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Il 23 marzo 2005 il parlamento dello stato italiano ha voltato pagina in tema di colonialismo interno. Nei precedenti 144 anni dell’equivoca e malefica unità, a pagare l’usura dell’appartenenza all’Italia (“una e indivisibile”) sono state le classi diseredate del lavoro manuale.
La disoccupazione, l’emigrazione di massa, il crollo morale e civile dei contadini scacciati dalla terra senza una sola alternativa economica, le guerre, i militi noti e ignoti, caduti sulle Alpi e dovunque convenisse agli interessi padani, hanno accompagnato la secolare truffa.
Ciò è stato reso possibile dal tradimento della borghesia meridionale, la quale si è venduta alla classe dirigente toscopadana e agli interessi del Nord e della città di Roma, per avere in cambio il potere di rubare sulla spesa pubblica.
L’attuale decisione mette alla porta anche le classi borghesi. Da qui a non molto anch’esse subiranno il destino (nazionale) che è toccato ai proletari.
I toscopadani ci hanno tolto tutto, dal nome d’Italia, che in antico era solo nostro, alla libertà di giudizio, alla storia; si sono fregata perfino la paternità degli spaghetti e delle pizze. Dove c’è un soldo da lucrare, essi s’infilano e cacciano gli altri.
Il Sud è la parte d’Italia più ricca di potenzialità. Per dare il lavoro a tutti non bisognerebbe fare altro che valorizzare quel che c’è.
L’unico impedimento è la subordinazione dei nostri interessi a quelli degli approssimativi fratelli toscopadani.
E’ l’ora di tornare liberi e indipendenti. Capirlo non è soltanto un dovere morale e patriottico; è un’esigenza pratica.
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