volturno, trasse un colpo di revolver al soldato ch'era in fazione dall al tu parte, indi comandò a tutti di far fuoco
VI.
Contemporaneamente e. precisamente sotto l'anfiteatro Campana, i regii, ch’eransi avanzati in gran numero, farono assaliti da una parte della divisione Cosenz alla baionetta, e fu fatto prigioniero un battaglione di cacciatori napoletani.
I.
Malgrado l’apparente tranquillità che regna nel teatro della guerra in questi giorni, tuttavolta si lavora con grande attività. A Sant'Angelo si stanno costruendo nuove batterie, una delle quali fu già costretta a ritirarsi: si stanno pure preparando le barche che devono servire per la costruzione di un ponte sul fiume.
Fra S. Maria e S. Angelo si collocano i fili elettrici: nella prima posizione, il genio si occupa di fortificare i posti avanzali, le cui linee ognor più larghe terminano sotto le mura di Capua.
Tutte le case isolate nella campagna sono tramutate in altrettanti forti, coi loro fossi, cannoni e ferritoie. Presso la Porta di Capua a S. Maria, i soldati hanno innalzato tende, che sono vere case. Una fabbrica di mattoni, trovata precisamente in mezzo del campo, fu immediatamente usufruttata per fare alloggi più solidi di quelli costrutti colla paglia o colla tela, ed ecco improvvisato un bel villaggio militare al quale nulla manca. Tutto questo, a dispetto del cattivo tempo, cagioni un indescrivibile andirivieni.
II.
Nel giorno 9 Garibaldi passò a rassegna a S. Maria la 18. divisione comandata dal generale Bixio. Tributò elogii per Io slancio e valore mostrati dalla medesima nel giorno primo ottobre, e dipoi, fatti venire alla sua presenza due uffiziali che non si mostrarono prodi, tolse loro colle proprie mani i distintivi del grado.
Il dittatore fece anche molti encomii al corpo dei chirurghi della mentovata divisione, che mostrò uno zelo ed un'abnegazione senza pari nel soccorrere e medicare i feriti.
Strinse a tutti la mano, e dipoi, salito a cavallo, in mezzo agli evviva clamorosi dell'armata, fece ritorno a Caserta.
III.
Nel giorno che precedette l'arrivo a Giulianova del re Vittorio Emanuele, cioè nel 14 ottobre, ebbe luogo una dimostrazione in occasione del passaggio in questa città del ministro Villamarina.
La popolazione di ogni classe, con un sì al cappello (1), chiamò il marchese al balcone, applaudendo fragorosamente a Vittorio Emanuele e a Cavour. Villamarina, fattosi alla finestra, pronunciò un discorso, riassunto nelle seguenti parole:
(1) Io segno che aderivano all'annessione del Napoletano al Piemonte.
«Ringraziare la popolazione in nome del Re; promettere a tutti di farsi interprete de’ sentimenti di questi cittadini verso S. M., che rientrerà in queste Provincie per ridonare la pace, la sicurezza e la libertà. Vittorio Emanuele chiamarsi re galantuomo e con tutti sempre mostrerebbesi tale. Il suo nome suona, all'orecchio di tutti, lealtà, coraggio, abnegazione.»
Queste parole furono accolte con vivissimi applausi ed evviva al Re, a Garibaldi, a Cavour ed a Villamarina.
S. M. il re Vittorio Emanuele giunse in Giulianova nel 15 ottobre a mezzogiorno.
Grande fu l'entusiasmo nella popolazione. Si cantò in chiesa l'Oremus col Salvum fac regem Victorium Emanuelem.
IV.
Garibaldi, prima di mezzogiorno del 12 ottobre, giungeva in Napoli e radunava il consiglio de' ministri dimissionarii. Dopo una seduta, che fu animatissima, si sparse voce che la tanto biasimata Segreteria verrebbe ricostituita e che si tornava all’indirizzo politico del Bertani.
A questa nuova, l’agitazione aumentò, cosiché la guardia nazionale, per precauzione, fu chiamata sotto le armi e occupò con maggiore forza i soliti posti. A notte, la dimostrazione assunse un carattere grave e non mancavano i fischi e i morte ai repubblicani! L’ordine però non venne menomamente turbato, e quello che giovò molto a mantenerlo fu il seguente proclama de) dittatore, il quale rese la fiducia nella commossa popolazione, annunziando entrata del Re nel territorio napoletano.
«Cittadini;
» Domani, Vittorio Emanuele, il Re d’Italia, 'reietto dalla nazione, infrangerà quella frontiera, che ci divise per tanti secoli dal resto del nostro paese, ed ascoltando il voto unanime di queste brave popolazioni, comparirà qui fra noi.
» Accogliamo degnamente il mandato dalla Provvidenza e spargiamo sul suo passaggio, come pegno del nostro riscatto e del nostro affetto, il fiore della concordia, a lui così grato ed all’Italia cosi necessario.
» Non più colori politici! non più partiti! non più discordie!
» L’Italia una, come la segnano saviamente i popoli di questa metropoli ed il Re galantuomo, sieno i simboli perenni della nostra rigenerazione, della grandezza e della prosperità della patria.»
V.
II ministro dell’interno di Napoli diresse ai municipii del regno la seguente circolare:
» Il Re galantuomo viene tra noi. Annunziate ia lieta novella all’intera provincia, affinché tutti ne abbiano prontamente il gaudio che essa ispira ad ogni buon italiano.
» Il suo precursore, il nostro invitto ed eroico dittatore, ne benedica Iddio sommo, consente che deputazioni di ogni ordine di cittadini vadano a rendergli, in sulla via, l’omaggio di fedeltà, che già tutti gli abbiamo giurato.
» In questa ed in ogni altra maniera, egualmente onesta e civile, si manifesti liberamente la pubblica opinione, che debb'essere ornai il fulcro incrollabile de nostri futuri destini.
» Chi voleva che la sua manifestazione fosse ostacolata, offendeva la civiltà, conculcava la ragione de' tempi, ribellavasi al glorioso e civilissimo dittatore. Egli vuole che l’Italia sia tutta con Vittorio Emanuele, e lo vuole siccome interprete appunto del desiderio e della volontà ferma di tutti gl'italiani. Egli quindi non vuole che ciò che tutti vogliono.
» Sia perciò libera ad ognuno la parola pel nostro redentore.
» A questa non manchi, per colpa di chi governa, verun modo di libera manifestazione. E cosi uniti, dignitosi, concordi, avremo portata la nostra pietra al patrio edilizio: L'Italia e Vittorio Emanuele.
I.
Nel giorno 15 ottobre la posizione di Monte S. Angelo (1) fu il punto preso di mira dai regii, che vi furono valorosamente respinti dai piemontesi, dei quali 36 vennero messi fuori di combattimento, e fra questi vi furono 6 morti. 11 combattimento durò 8 ore circa.
Ecco il rapporto che ne fa il generale Milbitz al generale Tiirr a Napoli:
«Il nemico ha attaccato la sinistra di S. Angelo ed è stato respinto. Siamo pronti su tutta la linea per riceverlo, nei caso che nuovamente avanzasse.
» Nel giorno 15 vi è stato attacco per parte de’ regii nella sinistra de’ nostri. La posizione di Monte Sant'Angelo è stata il punto preso di mira. 1 piemontesi hanno respinto il nemico e l'hanno inseguito fin sotto le mura di Capua. Un centinaio di essi sono rimasti nostri prigionieri. 11 combattimento è durato dalla 2 e mezzo alle 10 ant.»
(1) Sant'Angelo o Monte S Angiolo, città nella Capitanata sul monte del lo stesso nome, a 2 leghe N. da Manfredonia, conta 11000 abitanti.
II.
Verso le prime ore del mattino del 17 ottobre incominciò una lunga fucilata rimpetto a S. Michele (1). I regii, che tenevano l'offensiva, si avanzavano guadagnando terreno, quando la legione de' volontari! inglesi, che fra le altre eroicamente sostenne 1 attacco, si spinse con incredibile slancio alla baionetta, ed i regii vennero messi in precipitosa fuga lasciando diversi prigionieri.
Ecco il rapporto del colonnello inglese Peard, diretto a Garibaldi su questo combattimento:
«Eccellenza;
» Ho l’onore di riferire che, dopo aver preso le posizioni accennatemi, posi una compagnia in appoggio della batteria nel centro della posizione, ed inviai la 10.a compagnia ad occupare una fattoria situata di fronte, mandando nello stesso tempo due compagnie a sinistra, e due a sostenere la compagnia avanzata del l.° battaglione.
» Udendo un vivo fuoco di fronte, io andai in persona alla fattoria, ove era appostata la 10. compagnia ed ordinando a tre compagnie del 2.° battaglione di salire, io avanzai due compagnie (la 10. e la 7. ) in catena. Il fuoco continuando fortemente ed i bersaglieri sul colle sembrando pressati, ordinai alla 2.a in catena di avanzare in loro soccorso, e nello stesso tempo, avanzai due compagnie per occupare la linea che avevano tenuto la 10a e la 7a.
(1) San Michele, borgata nel Principato Citeriore in vicinanza a Cava, popolazione 1900.
Andai innanzi colle compagnie che si avanzavano, accompagnato dai seguenti ufficiali: capitano Hoskin, maggiore di brigata; capitano Sarsfield, segretario militare; capitano Hare, A. D. C.; luogotenente Gribell; luogotenente Campbell; luogotenente Knapmann.
» Gli uomini si avanzarono in ordine ammirabile ed aprirono il fuoco con gran precisione. Io ebbi allora da deplorare la perdita del sig. Tucker, interprete della brigata, che cadde, essendo in avanti della linea dei combattenti.
» Il nemico essendo in gran forza, ordinai al mio aiutante di ritornare e condurre un rinforzo. Per ciò condusse i numeri 4 e o alla fronte.
» Il fuoco era eccessivamente grave, ma, uniti ai bersaglieri, noi potemmo, non solo resistere, ma respingerei nemici entro le loro linee, con gran perdita.
» Dalla parte della brigata io ho da lamentare due uccisi, ed otto feriti, senza menzionare le contusioni, cioè: Uccisi: alfiere B. Tucker, interprete; comune Luigi Mitehell, compagnia n.° 7. Feriti: comuni, Giovanni Clark, Guglielmo Ritchie, G. Prosser, M. Cartbv, Wilson, caporale Benne!; comuni Matthew e Bats.
» Non posso parlare mai abbastanza bene della condotta dei miei soldati e ufficiali. Uomini, che per Io più non hanno mai veduto un nemico, e che, per la maggior parte, sono stati arrotati solo poche settimane fa (1), non solo si avanzarono sotto un vivo fuoco
(1) Il primo battaglione dei volontarii inglesi, forte di 650 uomini, arrivò nel 15 agosto a Caserta. Avevano piccolo uniforme bigio con mostre nere ed erano armati di carabine Enfield.
nel modo il più valoroso, ma si ritirarono, quando io stimai necessario di farsi, colla regolarità e precisione de' veterani.
Si condussero tutti così bene che sarebbe ozioso il particolareggiare, ma sarei ingiusto se trascurassi di recare a vostra notizia la valorosa condotta del capitano Stvles, che, con tutta la sua compagnia, si offri volontariamente di attaccare alla baionetta il nemico nell"ultima posizione che occupava, dopo essere stato impegnato tutto il giorno. Mi rincrebbe che, pel bene del servizio, questa offerta non potesse essere accettata.
» Permettete che richiami particolarmente la vostra attenzione sui servigli resi dal comune Carlo Mundav, della compagnia granatieri; i chirurghi della brigata non essendo presenti, egli, avendo studiato medicina, recò un importantissimo servigio coll'esercizio di quella professione ai feriti.
» I seguenti soldati, cioè i comuni Wolke, Wilson e Prosser, mi sono pure rammentati come degni di ammirazione.
» Ho l’onore di essere, ecc.»
I.
Nel giorno 19 ottobre moveva una colonna di appena 700 garibaldini per riprendere Isernia (1) ai regii. Questi l'attesero e s’impegnò tra loro accanita zuffa.
I garibaldini erano circondati dai regii e reazionarii in numero circa di 7000 con artiglieria. Si batterono disperatamente, ma furono soverchiati dal numero.
Parecchi garibaldini furono fatti prigionieri, alcuni morti e feriti, altri dispersi. Tra i prigionieri fu il capellano, che venne tagliato a pezzi; due o tre ufficiali vennero feriti lungo la via e poi rinchiusi in una stanza senza cibo e assistenza.
II.
Nel mattino del 19 ottobre, fra le 7 e 8, la più avanzata avanguardia del generale piemontese Cialdini fu attaccata sull’alto del Macerone da tre colonne napoletane, sommanti fra tutte e tre a 6000 uomini all'incirca,
(1) Isernia, città nella Provincia di Molise a 12 leghe N. da Campobasso, ha 5200 abitanti.
cioè 3000 gendarmi di fanteria, 1500 uomini del l.° di linea, 1200 o 1500 urbani, due pezzi d artiglieria.
Il generale Grifóni si trovò per un'ora e mezzo solo con due battaglioni di bersaglieri ed una sezione d artiglieria sull'alto del Macerone, là dove è scavalcato dalla strada postale, osservando i movimenti delle tre colonne nemiche, una delle quali saliva direttamente per la strada ad attaccare il centro; le due altre, per due contrafforti laterali, tendevano a girare la posizione.
Il generale Cialdini arrivò più celeremente che potè, per la lunghissima salita, colla brigata Regina e spingendo subito qualche battaglione a destra e a sinistra, ed avanzando contemporaneamente al centro, in poco più di mezz'ora sbaragliò completamente il nemico.
Uno squadrone di lancieri Novara (capitano Montiglio), condotto dallo stesso generale Grillini e seguito alla corsa dal 7 bersaglieri, si rovesciarono sui fuggiaschi ed arrivarono ad Isernia prima di loro.
III.
Per altro i napoletani riuscirono a trarsi d'impaccio lasciando in potere dei piemontesi il generale Scotti-Douglas, 50 ufficiali, 800 uomini e la bandiera del primo reggimento.
I napoletani in questo combattimento ebbero un rovescio, ma arrestarono per due giorni il cammino de’ piemontesi e poterono ritirarsi a Venafro (1) e di là a Teano (2).
(1) Venafro, piccola città nella Terra di Lavoro a 17 leghe N. 0. da Napoli, presso la sorgente del Volturno, ha 2,400 abitanti.
(2) Teano, piccola città nella Terra di Lavoro a 5 leghe N. 0. da Capua, conta 3,100 abitanti.
I.
Circa ai 20 ottobre scrivevasi che la grave insurrezione d’Isernia era finalmente repressa, sconfitti i soldati borbonici e fugati gl’insorti reazionarii. La spedizione guidata del colonnello Nullo ebbe a soffrire gravi perdite nelle imboscate, in cui la colsero i paesani insorti.
II.
Ma verso la fine di ottobre la reazione si andava sempre più estendendosi nelle Provincie.
A Carbona (1) si gridò Viva Francesco, furono uccisi il capitano della guardia nazionale ed altri otto individui, noti come liberali.
A Castel Saraceno rimasero (2) vittime due ufficiali della guardia nazionale ed un canonico. Le case dei liberali furono incendiate.
(1) Carbona, città nella Basilicata a ti leghe da Potenza, ha 1570 abitanti,
(2) Castel Saraceno, borgata nella Basilicata a 4 leghe e tre quarti E. N. da Lagonegro, ha 9,500 abitanti.
A Montesano (1), Provincia di Salerno, altro movimento simile, con due morti.
Così pure a Latronico (2). Accorsa la guardia nazionale arrestò oltre 700 persone.
Si manifestavano segni di reazione su tutt'i punti delle Calabrie.
(1) Montesano, borgata nel Principato Citeriore a 8 leghe N. N. E. da Policastro, con 4600 abitanti.
(2) Latronico, piccola città nella Basilicata a 9 leghe S. 0. da Tursi, con 9200 abitanti.
I.
Sua Eccellenza il ministro della guerra, incaricato del portafoglio degli affari esteri, diresse nel 19 ottobre la seguente Nota ai rappresentanti accreditati presso S. M. Francesco Il re di Napoli:
«Il conte Persano, viceammiraglio della marina di guerra di S. M. 11 Re di Sardegna, ha accettato pubblicamente il comando dei bastimenti della real marina delle Due Sicilie, che il Governo rivoluzionario di Napoli ha messo alla sua disposizione (1).
» I bastimenti di guerra, insorti contro l’autorità legittima di S. M., sono stati mandati da Garibaldi al porto di Genova, dove hanno ricevuto provvisioni e nuovi equipaggi dal Piemonte. Non contento di ciò, l'uffiziale più altamente graduato della marina del Re di Sardegna, il viceammiraglio Persano, ha innalzato la sua insegna sulla fregata ad elice la Borbone appartenente a S. M. il Re del Regno delle Due Sicilie.
(1) Sa questo fatto vedi volume primo pag. 179.
» Questa appropriazione di tutta la flotta napoletana, fatta dal Governo di Sardegna, è un atto che non ha esempio nei precedenti della storia. Senza dichiarazione di guerra, senza conquista, mantenendosi ancora le relazioni ufficiali di buona intelligenza, un paese profitta degl’imbarazzi interni dell’altro, ed accettando il dono della rivoluzione un Sovrano s'impadronisce della flotta di un Sovrano amico.
» Il sottoscritto ministro degli affari esteri crederebbe offendere l’alta penetrazione di S. E. ec. ec. aggiungendo commenti di qualche sorta alla semplice narrazione dei fatti. Ma nell’adempimento dei suoi più alti doveri, e per ordine espresso del suo augusto Sovrano, non può fare a meno di protestare contro questo inqualificabile atto e le sue conseguenze; pregando V. E. ec. ec. di portare questa Nota a conoscenza del suo Governo.
» II sottoscritto profitta di queste opportunità per rinnovare all’E. V. gli attestati dell’alta sua considerazione.»
IL
Nel 24 ottobre il ministro della guerra, incaricato provvisoriamente del portafoglio degli affari esteri, diresse in data 24 ottobre, la seguente comunicazione ai rappresentanti di S. M. il Re all’estero:
«Le informazioni successive, ricevute in codesta Legazione da questo real Ministero, e le pubblicazioni, che si sono (atte recentemente in Europa, han dovuto metterla in grado di conoscere la politica adottata intorno ai deplorabili avvenimenti del regno, tanto dai governo di S. M., quanto dalle principali Potenze in Europa.
» Dal momento in cui il Re N. S. sali sul trono, cominciò la rivoluzione a cospirare e a lavorare apertamente contro i suoi diritti.
» La pace di Villafranca lasciava nell'ozio tutti gli uomini irrequieti e tutti gli spiriti ardenti d'Italia. Gli avventurieri di tutte le nazioni, che cercavano uno scopo per la loro attività nella guerra della penisola, si sono uniti ad essi, per iscegliere come campo delle loro future invasioni il Regno delle Due Sicilie.
» La rivoluzione preparava, per mezzo d'intrighi, di sedizioni, di tradimenti, il trionfo, che le rendeva possibile il potente, ma allora nascosto aiuto di una nazione importante d'Italia.
» Non si fece mai illusione il Re N. S. sulla gravità dei fatti, che scoppiavano in Sicilia. Sapeva che il disbarco della ridotta banda di Garibaldi era soltanto il preludio di più formidabile invasione. 11 corpo d’armata di quella avanguardia erano i corpi franchi, che avevano fatto la guerra in Lombardia, i volontarii italiani, inglesi ed ungheresi, antichi o moderni soldati della rivoluzione, e la riserva si trovava in caso necessario negli arrolamenti pubblicamente fatti nella Lombardia.
» Comprendendo la sua situazione sotto il suo vero e minacciante aspetto, S. M. il Re si affrettò a far fronte a quel gravissimo pericolo; militarmente, riunendo in Sicilia un'armata di 70,000 uomini;
politicamente, anticipando con le riforme amministrative e col ripristinamento della Costituzione del 1848 le istituzioni liberali del Regno; diplomaticamente, denunziando a tutte le Potenze d'Europa l’imminenza del pericolo, provando che la sua causa era una causa comune di tutte le Monarchie e di tutt’i Governi, e proponendo al Piemonte, invece della sua alleanza colla rivoluzione, un’alleanza intima col Regno delle Due Sicilie, che, fondata sulla similitudine delle istituzioni, poteva assicurare la pace e l’avvenire d’Italia.
» L’Europa sa come sono state accolte le misure preveggenti del Re.
» La sua armata in Sicilia, dopo aver molte volte combattuto, rientrava per salvar Palermo da rovina; le porte del continente sono state aperte alle bande di Garibaldi. La libertà politica, che non ha avuto il tempo di stabilirsi, ha servito solamente di scudo e di garanzia a tutt’i cospiratori, e l’Europa ha veduto con iscandalo un ministro di S. M. vantarsi di avere organizzato, durante il suo ministero, la rivoluzione, che dovea strapparle la corona. Alle gestioni diplomatiche del Governo del Re si è risposto da importanti Gabinetti che S. M. doveva combattere la rivoluzione colle sue proprie forze, facendo sapere che i vantaggi militari, ottenuti dalle sue truppe, avrebbero potuto essere un punto d’appoggio per l'aiuto e le simpatie dell’Europa.
» Questo ha fatto il Re nel momento in cui, per evitare le calamità della guerra alla sua capitale, rinunziò volontariamente a’ vantaggi ed alle risorse di ogni specie, che fornisce a colui, che la possiede, quella ricca e popolata metropoli.
Il mondo ha veduto come, da un mese e mezzo, le ardite truppe, che ha lasciate il tradimento al legittimo sovrano, han bastato, nelle circostanze più sfavorevoli, per difendere la piazza di Capua e la linea del Volturno, per prendere con successo la offensiva, e sfidare un giorno dopo l'altro gli sforzi combinati della rivoluzione e di Garibaldi.
» Dai bollettini pubblicati dai giornali di questo condottiero l'Europa ha saputo che vi è una legione ungherese, che vi sono truppe di diverse nazioni riunite, come la legione dei volontarii inglesi, ch'è sbarcata nell'ultima settimana in Napoli. Il pubblico ha veduto che battaglioni di bersaglieri piemontesi sono accorsi in favore di Garibaldi nella battaglia del primo ottobre.
» Malgrado ciò, il Re era preparato per vincere le truppe della rivoluzione e di Garibaldi ed aveva la fiducia di riuscire. Ma impreveduta e possente riserva è giunta già in azione. Il Re di Sardegna, alla testa della sua armata, ha passato la frontiera napoletana e percorre e sottomette colla forza le Provincie fedeli al Regno, dopo avere spedito per mare in Napoli fanteria ed artiglieria.
» Malgrado forti tradimenti e sventure, il Re era preparato a combattere la rivoluzione interna, il mazzinismo di fuori, le bande italiane di Garibaldi e gli avventurieri di tutte le nazioni, che si sono riuniti alla sua bandiera. Ma non era preparato, né poteva esserlo, per combattere, oltre questi nemici, Tarmata regolare del Piemonte. E non poteva esserlo, non soltanto per l'insufficienza de' suoi mezzi materiali per attendere tanti pericoli,
dopo le perdite sofferie e l’abbandono della capitale, ma pure (ed è questa la prima di tutte le ragioni) perché S. M. viveva, come ogni sovrano, sotto la protezione del diritto pubblico, e confidando nella parola del Re di Sardegna, non poteva aspettarsi che venisse alla testa della sua armata, per invadere ed impadronirsi de’ suoi Stati, senza pretesto di rottura, senza dichiarazione di guerra, e quando esistono ancora i rispettivi ministri accreditati presso le due Corti.
» Innanzi a questo inqualificabile attacco, forse saranno schiacciate le truppe del Re e soccomberanno la indipendenza e la sovranità di questo paese, la sua antica e riconosciuta Monarchia; ma soccomberanno del pari tutti i diritti, tutt'i principi!, tutte le leggi, su cui riposano l’indipendenza e la sicurtà delle nazioni. L'esempio delle Due Sicilie mostrerà al mondo ch'è lecito calpestare ogni sentimento di lealtà e di giustizia per portare prima la rivoluzione nel territorio di un sovrano amico e impadronirsi poi in piena pace de suoi Stati, senza riguardo a nessun diritto e a nessun trattato, disprezzando gli interessi più legittimi e sfidando l’opinione pubblica d'Europa.
» S. M. desidera eh’ Ella faccia valere queste considerazioni presso codesto Governo lasciando al ministro degli affari esteri la copia di questo dispaccio.»
I.
Verso la fine del mese d'ottobre i garibaldini stavano per gittare i ponti sul Volturno (1) unirsi al. corpo di Cialdini quando vi giungesse, e poi, finite altre fortificazioni e parallele, cominciare l'assalto di Capua.
Le truppe che trovavansi a quest’epoca erano le seguenti: 1.° e 2.° reggimento di linea piemontese; un battaglione di granatieri di Lombardia; la colonna di De Sonnaz, sbarcata a Manfredonia; la divisione Bixio; le due brigate di calabresi, comandanti Stocco e Pace; la brigata mobilizzata; la brigata Eber; la divisione Medici; il corpo di Avezzana; la brigata siciliana la Masa; il battaglione dei reduci di Lombardia; il battaglione de' carabinieri genovesi; le legioni inglese ed ungherese; le guide e gli usseri a cavallo; sei batterie piemontesi e quattro garibaldiane e napoletane; due battaglioni del genio.
Tutte queste truppe garibaldiane erano però decimate dalle malattie e dalle conseguenze della guerra, e fra tutte formano da 12 a 15, 000 uomini.
(1) Volturno, fiume nel Napoletano, che nasce fra gli Apennini e sbocca nel golfo di Gaeta presso al borgo del suo nome.
Le forze che tenevano il presidio di Capua, in questi giorni, erano composte dell’8.° 9.° e 10.a di linea; del reggimento Regina artiglieria; due squadroni di carabinieri di linea a cavallo; uno squadrone di gendarmi a piedi; tre battaglioni di cacciatori; due compagnie di pontonieri, e tre compagnie d’artiglieri di posizione. L’artiglieria era comandata dal generale Negri; le altre armi, dai generali di divisione Palmieri e Menger e dai brigadieri Afan di Riviera, Barbalunga e Von-Mechel. Nei cacciatori due battaglioni si componevano di bavaresi e di svizzeri.
La precipitosa fuga che, come in appresso vedremo, condusse i borbonici ad abbandonare le posizioni dell’alto Volturno, ed a ripiegarsi a marcie forzate dietro Sessa e Garigliano, fa ritenere che la stessa guarnigione non sia stata scambiata, e che anzi sia stata aumentata da alcuni battaglioni di retroguardia, che non ebbero mezzo a tenersi uniti col grosso dell’esercito comandato dal generale Salzano, allorché il Re Vittorio Emanuele fece la sua discesa da Teano.
1.
Nel mattino del 25 ottobre Garibaldi passò il Volturno con un corpo di 7 ad 8 mila uomini, e si spinse innanzi all'incontro delle truppe di Cialdini, dal quartier generale del Re, che, dopo averlo informato delle disposizioni dell'armata sotto i di cui ordini gli aveva detto di operare come meglio credeva.
Egli volle spingersi innanzi ed operare sul fianco dei borbonici, inquietandoli nelle loro marce e profittando, quando fossero impegnati di fronte, di agire sul toro fianco per assicurarne la disfatta.
Questo movimento però delle truppe garibaldiane fu seguito al suo principio da uno sgraziato accidente, cioè dalla rottura di una gamba del generale Nino Bixio. La divisione di questo generale operava di vanguardia ed aveva passato pure, per la prima al mattino, il Volturno, sovra un ponte gittato nella notte vicino a Sant'Angelo. Arrivato a Bellona, si presentavano varie strade; toccava sceglierne una. Bixio si slanciò col suo cavallo innanzi per riconoscere quale si doveva prendere.
In una svolta di strada, il cavallo precipitò a terra, sfracellando nella caduta la gamba sinistra al generale. Bixio, appena caduto, perdette la conoscenza, che avendo battuto a terra nel capo, alcune ferite si era pur fatte nella testa e nella faccia. Accorse subito lo stesso Garibaldi a prestargli le prime cure; sopravvennero i chirurghi, e venne subito medicato. La rottura era alla tibia della gamba sinistra; le ferite della faccia erano senza importanza. Ma ogni speranza pel generale di poter continuare avanti era perduta, e lo si dovette riportare indietro a Sant7 Angelo, poi a Santa Maria, e di lì in Napoli.
A Santa Maria e a Sant’Angelo rimase il resto dell’armata garibaldiana, a guardare quelle importanti posizioni da ogni attacco dei 5 mila regii ch'erano ancora a Capua.
II.
Alle 2 antimeridiane del 26 ottobre due battaglioni borbonici uscivano da Capua ed attaccavano gli avamposti garibaldiani del centro, difesi dai calabresi comandati dal colonnello Pace. I borbonici dirigevano l’attacco verso quegli avamposti perché potessero dar agio ad ua altro loro battaglione d’investire la casa de’ Cappuccini, posta a sinistra, e vuotarla di viveri, che conteneva in fagiuoli, granoturco e formaggi. Gli assaliti resistettero alquanto, ma, sopraffatti dal numero, dovettero ripiegare e perdettero in tal modo la posizione che occupavano.
Alle 7 antimeridiane gli assaliti e respinti si fecero assalitori, e laddove rioccupavano la posizione perduta, ricacciavano i borbonici fin dentro le loro trincee, a un tiro di fucile dalle artiglierie di Capua.
Le artiglierie di Capua aprivano in conseguenza il fuoco; quelle del Fortino e Porticello e quelle di sinistra risposero eoa qualche colpo. Verso le 9 antimeridiane il fuoco di artiglieria e di fucileria cessava.
Gli assaliti contarono pochi feriti. I borbonici lasciarono pochi morti sul campo.
III.
Veniva regolarmente operato un movimento generale di ritirata e di concentrazione dell'esercito napoletano. A proteggere codesto movimento fu inviato ad Isernia un corpo di 11,000 uomini, il quale ebbe il 17 ottobre un primo affronto, dopo il quale si ripiegò a Venafro, poi sul Teano, ove si congiunse ad esso il corpo di Caiazzo, che abbandonava quella posizione, troppo lontana dalla nuova base di operazione dell'esercito napoletano.
Codesti due corpi, che formavano insieme una forza di 15, 000 uomini, sostennero il 26 un vivo combattimento contro l’esercito piemontese comandato dal Re in persona.
La retroguardia napoletana, forte di circa 12, 000 uomini, sostenne il maggior impeto dei piemontesi, e fu respinta dietro il Volturno. Pure riuscì ai napoletani di trarsi d'impaccio.
Le perdite de’ piemontesi furono poche; quelle de’ napoletani più rilevanti, i quali lasciarono 500 o 600 prigionieri, in mano de’ primi.
Nello stesso giorno le truppe del generale Cialdini sostennero, vicino a Sessa, un brillante combattimento còlle truppe borboniche, le quali dopo due ore di vivissima fucilata, accompagnata da alcuni colpi di cannone, furono costrette a ritirarsi sul Garigliano. Il numero dei prigionieri, caduti in potere di Cialdini, fu considerevole.
IV.
Nel 26 ottobre i napoletani cominciavano a lasciar Sessa, e, passato il Garigliano, piantavansi dietro quel fiume, avendo il centro a Traietto (1). Le posizioni ch'essi vanno ad occupare sono fortissime perché si appoggiano ad una catena di montagne di difficile approccio, e perché sono protette dal Garigliano. Comunque sia, solo dopo di aver espugnato quelle posizioni l’esercito piemontese potrà incominciare l’assedio di Gaeta.
In somma, il corpo de’ napoletani, inviato ad Isernia, operando contro l’esercito piemontese, permise all’esercito napoletano, malgrado i rovesci da lui sofferti, di fare una marcia al fianco, pel tratto di quasi 75 chilometri, e di operare un movimento generale di concentrazione
(1) Traietto, borgata nella Terra di Lavoro, ad 8 leghe N. 0. da Capua.
I.
Il Re Vittorio Emanuele, che col forte della sua armata recavasi verso Teano, e il dittatore Garibaldi s’incontrarono nel 27 ottobre a Sant’Agata, entrambi a cavallo.
L’incontro col Re fu cordiale ed espansivo da ambe le parti. Ma dicevasi che il torto degli uomini politici, che consigliavano il Re fu quello di essere venuti sino al punto di quel colloquio senz’aver nulla preveduto e senza esserci in certo modo preparati alle principali sue eventualità.
Il dittatore diede la mano al Re e gli disse che gli dava tatto 41 paese che aveva conquistato in suo nome. La folla di soldati e di paesani, fatta dappresso, acclamava gridando Viva Vittorio Emanuele! La magica voce di Garibaldi allora tuonò Viva il Re d Italia e questo grido fu ripetuto da mille bocche.
Sul fine del colloquio fra il Re e Garibaldi si venne a parlare delle operazioni militari, concluse il Re, e noi attaccheremo Capua; se voi volete cooperare all'attacco, intendetevi col generale Della Rocca che ha le mie istruzioni.
Garibaldi, come vedremo, di ritorno a Caserta, mise sotto gli ordini del generale Della Rocca il generale Medici colla sua divisione, e in quel fatto della presa di Capua si tenne affatto in disparte.
II.
In conseguenza dell’aver deposto i poteri in mano del Re Vittorio Emanuele, il generale Garibaldi diresse al marchese Pallavicino la seguente lettera:
«Sig. prodittatore;
» Oggi stesso avendo deposto i miei poteri nelle mani del Re, v’invito a voler dipendere da S. M. per tutti gli atti del Governo, eh1 ebbi l’onore di delegarvi.
» Colgo quest’occasione per ringraziarvi dello zelo e della devozione con cui avete adempiuto a così importante uffizio. Colla vostra intelligenza e coll’opera vostra m’avete facilitato, in queste Provincie, l’assunto lavoro della unificazione nazionale. È a voi dovuta la più parte di questo lavoro, e vi assicuro che io ne serberò memoria fino agii ultimi anni della mia vita.
» Accogliete i sensi della maggiore mia stima.
» Caserta 30 ottobre 4860.
» G. Garibaldi.»
III.
Si temeva generalmente che Garibaldi partisse per Caprera il dì stesso in cui il Re doveva arrivare a Napoli. Sarebbe stato questo un gravissimo scandalo e avrebbe constatato in faccia alla pubblica opinione d'Europa un dissidio che in realtà non esisteva. Si sapeva che il generale aveva una viva pressione in questo senso e che l'ordine era stato dato al Patinghion di tenersi pronto appunto per quel giorno. Non s'ignorava che, appunto dopo il primo colloquio, da Caserta Garibaldi aveva scritto di proprio pugno una lunga lettera al Re con cui gli chiedeva specialmente la conferma di tulf i gradi del suo esercito. Questa lettera era stata portata al Re dal maggiore Nullo, e il Re, lettala, aveva detto al portatore che si riservava a rispondere.
Ma il dì antecedente all'ingresso del Re in Napoli, Sua Maestà si recò in persona a Caserta, chiese di Garibaldi e rimase assieme con lui due buone ore. All'uscire di quel colloquio Garibaldi era molto più sereno, e dava le disposizioni per accompagnare il Re a Napoli, differendo la sua partenza.
IV.
Nel giorno 29 i piemontesi ebbero a soffrire alcune perdite sul ponte del Garigliano.
Il Re aveva ordinato una ricognizione per vedere quali forze avesse il nemico sulla sponda destra del fiume.
Comandava la ricognizione un colonnello di cavalleria, il quale, vedendo come i bersaglieri manovrassero ora a destra, ora a sinistra, ordinò al maggiore di quelli di spingersi sul ponte di ferro che attraversa il torrente.
Ai bersaglieri del Re dire ganzatevi fu lo stesso che direvolate. Il ponte fu passato, ma le batterie coperte del nemico aprirono tale un fuoco su que’ militi, che un terzo di loro rimasero morti o feriti ed una quarantina caddero nelle mani de regii.
A questo sagrifizio è stata dovuta la certezza che il campo trincerato del Garigliano era difeso da 100 pezzi di posizione. Con questa possente artiglieria l’esercito del Re Vittorio avrà da fare in appresso quando si gitterà il ponte per attraversare quel fiume.
Il ritardo nel compiere questa operazione era da attribuirsi all’attitudine presa dall’ammiraglio francese, che colla sua squadra trovavasi allora a Gaeta. Egli si era sempre ricisamente opposto a che l'ammiraglio piemontese Albini avesse a sbarcare il materiale dell'armata presso la foce del Garigliano.
I.
Nel 30 ottobre il generale ministro della guerra napoletano Antonio Ulloa, emanò il seguente ordine del giorno:
«Soldati!
» Senza avviso, senza franca e leale dichiarazione di guerra, l'armata sarda ha invaso il Regno ed è discesa dietro le nostre spalle. Cosi nei combattimenti d’Isernia e di Venafro, avete trovato davanti a voi, non più la sola armata della rivoluzione, ma un1 altra armata numerosa, disciplinata, agguerita, l'armata di un Governo che conservava ancora le apparenze d’amicizia col nostro augusto Re Francesco II.
» La situazione è dunque cambiata; ma essa è molto più onorevole per voi e la resistenza sarà più gloriosa.
» Il comandante in capo fu invitato, avanti ieri, ad un abboccamento insidioso e perfido, e il generale piemontese gli ha detto: L’armata napoletana, rinserrata ormai sur un palmo di terreno, può rendere le essa non è più in istato di combattere, il Re Vittorio Emanuele essendo a Venafro.
Il luogotenente generale Salzano gli ha risposto da vero soldato: Il palmo di tempo sarà difeso pollice per pollice, ed io non riconosco che l'augusto Re Francesco, che si trova fra Sessa e la fortezza di Gaeta.
» Questa risposta guiderà la nostra condotta; l’Europa civile del XIX secolo non può rimanere spettatrice indifferente di così grandi e così numerose e inaudite enormità. Ma certamente, alla nuova del glorioso fatto del 26 e quello di ieri sulle rive del Garigliano e alle gole del Cascano, saprà rimeritare la vostra bravura, la vostra costanza, e si vedrà come in mezzo a mille difficoltà crescenti, si mantenga nell’armata napoletana, ne’ capi, come ne’ subordinati, il medesimo spirito d’onore militare.
» Il generale direttore della guerra
«Antonio Ulloa.»
II.
Lo stesso generale ministro della guerra emise nel 31 dello stesse mese il seguente ordine del giorno:
«Soldati!
» È all’abilità e più ancora alla bravura dell’artiglieria, che si deve la gloria del felice combattimento dato avanti ieri, sulle rive del basso Garigliano. Ma la gloria del trionfo è rattristata dalla morte del giovane e valoroso e intelligente brigadiere Matteo Negri, che, ferito, non ha telato cessare di combattere, e distinguendosi per zelo e ardore, fino a far l’ufficio di semplice artigliere, fu morto da un secondo colpo.
» L’augusto Re Francesco II ha 'ordinato che s’innalzi al prode soldato un monumento che ricordi il suo nome, affinché la sua condotta serva d'esempio a tutti quelli che seguono la carriera delle armi.
» La guarnigione intera di Gaeta ha reso oggi al defunto gli ultimi onori funebri con gran pompa militare; e l'armata, alla nuota d’una perdita così grave, comprenderà che, se delle grandi speranze furono spente in lui, le resta però la sua cara memoria, e l’orgoglio del suo nome, de’ suoi alti e delle sue virtù.
» Il generale direttore della guerra
«Antonio Ulloa.»
III.
Nello stesso giorno 51 ottobre fu pubblicato il seguente ordine del giorno di S. M. Francesco II.
«Soldati!
» Allorché, dopo due mesi di generoso slancio e di abnegazione perfetta, di marce e fatiche, noi credevamo terminare la nostra opera, distruggendo e rovesciando l’invasione rivoluzionaria nel nostro paese, è sopravvenuta l’armata regolare di un sovrano amico, che minacciando la nostra linea di ritirata, ci ha obbligato ad abbandonare le nostre posizioni.
Qualunque cosa avvenga, l’Europa intera, nell’apprezzare il fatto e nel giudicarlo, non potrà a meno di riconoscere il valore e la fedeltà di un pugno di bravi, che, resistendo a seduzioni perfide ed alla forza di due armate, ha saputo, non solamente resistere, ma anche illustrare Tistoria dell’armata napoletana coi nomi di Santa Maria, Gaiazzo, Treflisco, Sant’Angelo ed altri.
» Questi fatti rimarranno indelebilmente segnali nel mio cuore. Per perpetuarne la memoria sarà coniata una medaglia di bronzo colla leggenda: Campagna settembre e ottobre 1860, ed al rovescio: Santa Maria. Caiazzo. Treflisco. Sant'Angelo, ecc. ecc. La medaglia sarà sospesa ad una fettuccia cilcstra e rossa. Decorando il vostro nobile petto, essa ricorderà a tutti la vostra fedeltà, il vostro valore, i quali saranno sempre un titolo di gloria per quelli che porteranno il vostro nome.
» Gaeta, 51 ottobre,
«Francesco II.»
IV.
Il movimento di ritirata dei borbonici, invece di» operarsi sulla linea di battaglia, che spiegavasi tra Capua e Caserta, in linea parallela ad Aversa, S. Tammaro, S. Maria e S. Angelo, venne invece eseguito per la sinistra di questa linea, per mezzo di un cambiamento di fronte, che teneva l’estrema destra a Capua e proseguiva per Sopranisi, S. Agata, Caseano e Sessa, sino alla riva sinistra del Garigliano.
A questo punto rimontava il corso del fiume sino all’altezza di S. Angelo, per giungere a $. Germano e Piedimonte, dove stavano diversi corpi leggieri, che formavano l’estrema sinistra della linea di battaglia, e chiudevano, sulla strada che passa per Palazzuola, gli sbocchi dell’alto Garigliano e de’ suoi principali affluenti.
Questa variazione nella direzione della fronte di battaglia fu determinata dalla marcia delle truppe nemiche sul fianco sinistro delle posizioni, che difendevano il Volturno e Capua in faccia alla linea principale delle operazioni del generale Garibaldi. Su questa nuova linea, benché debole, i borboinici tenevano il tratto di terreno, che si sviluppa tra Gaeta e Capila, il Volturno inferiore tra Capua ed il mare, e le due rive del Garigiiano dal punto strategico di S. Germano sino alla foce.
Finora i generali borbonici non tentarono di riprendere l'offensiva sopra una gran linea, salvo nelle due giornate di S. Maria e Maddaloni. In quel generale movimento si riconobbe che tutt’i comandanti delle diverse colonne di attacco dirigevano i loro movimenti d’accordo con un piano d’azione adottato preventivamente, ed i cui successi erano stati calcolati in tutte le ipotesi, favorevoli o contrarie alla loro causa. D’allora in poi si è soltanto potuto rilevare che, mentre si stavano prendendo le disposizioni necessarie per portare la linea di battaglia colle spalle al mare e la fronte rivolta verso le montagne, si spedirono dei posti avanzali sulla doppia linea da S. Germano a Venafro, Isernia e Campobasso, e per la sinistra, sulla linea di Altina, Alvito e Gora. Ma questi espedienti furono assolutamente inutili.
L'alta valle del Liri, ch'è in comunicazione colla valle del Garigliano, fu occupata dall’estrema destra di Cialdini sino al di qua di Gora, con grave pericolo per la posizione centrale di S. Germano. G dall’altra parte, sulla grande strada da Venafro ad Isernia, lo stesso Cialdini, col suo corpo principale, spacciò l’intero paese, prendendo prigione lo stesso generale, che aveva il comando di tulle queste linee d’operazione. La guerra di montagna, nella quale si poteva arrestare la marcia anche di un grande esercito, ora era impossibile. La congiunzione di Cialdini colla sua estrema sinistra, comandata dal generale Sonnaz, era fatta. La brigata del Re, che già si trovava al campo, venne rinforzata coll’invio di altre truppe partile da Genova.
Le truppe che superarono il lungo e faticoso viaggio degli Apennini, ebbero due giorni di riposo, alternati da piccoli combattimenti. Non può adunque lardare il momento della marcia. Se i borbonici vogliono battersi, dovranno farlo in aperta pianura, sull’estremo lembo della Terra di Lavoro racchiusa tra le due strade, che da Sessa e S. Germano discendono e si riuniscono presso Mola. Eglino possono disputare ai nemici i passi del Garigliano, ma la lotta non può esser lunga.
I.
ATel 29 e nel 30 ottobre fu lanciata qualche bomba in Capua. Una delle bombe lanciate nel 29 produsse un incendio in una delle caserme militari di Capua, e dagli assediatiti si prese la risoluzione di non rispondere ai fuochi assai nutriti dei borbonici se prima non fossero tutte recate a compimento le opere di oiTesa.
Queste opere vengono disturbate a tutta possa dai regii ed è grandissima la quantità di bombe e di proietti che a tale oggetto lanciano i molti artiglieri chiusi in Capua. Non è a dire se gli assedianti uè soffrano. Il colonnello Fabrizi, essendosi di molto avanzato alla piazza, fu gravemente ferito da un proietto.
Nel mattino del 30, alle 10, i regii tentarono una sortita per distruggere le opere d'assedio. I bastioni di Capua sostenevano questo movimento con una fitta grandine di mitraglia, di granate e di bombe. L’azione fu accanitissima. Di fronte al bastione ché difende la strada di S. Maria, la brigata Spangaro fece prodigi di valore. 11 coraggioso brigadiere ed i tre maggiori, tra i quali il Morici, che nel l.° ottobre fe' prova di alte qualità militari, respinsero gli assalitori.
Un altra mano di regii si lanciò furiosamente contro una colonna di piemontesi, che fronteggiava il Castelluccio.
Dopo due ore di fuoco, la fanteria borbonica si è ripiegata parte verso il Volturno e parte nella via coperta, che era stata scavala per tutta la lunghezza dal campo delle manovre a Capua. Alcuni squadroni di cavalleria uscirono in colonne serrate; poscia si dispiegarono pel campo, accennando ad una carica contro gli avamposti degli assedianti alla strada ferrata. Epperò dopo aver manovrato timidamente, si ritirarono nel bastione del Castelluccio. Alle 2 pomeridiane si sentiva ancora qualche colpo di moschetto. I paesani di Caiazzo, eccitati dagli sbandati borbonici, presero le armi in nome di Francesco II. 11 generale Medici inviò qualche compagnia ordinando di non dare quartiere a nessuno.
II.
Il quartier generale del re Vittorio Emanuele era sempre a Sessa. Ma avendo S. M. ordinato che il bombardamento di Capua avesse a incominciarsi nel l.° novembre alle ore 4 pomeridiane, egli si recò verso le 3 a vedere i primi colpi tirati verso la piazza.
Garibaldi, che nel mattino dello stesso giorno l.° novembre aveva visitalo le linee di Sant’Angelo, ritornò a Caserta verso le 2, né potè quindi intrattenersi con S. M. Un dispaccio reale del 30 ottobre ordinava al generale di mettersi d'accordo col generale Della Rocca per regolare le operazioni di assedio contro Capua, ed egli nella sera di quel giorno aveva inviato il colonnello Nullo al Re notificandogli la sua intenzione di ritirarsi alla sua isola di Caprera. S. M., mediante il messo, persuase il generale a non ritirarsi.
III.
Alle ore 6 antimeridiane del 30 ottobre la bandiera rossa, segnale convenuto perché si aprisse il fuoco contro Capila, fu innalzata sur una casa.
Le batterie degli assediatiti potevano essere così enumerate:
Batteria di tre pezzi da 12 rigati, comandata dal conte Amiani; una seconda di tre mortai, dal tenente Pola. Le due comandate dal capitano Gusberti. Al centro, fra Santa Maria e Sant’Angelo, la batteria comandata dal generale Locascio, quella di Juvane e Laini, di Garibaldi una terza, con due mortai. Sulla strada consolare da Santa Maria a Capua, la batteria detta Bouvelte, dal nome del capitano che l’ha eretta, contava quattro obici da 80 e due mortai da 12 ed era questa servita da piemontesi. Al sito detto la Foresta di Carditello, una batteria da 16 rigata, con sei pezzi, anche questa servita da piemontesi e comandata dal capitano Orfengo. All'estrema sinistra sul Volturno, un’altra batteria piemontese di sei pezzi fulminava la città dalla parte occidentale.
La piazza rispondeva con un terribile e ben diretto fuoco mandando un diluvio di bombe, di palle infocate e di proietti di ogni sorte.
Al momento in cui si aprì il fuoco gli stati maggiori erano a cavallo, il generale Della Rocca giungeva ed accompagnava S. M. sull'altura di Sant'Angelo per assistere alle prime prove.
Alle ore 9 il fuoco si rallentò e solamente di quando in quando si udiva il rimbombo del cannone degli assedianti che rispondeva a quello della piazza.
Nello spazio di queste cinque ore 4 batterie degli assedianti avevano gittato in Capua 300 proietti. La piazza ne aveva gittati circa ioOO, ma senza cagionare gran danno alle batterie ed al campo dei garibaldini e de1 piemontesi di Carditello.
I generali Della Rocca, Menabrea e Brignone furono per quelle cinque ore esposti al fuoco micidiale del nemico, ed un aiutante di campo di quest'ultimo, il tenente Rolfo fu ferito leggermente al piede destro.
Il Re tornò verso le 7 al suo quartier generale.
IV.
Il fuoco degli assedianti continuò e, benché lento, proseguì tutta la notte del 1 al 2 novembre, giorno in cui produsse il desiderato effetto. In quel giorno sventolò la bandiera bianca sul baluardo di Capua. '
Venne al quartier generale di Della Rotea il generale borbonico De Liguori con tre altri ufficiali dello stato maggiore.
Il parlamentario chiese una tregua di 24 ore per poter inviar messi a Francesco II. Della Rocca ricusò e gli rispose: Signor generale, io non poeto darvi che non un minuto di più; se non vi arrendete allo spirare di quel tempo le mie batterie ricomincieranno il fuoco.
Il generale De Liguori accettò le condizioni imposte. Ecco il tenore della stipulata convenzione:
Convenzione sulla capitolazione di Capua, combinata di mutuo accordo d’ordine di S. E. il generale Della Rocca (comandante il 5.° corpo dell'armata sarda), comandante il corpo d'assedio, e d’ordine di S. E. il maresciallo di campo De Cornei, comandante la piazza, dai commissarii isottoscritti, e quindi ratificata dai rispettivi generali comandanti.
Art. 1. La piazza di Capua, col suo intero armamento, bandiere, magazzini a polvere, d'armi, di vestiario, di vettovaglie, equipaggi da ponte, cavalli, carri, e qualsiasi altra cosa appartenente al Governo, tanto del ramo militare, quanto civile, verrà consegnata al più presto, cioè nelle ventiquattro ore dopo la sottoscrizione di questa capitolazione, alle truppe di S. M. Vittorio Emanuele.
Art. 2. A tale effetto saranno immediatamente consegnate alle truppe della M. S. le porte della città e le opere tutte di fortificazione.
Art 3. L’intera guarnigione della piazza di Capua compresi tutti gl’impiegati militari, o che si trovano presso l'armata in detta piazza, esciranno cogli onori delle armi.
Art. 4. Le forze, che compongono la guarnigione, esciranno colle bandiere, armi e bagaglio (ossia zaino per soldati e bagaglio proprio pegli uffiziali), successivamente, di ora in ora, a 2, 000 uomini per volta.
Essi, dopo fever resi gli onori militari, deporranno le armi e le bandiere a piedi dello spalto (eccettuati gli ufficiali d ogni grado, che riterranno la sciabola o spada), e saranno avviate a piedi a Napoli, donde verranno trasportate in uno dei porti di S. M. il Re di Sardegna.
Tutt i suddetti militari, meno gli ammalati, esciranno dalla città per la porta di Napoli, domattina 3 del corrente novembre, a principiare dalle ore 7 precise, e saranno trattati quali disertori di guerra quelli che vi rimanessero senza essere impossibilitati a marciare.
Art. 3. Gli ufficiali di ogni grado (ad eccezione dei generali, che saranno trasportati a Napoli colla ferrovia) marceranno colle truppe proprie. Le famiglie de’ militari non potranno seguire la colonna.
Art. 6. 1 feriti e gli ammalati saranno lasciati a Capua sotto la garanzia delle truppe occupanti. Ad essi, se uffiziaii, si permette di ritenere presso di loro l'ordinanza, ossia soldato di confidenza.
Art. 7. Le parti contraenti nomineranno una commissione unita e composta, per ciascuna dr esse, di un uffiziale d’artiglieria, un uffiziale del genio e un segretario d’Intendenza militare, per ricevere e dare in consegna tutto quanto esiste nella piazza e dipendenze, di pertinenza governativa. D’ ogni cosa si farà l'opportuno inventario.
Art. 8. Mentre si farà la consegna delle porte e delle fortificazioni, il capo dell’Amministrazione militare a Capua, e tutt’i contabili d’ogni corpo ed azienda militare e del Governo, faranno fare la consegna del danaro che ritengono, quale sarà dimostrato dai loro registri verificati dagli ufficiali d’Intendenza del corpo assediante.
Art. 9. Gli ufficiali recheranno seco i semplici bagagli.
Art IO. E convenuto che niuna carica dovrà esistere nella piazza dopo la sottoscrizione della presente. Ove si rinvenissero, la presente capitolazione sarebbe nulla, e il presidio si esporrebbe a tutte le conseguenze di una resa a discrezione.
Art. 11. Nulla pure si riterrebbe questa capitolazione ove si trovassero pezzi inchiodati e armi messe fuori d'uso.
Art. 12. Le famiglie degli ufficiali che sono a Capua, come le altre dell’armata di S. M. Francesco lf, sono messe sotto la protezione dell’armata di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele.
Art. 15. I cavalli di spettanza de’ signori ufficiali si lasciano in loro proprietà.
Fatto in duplice copia al quartier generale di Santa Maria, a’ dì 2 novembre 1860.
Girolamo de Liguori, brigadiere
Gian Luca de Fornari.
Il generale d’armata
Della Rocca.
Il maresciallo di campoComm. de Cornet.
Il generale d'armata Della Rocca, comandante generale del 5.° corpo d’armata, pubblicò, dal quartier generale di Santa Maria, in data 5 novembre, il seguente ordine del giorno.
«Soldati del corpo d’assedio,
» Capua ha capitolato. Un nuovo trionfo si aggiunge così ai molli che in quest’anno già fregiano le nostre bandiere. Una piazza, importante per la sua posizione, è caduta nelle nostre mani. Sono assicurate le comunicazioni dirette fra Napoli e l’esercito nostro.
» Dacché vi staccaste dal grosso dell’esercito, avete compiuta in brevissimo tempo un’importante missione. Pochi di numero, avete tolleralo in questi giorni, colla solita abnegazione, diuturne fatiche, ed avete, con pari intrepidezza, affrontato il fuoco formidabile della piazza.
» S. M. il Re m’incarica, con telegramma, di manifestarvi la sua soddisfazione.
» Vi siete per la prima volta trovati a fianco dell’armata sorella, che, dopo aver destato l’universale ammirazione, stava ora quale insormontabile barriera tra il doloroso passato di questo Regno ed il suo glorioso avvenire. Voi le avete prestato il vostro aiuto e ne avete esperiraentato l'efficace concorso. Coll’unione così di tutta l'italiana virtù, noi faremo l’Italia.»
Capua soggiacque dopo un assedio che durò quarantaotto giorni. I garibaldini fecero i lavori d'assedio, ma i piemontesi eseguirono una seconda parallela e costrussero, a destra, una piazza d’armi ed una batteria da breccia, la quale aprì il fuoco contro il bastione del centro.
I.
Il tempo, fino al 6 novembre, era a Napoli bellissimo, ma nella notte divenne pessimo e continuò nel 7 allo stesso modo: rovesci d'acqua che non si erano avuti da lunga pezza.
I lavori per decorare la città, com’ erasi preveduto, rimasero molto indietro dal loro compimento e tutti erano in dubbio se il Re venisse effettivamente. Ma nessuno però avrebbe sospettato quello ch'è avvenuto, cioè che il Re giungesse un’ora prima delle 10 antimeridiane del 7, secondo recava avviso.
Il vento aveva portato via varie tende del padiglione eretto alla strada ferrata. Il Re si mise a passeggiare col soprintendente generale di Casa reale; le dame e i gentiluomini, sopraggiunti per riceverlo, rimasero impacciati vedendosi prevenuti.
Il Re rinunciò ad ogni forma solenne, e si mise assieme con Garibaldi e i prodittatori Pallavicino e Mordini, in una carrozza a due cavalli, e se ne venne alla reggia, sotto la pioggia ed in mezzo a clamorosissimi applausi di tutto un popolo, stivato dietro le fila de’ soldati, nella lunghissima via da Foria alla reggia.
Anche il Duomo era pieno d’invitati. 11 clero palatino eseguì con gran pompa religiosa la cerimonia. Il Re salì sul trono con Garibaldi. Ordinò un donativo a S. Gennaro del valore di 20, 000 franchi.
Alla reggia, il Re, nella stanza del trono, ma senza sedervi, ha ricevuto uno dei grandi corpi dello Stato.
Come il popolo della piazza faceva clamori straordinarii per rivedere il Re, egli si fece ai balcone.
II.
Il Re pubblicò nello stesso giorno 7 novembre il seguente proclama:
«Ai popoli siciliani e napoletani.
» Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili Provincie. Accetto quest'alto decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d’italiano.
» Crescono i miei, crescono i doveri di tutti gl’italiani. Sono più che mai necessarie la sincera concordia e la co, stante abnegazione. Tutt'i partiti devono inchinarsi devoti dinanzi alla Maestà dell’Italia, che Dio solleva. Qui dobbiamo instaurare un Governo che dia guarentigie di libero vivere ai popoli, di severa probità alla pubblica opinione.
Io faccio assegnamento sul concorso efficace di tutta la gente onesta. Dove nella legge ha freno il potere e presidio la libertà, ivi il Governo tanto può pel pubblico bene quanto il popolo vale per la virtù.
» All’Europa dobbiamo addimostrare che, se la irresistibile forza degli eventi superò le convenzioni fondate nelle secolari sventure d’Italia, noi sappiamo ristorare nella nazione unita l’impero di quegl’immutabili domini, senza dei quali ogni società è inferma, ogni autorità combattuta ed incerta.
«Vittorio Emanuele.»
I.
Nella mattina dell'8 ottobre, Garibaldi circondato dal ministero, presentava solennemente al Re, nella sala del trono, il plebiscito.
Il ministro Conforti pronunciò le seguenti parole:
«Sire!
» Il popolo napoletano raccolto nei comizii ad immensa maggioranza vi ha proclamato suo Re. Nove milioni d’italiani si uniscono alle altre Provincie rette dalla Maestà Vostra con tanta sapienza, e verificano la vostra solenne promessa che l'Italia dev’essere degl'italiani.»
Si fece nelle forme legali il rogito dell'atto di cessione. Essendo in tal modo cessata la dittatura, da cui aveva avuto i poteri il ministero, diede la sua dimissione.
II.
II Re Vittorio Emanuele offriva a Garibaldi il titolo di principe di Calatafimi, di generalissimo dell’esercito d’Italia, nominava suo figlio Menotti primo aiutante di campo, dotava sua figlia della propria cassetta particolare e gli offriva un presente di un fondo di famiglia,
antica proprietà della casa di Savoia, appunto per togliere al dono ciò che vi poteva essere di men decoroso. Tutto ciò Garibaldi ricusò.
Intanto, colle prime offerte, tutto un giorno passò in trattative, per la massima parte condotte dal marchese Pallavicino. Senza pronunciarsi ancora né per l'accettazione, né pel rifiuto, Garibaldi mostrò il desiderio che tutt’i gradi dell’esercito meridionale fossero riconosciuti senz’alcun sindacato, e eh'esso fosse in tutto e per ogni punto pareggiato all'esercito occidentale. Il Governo acconsentì.
Nel 10 ottobre si nutrivano le maggiori speranze che Garibaldi rimanesse alla testa dell’esercito. Ma esse andarono deluse.
Garibaldi fino dal 21 ottobre voleva trasmettere il comando dell’esercito meridionale al generale G. Sirtori, ed in quel giorno scrisse allo stesso generale che abbisognando egli di alcuni giorni di cura lasciava a lui temporariamente il comando dell'esercito; ma il generale Sirtori pregò Garibaldi di conservare il comando finché non andava a Caserta, come di fatto lo conservò. Nel 9 novembre quindi comparve la seguente dichiarazione del generale Sirtori, la quale an nunciava ch’egli assume il comando dell'esercito meridionale:
«Il generale Garibaldi mi trasmise il comando dell'esercito meridionale, colla seguente lettera in data di Caserta 21 ottobre p. p. (qui il generale riporta l'accennala lettera).
» Finché egli rimase fra noi, io pregai il generale Garibaldi di conservare il comando; ora egli, allontanandosi per alcun tempo, ordinò di pubblicare la succitata lettera.
a Ufficiali e soldati dell'esercito meridionale!
» È la terza volta che il general Garibaldi mi affida il comando dell’esercito, e per la terza volta io spero di restituirlo dopo breve tempo al grande uomo, che amiamo siccome padre, anzi padre della patria.
» Caserta, 9 novembre 1860.
» Il comandante esercito meridionale
«G. Sirtori.»
III.
Garibaldi, prima di partire per Caserta, mise sotto gli ordini del generale Della Rocca il generale De Medici colla sua divisione.
Il generale Della Rocca pubblicò il seguente ordine del giorno, in cui esterna a Garibaldi l’alta soddisfazione del Re verso i volontaria «Sono lietissimo, scrive il generale, di essere prescelto a portare a conoscenza dell’Eccellenza Vostra tali sovrani sentimenti, e sono tanto più lieto, in quanto che fui, in questi pochi giorni, testimonio dell eccellente spirito militare che regna nell’esercito meridionale. 11 pronto successo ottenuto si dee in gran parte alla coraggiosa e longanime operosità di un esercito, che, perseverando nel combattere giornalmente le forze nemiche, le prostrava in modo da farle cedere al primo urto. Debbo poi personalmente ringraziare l’Eccellenza Vostra per la efficacissima cooperazione prestatami in questa circostanza dai suoi generali e dalle sue truppe.
Spero che le buone relazioni tra i due eserciti si faranno ogni giorno più intime. La concordia di lutti gli italiani è l'ara più sicura del trionfo della causa nazionale.»
Garibaldi sortì alle 4 e mezzo antimeridiane del 9 novembre dall'Albergo d'Inghilterra dove abitava. Rimase a bordo del vapore il Washington sino a giorno fatto e poi si recò a prendere congedo dall’ammiraglio inglese Mundv al bordò dell’Annibale. Lo accompagnavano quattro ufficiali del suo stato maggiore, Missori, Caldesi, Trecco e Canzio.
Terminato il colloquio coll'ammiraglio, che durò mezz’ora, strinse )a mano agli ufficiali dell'Annibale e ritornò a bordo del Washington, che poco prima delle ore 9 lasciò la rada di Napoli per Caprera.
Partirono con lui soltanto il suo segretario privato Basso, gli ufficiali Gusmaroli, Froscianti e suo figlio Menotti.
In questa occasione ei pubblicò un ordine del giorno indirizzato all'esercito meridionale sui suoi futuri disegni. Noi lo esporremmo quale ce lo dà il Giornale di Verona.
«Ai miei compagni d’armi!
» Penultima tappa del risorgimento nostro, noi dobbiamo considerare il periodo che sta per finire, e prepararci ad ultimare splendidamente lo stupendo concetto degli eletti di venti generazioni, il di cui compimento assegnò la Provvidenza a questa generazione fortunata.
» Sì, giovani! L’Italia deve a voi un'impresa, che meritò il plauso d$l mondo.
» Voi vinceste; e voi vincerete, perché voi siete ormai fatti alla tattica che decide delle battaglie!
» Voi non siete degeneri da coloro che entravano nel fitto profondo delle falangi macedoniche, e squarciavano il petto ai superbi vincitori dell’Asia.
» A questa pagina stupenda della storia del nostro paese ne seguirà una di più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero fratello un ferro arruotato, che appartenne agli anelli delle sue catene.
» All’armi tutti! tutti: e gli oppressori, i prepotenti sfumeranno come la polvere.
» Voi donne, rigettate lontani i codardi, essi non vi daranno che codardi; e voi, figlie della terra delle bellezze, voi volete prole prode e generosa!
» Che i paurosi dottrinarii se ne vadano altrove a trascinare il loro servilismo, le loro miserie.
» Questo popolo è padrone di sè. Egli vuol essere fratello degli altri popoli, ma guardare i protervi colla fronte alta: non rampicarsi, mendicando la sua libertà; egli non vuol essere a rimorchio d’uomini a cuore di fango. No! no! no!
» La Provvidenza fece il dono all’Italia di Vittorio Emanuele. Ogni italiano deve rannodarsi a lui, serrarsi intorno a lui. Accanto al re galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore dissiparsi! Anche una volta io vi ripeto il mio grido: all’armi tutti! tutti! Se il marzo del 61 non trova un milione d’italiani armati, povera libertà, povera vita italiana... Oh! no: lungi da me un pensiero che mi ripugna come un veleno. Il marzo del 61, e se fa bisogno il febbraio, ci troverà tutti al nostro posto.
» Italiani di Calatafimi, di Palermo, del Volturno, di Ancona, di Castelfidardo, d’Isernia, e con noi ogni uomo di questa terra non codardo, non servile; tutti, tutti, serrati intorno al glorioso soldato di Palestro, daremo l'ultima scossa, l'ultimo colpo alla crollante tirannide!
» Accogliete, giovani volontarii, resto onorato di dieci battaglie, una parola d addio! Io ve la mando commosso d'affetto dal profondo della mia anima. Oggi io devo ritirarmi, ma per pochi giorni. L’ora della pugna mi ritroverà con voi ancora — accanto ai soldati della libertà italiana.
Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da doveri imperiosi di famiglia, e coloro che, gloriosamente mutilati, hanno meritato la gratitudine della patria. Essi la serviranno nei loro focolari col consiglio e coll’aspetto delle nobili cicatrici, che decorano la loro maschia fronte di venti anni. All’infuori di questi, gli altri restino a custodire le gloriose bandiere.
» Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al riscatto dei nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero: noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme a nuovi trionfi.
«Garibaldi.»
I.
Nel giorno il novembre furono pubblicati i seguenti decreti del re Vittorio Emanuele sui volontari italiani attualmente sotto le armi:
«Vittorio Emanuele II, ec. ec.
» Sentito il nostro consiglio de' ministri; a Sulla proposta del presidente del Consiglio, nostro ministro segretario di Stato pegli affari esteri, e del ministro della guerra,
» Abbiamo decretato e decretiamo:
» Art. 1. I volontarii italiani, attualmente sotto le armi, formeranno un corpo separato dall’esercito regolare. La durata della ferma per la bassa forza sarà di due anni. Gli ufficiali avranno la speciale loro scala di anzianità e di avanzamento.
» Art 2. I vantaggi e gli obblighi si dei soldati che degli ufficiali sono interamente pareggiati a quelli dell’esercito regolare.
» Art 5. Una Commissione mista determinerà i gradi e l’anzianità degli ufficiali del corpo de’ volontari avuto riguardo ai servizii da essi resi ed ai loro precedenti.
» Art. 4. 11 Governo si riserva di far passare nell’esercito regolare ufficiali del corpo dei volontari in modo da rispettare i diritti acquistati dagli ufficiali dell’esercito regolare.
» Art 5. Le condizioni precedenti non dispensano alcuno dagli obblighi civili e militari che possa avere verso lo Stato.
» Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta degli Atti del Governo, mandando a chiunque spetti da osservarlo e di farlo osservare.
» Dato in Napoli PII novembre 1860.
» Vittorio Emanuele.
» C. Cavour.
» M. Fanti.»
II.
Nel 12 novembre fu pubblicato il seguente ordine del. giorno di S. M. il re Vittorio Emanuele circa l’armata dei volontari comandata nell’Italia meridionale dal generale Garibaldi:
Comando generale dell’armataOrdine del giorno.
«L’annata de’ volontari, comandata nell’Italia meridionale dal generale Garibaldi, ha bene meritato della patria e di noi.
«Mentre io eoi Governo, do opera ad ordinarla definitivamente, secondo le leggi ed i regolamenti dello Stato.
Determino:
» 1. Che, quanto ai gradi dei signori ufficiali, una Commissione di generali ed ufficiali superiori, scelti nelle due armate, mi farà le convenienti proposte sopra i relativi documenti;
» 2. Che agli ufficiali, sottufficiali e soldati, i quali siensi resi inabili al servigio militare per ferite riportate in guerra, sia applicata la legge sulle pensioni, vigente negli antichi nostri Stati;
» 3. Ai sottufficiali,, caporali e soldati, i quali desiderano ritornare in seno delle loro famiglie, verrà rilasciato il congedo, e saranno dati i mezzi di trasporlo per mare e sulle ferrovie, ed inoltre, a titolo di gratificazione per ispese di viaggio, avranno un trimestre di paga.
» Il congedo non esonera chi abbia obblighi verso lo Stato e l’armata, a termini delle leggi vigenti.
» 4. I volontari), i quali vogliono rimanere sotto le armi, devono prendere la ferma di due anni dalla data de(presente. Essi saranno organizzati conformemente agli altri corpi dell’esercito.
» 5. Agli ufficiali, che daranno la loro dimissione, è accordata una gratificatane, per ispese di viaggio, ragguagliata a sei mesi dì stipendio.
» 6. Agli ufficiali o militi della guardia nazionale mobilizzata, che fanno parte dell’armata meridionale, è egualmente accordata ima gratificazione ragguagliata ad un mese di stipendio.
» Dato in Napoli; addi 19 novembre 1860
«Vittorio Emanuele»
L'esercito garibaldiano rimase, a capo il generale Sirtori, che venne nominato luogotenente generate. Furono pure nominati luogotenenti generali Bixio, Tiirr Cosenz e Medici.
III.
Il re Vittorio Emanuele manifesta ai generati Tiirr, Cosenz la volontà che fosse da essi fatto un progetto definitivo per la riorganizzazione dei volontarii garibaldini.
Si riunivano a tale effetto tutt'i comandanti delle divisioni dell'esercito meridionale, prima presso il generale Bixio, poi in casa dei generale Tùrr, unitamente al generale Sirtori.
Combinarono d’accordo ed all’unanimità il seguente: Progetto di riorganizzazione dell'esercito meridionale in un corpo d’armata che si chiamerà Cacciatori delle Alpi.
Art. 1 Il corpo dannata si comporrà di quattro divisto tàf ogni divisione di due brigate, ogni brigata di quattro tari taglioni, ogni battaglione di quattro compagnie.
Art. 2 Saranno chiamati a far parte di questo corpo:
1.° Tutti i volontarii appartenenti all’esercito meridionale, ohe vorranno rimanere;
2.° Tutti coloro che per legge non sono soggetti) alla leva militare;
3.° Tutti gli uomini idonei alle armi delle Provincie italiane non libere;
4.° Potranno anche essere accettati, sotto condizioni da stabilire, dei volontarii stranieri.
Art. 3. I gradi degli ufficiali appartenenti all’esercito meridionale saranno ricompensati a parità di quelli dell’esercito nazionale, salvo quelle eccezioni che una Commissione, composta come all’articolo seguente, troverà giusto di stabilire.
Art. 4. (La composizione della Commissione fu lasciata in bianco perché il Governo stabilisca il numero dei componenti. )
Art. 3. Per gli ufficiali, sott’Ufficiali e soldati che cesseranno di far parte del corpo, si prenderanno misure di giustizia e di compenso, che sarà cura della Commissione di proporre.
Art 6. Gli ufficiali riconosciuti come nell’articolo 'terzo saranno muniti di brevetto regio e avranno gli stessi diritti degli uffiziali dell’armata nazionale, come dalla legge sullo stato degli ufficiali.
Art. 7. Sarà obbligatoria pei volontarii la ferma di 18 mesi, ed, in caso di guerra, sino ad un mese dopo la conchiusione della pace. Per tutto il resto, il corpo d’armata sarà sottoposto ai regolamenti in vigore presso l’esercito nazionale.
Art 8. In caso di scioglimento, gli ufficiali e soldati avranno facoltà di passare all’esercito regolare.
Art. 9. 11 vestiario del corpo dei cacciatori delle Alpi sarà formato di una giubba di panno rosso alla foggia dei bersaglieri, di un cappello egualmente alla foggia dei bersaglieri, di pantalone e cappotto simili a quelli della linea. 1 cacciatori saranno armati di carabina.
IV.
Nel 22 novembre venne pubblicato il seguente decreto:
«Sulla proposta del nostro ministro segretario di Stato per gli affari della guerra;
» Visto il nostro decreto in data li corrente, in cui è instituita una Commissione con incarico di esaminare i titoli e far proposta al nostro Governo relativamente agli ufficiali dei corpi volontarii del generale Garibaldi;
» Abbiamo decretato e decretiamo:
» Art. l.° È nominato presidente della Commissione sopradetta il generale d'armata conte Enrico Morozzo della Rocca, comandante del 5. corpo d'armata.
» Art. S.° Sono nominati membri della Commissione i seguenti ufficiali generali: Solaroli, Sirtori, Medici, Cosenz,
» ed i signori ufficiali superiori,
» Colonnello brigadiere Gozani di Treville cavaliere Alessandro, comandante la brigata granatieri di Sardegna,
» Colonnello comandante il 4.° reggimento granatieri di Lombardia, Ferrerò cavalier Maurizio Emilio.
» La Commissione proporrà al nostro ministro Della guerra i due segretarii della Commissione. Essi uffiziali generali e superiori, come pure i segretarii, continueranno a percepire le paghe e competenze, di cui sono attualmente provveduti.
» Art. 3. Il presidente della Commissione non avrà il voto deliberativo.
» Nei. casi dubbii ed a parità di voti, la pratica sarà inoltrata dal presidente della Commissione al nostro ministro della guerra, il quale la farà esaminare dal Comitato dell'arma, a cui corrisponde l'interessato, e me ne proporrà la risoluzione.
» Art. 4.° In caso di assenza prolungata o di malattia di uno o più dei signori membri della Commissione, il presi dente, sentito il parere dei restanti membri, mi proporrà, per mezzo del nostro ministro della guerra in loro rimpiazzo temporario o definitivo.
» Art. 5.° 11 nostro ministro della guerra trasmetterà alla Commissione le norme generali, che devono servire di base e guida pei lavori della Commissione.
» Quanto ai signori ufficiali e generali, è riservato ai nostro ministro della guerra l'esame dei loro titoli, facendomene al seguito le relative proposte.
» li nostro ministro predetto è incaricato dell’esecuzione del presente decreto.
» Napoli, 22 novembre 1860.
«Vittorio Emanuele.
Fanti.»
Tre generali garibaldiani presero le seguenti determinazioni sull’esame dei titoli degli ufficiali: Saranno severi sui diportamenti tenuti dagli ufficiali durante la guerra, sulla loro moralità e sui loro antecedenti. £ deciso rinvio puro e semplice di tutti quegli ufficiali, che,
secondo le eterne regole della morale, potessero recare disonore al corpo, e di coloro che si diedero i gradi da sé e che stettero quasi sempre ad una rispettosa distanza dal fuoco. Ma sul conto degli ufficiali, eh ebbero brevetti da Garibaldi, o che, non avendoli ottenuti, li dovevano ricevere perché meritati, sul conto di tutti coloro, che fecero i loro esami al fuoco, i tre generali di Garibaldi non si sentono disposti a scrutarne i titoli. Chiederanno che debbano essere riconosciuti da tutti senz'altro.
La instituita Commissione di depurazione dell'esercito meridionale proceda alacremente al lavoro e vi furono numerose esclusioni acconsentite dagli stessi generali garibaldiani.
Ma la più grave difficoltà che provò il ministero della guerra si fu nell'accordare le pensioni ai feriti, per la mancanza dei ruoli dei varii corpi di quell’esercito. Furono però date istruzioni di usare una certa indulgenza nel pretendere i documenti necessari per accordare la pensione.
V.
Con varii decreti firmati ad Ancona e Grottamare S. M. il re Vittorio Emanuele fece le seguenti nomine e promozioni fra gli ufficiali generali e i comandanti di brigata:
Fanti cav. Manfredo, elevato al grado di generale d’armala, continuando nell’attuale sua carriera di ministro della guerra e capo dello stato maggiore generale.
Morozzo Della Rocca co. Enrico, elevato al grado di generale d’armata, continuando nell’attuale sua carriera.
Cialdini cav. Enrico, elevato al grado di generale d’armata, continuando nell'attuale sua carriera.
Durando cav. Giovanni, elevato al grado di generale d’armata continuando nell’attuale sua carriera.
De Sonnaz coi Maurizio, maggior generale, promosso al grado di luogotenente generale, continuando nell’attuale sua carriera.
Di Savoiroux co. Carlo, promosso al grado di luogotenente generale, e con altro decreto del 15 ottobre venne nominato comandante la divisione di cavalleria.
Pes di Villamarina Dal Campo, co. Bernardino, promosso al grado di luogotenente generale.
Della Rovere cav. Alessandro, promosso al grado di luogotenente generale, continuando nell’attuale sua carriera.
I.
Il conte Cavour presentò, nella tornata del Parlamento sardo 2 ottobre, un progetto coi quale si chiede che venga data facoltà al Governo del Re di accettare e stabilire per decreto reale l’annessione al Piemonte degli Stati italiani di fresco sottratti all’antica dominazione. Eccone il tenore del suo discorso:
«Signori,
» Or sen tre mesi, il Parlamento, prima di prorogare le sue tornate, concedeva al Governo del Re le somme richieste per provvedere alle esigenze dello Stato e promuovere nuovi progressi nella causa nazionale»
» Votando, con quasi unanime deliberazione, un prestito bastevole, non solo alle necessità del presente,
ma eziandio a meno prossime eventualità, le due Camere, mentre rifornivano il tesoro pubblico, infondevano nel Ministero quella forza morale, che non meno dei sussidii pecuniarii è occorrente per governare in tempi procellosi un popolo libero.
» Con tale efficace sostegno, il Governo del Re potè non fallire all’assunto di secondare la fortuna d’Italia e compiere ardite imprese, che segneranno un’orma profonda nella storia del risorgimento nazionale.
» Gli apparecchi militari proseguiti con alacrità, nonostante il gravissimo spendio che traggono seco, contribuirono a far rispettare in Italia il principio del non intervento; principio proclamato solennemente dall’imperatore Napoleone a Villafranca e propugnato dal Governo britannico come conforme ai nostri diritti ed ai veri interessi d’Europa.
» Codesti militari apparecchi ci posero del pari in grado di liberare prontamente l'Umbria e le Marche dal ferreo giogo di mercenarii stranieri senza troppo affievolire la difesa dei nostri contini.
» Ponendo mente ai risultati ottenuti in questo breve periodo di tempo, il Ministero ha fede di aver corrisposto alla fiducia del Re e della nazione. All'aprirsi della sessione attuale, i rappresentanti di undici milioni d’italiani si adunavano intorno al Monarca da essi unanimemente acclamato. Ora, dopo trascorsi appena sei mesi, altri undici milioni d’italiani hanno infrante le loro catene e sonosi fatti arbitri di scegliere quel Governo ch'ei reputeranno più convenevole ai sentimenti ed agl’interessi loro.
» Il Ministero è al tutto alieno dall'attribuire unicamente a sè stesso il merito di sì mirabili eventi.
Egli noti disconosce, ma proclama invece altamente che al genio iniziatore de’ popoli è soprattutto da attribuire un così stupendo rivolgimento. A rispetto poi di Napoli e della Sicilia, esso è dovuto senza dubbio al concorso generoso de’ volontarii, e più che ad altra cagione, al magnanimo ardire dell'illustre loro capo, il generale Garibaldi.
» Il Ministero si ristringe pertanto a notare che questi memorandi casi furono conseguenza necessaria della politica, già iniziata da Carlo Alberto, e proseguita per dodici anni dal Governo del Re. Certo, se tale politica fosse stata messa in disparte, ovvero se ne fossero mutati od alterati i principii direttivi, le cause surriferite sarebbero tornate impotenti a compiere la liberazione di tanta parte d'Italia.
» Quindi, non per essergli subitamente mancata la fede nell'efficacia di tali principii, il Ministero stimò suo debito di far più sollecita dell'usato la riunione del Parlamento. A ciò lo indusse, in prima, la persuasione che le presenti emergenze, non prevedute ne’ giorni della votazione del prestito, imponevangli lo stretto obbligo di accertarsi che non gli sia venuto meno quel concorso efficace delle due Camere, dal quale emerge la maggiore delle forze governative. Egli pensò inoltre, con una schietta esposizione de' proprii intendimenti, mettere i rappresentanti della nazione in grado di pronunziare solenne giudizio sul sistema politico da lui proseguito.
» Io non credo necessario di ricordare gli avvenimenti testò compiuti. Essi sono tanto noti e così recenti, da non bisognare d’alcuna menzione. D'altra parte, non trattasi qui dr discutere sul passato, bensì di deliberare intorno al da farsi attualmente.
» L’Italia è ormai libera. Sola e dolorosa eccezione fa la Venezia. E rispetto a questa Provincia nobilissima della penisola, il Parlamento conosce il nostro pensiero, il quale fu espresso chiaramente in un documento diplomatico divenuto, or non è molto, di ragione pubblica. Noi giudichiamo che non debbasi rompere guerra all’Austria contro il volere quasi unanime delle Potenze europee.
» Tale improvvida impresa farebbe sorgere a’ nostri danni una formidabile coalizione e porrebbe a gran repentaglio, non solo l'Italia, ma la causa della libertà nel continente europeo. Perocché quel tentativo temerario ci porrebbe in ostilità colle Potenze, che non riconoscono principii difesi da noi, e ci alienerebbe la simpatia di quegli Stati, che informano la loro politica a più liberali intendimenti.
» Noi, spettatori quotidiani, e certo non indifferenti, dei dolori dei popoli veneti, non poniamo io obblio la loro causa, ma reputiamo di servirli nel modo più efficace, costituendo un’Italia forte. Dappoiché stimiamo con sicurezza che, non appena codesto gran fine verrà raggiunto, l'opinione generale delle nazioni e de’ Gabinetti, la quale oggi é contraria ad una impresa arrischiata, si mostrerà favorevole a quel solo scioglimento della questione italiana, che chiuderà per sempre nel mezzogiorno d’Europa l’èra delle guerre e delle rivoluzioni.
» Del pari, noi siamo convinti che ragioni supreme impongono l’obbligo di rispettare la città, dove ha sede il sommo Gerarca. La quistione di Roma non è di quelle che possono sciogliersi colla sola spada. Ella incontra sulla via ostacoli morali, che le sole forze morali possono vincere.
Ed abbiamo fede che, presto o tardi, quelle forse indurranno nelle sortì della insigne metropoli una mutazione consentanea coi desiderii del suo popolo, con le aspirazioni di tutt’i buoni Italiani, coi veri principii e i durevoli interessi del cattolicismo.
» È consiglio da savii e da patriotti il sapere aspettare un mutamento così salutare dalla virtù del tempo e dallo influsso grande ed incalcolabile che l'Italia rigenerata eserciterà sui pareri e giudizii del mondo cattolico. Ma, quand'anche questo nostro pensiero fosse erroneo, la sola presenza delle truppe francesi a Roma dovrebbe bastare a farci desistere da qualunque disegno, eziandio remoto, di schierarci colle armi in pugno dinanzi a quella città.
» Nelle condizioni nostre attuali, il metterci a fronte dei soldati di Francia sarebbe, nonché follia inaudita, fatto e colpa gravissima. V'ha in fatti delle follie generose, le quali, benché divengano sorgente di enormi sacrifizii e dolori, non traggono seco la ruina di una nazione. Invece tornerebbe a mina d'Italia qualunque intenzione di combattere contro lo truppe francesi Una ingratitudine tanto mostruosa segnerebbe sulla fronte della nostra patria tale macchia, che lunghi secoli di patimenti non varrebbero a cancellare.
» I soldati di Francia occupavano Roma, quando altri soldati di quella nazione, guidati dal loro generoso Imperatore, combatterono per noi a Magenta ed a Solferino.
» Se reputavasi la loro presenza in quella città incompatibile al tutto coi veri interessi d1 Italia, non dovevamo nò chiedere, né accettare il concorso della potente nostra vicina per conquistare libertà e indipendenza.
Oggi il rivolgere contro di lei le armi medesime, che le sue vittorie hanno posto nelle mani di tanti Italiani, sarebbe tale alto, da cui certo rifugge l’animo d’ognuno di noi, che non sia pienamente sedotto e dominato dallo spirito di setta.
» Ma se, per ora, non siamo in condizione di adopràrci a favore di Venezia e di Roma, non va così per le altri parti d’Italia, le quali, sebbene già rivendicate a libertà, sentono d’uopo d’immediati e di efficacissimi provvedimenti.
» Signori, se la causa italiana si procacciò finalmente la simpatia universale d’Europa, se la mente delle nazioni più culte ed educate le si dimostra favorevole, ciò è specialmente da attribuirsi alla mirabile temperanza d'idee, alla compostezza dei modi serbati dalle varie Provincie della penisola, tostoché riuscirono a liberarsi dal reggimento che lo straniero aveva loro imposto. Quelle Provincie porsero la pruova più solenne di quanto sia vera e profonda la civiltà del popolo italiano, sradicando immediatamente ogni germe di anarchia, ordinandosi senza indugio in conformità dei principii, che prevalgono appo le nazioni più provette nell’esercizio della libertà, manifestando infine la ferma volontà. loro di uscire dal provvisorio e di veder istituito un Governo nazionale e libero, ma forte ad un tempo e impaziente d’ogni maniera di eccessi.
» Con questa moderazione e concordia degli animi, con questa fermezza incrollabile di proposito, i popoli della Toscana e delF Emilia pervennero da ultimo a persuadere la diplomazia che gP Italiani sono capaci di costruire un vasto Regno, fondato od ordinato sovra principii ed istituzioni largamente liberali.
» Le cose debbono procedere in egual modo nell’Italia meridionale. Guai se quei popoli avessero a durar lungamente nell’incertezza del provvisorio; le perturbazioni e l'anarchia, che poco larderebbero a scoppiare, diverrebbero cagione di danno immenso e d’immenso disdoro alla pairia comune. Il gran moto nazionale, uscendo dall'orbita regolare e meravigliosa, che ha trascorsa finora, farebbe correre supremi pericoli, così alle Provincie testé emancipate, quanto a quelle, che sono da oltre un anno fatte libere ed indipendenti. Ciò non deve succedere. Il Re, il Parlamento non vi possono acconsentire.
» Il Principe generoso, che l’Italia intera proclama iniziatore e duce del risorgimento nazionale, ha verso i popoli del mezzogiorno d’Italia speciali doveri. l'impresa liberatrice fu tentata in suo nome; attorno al suo glorioso vessillo si raccolsero, si strinsero i popoli emancipati. Egli è dinanzi all'Europa, dinanzi ai posteri responsabile delle loro sorti.
» Non già che il Re Vittorio Emanuele intenda per ciò disporre a suo talento dei popoli dell’Italia meridionale, ma incombe a lui il debito di dare a quelli opportunità d’uscire dal provvisorio, manifestando apertamente, liberissimamente la volontà loro.
v Quale sarà il risultato del voto? La risposta giace nell’urna elettorale.
» Come Italiani, noi desideriamo ardentemente che gli abitatori delle Provincie, non ancora unite, operino non diversamente da quelli dell Italia centrale e collo stesso entusiasmo, con pari unanimità si dichiarino consenzienti al principio unificatore di tutta quanta la pencola sotto la. scettro costituzionale di Vittorio Emanuele...
» Come ministri di un Principe scevro d ogni ambizione personale e che sacri la sua spada e la sua vita al la grande opera di fare l'Italia degli italiani, noi dobbiamo fermamente pronunziare in suo nome che, qualunque sia per essere il voto di quei popoli, esso verrà religiosamente rispettalo.
A noi non fallisce la fiducia che voi pure vi accorderete in questo pensiero. Tutti vogliamo recare a compimento il grande edificio della unità nazionale. Ma esso debbe sorgere mediante il consenso spontaneo dei popoli, non per atto alcuno di costringimento e di forza.
» Tali considerazioni indussero il Governo del Re a chiedere alle due Camere che sia latta facoltà di compiere l'annessione di tutte quelle affrancate Provincie italiane, le quali, interrogate col mezzo del voto universale e diretto, dichiarassero di voler esser parte della numerosa famiglia di popoli, già ricoverati sotto le ali del Regno glorioso di Vittorio Emanuele.
» Non crede il Ministero che la forma del voto possa esser argomento di discussioni. Imperocché sarà quella medesima già posta in atto nella Emilia e nella Toscana. I popoli verranno invitati ad esprimere nettamente, se vogliono o no congiungersi al nostro Stato, senza però ammettere alcun voto condizionato. Poiché, com'è ferma nostra deliberazione di non imporre l'atto d’annessione ad alcuna parte d’Italia, dobbiamo dichiarare con pari schiettezza essere nostro avviso che non si debbano ammettere annessioni subordinate ad alcuna condizione speciale.
Ciò sarebbe, o signori, dar facoltà ad una o più Provincie italiane d’imporre la volontà loro alle Provincie già innanzi costituite e d'inceppare l’ordinamento futuro della nazione, introducendovi un vizio radicale e un germe futuro d’antagonismo e di discordia. Non dubitiamo, F altra parte, di significare che il sistema delle annessioni condizionale, da noi ripulso, è contrario all’indole delle moderne società, le quali, se possono in certe peculiari congiunture ordinarsi convenientemente sotto forma federativa, non ammettono più il fatto deditizio, vera reliquia del medio evo, modo d’unione poco degna di Re e di popolo italiano.
» Dopo tutto quello, che d’impensato e d'insperato avvenne nella penisola, ognuno indovina che noi non siamo federalisti. Nè tampoco vogliamo essere accentratori e lo dimostrano i pensieri espressi da noi intorno all’ordinamento amministrativo dello Stato. Nulladimeno, non esiteremmo a preferire il sistema federale, o quello del compiuto accentramento, ad un assetto politico, per cui le Provincie, benché unite sotto il medesimo scettro, permanessero, nelle più importanti materie legislative, Autorità indipendenti dal Parlamento e dalla nazione.
» È però da avvertire che, se tutti coloro, i quali hanno contribuito al trionfo della causa nazionale, accettano in massima il concetto dell’annessione dell'Italia meridionale, nondimeno alcuni, di cui non è dubbioso l’amore di patria, né la devozione alla sacra persona del Re, stimano doversi quell’atto di annessione indugiare sino ad opera compiuta, cioè sino a che non siano sciolte del tutto le quiption} di Venezia e di Roma.
» Noi crediamo che tale disegno, ove fosse attuato, trarrebbe con sè le conseguenze le più funeste. Perché mantenere Napoli e Sicilia in uno stato anormale? Un solo motivo può essere addotto di ciò: quello di valersi dell'opera rivoluzionaria per compiere la liberazione d’Italia. Ora, noi affermiamo risolutamente che questo sarebbe un errore gravissimo. Nel termine, in cui siamo giunti, e quando è in vostra facoltà di compiere uno Stato di 22 milioni d'italiani, uno Stato forte e concorde, il quale potrà disporre d'innumerevoli specie di mezzi, così materiali come morati, l'era rivoluzionaria debb’essere chiusa per noi; l'Italia deve iniziare con gran franchezza il periodo suo di ordinamento e di organamento interiore. In altra guisa, l’Europa avrebbe ragione di credere che per noi la rivoluzione non è un mezzo, ma un fine, e ci terrebbe a buon diritto la sua benevolenza. L'opinione pubblica, statasi sino al dì d’oggi tanto favorevole, dichiarerebbesi contro di noi e diverebbe ausiliaria dei nostri nemici. Tutte le quali cose renderebbero senza dubbio, non solo più malagevole, ma fors’anche impossibile il compimento dell'impresa italiana.
» Rivoluzione e Governo costituzionale non possono coesistere lungamente in Italia senza che la loro dualità non produca una 'opposizione e un conflitto, il quale tornerebbe a solo profitto del nemico comune.
» Tali eventualità non si affacciarono alla mente di quel generoso patriotta, che finora contrastò l’annessione di Napoli e della Sicilia. Ma se ragioni gravi potevano fargli reputare necessario quel sistema, finché l’Umbria e le Marche separavano il mezzodì dal centro
e dal nord della penisola, ora il seguir quella via produrrebbe l'effetto unico di porre inutili indugii ed impedimenti ai progressi dell'idea nazionale. l'ha nella natura dei latti una logica, la quale trionfa delle più gagliarde volontà, e contro cui non valgono le migliori intenzioni, facciasi permanente la rivoluzione a Napoli ed a Palermo, ed in breve tempo l'autorità e l’impero trapasseranno dalle mani gloriose di chi scriveva svi proprio vessillo; Italia e Vittorio Emanuele, in quelle di gente, che a tal formula pratica sostituisce il cupo e mistico simbolo dei settarii; Dio ed il Popolo.
» Ci si permetta dunque di ripeterlo. Quella condizione di cose provvisoria e rivoluzionaria, che poteva aver ragione di esistere a Napoli ed in Sicilia, debbe aver termine al più presto possibile. Lo richiede sovrattutto l’interesse e l’onore della causa nazionale. E come potrebbe, senza notabile scapito della dignità della Corona, cerne potrebbe Re Vittorio Emanuele acconsentire che Provincie italiane siano lungo tempo governate nel nome di lui, quali paesi di conquista, senza che il popolo, adunato nei liberi comizi!, abbia espresso e manifestato con solenne legalità di voto la sua volontà?
» Per queste ragioni, io piglio speranza che voi farete, o signori, accoglienza favorevole alla proposta di legge che ho l'onore di presentarvi.
» Se non che, nelle rilevanti e straordinarie contingenze, in cui versa la patria, il Parlamento non può restringersi a deliberare sulle disposizioni legislative, fatte opportune o necessarie dallo svolgersi degli avvenimenti politici.
» È altresì vostro ufficio di esaminare se gli uomini, che in questi giorni hanno l’onore di sedere nel Consiglio della Corona, sono sufficienti ad adempiere l’alto loro mandato, e paiono non immeritevoli della fiducia della nazione'.
» Ogni mezzo materiale, posto a requisizione della potestà esecutiva, e ogni facoltà, che la legge le può concedere, tornerebbe sempre scarsa e debole, qualora mancasse ai ministri del Re quella efficacia morale, quell’autorità irresistibile, di cui nei Governi liberi e costituzionali è fonte perenne e unica la perfetta concordia fra’ massimi poteri dello Stato.
» Il voto di fiducia, che voi, or pochi mesi, concedeste al Ministero, lo pose in grado di superare le difficoltà, né poche, né lievi, che ingombravano la sua via;
» Ora, per proseguire a reggere con mano salda e vigorosa il timone dello Stato, è mestieri ch’egli sappia, e sappia l’Italia, se gli atti e i portamenti di luì in questo intervallo furono tali da scemare la fiducia, che in esso voi riponeste.
€ióè tanto più necessario e signori, dacché una voce, giustamente cara alle moltitudini, palesò alla Corona e al paese, la sua sfiducia verso di noi.
» Certo, tale dichiarazione ci commosse penosamente, ma non poteva rimuoverci in nulla dai nostri propositi.
» Custodi fedeli dello Statuto, del quale a noi, più che ad altri, incombe la esecuzione più scrupolosa, non crediamo che la parolai un cittadino, per quanto segnalati siano i servigi da lui resi alla patria, possa prevalere all'autorità dei grandi poteri dello Stato.
» Però è debito assoluto dei ministri d’un Re costituzionale di non, cedere innanzi a pretese poco legittime, anche quando sono avvalorate da una splendida aureola popolare e da una spada vittoriosa.
» Ma se, cedendo a quelle esigenze, avremmo mancato al nostro debito, ci correva l'obbligo tuttavia d’interrogare il Pagamento, onde sapere s’egli è: disposto sancire la sentenza proferita cpntro di noi.
» Questo effetto uscir dee dalla discussione, cui darò motivo la presente proposta di legge.
» Qualunque esser possa la deliberazione vostra, noi Faccetteremo.
II.
Ecco il discorso del ministro Cassinis nella sessione d'apertura:
«Signori senatori,
» Gol concorso di tutta la nazione, colla fiducia e la buona armonia reciproca, riusciremo certamente a costituire un Regno grande e forte, che per la sua grandezza si farà rispettare dall’, Europa, e sarà una guarentigia di quella pace, che da tutti si desidera.
» Nelle gravi circostanze, in cui ci troviamo, il Governo sentì il bisogno ed il dovere d'interrogare il Parlamento. Disposti, come noi starno ad accettare tutta la responsabilità delle nostre azioni, dobbiamo curare che Fazione nostra non Sia inefficace, e speriamo che essa sarà rinfrancata di nuovo appoggio dalla fiducia vostra, di cui avemmo, pochi mesi sono, una sì splendida prova.
Con una unanimità singolare voi votaste un prestito di 150 milioni, ed il Governò, nel quale voi confidaste, crede di aver bene interpretato fi vostro voto.
» La rivoluzione nostra fu una gloriosa rivoluzione, e tutta Europa rimase piena d'ammirazione per quell’illustre guerriero, il generale Garibaldi, le cui gesta saranno sempre una splendida gloria italiana. Ma in progressi, cambiata la direzione del movimento e destate per ciò le inquietudini dell’Europa, potevamo noi per questo tralasciai di proteggete i risultati ottenuti, non dovevamo contenere il movimento entro ai limiti, che la prudenza consigliava, non dovevamo salvare il paese dall’anarchia?
» La nostra grand'impresa fu iniziata col nome glorioso di Vittorio Emanuele. Il magnanimo Re non poteva fallire al glorioso proposito, né venir meno alla scelta dei mezzi opportuni. Undici milioni d'italiani domandano che sia interrogato il loro voto, domandano di venir a far parte del gran Regno italiano. In conseguenza il Governo ha convocato il Parlamento, ed io vengo fra voi a darvi notizia come, da! canto suo, i! mio collega, presidente del Consiglio, abbia or Ora presentato nell’altro ramo del Parlamento un progetto di legge, Pel quale si chiede che venga data facoltà al Governo del Re di accettare e stabilire per decreto reale le annessioni dei popoli italiani testé liberati.
» Voi esaminerete i nostri atti, discuterete la nostra poetica, i nostri propositi, con quel patriottismo, di cui deste. tante luminose prove. Fortunati noi, come cittadini come italiani, come ministri del Re, se vi pare che non abbiamo mal. meritato della patria e de' suoi gloriosi destini.»
III.
A relatore sul progetto di legge che accorda ai Governi la facoltà di accettare le annessioni al Piemonte di quelle Provincie italiane che ne manifestassero il voto, venne nominato il deputato Andreucci.
La commissione incaricata della proposta di. questa legge si radunò nella sera del 4 ottobre e scelse a suo presidente il cav. Buon compagni.
Il progetto di questa legge fh approvalo all’unanimità da tutti gli Ufficii, meco un voto di un deputato del terzo. Questo oppositore sosteneva la tesi essere sconveniente il dare al Ministero la facoltà di promuovere la votazione, perché si pregiudicherebbe quasi la libertà del suffragio delle popolazioni, e perché l'adozione di siffatto partito implicherebbe una disapprovazione alla politica di Garibaldi.
Alcuni Ufficii proposero di aggiungere al progetto, di legge un articolo che desse facoltà al Ministero di riformare la legge elettorale in guisa che i deputati non riuscissero facendosi la unione, soverchiamente numerosi.
Tra le altre osservazioni che si fecero noteremo che nel primo Ufficio vi era la proposta di un ordine del giorno in elogio di Garibaldi e dei volontarii;
nel secondo Ufficio si espresse il voto che nella relazione non si facesse parola di dissidii tra il Governo e il generale Garibaldi; il terzo raccomandò che la relazione fosse concepita in termini al più possibile conciliativi.
Macchi perorò caldamente per mostrare che il voto di fiducia, dato sopra una proposta formolata. così, sarebbe un voto di sfiducia a Garibaldi, e che invece bisognerebbe dar segno di fiducia anche in lui.
Avesani, veneto, criticò l'ultima parte della relazione, che motiva il voto richiesto e la legge; si palesò persuaso che bisognava lasciare svolgere a Garibaldi il suo programma anche per Roma o per la Venezia, e quindi che non ci vuole ora né l'annessione né il voto di fiducia.
Castellani-Fantoni parlò allo incirca nello stesso senso e con maggiore amarezza verso il Ministero;
Ferrari si distese in dimostrazioni politico-filosofiche per provare che l'annessione in tal modo si farà, ma che non durerà.
Gabella rigettò la proposta di legge per autorizzare il Governo a compiere le annessioni, conchiudendo all’incirca che, se si vuol dare il voto di fiducia, deve darsi senza tale legge, da lui dichiarata inutile, e darla in modo da non offendere Garibaldi.
Gasaretto parlò presso a poco nello stesso senso.
Pareto parve intento a concludere che il voto di fiducia non deve esser dato dalla Camera nel senso indicato dal Ministero, di condanna cioè della politica di Garibaldi.
Ricci esternò che, dopo l’occupazione delle Marche e dell’Umbria, colpo ardito e maestro, e fecondo d’ottime conseguenze, un voto di fiducia non si potrebbe negare al Go«verno senza negar l'evidenza.
Tecchio fu di parere che alla legge convenisse sostituire un ordine del giorno della Camera.
Depretis, allegando coi suoi intimi amici la quistione personale, che lo tocca, dopo le singolari traversie della sua prodittatura, fece qualche obbiezione di forma al progetto ministeriale nell'Uffizio, ma in conclusione potè considerarsi come astinente.
Rattazzi votò in favore.
IV.
Ecco la relazione del ministro che presentò alla Camera elettiva lo schema di legge per la modificazione delle leggi elettorali politiche.
«Signori,
» Nel presentarvi il progetto di legge, per cui si chiedeva la facoltà di compiere l'annessione allo Stato delle Provincie affrancate, che per voto universale dichiarassero volerne far parte, il Ministero non tralasciava di volgere la mente alle conseguenze, che nel rapporto agli ordini costituzionali, sarebbero derivate dalP annessione accettata e stabilita.
» Da una parte, l'autorità dell'attuale Parlamento sarebbe cessata, o per lo meno sospesa, sinché i rappresentanti legali delle nuove Provincie fossero venuti ad occupare i seggi loro assegnati dal principio della politica uguaglianza;
dall'altro canto, il potere esecutivo, per poco che durasse questa sospensione, sarebbesi trovato di fronte all’impossibilità di riscuotere i tributi e di provvedere alle pubbliche spese, per difetto del bilancio pel prossimo anno dalle Camere approvato e sanzionato dal Re.
» Un’altra grave difficoltà si appresentava riguardo alla legge elettorale, la quale dovendo essere materialmente applicata alle Provincie nuovamente annesse, se queste fossero molte e popolose, avrebbe portata alla Camera elettiva un numero tale di deputati, da non trovare riscontro in altri Stati e da riputarsi eccessivo sotto ogni rispetto. Il che tornerebbe, più che ad altri, al nostro paese dannoso ed incomodo, sia per le meno rapide e più dispendiose comunicazioni, sia pel minor numero delle famiglie agiate a segno da sostenere la dignità della rappresentanza, senza retribuzione ed indennità di sorta, e finalmente per la difficoltà di raccogliere nel Parlamento il numero legale, cioè assoluta maggioranza dei suoi membri.
Nell'intento di togliere di mezzo questi più gravi inconvenienti dell'interregno parlamentare, nel quale, se puossi ritenere prossimo il cominciamento (pel desiderio nostro d'affrettare l’annessione delle Provincie affrancate), non è possibile determinare sin d'ora con precisione il termine, il Ministero ha divisato di proporvi il presente progetto di legge. Esso vuol essere riguardato siccome una logica e necessaria conseguenza dell'altra proposta, statavi testé presentata ed a cui già tornò favorevole. il primo voto negli Uffizii; epperciò porto fiducia, che lo ravviserete pure meritevole della vostra approvazione.
La relazione della Commissione della Camera sul progetto di legge in discorso, conchiuse per l'approvazione del progetto di legge e terminò col proporre i seguenti ordini dei giorno:
» La Camera de' deputati, mentre plaude allo splendido valore dell armata di terra e di mare e al generoso patriottismo dei volontarii, attesta la nazionale ammirazione e riconoscenza all’eroico generale Garibaldi, che, soccorrendo con magnanimo ardire ai popoli di Sicilia e di Napoli, in nome di Vittorio Emanuele, restituirà agl’italiani tanta parte dr Italia.»
» È fatta facoltà al Governo del Re, dappoiché sarà attuata l'annessione allo Stato di altre Provincie, di modificare, per regi decreti, le leggi elettorali politiche nelle parti che riguardano il numero de’ deputati e la circoscrizione dei collegii.»
V.
Nella tornata del 5 ottobre della Camera de’ deputati il deputato Cabella chiedeva che, a chiarire le quistioni suscitate dallo schema di legge concernente la facoltà di accordare al Governo d’accettare le annessioni delle provincie dell’Italia meridionale, le quali ne manifestassero la volontà, volesse il Ministero dare comunicazione di lutti que’ documenti diplomatici, o d’altra specie, che potessero riferirvisi.
Il ministro degli affari esterni disse le ragioni che non consentono di dare, per ora, pubblicità a codesti documenti senza detrimento della cosa pubblica; stimando non pertanto conveniente di dare risposta,
senz'altro indugio, a false notizie od insinuazioni divulgatesi non ba guari ne' giornali dichiara, che in niuna convenzione, in niuna corrispondenza ed in niun colloquio fu mai, tra il Governo o qualsiasi Potenza esterna, trattato della cessione neppur di un pollice del territorio italiano.
VI.
La Camera de' deputati, alla tornata dell'8 ottobre, udita anzitutto la relazione intorno a due petizioni, dichiarate d’urgenza, incominciò la discussione dello schema di legge, che accorda al Governo la facoltà di accettare le annessioni allo Stato di quelle Provincie italiane che ne manifestarono il voto. Ecco la discussione.
Ferrari. Le due estreme parti d’Italia sono ora risorte; qui si applaude ed a Napoli si applaude ancora ad altra persona. Le due estreme parti d'Italia separate finora dagli Stati pontificii, finalmente sono unite! Che la concordia in questi supremi momenti ci assista e l'Italia sarà! Posso parlare liberamente, perché sono estraneo al Governo dell'alta e della bassa Italia; applaudo alle vittorie di tutti. A Palermo, a Napoli, come a Torino sventola lo stesso stendardo della croce di Savoia; si rispetta la religione a Napoli, come a Torino, ed a Torino come a Napoli si avversa un sistema religioso o partito... Qual fu il sistema che facilitò il trionfo di Garibaldi nella bassa Italia? Il Governo l’ha detto; fu il grido di Vittorio Emanuele! Nessun uomo è necessario al mondo, ma devo confessare che è Garibaldi colui, che rende possibile a Napoli re Vittorio Emanuele.
Pure vi è dissenso tra ministri di Vittorio Emanuele e Garibaldi, dissenso che nacque dal modo stesso con cui fò intrapresa la spedizione di Napoli... Il sistema piemontese, propagato da Balbo, da Gioberti e da altri viventi, che non voglio nominare, consiste nel dire a' popoli lombardi, a' toscani ed a tutti gr italiani: Insorgete! I vostri Principi sono oppressori; avete ragione d'insorgere! Appena insorti noi vi aiuteremo; ma dovete subito divenire piemontesi (Grida di disapprovazione). Il Piemonte voleva estendersi anche solo fino a Modena (Nuove grida e tumulto).
Presidente. Avviso la Camera di rispettare la libertà della discussione.
Ferrari. Non biasimo, anzi lodo il sistema piemontese. La logica rende impossibile col sistema piemontese resistenza di tutti gli altri Governi di Toscana, di Napoli, ece. Desidero che intendiate la storia (Rumori e grida). Le mie parole sono credute ostili al Piemonte...
Presidente. Prego l'oratore a non dire parole, che possono offendere tutta la Camera o singoli deputati. Se alcuno fece romore, vuol dire che non approva le opinioni dell’oratore: ma, senza giustificare coloro che fanno romore, non credo perciò che siano ostili all’oratore.
Ferrari. Non dissi mai nessuna parola demagogica; sol dissi che il ribelle, in forza del sistema piemontese, si ribella a sua volta contro il sistema piemontese medesimo. Come? egli dice, ho cospirato contro il mio Governo; ho perduto la patria, ho rischiato la vita, ed ora il sistema piemontese non vuole che cospiri più?
E il ribelle cospira nuovamente contra il sistema piemontese, ch'è un misto di Governo e di cospirazione!
Ecco come parla un ribelle; dico ribelle; Io sono escluso dall'esercito; non ho impieghi, non ho onori, non ho nulla e sono perseguitalo dal Governo piemontese! Così ragiona un ribelle (Risa) io parlo d'un ribelle, di un repubblicano... Col sistema piemontese è unita la quistione della capitale. Torino si vuole soprapporre a tutta l'Italia, come si sovrappose il sistema piemontese; così non sarà per l'avvenire; ma si vuole che sia così al presente. Che cosa é la capitale? È l’assorbimento di tutta una nazione; la capitale è Parigi con un milione e mezzo; è Londra con due milioni di abitanti, mentre tutta l’Inghilterra non ha 20 milioni d’abitanti. (L'oratore si dilunga a grandi capitali che impoveriscono i Regni), Coll'annessione incondizionata di Napoli vi prendete una città grandissima ricchissima a petto di Torino, cospicua certo, ma inferiore d'assai a Napoli. Coll'annessione incondizionata, distruggete tutte le leggi napoleoniche che sono migliori delle piemontesi.
Presidente dei ministri. Oh! le leggi napoletane! (Altri deputati gridano e disapprovano coprendo la voce dell'oratore).
Presidente. Sono molti gli oratori iscritti in favore e risponderanno all’oratore; prego però la Camera a lasciarlo parlare senza interromperlo.
Ferrari, Non è più quistione di Governo, ma io narro ed espongo i fatti. Sì, Napoli, che ora forma uno Stato a parte, coll’annessione incondizionata diverrà sottoposta al Governo di Piemonte, di Torino. Poco importa la forma di Governo, ma quello dia dico è evidente. Dopo la liberazione di Sicilia si voleva l'annessione subitamente, senz’altro; se fosse avvenuta, che sarebbe di Napoli?
Napoli e Sicilia sono governate ora come meglio si può. Sapete chi produrrà e promuoverà le sollevazioni a Napoli ed in Sicilia? Gli annessionisti (Rumori grandissimi). Sì, gli annessionisti colla loro fretta di annettere, turbano l’ordine e la tranquillità pubblica a Napoli. Vi ricordate quel che avvenne nel 1848 a Milano per la quistione della capitale? Allora vi furono insurrezioni o sollevazioni, e il commissario regio corse assai pericoli. Il partito dell’annessione è composto di avventurieri... (Cavour e quasi tutta la Camera gridano, parlano, ed esclamano).
Presidente. Prego l’oratore a ritirare le sue espressioni offensive per persone... Invito il deputato Ferrari a spiegarsi meglio.
Ferrari. Ma io mi sono spiegato chiaro... sono conosciuto... non vado a caccia d’impieghi...
Presidente (interrompendolo ad alta voce). Ella a parole sconvenienti fa succedere parole sconvenientissime: le ritiri (Grida: All’ordine).
Ferrari. Ma le mie parole furono travolte...
Presidente. Le intimo di ritirare subito le parole sconvenienti contro i deputati e contro me; ovvero consulterò la Camera per sapere che si deggia fare.
Ferrari. Sono io che ho travolto le mie parole; io ritiro quella di avventurieri, col quale vocabolo non ho accennato mai a nessun ministro, e nemmeno a nessun membro di questa Camera, ma solo a quegl'imbroglioni che s'infiltrano in tutt’i partiti... Voi, signori ministri, non siete gli uomini della situazione presente, non siete della prospettiva del presente.
Non sappiamo se volete distruggere il Papato o riformarlo; io vi lascio in questo tutta la latitudine. Non si sa se volete andare a Venezia; non dite né come né quando vi andrete; io lo so: vi andrete quando altri, come a Napoli, vi avrà preceduto nel Veneto. Non volete la rivoluzione, dite voi, signori ministri? E frattanto, rinnegando la rivoluzione, aspettate una rivoluzione a Roma ed a Venezia! Il Governo chiede un voto di fiducia, che porta seco la consegna in mano del ministero dell'esercito dell'Italia del mezzodì. Non temo che quell'esercito sia trattato in modo sconveniente dai presenti ministri, ma io non ho fiducia in essi; vorrei vedere l'esercito dell'Italia meridionale in mano di ministri diversi dai presenti. So che la maggiorità di questa Camera è favorevole ai presente ministero; riconosco e rispetto questo fatto: ma, alla fin dei conti, la presente maggioranza non comprende il popolo della bassa Italia... La Francia ci consigliò sempre una, federazione, né volle mai, l'unità italiana; ma l'Imperatore presente dei Francesi ci disse sempre: Ritornate liberi, distruggete i cattivi Governi, ma formate una confederazione italiana! A questo modo restiamo affatto in balia della Francia, la quale, ad ogni annessione al nostro Stato, vorrà una nuova annessione ella Francia (ovazione). Non so e non parlo di trattati, speciali, ma parlo convinto dall'evidenza delle cose e della potenza della Francia imperiale, che fa tremare i baroni sul Reno ed i lordi sui Tamigi. 11 conte Cavour dice che non firmerà mai nessuna nuova cessione alla Francia; io Io credo, ma che importa?
Egli salverà il suo onore rinunziando al potere anziché firmare un nuovo trattato di cessione, ma tuttavia la cessione si farà
per la potenza della Francia e di Napoleone, che, avendo fatto il sillogismo delle annessioni, vuole giungere all'ultima conclusione... Sono stato a Napoli ed ho veduto con maraviglia quella ricca e bellissima città, patria di Vico e di tanti grandi uomini. Ebbene, benché sia così inferiore Torino a Napoli, tuttavia, se si volesse annettere quella a questa, mi opporrei; direi federazione e non confusione (Rumori). Un Re può essere capo anche d’una confederazione, e parlando di confederazione, non intendo d’uscire dai limiti dello Statuto e delle leggi. Colla federazione potete avere un Governo monarchico ed un Re come nell'unità italiana. Vedo il Pontefice ridotto all’estremo della temenza! Voi stessi l’avete combattuto, né valse a salvarlo nemmeno il ministro Rossi. Sono persuaso che l'Italia non uscirà dall'era della distruzione finché non si posi sotto la confederazione.
Boggio affretta il momento in sarà approvata la legge e compiuta l'annessione di Napoli: allora il Regno, che dal sig. Ferrari fu detto senza nome avrà un nome e sarà quello di Regno italiano. Riguardo alla capitale, disse il sig. Boggio, dirò una cosa sola e la dirò perché sono piemontese. Noi torinesi non fummo mai riputati troppo caldi per l'Italia, ma pure credo che non sarò smentito se dico che noi torinesi saremo pronti pel bene d’Italia, se così lo vuole il bene d’Italia, a fare il sagrificio della capitale. È impossibile che noi diamo un voto di fiducia al Governo, insultiamo Garibaldi! Ma chi può dubitare dinanzi a questa alternativa, se fosse vera?
Nessuno, lo stesso, malgrado la fiducia, che ho nei ministri, ricuserei loro il voto di fiducia se dovesse essere interpretato come offesa a Garibaldi.
No, non commetterei mai simile immoralità! Ma non è tale la quistione; non si tratta di scegliere tra Garibaldi e il ministero, ma solo di un dissenso, per esempio, come quello tra me e il signor Ferrari. Nessuno dirà che il signor Ferrari insulti me propugnando la confederazione italiana, sebbene io sia a quella contrario. Così lo stesso si dirà del dissenso tra Garibaldi e il ministero. Se a questo diamo un voto di fiducia, lungi da noi il pensiero di fare onta a Garibaldi. Dando il voto di fiducia al Governo, intendo d'approvare quella politica che ci condusse a poter formare uno Stato di 22 milioni d’italiani. Non parlerò del sofisma, non so come meglio chiamarlo, con cui si vuole dire incompetente la Camera a votare la presente legge; parlerò solo dell’efficacia del voto d’annessione. Secondo il sig. Ferrari, dopo il nostro voto, l’annessione di Napoli non sarà più riputata libera: non riuscirò bene; sarà come una pianta che non ha radici. Signori, l’annessione di Sicilia e di Napoli ha dodici anni di vita. Abbiamo fatto l’annessione quando i cittadini dell’Italia, cacciati in bando dai loro Governi, si ricoveravano qui. Vogliamo l’unità a fine di formare un corpo compatto e forte per la salute d’Italia. Vorrei avere l’autorità necessaria per fare un appello alla concordia j ma oltreché mi manca l’autorità per farlo, non è necessario, tutti voi essendo persuasi che abbiamo bisogno di concordia. Or ha quindici anni, quando l’unica terra d’Italia era la Repubblica di San Marino, se altri ci avesse detto che per fare l'Italia libera non avete che a dare un voto favorevole ad una legge e con essa formerete uno Stato di 22 milioni d'italiani liberi, chi avrebbe ricusato? Voterò dunque in favore della presente legge.
Sineo. La legge, che discutiamo, contiene altissime quistioni politiche e sociali, che non furono considerate nella relazione. L'autorizzazione preventiva, data dal Parlamento al Governo, di fare l'annessione, ha con seco molte difficoltà. Prima di tutto, si deve decidere se l'annessione sarà assoluta o condizionata? Il ministero dichiarò che la voleva incondizionata, ed io sono d’accordo con lui; scongiuro perciò i nostri fratelli d’Italia a votare l'annessione senza nessuna condizione. In primo luogo, la dichiarazione fatta dal Governo non potrebbe essere obbligatoria, e malgrado di essa si potrebbe fare un’annessione condizionata; ciò si potrebbe molto più dopo un cambiamento di ministero. Ma la negativa data ad ogni condizione potrebb’essere dannosa all'annessione medesima. Si potrebbe concedere l’annessione a certe condizioni speciali, che non fossero dannose. Per esempio, una Provincia potrebbe apporre alla sua annessione con noi la condizione di non essere mai ceduta a Potenza straniera; ora, perché ricusare tale condizione? Non la credo necessaria in nessun tempo; poiché nessun Governo, nessun popolo può cedere sè stesso allo straniero; ma se una Provincia volesse questa condizione, non si potrebbe ricusare. Se qualche Provincia d’Italia volesse, non mutazione, ma spiegazione di alcuni articoli dello Statuto, perché non contentarla? L’articolo primo dello Statuto, che dichiara la religione cattolica religione dello Stato, non è contrario niente affatto alla libertà più ampia di coscienza; stabilisce solo che, in occasione di funzioni religiose, i grandi Corpi dello Stato si presenteranno al tempio cattolico.
Garibaldi fu sempre disposto a fare la fusione se gli si dimostra che riuscirà favorevole all’Italia; voglio perciò mettere in disparte l'opinione del presidente del Consiglio che Garibaldi sia contrario all’immediata fusione. La Camera non può condannare Garibaldi; non può nemmeno condannare i ministri, ma solo accusarli dinanzi al Senato. Se Garibaldi è ministro di Re Vittorio Emanuele per le Due Sicilie, e lo è, non deve però rendere ragione del suo operato a questa Camera, ma solo alla Camera dei rappresentanti del popolo che lo proclamò dittatore. Che si fa ora? Si vuole forse che questa Camera giudichi Garibaldi e per ciò essa si trasformi in consiglio di guerra? (Rumore).
Presidente. Ma qui non c’è consiglio di guerra, né altro; si tratta solo di autorizzare il Governo a fare le annessioni e null’altro.
Sineo. Desidero che cosi sia e che il signor presidente voti la legge in questo senso. Non mi preme che Torino cessi di essere capitale; sarà la Manchester dell’Italia, colle forze motrici, che riceve dalle acque, che corrono dalle vicine montagne (L'oratore non vuole la legge proposta, considerata in sè, è pericolosa, contraria al diritto delle genti e non giustificata da nessuna ragione). Non vogliamo le annessioni perché è trista la storia delle annessioni (Rumori). Conosciamo l’annessione della Finlandia e della Polonia alta Russia, della Repubblica di Cracovia all’Austria (Risa e rumori). Appunto perché sono diverse queste annessioni da quella di Napoli, io non voglio annessioni, ma si faccia con Garibaldi come con Farini e Ricasoli; si lasci a Garibaldi l’arbitrio ed egli troverà il modo di annettere Napoli alle altre Provincie sotto lo scettro di Re Vittorio Emanuele,
La tornata è chiusa.
VII.
Il presidente Lenza apre la tornata del 9 ottobre e viene distribuito aUa camera un opuscolo intitolato: Sulla presente condizione della Sicilia, lettera al deputato Depretis, il quale opuscolo è un caldo appello contro il presente Governo dell’isola di Sicilia ed una fervida invocazione delta pronta annessione. Dopo ciò seguì la discussione sulle annessioni.
Sineo (continuando il suo discorso d ieri). Sé disse che a Napoli sorsero pretese poco convenienti, ed io pure sono contrario alle pretese incostituzionali di qualunque cittadino, per quantunque grande questi sia, ma tali pretese non si debbono denunciare al Parlamento. Però, se il Parlamento viene chiamato a decidere delle pretese tra il ministero e Garibaldi, dee giudicare, sentite le parti e non il solo attore della causa. Noi abbiamo sentito solo le ragioni del ministero; e quelle di Garibaldi? Anzi io contrasto alla sposizione ministeriale e respingo affatto le ragioni addotte. Non è vero che Garibaldi abbia messo innanzi pretese ingiuste. Quando il giudice conosce le allegazioni di una parte sola, deve respingerle, o mandare che si presentino le ragioni anche della parte avversa. Non possono servire di documenti i giornali, che da parecchi mesi si occupano costantemente di questa quistione. Il generale Garibaldi non legge giornali, né leggono giornali i generali che lo circondano; ma se li leggessero, respingerebbero con isdegno le accuse, le villanie, contenute in quelli. Io lui per quindici giorni al campo di Garibaldi, e non ho trovato nessun giornale presso di lui. L’anno scorso, quando il Papa non aveva ancora per capo del suo esercito Lamoriciére, né le orde papali erano aumentate da’ legittimisti,
il Gabinetto s’oppose alla spédizio né contro le Marche che ora compì il moto proprio. Eppure allora potessi compire la conquista delle Marche con mollo minore effusione di sangue italiano. Ma allora il ministro inglese a Torino, occupandosi d’affari relativi al nostro interno Governo, operò sì che il ministro Ratazzi, cadendo, facesse luogo al ministero Cavour. Questo procedere dell'inviato inglese fu disapprovato dallo stesso Gabinetto di Londra e dai fogli ministeriali inglesi. Se allora il nostro ministro degli affari esteri avesse saputo fare il suo dovere, il signor Hudson, ministro inglese, sarebbe stato avvisato dal suo Governo a cessare i suoi perniciosi ufficii nei nostri affari interni (Grida di disapprovazione, tumulti).
Presidente. Prego l'oratore a non insultare il rappresentante di una Potenza amica; lice sporre il fatto, senza adoperare termini ingiuriosi.
Sineo. Non ho fatto che sporre la verità con termini proprii. Il Gabinetto di Londra e tutti i fogli inglesi riconobbero che l'operato a Torino di sir Hudson era contrario agli usi diplomatici. Mentre succedeano queste cose, il nuovo ministero Cavour diceva di voler convocare il Parlamento e governare con esso; ma, appena compiute le elezioni, la Camera invece di pensare alle faccende pubbliche, si divertì con una passeggiata in Italia (Rumori e disapprovazione).
Presidente. Non posso permettere che l'oratore insulti la maggiorità del Parlamento.
Sineo Ma io ho detto la verità... (Si desta grande tumulto. Finalmente il presidente fa intendere all'oratore che non dovea dire quello che ha detto della Camera al seggio). Non ho mai avuto intenzione di mancare di rispetto alla Camera, né a verun membro di essa. Garibaldi si ritirò a Genova frattanto, dalla qual città salpava in seguito per la spedizione in Sicilia, connivente il Governo; anzi prima io credeva che il Governo avesse favorito la spedizione di Garibaldi, ma ciò non è vero; il Governo la tollerò, disposto a rinnegarla, se non riusciva. Mentre il Governo aveva appena tolleranza od anche contrastava affatto la spedizione de’ volontarii, cominciò la partenza da Torino per Napoli dei così detti annessionisti. Seguirono le lettere, missive, istruzioni del conte Cavour...
Cavour. Dichiaro che né io, né i miei colleghi non iscrivemmo mai lettere od altro al generale Garibaldi.
Sineo conchiude promettendo che Garibaldi si sottoporrà alla sentenza della Camera, che per ciò dee giudicare con posatezza e giustizia.
Mellana. Mi venne annunziato un proclama del Re alle popolazioni napoletane, e l'entrata delle nostre truppe nel Reame. Se il ministero si tiene capace e forte per quest’alto, lo lodo ed approvo, perché fa il contrario di quanto si fece nel 1848, allorché, discutendosi le fusioni, si sospesero le operazioni di guerra. Rammento all’illustre Ferrari che forse noi italiani dobbiamo passare per un’unità strettissima prima di giungere alla vera libertà; sebbene io voglia unità politica e scentramento amministrativo, voglio l'unità con coloro che, seguaci di Mazzini, si sono uniti sinceramente al Governo di Vittorio Emanuele.
Ma non avrei voluto leggere parole severe contro la conciliazione nella relazione di Cavour (L’oratore fa l’elogio di Garibaldi ed avrebbe voluto ch'egli non il Governo avesse fatta la spedizione contro gli Stati pontifica).
Armelonghi (lamenta che ci sieno in Italia ancora gli avanzi di quel partito che dice o tutto o niente! Egli vuole solo quel che si può. Fola in favore della legge). Gli eventi camminano in questo tempo a Roma, eh’ è la capitale dell'Italia, non potendo questa restare senza quella; ella si dee guadagnare coi protocolli e non colle armi.
Chiaves (parla in merito, e, in favore della legge). La Camera è chiamata a giudicare tra Garibaldi e Cavour! No, io non voglio questo giudizio; poiché non si potrebbe esaltare l'uno senza abbassare l'altro, ed io voglio esaltare ambidue questi uomini. Tutti riconosciamo che lo stato d’annessione è normale, come anormale è lo stato di non annessione; ma coloro che vogliono, ritardando l'annessione, prorogare lo stato anormale in cui si trova Napoli, qual compenso daranno ai napoletani per tale danno? Il compenso dovrebbe consistere nella maggior sicurezza, libertà e prosperità. Ora, riguardo alla sicurezza, non ripeterò che quanto fu detto da altri, cioè che i luoghi di pena a Napoli furono aperti ed i prigionieri si sparsero pel paese. Riguardo all’estero per sua sicurezza Napoli deve far parte dell’esercito nostro. Fu detto per insulto che gl’italiani non si battono! Ma a questo insulto si può rispondere colle battaglie di Milazzo e Calatafimi; gli stranieri volevano dire che gl’italiani, se si battono tra loro,
non si battono però contro gli stranieri, ed a questo non si può rispondere con Milazzo e Calatafimi, ma colle battaglie di Palestro, di S. Martino, di Castelfidardo e d’Ancona, che furono contro gli stranieri. Altri vuole prima ire a Roma che a Napoli, ma volete forse l'allontanamento del Papa a Roma? Però con tale allontanamento non si scioglie la quistione del Papato. Il Papato è pure una grande Potenza! Ma volete piuttosto il Papa colla Francia, nostra alleata, o coll’Austria, nostra nemica? Se il Papa fosse ridotto a Potenza meno ostile per l'Italia, non sarebbe grande ventura? Se potessimo avere un Re d’Italia d’accordo col Papa a Roma, non saremmo noi la nazione più fortunata e più potente del mondo? (Applausi fragorosissimi e prolungati). Per quanto spetta alla libertà, che si gode ora a Napoli, quale mai può essere, quando ad ogni mese, settimana e giorno si mutano i ministri, i dittatori e i prodittatori? (L'oratore dividendo i nemici dell'annessione in dite categorie, la prima di quelli in buona fede e li compatisce, la seconda di quella in mala fede e li chiama agitatori politici per mestiere, per sussistenza, deride i loro fremiti con applausi e risa dell'udienza). Riguardo alle condizioni dell’annessione, io non ne voglio né da una parte né dall’altra; ma se si volessero condizioni, cui spetterebbe l’apporle? (L'oratore conclude osservando che il Piemonte non ha apposte condizioni quanto all'Austria).
Bertani. Protesto che sotto le assise militari. Tanna scorso ed in quest’anno, ho riconosciuto Vittorio Emanuele e non mancherò mai al mio giuramento. Garibaldi non volle ritardata l'annessione se non perché volea libera tutta Italia, ed un giorno, me presente,
si allietò per un di spaccio telegrafico, che annunciava i soldati piemontesi essere a Roma, e credette ad un miracolo della diplomazia. Ma poiché non è vero, poiché i napoletani, che sono nove milioni, accettano il programma di Garibaldi, io confido in Garibaldi e nel conte di Cavour ancora. Si sospenda la presente discussione, e l'abile e delicata mano del diplomatico stringa la mano del dittatore Garibaldi; la pace allora sarà fatta, cessando ogni dissidio.
La tornata è chiusa.
VIII.
Tornata del 10 ottobre della Camera de’ deputati.
Minghetti si rallegra che cosi Ferrari, come Bertani, abbiano dette parole di concordia; dimostra però che Ferrari, sostenne una tesi opposta al suo convincimento, perché la forza di un uomo, per quanto di genio, non vale a vincere il sentimento di tutta la nazione; sostiene che bisogna approvar la legge, perché sancisce il diritto nazionale, e non si può disgiungerla dal voto di fiducia, perché bisogna approvare la spedizione delle Marche e dell’Umbria. Indi dimostra che bisogna metter fine allo stato delle Due Sicilie, stanteché la lunghezza del provvisorio strascina all’anarchia, e anche per impedire che l’anarchia dia pretesto all’Europa d’intromettersi in una quistione, che finora fu tollerata, non approvata. Chi ci garantisce che l’Austria non si muova? Come mai quelli che volevano l’annessione immediata dell’Italia meridionale, ora si oppongono all’annessione immediata delle Due Sicilie?
Noi abbiamo bisogno di unirci, e tosto, se vogliamo che l'Europa, per mantenere la pace, sancisca la nostra impresa. Il Re si avanza nel territorio napoletano; egli potrà convincersi di ciò che vogliono i popoli di laggiù.
Regnoli è disposto a votar la legge delle annessioni: prima di dare il voto di fiducia vuole che si tenti di far cessare l’occupazione francese in Roma.
Sineo risponde ad Armelonghi per difendere gli uomini del 1848, ed a Chiaves, a cui dice che il Papato non può sussistere in Italia. Nega che si discuta tra la Repubblica e la Monarchia. Mazzini è a Napoli, ma vive vita privata,. Le mene, che gli si attribuiscono, sono esagerazioni.
Chiaves soggiunge alcune osservazioni sul principio unitario combinato colla monarchia costituzionale.
Galeotti osserva che il Governo chiede un voto di fiducia, cioè un giudizio positivo sul complesso degli atti suoi. Ora, il suo grand'atto fu l’impresa delle Marche e dell'Umbria, grande nei mezzi e più nel risultato. La legge proposta è conforme allo spirito della Costituzione. Il Parlamento è competente, perché il plebiscito non viene imposto, ma sarà reso con piena libertà di voto, garantita dall'ordine e dalla sicurezza. Non si vincola né il popolo, né il Governo delle Due Sicilie, si autorizza il nostro Governo. Conchiude formulando voce di adesione.
Camiti ugualmente è tanto favorevole alla proposta, che non pensava neppure che potesse far luogo a tanta discussione. L'idea unitaria è divenuta una convinzione generale. Non dicasi neppure che il Piemonte voglia sovrapporsi:
l’Italia ci assorbe tutti, ci assimila, ci unifica.
La politica, che ora dobbiamo sanzionare, è la politica nazionale italiana.
Mosca. La questione dell’annessione è ormai decisa dal popolo italiano, e quindi non altro mi resta a desiderare se non che l'annessione si faccia al più presto. Lo schema, presentato dal ministero, è inutile, incostituzionale, impolitico. Inutile, perché a far l'annessione è già autorizzato dal mandato, che gli diede la nazione. Incostituzionale, perché non si devono sprecare le forme costituzionali quando non c'è bisogno. Impolitico, perché non. rende omaggio al diritto nazionale. Tuttavia do il mio voto favorevole, e prego gli amici a fare altrettanto, perché, nelle circostanze presenti un voto contrario potrebbe far credere agli stranieri, all'Europa, che in Italia ci sia alcuno che non vuole l'Italia una, indipendente e libera.
La Farina entra a parlare di Garibaldi e della Sicilia per dire che il Governo laggiù è debole perché tenuto dagli antiannessionisti. Fa un confronto fra il Governo provvisorio del 1848 e quello del 1860; ma la Camera s’impazienta per questa inopportuna digressione su viste affatto personali.
Pareto dice che spiegherà il suo voto favorevole facendo qualche riserva. Soprattutto crede poco necessaria la legge. Darò anche il voto di fiducia al ministero, poiché, sebbene io disapprovi alcuni atti ministeriali, non posso negare la mia fiducia al ministro degli affari esterni, che fece tanto in bene dell’Italia. Ma raccomando concordia a tutti, permettete ch'io lo dica: anche Mazzini fece qualche bene all’Italia.
Non avrei voluto che il sig. La Farina avesse fatta la descrizione che fece del suo paese, manifestando nostre piaghe agli stranieri.
Molte voci. Ai voti!
Cavour. Avrei tacciuto in questa discussione, che mi è quasi personale; ma, poiché furono chieste spiegazioni, il ministero le darà, per quanto può, senza nuocere al pubblico servizio. Prego perciò gli oratori che vogliono parlare contro, a farlo, e rimandando la discussione a domani, io dirò quel che devo.
Presidente. Non vi sono più oratori contro che non abbiano parlato. Vi è il sig. Ferrari per una replica...
Depretis. Dopo il discorso del sig. La Farina devo dire qualche parola, e prego la Camera a rimandare a domani la discussione.
Presidente. Sono ancora iscritti otto oratori in merito e molti in favore. Se la Camera vuole chiudere la discussione, riservando facoltà di parlare al sig. Depretis.
Turati si alza con un manoscritto in mano per parlare in favore. Legge il suo discorso interrotto dalle conversazioni di pochi presenti.
La tornata è chiusa.
IX.
Lanza presidente apre la tornata del giorno 11 ottobre della Camera de’ deputati.
Scialoia: Signori, la presente legge avrà due effetti sommamente salutari: di fortificare il Governo l’uno, e l’altro d’infondere coraggio nei popoli per votare l'annessione.
Si disse che colla presente legge imponiamo il Piemonte all'Italia meridionale. Ma è impossibile, poiché il Piemonte non esiste più: invece, unendo l'Italia settentrionale alla meridionale, costituiremo la patria comune; faremo anche cessare il tristo spettacolo di alcuni, che, frapposti tra il dittatore Garibaldi e il popolo napoletano, osano dire: Napoli è nostro! (L'oratore fa un elogio a Garibaldi). Non si dèe temere che la presente legge sia per offendere il dittatore di Napoli, che anzi sarebbe offeso se altri si astenesse o votasse contro. La legge che voi volate, è la conseguenza necessaria dell'impresa compiuta nelle Marche e nell'Umbria. Io voterò questa legge anche per evitare mali gravissimi. Non voglio togliere il velo e manifestare tutto, ma citerò due fatti, primo dei quali è la lettera del prodittatore di Napoli Pallavicino a Mazzini. In questa lettera si dice che son molti i mazziniani, che innalzano la bandiera sediziosa; non credo che siano molti, ma invece pochissimi: ciò nondimeno la citata lettera vi prova che il timore esiste ed è grande. L'altro fatto pure evidente è questo che il governatore di Nocera destituì un sindaco, reo di aver divulgato un manifesto favorevole a re Vittorio Emanuele. Che vi pare di questo stato di cose? Non è forse la guerra civile? Non è egli necessario porvi subito riparo?
Depretis. Avrei voluto dire solo una parola, per dichiarare il mio voto favorevole; ma dopo il deputato La Farina devo parlare per un fatto quasi personale; poiché il signor La Farina parla della Sicilia, la quale ho per qualche tempo governata (Dopo aver mostrato l'utilità della legge, l'oratore confuta molte osservazioni del deputato La Farina).
Ferrari (Parìa a lungo in favore della federazione, scusandosi col dire che non è repubblicano). Anzi non sono nemmeno repubblicani i mazziniani a Napoli, che ora gridano Viva il Re! dimostrandosi cosi più realisti dello stesso Re.
Cavour, ministro. Se avessi avuto un dubbio sull’opportunità di convocare il Parlamento e sottoporgli la presente legge, sarebbe svanito dinanzi alla discussione, che si fece in questi quattro giorni, la quale rischiarò le cose oscure e persuase voi tutti, meno una splendida individualità, della necessità di esaudire i voti dei napoletani col l'annessione. La principale obbiezione alla presente legge è che verso Napoli procediamo con modo differente da quello praticato nell'annessione dell'Italia centrale, ma se l'annessione di questa non si fece subito, non fu colpa né dei toscani, né del nostro Governo. Non si potea dopo la pace di Villafranca, e durante le conferenze di Zurigo, annettendo l'Italia centrale, violare i patti stabiliti. In quale posizione altrimenti ci saremmo trovati, non solo rimpetto all’Austria, ma anche verso la Francia? Non si doveva dunque compire l’annessione, né alla vigilia, né al domani del trattato di Zurigo. Io, che accettai la missione di ire a Parigi ed a Londra, sotto il ministero Rattazzi, per promuovere l’annessione, confesso volentieri che non fu ritardata per volontà del ministero che mi precedette, il quale, s’è caduto, cadette per quistioni interne, non per la politica esterna. Confesso che abbiamo commesso un atto incostituzionale, una illegalità, poiché era illegale chiamare in questa Camera a sedere e deliberare i deputati dell'Italia centrale per votare l'annessione di quella Provincia.
Ma la vostra approvazione rimediò air illegalità. Son persuaso che questa Camera rimedierebbe ad una nuova illegalità di questo genere; ma poiché possiamo procedere legalmente, perché non fare così? Il vostro voto avrà un grande vantaggio, poiché, votando, fortificherete il principio che l’annessione dell’Italia meridionale debb’essere incondizionata; e sebbene io non esageri il partilo municipale nell’Italia meridionale, confesso che il voto della presente legge varrà a renderlo più impotente (L’oratore passa a parlare in favore del voto di fiducia che si meritò il Gabinetto, costituendo la Camera giudice tra il ministero e Garibaldi, e facendo così sommo onore a questo. Il dissenso non fu provocato dal m, che ansi lo tenne celato finché potè). La Corona non volle che rinunciassimo al potere dinanzi al dissenso tra il Gabinetto e Garibaldi, in assenza del Parlamento, noi non credemmo dover persistere nell’offrire le nostre dimissioni, e perciò non potendo o non volendo rinunciare al potere, ci presentammo a voi, e il vostro voto di fiducia avrà forza di persuadere Garibaldi, che stimerà più il vostro giudizio che non quello dei tristi uomini, che rovinano la causa italiana. Inviteremo il generale Garibaldi, non in nome nostro, ma in nome vostro e dell’Italia, a fare l’annessione. (Rispondendo al deputato Ferrari che teme nuove cessioni alla Francia, all'oratore sembra che per rendere impossibile una cessione di territorio si voglia mantenere l’Italia divisa in due parli quasi ostili). Ma, signori, fate L'annessione ed ogni cessione diviene impossibile, poiché il trattato del 21 marzo non si può più imporre ad una nazione di 22 milioni, come ad uno stato di soli 5 milioni.
Resta la quistione di Roma e Venezia, la quale, in forza della ragion di Stato, potrei trascurare, tacendo sopra di essa. Ma un uomo di Stato, degno di questo nome, deve avere fisso un fine, uno scopo, una stella polare, alla quale dèe tendere continuamente, variando nei mezzi, secondo gli eventi, ma senza perdere di vista il punto fisso. Ora Re Carlo Alberto e il suo successore, da dodici anni tennero l’occhio fisso alla stella polare, ch'è quello di fare Roma la Capitale dell'Italia (L’oratore quindi dichiara non sapersi quando si potrà acquistare, dipendendo la cosa dall'Europa e soprattutto dalla società cattolica, e sapersi solo dalla Provvidenza di Dio quando si potrà avere Venezia).
Si approva finalmente per alzata e seduta l’ordine del giorno in lode dì Garibaldi e l’articolo unico di legge. Il sig. Bertani si alzò ancor egli pure per votare la legge, restando seduti solo il sig. Ferrari ed un deputato à lui vicino.
Lo Scrutinio segreto diede 290 Voti favorevoli e 6 contrarii. Applausi grandissimi accolsero la votazione.
X.
Nella tornata del 12, la Camera del deputati, dopo breve discussione alla quale presero parte i deputati Menichetti, Panettoni, Cempini, Cavallini Gaspare, Pareto e il ministro di grazia e giustizia, approvò lo schema di legge sulla facoltà da accordarsi al Governo di modificare là legge elettorale politica, nella parte che concerne la circoscrizione dei collegi! ed il numero dei deputati.
XI.
Il presidente del Consiglio dei ministri presentò il 12 ottobre al Senato il progetto di legge, già adottato dalla Camera elettiva, e l'accompagnò con un'esposizione delle attuali condizioni politiche e dei motivi che consigliarono la presentazione della legge. Il Senato passò quindi negli Uffizii per occuparsi indilatamente dell’esame del progetto e nominò a commissarii del medesimo i senatori Ridotti, Deforesta, Chiesi, Matteucci e Galvagno.
Nella tornata del Senato 16 ottobre il marchese Altieri presidente apre la seduta, e malgrado l'ora antecipata il Senato è in numero completo e l’udienza nelle tribune e nelle gallerie affollata. S’intraprende la discussione della legge sulle annessioni.
Senatore Doria (promette un voto favorevole alla legge per fare l’Italia; dichiara che darà anche il voto di fiducia anche al Ministero). Così io potrò con orgoglio dire nel tempo futuro: Io fui uno di coloro che concorsero a fondare la libertà ed unità nazionale.
Senatore Brignole-Sale. Signori senatori. Nel prendere la parola in questa discussione, io sento il bisogno di dichiarare non essere a ciò spinto da verun sentimento di personale contrarietà o di livore. Porto agli onorevoli consiglieri della Corona, ed a quelli fra i rispettabili miei colleghi, che da me dissentono, tutta la stima, cui il proprio merito ed i servigli che possono aver resi alla cosa pubblica lor danno diritto, sicuro che, dal canto loro, non vorranno mai ad altro attribuire che alla pura brama di persuaderli quelle mie espressioni che ostassero per avventura alle loro vedute ed ai loro principii.
Fatta, innanzi a tutto questa leale protesta, io non esiterò con eguale franchezza a ricordare che la condotta tenuta per lo addietro dal Ministero, tanto nella direzione degli affari interni, quanto ne’ rapporti colle Potenze estere, è a me sembrata, in non poche e gravissime circostanze, meritevole di riprovazione. Di questa mi è stato più di una volta, concesso, o signori, di sottoporre direttamente i motivi all'alta vostra saviezza, e talora ho dovuto anche usare di altro mezzo per farli pubblicamente conoscere. Ora, avendo il governo di S. M., quanto all'amministrazione interna, persistito nelle misure da me costantemente oppugnate, non occorre che io ripeta le considerazioni, che mi hanno distolto fin qui dall'accordargli la mia fiducia. La questione estera, intendo dire il sistema abbracciato e proseguito sempre dal Governo medesimo nelle sue relazioni colle altre Potenze, secondo il modo mio di pensare, non meno strettamente mi prescriveva di tenermi da lui separalo. Ma né di questa opposizione tampoco riprodurrò nauti di voi le ragioni, e tanto meno in quanto che si riferisce ad atti pressoché tutti già sanzionati dal Parlamento. Non parlerò quindi della occupazione e delle successive annessioni di alcuni Stati dell’Italia centrale, ottenuta previa la dimora in quelle contrade di commissarii straordinarii, espressamente inviati per introdurvi le nostre forme d'amministrazione ed istabilirvele mercé il voto più o meno accertato di una parte di quelle popolazioni, malgrado le energiche proteste dei sovrani spodestati, fra’ quali l’augusto e venerando Capo della Chiese;
annessioni de noi pagate al duro carissimo prezzo del l’abbandono irrevocabile di due porzioni rilevantissime delle sarde Monarchia, una delle quali fu incontestabilmente parte del suolo italico, e l’altra, proclamata a regione di un recente sovrano manifesto, qual fonte di secoli di glorie, Siccome costituiva il nostro principale baluardo contro le aggressioni possibili di Una bellicosa e potentissima vicina nazione, Cosi trapassate oggidì in mano di questa, le somministra ogni facile mezzo di Scendere nelle nostre pianure e d’impadronirsene. Solo dirò brevi ma schiette parole intorno ai fatti più recenti, che han dato luogo alla domanda oggidì proposta alle nostre deliberazioni, dolente di trovarmi presente ancora in completa discrepanza con la politica del Ministero. Quale è lo scopo di questa domanda? Quello di ottenere in forza di legge, l’approvazione anticipata dell’annessione al nostro Stato delle Marche, dell’Umbria e di tutte le altre parti d’Italia (sia recentemente soggiogate dalle nostre armi a detrimento della Sovranità pontificia, sia offerteci da una insurrezione trionfante nel Regno delle Due Sicilie), le quali per mezzo del consueto esperimento del cosi detto universale suffragio, esprimessero la volontà di venire aggregate al nostro territorio. La speranza enunciata dal Ministero di queste future aggregazioni si fonda evidentemente sulla presunta emanazione del voto dei popoli, ai quali il violento allontanamento, operato dalle nostre truppe o da quelle della insurrezione, delle Autorità che ne reggevano l’imperio a nome dei rispettivi loro Principi, permetterà liberamente di dare sfogo alle loro simpatie per l’unione dell’Italia sotto lo scettro costituzionale del nostro Sovrano.
A fine dunque di rettamente fissare la nostra opinione circa la giustizia della sovraccennata speranza, giova, anzi è assolutamente indispensabile, esaminare dapprima se giusti siano gli atti ostili dalla insurrezione o da noi praticati e che soli hanno potuto far nascere e avvalorare, la speranza medesima. Cominciando pertanto dalle Provincie romane, quale ragione o quale almeno plausibile pretesto potrebbe addursi per cercar di giustificare i fatti dal nostro Governo ivi testé compiuti e che vi si vanno compiendo? Io lascierò di considerare, o signori, la suprema dignità spirituale, di cui va investito il Sovrano, al quale abbiamo recato sì grave, e, a senso mio, inesplicabile offesa. Noti su questo punto penso che sieno i miei sentimenti. Nè ci ha per certo cattolico, degno di questo nome, che profondamente non gema all’udire dette ferite acerbissime ond’è da qualche tempo straziato senza posa il cuore angelico del Padre comune dei fedeli. Ma voglio limitarmi quest’oggi a chiamare la vostra attenzione sull’insulto fatto al Pontefice Re, vale a dire alla di lui sovranità temporale. Niuno dubita che il Papa è il principe temporale di pieno diritto; che, come tale, fu ed è tuttora dalle altre Potenze, e da oltre dieci secoli, pacificamente ed unanimemente riconosciuto; che quindi si debbe, al pari di ognuna di queste, riguardare come del tutto indipendente, ossia, per dirlo in termini più volgari, assoluto padrone in casa sua. Ma, se il Papa è indipendente, a qual titolo ha mai potuto il Governo del Rq determinarsi ad entrare in armi ne" suoi dominii ed a prenderne violentemente possesso?
Certo che no. Ben noi piuttosto abbiamo a lui dato occasione di gravissima malcontento col favorire la ribellione nelle Romagne e con accettare l'annessione, niun caso facendo delle solenni sue reiterate protestazioni e condanne. Esso per ciò di noi, non già noi di lui, aveva motivo di altamente dolersi. Qual diritto adunque, mi si permetta di ripeterlo, qual diritto poteva avere il Governo del Re di far occupare dal suo esercito le terre pontificie, di violare così evidentemente a danno del Papa il tanto oggidì acclamato, benché rispettato assai poco, principio del non intervento? Nè mi si opponga che siffatto principio non potrebbesi con fondamento invocare nel presente caso, e ciò per la ragione che qui non si tratta già di Potenza estranea all’Italia, che abbia invaso una porzione della penisola, ma bensì di un esercito italiano, che ha esteso ad altra parte d'Italia la sua occupazione. Ovvio e senza possibilità di replica sarebbe il rispondere che l’unità politica dell’Italia non è ancor fatta, come nemmeno esiste finora la già proposta, ma da noi non accettata, Confederazione dei diversi Stati, di cui si compone. Che questi Stati sono perciò pienamente indipendenti tra loro niente meno di quel che lo sono rispetto ai Governi di oltremonte. Sarebbe adunque ben chiaramente dimostrato non potersi con tale argomento giustificare la summentovata, imprevedibile e repentina aggressione. E di fatto, quando, nell’ultimo decorso gennaio, temevasi l’ingresso delle truppe napoletane negli Stati pontifìcii, i giornali, che difendono la politica del ministero, dichiaravano che questo sarebbe stato vero intervento, aggiungendo che l’intervento è vietato a qualsiasi Potenza.
Ma non solo dai pubblici fogli fu dichiarato illecito ad ogni Governo l’intervenire militarmente, sotto verun pretesto, in estero territorio. Uguale teoria venne, verso la stessa epoca, e con termini più ancora precisi ad espliciti, proclamata in un famoso opuscolo, del quale pare che vogliasi oggidì porre in opera, anzi oltrepassare i disegni; opuscolo che, come niuno di noi ignora, fece grandissimo rumore, e la cui autorità, per l'intrinseca sua importanza e per alta origine, che generalmente gli viene attribuita, deve senza dubbio tenersi di gran lunga superiore a quella di un semplice giornale. Ecco pertanto in quai termini, rispetto all’intervento, esprimevasi l’anonimo autore del libro Pape et le Congrés: Si l’armée napolitaine entrai les États de l’Église, rien n’empêcherait l’armée piémontaise d’occuper Parme et Toscane. Un pareil désordre ne sarait pas ment un bouleversement de toutes le réglés internationales, ce sarait de plus une révolte contre la jurisdiction de l’Europe, qui tout en respectant le droit des souvrainetès particuliers, a le devoir de veiller à l’ordre qui interesse sa sécurité et son équilibre. Cest pour sauvegarde de ses intérêts ch'elle interdit à tous Gouvernements de la Péninsule tonte intervention armée des uns chez les autres, qui sarait une atteinte à des garanties communes (1). »
(1) Se l’armata napoletana entrasse negli Stati della Chiesa, nulla impedirebbe che l'esercito piemontese occupasse Parma e Toscana. Un simile disordine non sarebbe soltanto un sovvertimento di tutt'i principii internazionali, ma sarebbe, inoltre, una ribellione contro la giurisdizione dell’Europa, la quale rispettando il diritto delle sovranità particolari, ha il dovere di vegliare all’ordine generale, che importa alla sua sicurezza non meno che al suo equilibrio. Per tutelare cosiffatti interessi essa interdice a tutt'i Governi della Penisola ogni intervento armato, che sarebbe un attentato alle garantie comuni.
Ben so che, non trovando verisimilmente modo con cui dare altrimenti una spiegazione delle ostilità, che il Governo del Re si disponeva a commettere, ha egli messo avanti la presenza, sotto le bandiere pontificie, di un certo numero d'individui non italiani. Ma, di grazia, quale disposizione del diritto internazionale, qual codice di paesi civilizzati vietò mai ad un sovranno indipendente di assoldare al proprio servizio gente estera? Confesso che né al tempo assai remoto, è vero, de’ miei studii, né durante la pubblica lunga carriera da me percossa, niun’inibizione di tal natura mi è mai venuta sott’occhio. Per lo contrario, ben ricordo, ed alcuni, ne son certo, fra voi, onorevoli colleghi, ne avrete pur rimembranza, che presso non poche e delle primarie e secondarie Potenze europee, esisterono per lo passato interi reggimenti stranieri, come del resto ne avevamo in Italia stessa un esempio, non sono ancora scorsi due anni. E tutti sanno altresì che nel 1849 fu messo alla testa del nostro esercito uno straniero; che i generali italiani, che negli ultimi fatti d’arme più si segnalarono, furono prima a combattere in estranee contrade; e sanno ancora che, nella testé effettuatasi invasione siciliana, le bande rivoluzionarie componevansi, e compongonsi tuttora, in grandissima parte, di volontarii stranieri. Ma se riguardossi come non biasimevole la presenza di numerosi individui esteri, e capi, e ufficiali, e soldati, a sostegno di quella che chiamasi la causa della libertà, perché sì amaramente censurare al dì d’oggi coloro, che accorsero in difesa della minacciata temporale podestà della Santa Sede?
Mi sia lecito ancora, riguardo all’invasione negli Stati del Papa, porre sotto gli occhi del Senato un'operazione di semplice fatto,, ma non però di lieve momento, poiché aggava, a mio parere, non poco il torto per parte di chi l’ordinava. Dal giornale uffiziale di Roma del 12 del p. p. settembre, che ho avuto sott’occhio risulta: che il presidente del Consiglio ha diretto, il 7 settembre, all'eminentissimo cardinale segretario di Stato, la ben nota lettera d'intimazione pel licenziamento delle truppe estere sotto il vessillo di Sua Santità; che quella lettera è pervenuta al cardinale la sera del 10; che il cardinale rispondeva il dì li a quella intimazione; che lo stesso giorno, alte ore 11 del mattino, era stato attaccato Pesaro dalle truppe sarde, e che perciò, prima che la risposta potesse esser giunta al suo destino, prima forse che fosse partita da Roma, s'invadevano dalle prefate truppe le Marche. È inoltre da considerarsi che di queste ostilità anticipate portò alte lagnanze il Giornale romano sopraccitato e che la Gazzetta uffiziale del Regno nulla pubblicò per rispondervi e difendere la condotta tenuta dal Governo in tal circostanza. Questo silenzio dà pur troppo fondato motivo di lemere che l’accusa del predetto Giornale sia esattamente vera. E dove ciò non sia, mi permetterò di aggiungere un semplicissimo dilemma. 0 il Governo del Re credeva necessario, com’è da presumersi, da esso mandato a Roma, o no lo credeva. Se non lo credeva, perché mandarlo? E, se lo credeva, perché agire ostilmente prima di averne ricevuta la risposta; perché incontrare così volontariamente il troppo meritato rimprovero di violazione del gius delle genti?
Ed un’altra infrazione, che sarebbe più grave ancora, se certa fosse, stimo mio dovere di portarvi, o signori, a vostra notizia. Al che mi determino in considerazione della rispettabilissima sorgente da cui proviene, la quale esclude, senza dubbio, ogni sospetto di fraudolenta invenzione, non giù però la possibilità d’inesatti rapporti e di equivoci. Laonde, mio solo scopo in narrarvi il fatto, cui si riferisce, non è per ora d’incolpar chicchessia, ma quello soltanto di fissare su di esso la seria vostra attenzione, non meno che quella degli onorevoli consiglieri della Corona, i quali, non posso dubitarne, troveranno e necessario e giusto di attingere a fonti ufficiali le informazioni che crederanno opportune, a fine di conoscere l’esatta verità relativamente al fatto medesimo, e conservare, se il possono, come ardentemente lo bramo, puro e senza macchia l'antico e sempre fin qui intemerato onore delle armi dell’augusta Casa di Savoia. Vi dissi, o signori, essermi pervenuto tal fatto da sorgente quanto mai rispettabile, e ninno in ciò, ne son certo, potrà contraddirmi, udendo essere questa una lettera scrittami e firmala dal conte di Quatrébarbes, gentiluomo francese di alto lignaggio e d’illibata mentalissima riputazione, il quale trovava in Ancona durante l'assedio in qualità di governatore di quella città e provincia. Vi chiedo pertanto, o signori, il permesso di darvi lettura della lettera da lui direttami a tal proposito in data dell'11 dell’andante ottobre: Monsienv e Marquis. J ai l’honneur le récit d'un des faits les plus coupables de l’invasion des Marches e du siège d’Ancóne. Vous pouvez en faire l’usage que bon rota semblera et nommer au besoin le signataire.
Le fait est du reste incontestable: il a pour témoins ks deux armées, la flotte et la population d'Ancóne. Je saisis cette occasion monsieur le Marquis, pour vous renouveler l’hommage des sentiments respectueux avec lesquels je suis votre dévoue serviteur. Comte de Quatrébarbes» — Lorsque le feu de la flotte eut atteint la batterie de huit pièces (fai défendait l’entrée du port d'Ancóne, détruit par l’explosion de la poudrière des casemates de la Lanterne du Mole, et enseveli leurs défenseurs sous des monceaux de décombres, le général de Lamoricière, voyant le port ouvert et sans aucune défense sur une étendue de plus de 500 m.,fit hisser le dm peau blanc sur la citadelle et les forts et cesser immédiatement le feu. L'amiral Persano interrompit également le sien; un parlementaire fui envoyé à son bord, car c'était la flotte et non l'armée de terre, dont les canons n'avaient pas fait tomber une piètre des fortifications, qui forçait Ancône à capituler. Il était allors 4 heures et ½ du soir. Les batteries de terre suivirent l'exemple de la marine. Quel ne fut donc pas l’étonnement du général en chef de voir recommencer le fas sur les 8 heures de soir sans provocation aucune? Il a duré ainsi toute la nuit et jusqu’au lendemain a 7 heurs du matin sans discontinuer un seul instant, malgré la présence des parlementaires, malgré le drapeau blare arbore sur ks forts, malgré la sonnerie de cesser le feu répétée cinq ou six fois, malgré surtout une lettre de l'amiral, qui protestait contre cet acte sauvage en rappelant a bord le marins qui servaient a terre une batterie. Pendant onze heures l' armée de terre v? a cesse de tirer sur la ville,
sans ch'il lui eût été répondu un seul coup de canon (1). —
Passando in fine, dalla occupazione degli Stati del Papa, a quella, che sta ora effettuandosi, del territorio delle Due Sicilie, non può sfuggire, o signori, alla vostra attenzione che questo territorio spetta pure ad un principe indipendente, il quale ancor vi risiede, e che, attorniato da notabile porzione del suo esercito rimastogli fedele, valorosamente resiste agli assalti, quasi ogni di ripetuti, delle truppe rivotazionarie.
(1) Signor marchese. Ho l’onore di mandarvi la nota qui unita. Essa contiene la narrazione di uno dei fatti maggiormente colpevoli dell invasione delle Marche e dell assedio d’Ancona. Voi ne potrete fare quell’uso che vi piacerà e nominare, all’uopo, quello che la sottoscrisse. Del resto, il fatto i incontestabile ed ha per testimonii le due armate, la flotta e la popolazione di Ancona. Colgo quest’occasione, sig. Marchese, per rinnovarvi l’omaggio dei sentimenti rispettosi coi quali sono vostro divoto servo: Conte di Quatrébarbes. — Allorquando il fuoco della flotta colse la batteria di otto pezzi, che difendeva l’ingresso del porto d’Ancona, distrutto dall’esplosione della polveriera delle casematte della Lanterna del Molo e sepolti i loro difensori sotto un cumulo di macerie, il generale Lamoriciére, vedendo il porto aperto e senza alcuna difesa sopra una estensione di più di 500 metri fece alzare bandiera bianca sulla cittadella e sui forti, e cessare immediatamente il fuoco. L’ammiraglio Persano interruppe egualmente il suo; fu mandato un parlamentario al suo bordo, perché la flotta e non 1 armata di terra, i cui cannoni non avevano fatto cadere neppure una pietra delle fortificazioni, obbligava Ancona a capitolare. Erano allora le 4 ore e mezzo della sera. Le batterie di terra seguirono l'esempio della marina. Ma quale non fu lo stupore del generale in capo nel veder ricominciare il fuoco verso le ore 8 della sera senza che avesse avuto luogo alcuna provocazione? Quel fuoco durò tutta la notte e fino alle 7 ore antimeridiane del successivo giorno senza cessare un solo momento, ad onta della presenza dei parlamentarli, della bandiera bianca innalzata sui forti e del suono cinque o sei volte ripetuto di cessare dal fuoco, ad onta di una lettera dell’ammiraglio, il quale protestava contro quest’atto selvaggio richiamando a bordo i marinai che servivano a terra una batteria. Per undici ore l’armata di terra non cessò di tirare sulla città senza che le venisse risposto con un sol colpo di cannone
Oltrediché non eravamo noi in pace con questo sovrano? Non aveva egli ancora, pochi giorni sono, presso la nostra reale Corte un rappresentante? Non. ne esisteva uno del pari del Re nostro presso di lui accreditato? Non ha il Governo di $. M. pubblicamente e ripetutamente disapprovato la siciliana rivoluzione? Non è finalmente il Re delle Due Sicilie quel desso, che, lungi dall’averci mai recato ingiuria, o provocato in alcun modo il nostro risentimento, appena largita, non ha guari, ai suoi popoli una Costituzione, eh’ era oggetto patente dei nostri desiderii e dei nostri consigli, ha, con apposito invio de’ suoi plenipotenziarii, caldamente e perseverantemente implorato la nostra alleanza, per unitamente concorrere ad assicurare la felicità dell’Italia? Perché dunque rompergli ora la guerra a secondare a suo danno gli sforzi di un’insurrezione da noi disapprovata? Come può il Governo dar ragione della ostile condotta, che si mostra determinato a tenere verso il prefato monarca? L'onorevole presidente del Ministero in una sua recentissima esposizione accettava, è vero, la rivoluzione come mezzo. Ma permetta che io richiami alla di lui memoria le parole che, il 26 aprile 1858 pronunziava egli stesso nell’altro ramo del Parlamento, rispondendo a chi proclamava la rivoluzione come la nostra grande alleata: Insensati! esclamava il sullodato presidente del Consiglio, che credono che la rivoluzione, la quale metterebbe nuovamente in pericolo i grandi principii su cui riposa l’ordine sociale, potesse essere favorevole alla causa della libertà dell’Europa. — Mi è grato poter dichiarare che pienamente convengo questa volta nella sentenza del principal ministro di S. M., e veggo giunto il momento di altamente protestare, ad esempio di lui, in favore dei grandi pii su cui riposa l’ordine sociale.
Ma si è appunto per tale convinzione o per tutte le altre ragioni qui sopra svolte, che io mi sento in dovere di assolutamente respingere col mio voto il progetto oggi a noi sottoposto.
Il guardasigilli. L'Italia vuol essere nazione, vuole assidersi al banchetto delle nazioni; l’Italia vuole incivilirsi; l'Italia vuole tutt’i progressi materiali e morali. Essa, un tempo, fu conculcata da barbari e poscia divisa dalle passioni della discordia: essa hi oppressa dai tiranni del medio evo. Ma ora la Provvidenza vuole Italia costituita in un sol regno forte e potente, e non v’ha giure umano che possa opporsi; il Governo piemontese è per provare all'Europa com’esso non si discosti dai principii di religione, di moralità e di giustizia, ma il poter temporale del Pontefice è contrario all’Evangelo. Il Governo invase gli Stati pontificii per impedire a Garibaldi di assalire i francesi a Roma e con questa invasione si ha violato II diritto scritto per salvare il diritto naturale. L’esercito del Re irruppe negli Stati pontificii avanti che fosse data risposta all’ultimatum, perché si sapeva certo che questa sarebbe stata negativa, e ad Ancona si continuò il fuoco mentre si trattava raccordo, perché ciò erasi previamente convenuto. Il Governo non fece causa comune colla rivoluzione, eh’ esso dianzi aveva biasimata, ma bensì si è impadronito di essa per dominarla.
Senatore Gori. (Parla in favore della legge dicendo che il moto italiano non fu, non è, o non sarà mai una rivoluzione; ma fu, è, sarà una risurrezione, e parìa contro l’annessione condizionata ch'ecciterebbe il malcontento dell’Italia centrale, la quale rinunciò a Governi autonomi).
Senatore Gioia. (Voterà la legge e darà il voto di fiducia; ma riguardo a Roma crede la quistione più difficile che non riguardo alla Venezia; reputa impossibile il soggiorno in Roma contemporaneo del Papa e del Re d'Italia; ma spera dal tempo la soluzione di questo problema).
Senatore Montanari. Parlerò della questione romana, alla quale presi parte nel 1849 e nell’anno scorso, per rispondere all'onorevole nostro collega Brignole e confutare le ragioni della setta clericale. (L’oratore comincia la storia delle rivoluzioni in Italia e negli Stati pontifica del 1815; parìa degli applausi fatti a Pio IX nel principio del suo pontificato: ma dice:) La casta romana, per conservare il dominio temporale, fu costretta a perfino condannare i principii della rivoluzione del 1789, che sono l'incarnazione del Vangelo. Lamoriciére tendeva ad imitare Moreau, facendosi capo di una coalizione austro-sicula-pontificia, e perciò aveva raccolto tutto il mondo di reazionarii e tedeschi per prorompere contro il nuovo Regno italiano. Da un'altra parte, l’estremo opposto, a Napoli, voleva rinnovare i disordini mazziniani del 1849. L’esercito del Re adunque, entrando nelle Marche e nell’Umbria, impedì il trionfo degli estremi, conservando l'ordine. La rivoluzione non può vincere senza l’aiuto di un’estera Potenza. Gioberti, il sommo Gioberti, piemontese, che prima fu federalista, divenne e morì unitario, riconoscendo l’egemonia del Piemonte. Si teme ora l’intervento armato dell’Europa? Non è possibile; altrimenti trionferebbe la Repubblica rossa forse.
Ma se la diplomazia sarà contro di noi, è tanto più urgente che si compia l’annessione. A me tarda che il nuovo Parlamento italiano sia riunito ed incoroni Vittorio Emanuele Re d’Italia.
Senatore Vesme. (In favore della legge protesta il suo rispetto al Papa). Devo dare una spiegazione al senatore Brignole riguardo a quello che avvenne in Ancona e ch'egli lamentò; la spiegazione sarà soddisfacente, perché imparziale, provenendo da fonte austriaca. È una corrispondenza della Gazzetta d'Augusto, che leggerò togliendola dall’Indépendance belge. (l'oratore legge il citato ma per la sua voce non troppo chiara e per le conversazioni dell'udienza s'intende pochissimo). La continuazione del fuoco, malgrado la bandiera bianca, non avvenne per dichiarazione previamente fatta, secondo il guardasigilli, ma fu provocata dallo sbaglio di un cannoniere pontificio, che sparò pel primo, cui risposero i sardi (1).
Senatore Marzucchi. Sarebbe difficile il parlare a lungo in difesa di questa legge, ma io voglio manifestare il mio voto favorevole, che sarà insieme un voto di fiducia. Si dice che il Piemonte ha un gran peccato 1 Ma il peccato è di tutti gl’italiani, e il massimo peccato è del nostro Re glorioso, che si meritò il titolo di galantuomo (l'oratore legge alcuni brani scritti relativi al Papa Pio IX mi 1848, nei quali scritti v'è la parola rivoluzione; quindi continua cosi:) La rivoluzione era opera di Dio nel 1848 e nol sarà nel 1860? La tempesta stava bene in casa altrui e non in casa propria?
(1) Così Barra il corrispondente della Gazzetta d'Augusta.
(Cita S. Paolo e Sant'Agostino volendo dimostrare colla loro autorità che il Papa non dee avere dominio temporale).
Cavour, presidente del Gabinetto. Quando il senatore Brignole accusava la politica ministeriale di essere rivoluzionaria, io non m'aspettava così lunga e calda discussione. Se la nostra politica fosse stata rivoluzionaria, avrebbe trovati numerosi oppositori in questa augusta Assemblea, essendo il Senato custode dei principii conservatori. Quando la nostra politica fu ardita, ma non rivoluzionaria, il Senato si divise, ed il Ministero trovò risoluti oppositori tra voi. Ma oggi, tutti parlarono in favore della nostra politica, eccetto il senatore Brignole, il cui discorso fu troppo severo, per non dirlo ingiusto. Nessun grave disordine successe in Italia in questi dì; solo un fatto spiacevole si compì a Parma: da tutta Italia, subito sorse una voce per biasimare e # denunciare quell’orribile fatto. (L’oratore parla contro i settarii che nel 1860 non possono vincerla, come nel 1848; riprova le massime imparate dal senatore Brignole nelle scuole; giustifica l’intervento a Napoli e l’occupazione degli Statipontifica compiuta per impedire la rivoluzione).
I mezzi adoperati dal Governo per intervenire negli Stati pontificii non furono troppo regolari, ma il fine fu santo e questo giustificherà quelli. Se si dovette procedere contro qualche Autorità ecclesiastica, fu per impedire disordini maggiori, e perché alcuni sacerdoti negavano la sepoltura cristiana ai nostri soldati. (Conchiude rispondendo al suo amico senatore Gioia per quel che disse intorno a Roma).
Conosco la difficoltà di tale questione, ma non dispero di scioglierla e credo che in pochi anni, a Roma, sarà possibile che esista insieme il Capo angusto del Cattolicismo e il Re d’Italia colla sede del Governo e che ciò dipenda dalle mutazioni che spero dalla Corte di Roma, non nella sostanza, ma nello spirito.
D'Azeglio Massimo (Dà un manoscritto al senatore Cambray-Digny che lo legge in favore della proposta)
Presidente. Sono inscritti ancora molti a favore...
Molte voci. Ai voti! Ai voti!
L’articolo unico di legge viene approvato per alzata e seduta. Allo scrutinio i voti favorevoli sono 84, i contrarii 12.
La tornata è chiusa.
I.
Colle date 8 e 15 ottobre venne decretato, per le Provincie napoletane e siciliane, un plebiscito pel SI dello stesso mese, onde il popolo possa esprimere se vuole l’Italia unita ed indivisibile sotto lo scettro di Re Vii torio Emanuele. In essi decreti venne dichiarato quanto segue:
«Il popolo sarà convocato pel dì 21 del corrente mese di ottobre in comizii per accettare o rigettare il seguente plebiscito:
«I popolo vuole l'Italia una ed, con VittorioEmanuele, Re costituzionale e i suoi legittimi.
«Il voto sarà espresso per ai o per no col mezzo del bollettino stampato.
«Sono chiamati a dare il voto tutt’i cittadini, che abbiano compiuti gli anni ventuno e si trovino nel pieno godimento de’ loro diritti civili e politici.
» Sono esclusi dal dare il voto tutti coloro i quali sono colpiti da condanne, sieno criminali, sieno correzionali, per imputazioni di frode, di furti, di bancarotta e di falsità.
» Sono esclusi parimente coloro, i quali per sentenza sono dichiarati falliti.
» Dal sindaco di ciascun Comune saranno formate le liste de’ votanti, a termini dell’articolo precedente, le quali verranno pubblicate ed affisse ne’ luoghi soliti pel giorno 17 ottobre.
I reclami verso le dette liste saranno prodotti fra le 24 ore seguenti dinanzi al giudice di circondario, che deciderà inappellabilmente per tutto il dì 19 detto mese.
» I voti saranno dati e raccolti in ogni capoluogo di circondario, presso una Giunta, composta dal giudice presidente e dai sindaci de’ comuni del circondario medesimo.
» Si troveranno ne’ luoghi destinati alla votazione, su di un apposito banco, tre urne, una vuota nel mezzo, e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bullettini pel sì, e nell’altra quelli col no, perché ciascun votante prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota.
» Compiuta la votazione, la Giunta circondariale, in seduta permanente, invierà immediatamente l’urna piena ed assicurata, per mezzo del giudice, suo presidente, alla Giunta provinciale.
» In ogni capoluogo di Provincia vi sarà una Giunta provinciale, composta dal governatore presidente, dal presidente e procuratore generale della gran Corte criminale e dal presidente e procurator regio del Tribunal civile. Tale Giunta, anche in sedata permanente, procederà allo scrutinio de' voti, raccolti nelle Giunte circondariali, ed invierà immediatamente il lavoro, chiuso e suggellato, per mezzo di un agente suo municipale o di altra persona di fiducia, al presidente della Corte suprema di giustizia.
» Lo scrutinio generale de' voti sarà fatto dall'indicata suprema Corte.»
II.
In conseguenza di questi due decreti, il dittatore Garibaldi diresse, nel 29 ottobre, il seguente dispaccio ai suoi incaricati di affari in Parigi ed in Londra:
«I decreti degli 8 e 15 del cadente mese, che invitavano il popolo dell'Italia meridionale a dichiararsi pel Regno di Vittorio Emanuele, han dovuto prevenirvi che noi tocchiamo alla meta, che ci eravamo prefissi colla guerra nazionale. Il verdetto popolare è ormai pronunziato, ed io, siccome lo aveva promesso in varii atti, vo a deporre i miei poteri nelle mani di quel Re fortunato, cui la Provvidenza destinò a raccogliere in una sola famiglia le divise Provincie della patria nostra. In conseguenza di ciò, il mio Governo cede il posto al Governo del Re, e la vostra missione presso la Corte di S. M... cessa ipso facto, le Rappresentanze all'estero pel Re d'Italia assumendo il debito di sostenere, presso i Governi, in cui sono accreditati, tutti gli atti della politica nazionale.
» Nel richiamarvi intanto dall’ufficio, che nell’interesse del paese, io v’aveva affidato, sento il dovere di dichiararvi che nelle circostanze difficili, in cui lo esercitaste, avete meritato la mia piena soddisfazione. Abbiatevi dunque i miei più vivi ringraziamenti, e siate sicuro che il ricordo dei vostri nobili e disinteressati servigii resterà sempre impresso nella mia memoria.
» Partecipate questa mia risoluzione a..... dal quale vi congederete, presentandogli i miei complimenti.
» Napoli, 29 ottobre 1860.
» G. Garibaldi. »
III.
Il Governo pontificio ordinò che fosse impedita a Viterbo la votazione per l’annessione. La guarnigione francese non accettò l'ordine, ma piuttosto favorì l’atto. I gendarmi pontificii vollero opporsi, ma vennero trattenuti dai francesi. Questo avvenimento cagionò una grande indisposizione nella Corte pontificia contro la Francia.
Varii moti reazionarii avvennero pur&nel giorno dei comizii a Sanseverino, Episcopia, Castel Saraceno, Carbone e Labronico, paesi del distretto di Lagonegro nel napoletano. Però l’ordine, perla più. parte, venne reintegrato, mercé l’opera della guardia nazionale. Quella di Rotonda corse a sedare la sommossa a Sanseverino e salvò la vita di quel sindaco D. Nicola Imbellone e di D. Giovanni Santagata, entrambi fortemente minacciati dai reazionarii.
Anche negli altri suindicati paesi si riebbe la pace appena vi accorsero la guardia nazionale dei paesi limitrofi e la guardia mobilizzata del distretto di Castrovillari.
IV.
Nel 9 novembre il presidente d’Appello e selle presidenti del Tribunale delle Marche accertarono solennemente il risultato della votazione e ne recarono il processo verbale al regio commissario generale, che lo proclamò al folto popolo dal Palazzo governativo. Votanti 135,255; pel sì 133,073, pel no 1212; nulli 160. Nello stesso giorno il presidente del Tribunale d’Appello di Perugia proclamò dal Palazzo governativo il seguente risultato del plebiscito: Inscritti 123,011; votanti 97,625; pel sì 97,040, pel no 380; nulli 205.
Il risultato dello spoglio de' voti della città e provincia di Napoli fu il seguente: Inscritti 229,780; pei si 185,468; pel no 1609. Eguali ed anche più splendidi risultati si ebbero dalle altre Provincie del continente napoletano.
Nella città di Palermo su 26,232 votanti, venti soli volarono pel no. Anche nelle altre città e provincie si ottennero risultati simili (1).
(1) Fino dal 15 ottobre il dittatore Garibaldi, con un decreto, dichiarava annesse le Due Sicilie al Piemonte. Ecco quel decreto:
«Per adempiere ad un voto indisputabilmente caro alla nazione, il dittatore decreta:
«Che le Due Sicilie, le quali al sangue italiano devono il loro riscatto, e che mi elessero liberamente a dittatore, fanno parte integrante dell'Italia una ed indivisibile, con suo Re costituzionale Vittorio Emanuele ed i suoi discendenti.
«Io deporrò nelle mani del Re, al suo arrivo, la dittatura conferitami dalla nazione.
«I prodittatori seno incaricati dell'esecuzione del presente decreta.
«Sant'Angelo, 15 ottobre 1860.
» Garibaldi.
V.
Nel 6 novembre venne emanato il seguente decreto di S. M. Vittorio Emanuele in conseguenza della votazione delle provincie napoletane:
«Veduto il risultamento del plebiscito del 21 ottobre scorso, esprimente il voto delle Provincie napoletane;
» Sulla proposta del Consiglio de' ministri;
» Abbiamo decretato e decretiamo:
» Art 1. Un luogotenente generale, nominato da noi, è incaricato di reggere e governare in nostro nome e nostra autorità, queste Provincie continentali dell'Italia meridionale, ed alla nostra immediazione, allorché saremo presenti nelle medesime.
» Egli è inoltre autorizzato ad esaminare, sino a che il Parlamento sia adunato, ogni specie di atti occorrenti a stabilire e coordinare l’unione delle anzidette Provincie col resto della Monarchia, ed a provvedere ai loro straordinarii bisogni.
» Art. 2. Agli affari esteri ed a quelli della guerra e della marina sarà direttamente provveduto dal nostro Governo centrale.
» A quella parte degli affari esteri, che specialmente concerne gl’interessi internazionali dei privati, sarà provveduto dal nostro luogotenente generale.
» Art. 5. Il cavaliere Luigi Carlo Farini è nominato luogotenente generale nelle Provincie napoletane.
» Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta degli Alti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
» Dato dal nostro quartier generale di Sessa il 6 novembre 1860.
Vittorio Emanuele.
» Cavour. »
Nel 2 dicembre S. M. Vittorio Emanuele emanò il seguente decreto per le Provincie siciliane:
«Veduto il risultamento del plebiscito del 21 ottobre scorso, esprimente il voto delle popolazioni delle Provincie siciliane:
» Sulla proposta del Consiglio dei ministri;
Abbiamo decretato e decretiamo:
» Art. 1. Un luogotenente generale, nominato da noi, è incaricato di reggere e governare in nostro nome e per nostra autorità le Provincie dell’Isola di Sicilia, ed alla nostra immediazione, allorché saremo presenti nelle medesime.
» Egli è inoltre autorizzato ad emanare, sino a che il Parlamento sia adunato, ogni specie di atti, occorrenti a stabilire e coordinare Puntone delle anzidette Provincie col resto della Monarchia ed a provvedere ai loro straordinarii bisogni.
» Art. 2. Agli affari esteri e a quelli della guerra sarà provveduto dal nostro Governo centrale.
» Art. 3. Il senatore del Regno, marchese Massimo Cordero di Montezemolo è nominato nostro luogotenente generale nelle Provincie siciliane.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta degli alti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
» Dato da Palermo a' 2 dicembre 1860.
» Vittorio Emanuele.
» G. Battista Cassinis. »
Quattro decreti, in data di Napoli 17 dicembre, dichiararono le Provincie napoletane, siciliane, delle Marche e dell'Umbria facienti parte integrante dello Stato italiano.
VI.
Il luogotenente cavaliere Luigi Carlo Farini, nominato, nell’esposto decreto di S. M. Vittorio Emanuele, luogotenente nelle Provincie napoletane, indirizzò a S. M. il seguente atto dell’8 novembre, con cui spiega il suo programma di Governo:
«Sire,
» È piaciuto alla M. V. di affidarmi il Governo di queste nobili Provincie, nel momento solenne, in cui esse entrano, anche pei rispetti politici e sociali, in quella comune vita italiana, alla quale apportarono in tutt’i secoli largo tributo di glorie intellettuali.
» Nell’adempiere l’uffizio, del quale fui onorato, io prenderò per guida le massime, che la M. V. espresse nei suoi manifesti, i quali furono per tutta la nazione il programma e l’inviolabile promessa del Principato italiano; prenderò ad esempio quei modi di Governo, che, col plauso delle genti civili e colla gloria di così meravigliosi risultamenti, furono tenuti nelle vostre antiche Provincie, che soprattutto vi sono riconoscenti dell’essere state, per opera vostra, lo strumento principale della liberazione d’Italia.
» Gl'italiani conoscono, o Sire, come si eserciti quell’autorità, la quale s intitola nel vostro nome. Il vostro Governo chiama in aiuto la libertà e la civiltà, perché la patria nostra tanto più presto sarà prospera e forte, quanto maggiore sarà il progresso morale e sociale del popolo. Esso è sollecito della istruzione e della educazione religiosa del popolo, degl'incrementi del sapere e di quelli dell'industria e dei traffici, pei quali crescono il benessere e la soddisfazione delle popolazioni, nel tempo stesso il vostro Governo fa opera costante per rinnovare in tutta l'Italia la tradizione e vivificare lo spirito militare, che non è soltanto un elemento di forza, ma sì ancora d’educazione morale, perché tempra le nazioni alla virtù della disciplina e al culto del dovere.
» Ma l'ordinamento di un Governo liberale e civile non è il solo fine, che oggi gl’italiani debbono, con ogni studio, raggiungere. Essi debbono consociare in unità di Stato le sparse membra della comune famiglia.
» La vita italiana fu variamente divisa, secondo i dolorosi destini della nostra storia, ma le separate Provincie diventarono, per la naturale virtù della schiatta, altrettanti centri gloriosi di civiltà e di morali tradizioni.
La lunga esistenza degli antichi Stati d’Italia creò molti speciali interessi. Queste tradizioni e quest’interessi devono essere rispettati in tutto ciò che non offende e non debilita l'unità.
» L’Italia, la quale sa di non trovar pace e prosperità durevoli, se non sia unita sotto la vostra dinastia, è da un provvido istinto avvertita di conservare,, come una guarentigia di. civiltà e di libertà, contro le usurpazioni di una centralità soverchia, il tradizionale sviluppo della vita locale.
» Questo duplice intento della politica italiana in nessuna parte si mostra così spiccante come nelle Provincie napoletane, e per la importanza dello Stato, che prima costituivano, e pel sistema di forte centralità, che le reggeva, e perché sono rappresentate in una splendida capitale, eh’ è una delle più popolose ed illustri città dell’Europa.
» In questa condizione di cose, appare manifesto che, se il Governo, che qui s’instaura nel nome e per l'autorità della Maestà Vostra, deve pigliare l'indirizzo da que’ sommi principii, ai quali s’informa il vostro Principato civile, l'assetto terminativo di queste Provincie, nell’ordinamento generale d’Italia, appartiene di diritto alle decisioni ed alle deliberazioni di quel Parlamento, che rappresenterà la nazione.
» Non sarà impossibile alla intelligenza ed. al senso pratico degl’italiani il costituire ordini, pei quali le grandi Provincie d’Italia rimangano libere nell’amministrazione dei particolari interessi loro, pure conservandosi strettamente collegate nella forte rappresentanza dello Stato.
» Grazie a siffatti ordini, il patriottismo e l'operosità civile potranno sempre manifestarsi nella triplice sfera dello Stato, della Provincia e della città; e le varie capitali d’Italia accresceranno di splendore in ragione della comune vita nazionale, resa da per tutto più efficace e vigorosa.
» Questa è l’epoca riserbata al Parlamento, e che il solo Parlamento può compiere, perché esso è il supremo rappresentante della volontà di tutti, e perché in un paese retto a libertà, è giusto che il Governo lasci alla libertà il merito e l’onore di avere dato alla nazione le sue fondamentali istituzioni.
» L’autorità, affidatami dalla M. V., sarà da me esercitata col principale intendimento di compiere le preparazioni necessarie perché, nel più breve tempo possibile, queste Provincie sieno convenientemente ordinale per l’atto solenne delle elezioni.
» Sarà mio debito frattanto di rassicurare l’ordine materiale e morale, che non tanto soffrì altamente pel naturale effetto delle mutazioni politiche, quanto per la mala e corrompitrice opera della caduta signoria. Faranno sicurtà alla pubblica coscienza di giusto ed onesto Governo quelle guarentigie di libertà e di pubblicità che non tolgono, ma accrescono forza ad un’amministrazione riparatrice.
» … Grandi sono i bisogni di un paese, dove gli stessi materiali interessi furono negletti per avere balia maggiore d’impedire lo sviluppo intellettuale e morale. Ad alcuno di questi bisogni si potrà prontamente soddisfare; molti altri benefizi! dovranno aspettarsi dall’effetto spontaneo delle nuove istituzioni, dalla libertà, dalle virtù operose dei popoli.
Farò tosto e diligentemente studiare i disegni delle grandi opere pubbliche e delle strade, che devono agevolare le comunicazioni, ravvivare l’agricoltura e le industrie; farò studiare i modi, pei quali va informata la pubblica istruzione popolare, la quale ba virtù di unire in più intima comunione le varie classi della società; e volgerò il pensiero alla pubblica beneficenza, che non è degna di questo nome se non dispensa al povero, insieme col pane, l’educazione morale e il sentimento dell’umana dignità.
» Io non sarei degno interprete delle intenzioni di V. M. se, nel rispetto di tutte le coscienze e di tutte le oneste opinioni, non informassi il mio Governo a quello spirito di concordia, che a nessuno può esser più cara che a voi, o Sire, che siete il simbolo della concordia italiana.
» Io prenderò per norma le nobili parole, che V. M. pronunziava nell’aprire quel Parlamento nel quale per la prima volta si trovavano riuniti i rappresentanti di undici milioni d’italiani, e mi rammenterò che delle antiche sette altro non deve rimanere che la memoria delle comuni sventure e della comune devozione all’Italia.
» Io sento quanto sia arduo l’assuntomi ufficio, per il quale chiedo e spero quella cittadina cooperazione, senza cui ogni Governo riesce impotente a fare il bene.
» Io desidero di essere confortato dai consigli di tutt’i buoni. Necessario mi è il concorso di alcuni di que’ prestanti uomini e chiari patriotti, dei quali abbondano queste Provincie. Essi serviranno a me di consiglio e, nel tempo stesso, reggeranno que’ Dicasteri!,
nei quali si divide la regolare amministrazione del paese, e prepareranno quelle innovazioni legislative, che saranno reputate indispensabili.
» Si degni la M. V. manifestarmi se le idee qui sopra accennate incontrino la sua reale approvazione.
» Napoli 8 novembre 1860.
» Farini. »
VII.
Il ministro degli affari esterni del Re Francesco II diresse a’ suoi agenti diplomatici la Nota seguente da Gaeta In data 8 novembre:
«Signore,
» Tutt’i giornali hanno portato alla vostra conoscenza che, contemporaneamente alla ingiustificabile invasione delle truppe sarde nel territorio del Regno, il Governo rivoluzionario di Napoli ha decretato un plebiscito, secondo il quale il popolo, riunito in comizii, doveva votare, a suffragio universale, l’assorbimento della Monarchia, la decadenza della dinastia che regna da oltre un secolo, ed il passaggio della corona al Re di Sardegna.
» In Sicilia, ove la rivoluzione aveva deciso la convocazione di un Parlamento per risolvere codesta quistione, la misura fu revocata e, in conformità alle istruzioni date da Napoli, Io stesso plebiscito fu decretato colla stessa formula: Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele, Recostituzionale, e i suoi legittimi discendenti?
» Il plebiscito è stato votato ed il risultato fu quale le circostanze dovevano darlo. II popolo intero parve accettare, senza ostacolo e senza differenza d'opinioni, un cambiamento così radicale de’ suoi destini. Per render più verisimile codesta commedia rivoluzionaria, si è appena fatto figurare un numero insignificante di voti negativi.
» Benché le circostanze, che hanno preceduto ed accompagnato questo strano atto, non possano permettere alcun errore sulla mancanza assoluta di sincerità in questo voto, per volere di S. M. il Re io mi rivolgo a voi, invitandovi a protestare, nel reale suo nome, contro la nuova usurpazione ed a spiegare al Gabinetto, presso il quale siete accreditato, le ragioni, che, agli occhi di tutti i Governi, rendono illegittima e nulla la predetta decisione.
» Che un popolo, quando il trono è vacante, possa scegliere una nuova dinastia, che possa stabilire le condizioni del suo futuro Governo, che la forma, che dee reggerlo, venga sottomessa al suffragio universale, ciò si può fare senza offendere i diritti di alcuno e senza mettere in pericolo la tranquillità dell'Europa. Ma quando si tratta di un popolo travagliato dalla rivoluzione, abbandonato ad una moltitudine di avventurieri, che lo soggiogano e non riconoscono altra legge per la loro sfrenala dominazione che la dittatura la più illimitata; quando, ciò non bastando, entra sul territorio con una potente armata il sovrano, che domanda la corona, quando il Re legittimo occupa ancora una parte del suo Regno, v’ha in ciò una violazione manifesta di tutti i diritti riconosciuti dalle leggi e dai trattali: violazione, che non si può giustificare dalla volontà popolare, attesoché essa é imposta dalla violenza e dalla rivoluzione al di dentro e dalla forza delle armi straniere.
» Accettando solo per un momento, in tutta la sua estensione, la dottrina della sovranità nazionale e ammettendo che fosse permesso ad un popolo, non solamente di cambiare la forma del suo Governo e d’espellere il suo sovrano, ma ancora d’alterare, con un atto di una volontà, la circoscrizione territoriale dell’Europa, la prima condizione almeno, per la legalità di un atto, sarebbe che la volontà popolare fosse libera.
» Ma nel Regno delle Due Sicilie non si è nemmeno conservata la minima apparenza della libertà. Eccettuati alcuni movimenti in Sicilia, prodotti dallo straniero e dalle sue crescenti provocazioni, e, per confessione degli stessi rivoluzionarii, quasi interamente sedati, il Reame intero era perfettamente tranquillo, quando Garibaldi sbarcò colla bandiera di Sardegna. I suoi avventurieri, poco numerosi, ingrossati continuamente da spedizioni partite dal Piemonte, divennero ben tosto una vera armata, ove figuravano avventurieri di tutte le nazioni.
» La forma di Governo, ch'essi stabilivano in Sicilia, non fu punto la libertà, ma la dittatura, cioè l’instituzione che confisca, senza eccezione, tutt’i diritti di un popolo, per concentrarli nelle mani del Governo. E quando gli avvenimenti militari, il segreto dei quali sarà un giorno conosciuto dall'Europa, permisero all’armata rivoluzionaria di attraversare il Faro, di dominare le Calabrie e d’occupare infine la capitale del Regno, il Governo creato sul continente fu ancora la dittatura, e Garibaldi fu proclamalo dittatore delle Due Sicilie.
» Si cominciò d’allora in poi a vedere un singolare spettacolo.
Nessuna legge fu rispettata; finanze, amministrazione, sentenze giudiziarie, diritti della Chiesa ne’ suoi rapporti collo Stato, tutto fu rovesciato a diverse riprese e con contraddizioni innumerevoli, per le quali i popoli poterono comprendere che non vi sono né diritti, né leggi sotto la dittatura.
» Nullameno tutto questo non sembrò sufficiente per assicurare il successo della rivoluzione. La Sardegna, che aveva procurato fin allora di nascondere la sua potente azione, si determinò tutto ad un tratto ad assumere, con un'audacia impudente, la direzione del movimento. L'ammiraglio sardo s’impadronì della flotta napoletana e sbarcò truppe, artiglieria e munizioni per combattere l'armata del Re e costringere più strettamente ancora la volontà del popolo.
» Codesta impresa non bastò ancora a dare questi popoli al Re di Sardegna, e mentre davasi opera al plebiscito, quel Sovrano, alla testa di truppe regolari, venne in persona a reclamare, sotto l’impero delle sue baionette, i voti dei pacifici abitanti del Regno e a gettare la sua spada nella bilancia dello scrutinio.
» Alla vista di questi atti pubblici e decisivi, niuno certamente oserà dire che si è lasciata la libertà al popolo di manifestare la sua opinione; non si potrà neppure pretendere che l'artificio rivoluzionario abbia almeno salvato le apparenze. Per aprire gli occhi ai più ciechi sul grado di libertà, che il Governo rivoluzionario aveva risoluto di concedere allo scrutinio, il dittatore Garibaldi, con decreto del 15 dello scorso mese,
vale a dire sei giorni prima della convocazione de’ comizii, prevenendo la volontà popolare e decidendo egli stesso in nome del popolo, aveva deliberato solennemente, in virtù della sua dittatoriale autorità, che le Due Sicilie fanno parte integrante Italia una e divisibile sotto il Re costituzionale Vittorio Emanuele e suoi discendenti.
Tali sono le parole del decreto da Sant'Angelo, che precedette di sei giorni la votazione.
» È sotto questi auspicii, senza guarentigia d alcuna sorta, che il popolo fu chiamato a votare.
» Ed affinché nessuna circostanza, per minima ch'ella si fosse, non mancasse a provare la coercizione, ch'esercirtavasi, gli elettori furono obbligati a deporre la loro scheda pubblicamente, in presenza delle Autorità rivoluzionarie e della guardia nazionale, in urne separate, perché protesero vedere chiaramente, per un tal cumulo di violenze, ch'essi avevano a superare, in pari tempo, la rivoluzione interna e l'oppressione straniera.
» Tale si presenta al mondo il risultato del plebiscito. Nessun uomo di buona fede non potrà ammettere, neppur per un istante, ch’ei sia l'espressione sincera della volontà nazionale.
» Comunicando queste considerazioni, colla vostra abilità e lealtà conosciute, le farete valere presso il Governo di..........., ed è mio dovere aggiungere che S. M. il. Re non ha veduto nello scrutinio del 21 ottobre che un nuovo atto di violenza, commesso dalla forza straniera contro il suo popolo, stimando che un tal atto non potrà mai invalidare i diritti della sua corona, né distruggere l'indipendenza e l'autonomia dei Regno delle Due Sicilie.
» Siete autorizzato a dar lettura e lasciar copia di questo dispaccio al ministro degli affari esteri.
» Casella.
VIII.
Abbiamo veduto nel volume primo, pag. 178, come alcuni napoletani offrissero al principe Luciano Murat la corona di Napoli e la lettera di quel principe diretta ai medesimi in data 19 agosto.
Ora egli teme che gli Italiani si dimentichino di lui e cerca di ricordarsi alla loro memoria con qualche lettera dal suo castello di BuzenVal.
Una, in data 23 novembre, da lui indirizzata ad un duca senza nome, in mezzo alle proteste più larghe di affetto per l’Italia, parla del plebiscito e delle condizioni di Napoli. Eccone il testo:
«Sig. duca,
» Non da voi solamente, ma da moltissimi, fui, alcuni mesi sono, esortato ad iniziare un moto nelle cose di Napoli. A voi rispondendo, a tutti risposi, facendo pubblica la mia lettera.
» Senso di dovere patrio dettò allora le mie parole. Il mio pensiero rifuggì all’idea che il mio nome, le amicizie mie, potessero essere ostacolo alla impresa della unificazione italiana. Per non osteggiare, anzi per aiutare questa impresa, bastavami la rimembranza paterna; e però, rispondendovi dichiarai eh’ io non poteva sommovere veruna difficoltà, e che, in ogni caso, religiosamente avrei rispettato il supremo decreto della volontà nazionale.
» Tanto scrissi; altro avrei aggiunto ove avessi ascoltato certi presentimenti che mi facevano dubitare del successo e delle arti adoperate per ottenerlo.
» L’ impresa della unità italiana fondata è sul principio della sovranità de' popoli, rimpetto al quale sorge minaccioso ancora, quantunque a metà vinto, il regio diritto divino. Questo visse per molti secoli, suscitò e mantenne potenti monarchie, la cui storia, giova riconoscerlo, s’immedesima gloriosamente con quella della civiltà e del progresso; visse venerato, e l’universale ammirazione, di che per tanto tempo si circondò, era il frutto del regio sapere e delle regie virtù. Oggi se ne va in ruina; ma perché si dilegui dal mondo, senza pericoli, senza danno, necessario è che pareggiato e superato anzi venga nel sapere e nelle virtù del nascente popolare diritto. Tal’è il mio culto per questo diritto, che mi astenni per non fomentare discordie, che avrebbero profittato ai suoi nemici. Ma. siccome dal fonte puro della scienza e dai nobili istinti sgorga la vita del progresso, lamento che l’avvenimento in Italia della popolare sovranità non abbia il debito corteggio delle schiette virtù cittadine. Ben veggo piantata nelle pubbliche piazze Puma dello scrutinio, ma sdegno che intorno a quell'urna vadano aggirandosi la corruzione e la violenza.
» Duolmi intendere che siasi fatto in Napoli un mercato di magistrature, d'interessi pubblici, venerati da' padri della civiltà italiana come inviolabili e santi.
» Recenti sono gli avvenimenti del quarantaotto, e ben possono continuare ad esserci documento ed esempio.
» Cadde la Repubblica francese, perché tutto minacciò e distrusse e nulla seppe creare e riedificare. Le sette collegate, che oggi dominano l'Italia, non dimentichino questa lezione. Talora più tiranniche si mostrano che gli abbattuti Governi.
» Male s’inizia la libertà col sospetto, con la tirannia. £ che cosa significa il disarmo di tanti Comuni napoletani e la legge di guerra promulgata in tante Provincie? Queste cautele non mi paiono verificare la spontaneità del l’universale suffragio e la fiducia del nascente Governo.
» Il genio della nazione noi preservi da novelle calamità. Finché si manifestino più felici auspicii in Italia, io resterò spettatore, desiderando virtù, senno e patria carità a chi imprese a rigenerare un popolo, esempio all’umanità di gloria e di sventure.
Consigliai la federazione, perché più idonea la credo all’indole storica, ai costumi, agl’interessi d’Italia; la consiglio soprattutto per l’abbonimento che m’ispira ogni tirannia. So che durevoli non sono i subiti edifizii della violenza, e tutta violenta ed artificiale par mi la presente unifica zio né degli Stati italiani. Credo che dalla sola federazione può sorgere l'unità, destinata a conciliare gl’interessi e te libertà locali colla potenza dell’autorità nazionale.
» Quando sarà Italia durevolmente ordinata a libertà e grandezza, vedrò adempito il mio voto più caro, il voto supremo del padre mio.
» Aggradite, caro duca, l'espressione cordiale della mia affezione e della particolare mia stima.
» Castello di Buzenvat, 25 novembre 1860.
» Luciano Mubat. »
Verso la metà di dicembre la polizia scoperse una cospirazione murattista, di curiosa orditura, giacché i complici erano parecchi ufficiali stessi che parevano difendere Francesco II a Gaeta, e le file si cominciavano ad allargare per parecchie parti del Regno.
La cospirazione venne sventata, e si riteneva anche che alcuni uffiziali dell'armata francese di occupazione in Roma non ne fossero estranei.
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