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Strade:
Introduzione
Sin dai miei primi approcci con la comunicazione visiva, la prima idea che mi è venuta in mente è stata quella di studiare un metodo efficace, con gli strumenti che essa mi metteva a disposizione, per poter pubblicizzare e promuovere un territorio si pieno di risorse, ma ancora sconosciuto al grande pubblico dei vacanzieri d'Italia.
Di conseguenza, quasi in maniera naturale, per non dire scontata, ho
pensato di far conoscere la mia terra: "l'altra Calabria", non
solo quella conosciuta come Tropea. In particolare mi sono soffermata
su quelli che sono i miei luoghi di origine, con particolare
riferimento alla zona che dal mare Jonio si allunga verso le serre
calabresi.
[...]
Al momento dell'unità d'Italia in Calabria, il territorio comprendente i comuni di Bivongi, Pazzano, Stilo, Serra S. Bruno e Mongiana [1],ospitava uno dei più importanti centri siderurgici e metallurgici dell'interapeni sola. In esso veniva trattato il minerale di ferro estratto dalle locali miniere di Pazzano, Stilo e Bivongi site nei monti di Stella, Mammicomito, Consolino e Petracca.
Non vi è dubbio che, l'esistenza di questo bacino minerario e del suo sfruttamento, abbia radici più antiche di quelle certificabili con documentazioni storiche.
E' verosimile che, le popolazioni indigene,anteriormente all'anno 1000
a. C., facessero uso di questi minerali per attività fabbrili ed
è molto probabile che tale occupazione abbia radici molto
più antiche. Ad avvalorare tale ipotesi, sono ritrovamenti di
oggetti in ferro nelle vicine necropoli del IX sec. a.C. di S. Onofrio
presso Roccella Jonica.
Inoltre, come è noto, le miniere di ferro calabresi, che possono
senza ombra di dubbio identificarsi con quelle che si trovano nella
Vallata dello Stilaro (le uniche di una certa consistenza in tutto il
Mezzogiorno d'Italia), spinsero le popolazioni iapige [2], abitanti la
penisola Salentina intorno al IX sec. a. C., a "colonizzare" la
Calabria. Ciò è deducibile anche dal fatto che nella
penisola Salentina furono rinvenuti molti reperti risalenti
all'età del ferro. In Calabria avvenne esattamente il contrario
[3].
Certamente, agli inizi, in Calabria la tecnica metallurgica fu di
chiara provenienza "straniera", ma ben presto, grazie anche
all'abbondanza di siti minerari, venne acquisita dalle popolazioni
locali e si diffuse più velocemente che in altre regioni
mediterranee.
Inoltre alcuni toponimi, dichiara derivazione Greca, ci attestano la
presenza in passato di attività legate alla metallurgia: la
stessa città della Magna-Grecia, "Kaulon"[4],fondata nel IX sec.
a.C. deve, probabilmente, la sua fondazione e la relativa ubicazione
nei pressi della foce del fiume Assi, proprio allo sfruttamento delle
risorse minerarie presenti nell'entroterra, attuato, o in modo diretto
o attraverso scambi in natura con le popolazioni locali. Da queste
ultime i coloni greci, in cambio di manufatti, ricevevano le materie
prime minerarie,costituite non solo da ferro, ma anche da quarzo, sale,
rame, stagno, piombo argentifero, ecc., estratte dalle locali miniere
sfruttate dalle popolazioni indigene in piena età del ferro e
conosciute sicuramente anche dai Fenici [5].
E'proprio lo sfruttamento del ferro e soprattutto dell'argento che
rende verosimile questa supposizione: lo conferma il fatto che Kaulon
fu tra le prime città della Magna-Grecia a coniare le proprie
monete in argento nel secolo VI a. C. [6].
Nel periodo classico, anche in Calabria, il disboscamento, ad uso delle
ferriere,per la costruzione delle navi e delle case, divenne massiccio,
l'economia era soprattutto agricola e le miniere rappresentavano:
"isole in un mare di campi, boschi e prati" (p. D. B. Tromby [7]).
I Romani ripresero lo sfruttamento delle miniere greco-indigene,
occuparono stabilmente l'entroterra calabro ed emanarono vere e proprie
leggi minerarie. Nelle miniere del circondario e nei pressi di Pazzano
istituirono delle colonie per i "Dannata ad metalla", cioè i
condannati al lavoro forzato nelle miniere.
[...]
5.1.5 SIDERURGIA E TERRITORIO
Dal XV secolo in poi, le ferriere esistenti in Calabria avevano bisogno, per il loro funzionamento, di essere ubicate lungo corsi d'acqua in modo da poter attivare le varie fasi di fusione:"trombe a vento", che fornivano l'aria necessaria ad attizzare il fuoco; ruote idrauliche per i magli, tomi, seghe, ecc.. Esse necessitavano anche di un continuo approvvigionamento di legna (castagno e faggio), da cui ricavare il carbone vegetale, unico combustibile allora conosciuto.
Di conseguenza, esse venivano edificate nei pressi di folti boschi, dai
quali si poteva ricavare il legno utile per la fusione. Ben presto,
però, il continuo ed indiscriminato taglio a cui i boschi
venivano sottoposti ed il conseguente depauperamento del patrimonio
forestale, costrinsero gli addetti all'approvvigionamento di carbone ad
allontanarsi sempre di più dal luogo di fusione rendendo
così molto dispendioso il trasporto del materiale verso le
ferriere, dal momento che ne occorreva una notevole quantità
(circa 4-5parti di carbone per uno di minerale) per ottenere la fusione
del minerale ferroso attraverso le diverse fasi della lavorazione, ed
il suo prezzo (taglio di alberi, carbonificazione, trasporto) incideva
in modo considerevole al bilancio finale [15] .
A questo punto, quindi, risultava molto più economico spostare
tutta la ferriera,costituita essenzialmente da baracche di tavole (solo
il forno era di granito),in posti più ricchi di boschi, presso i
quali veniva riattivato il ciclo di produzione anche se lontano dalle
miniere.
[…]
Prima con gli Austriaci agli inizi del 700 e poi, nel 1754, con i Borbone (sotto Carlo III), le ferriere ritornarono proprietà dello Stato e vennero date in gestione a personale militare. Questa decisione fu adottata da parte del governo in seguito al clamoroso fallimento dell'ultimo degli appaltatori, lo stilese Giuseppe Lamberti, che per svariati motivi tecnici (non ultimo, le avverse condizioni climatiche), non riuscì ad onorare l'appalto, che prevedeva le forniture all'esercito di ben 70 cannoni in ferro di grosso calibro e 45 di calibro minore, screditando così la classe imprenditoriale calabrese e deludendo le aspettative dei reali borbonici, che avevano dato in appalto la costruzione e la gestione della "Regia Fonderia Cannonimi CivitatisStily" [17], voluta da Carlo di Borbone nel 1736 ed ultimata nel 1746 da Lamberti, sul corso medio-alto del fiume Assi, su un progetto dell'ing. Giuseppe Stendardo, lo stesso che aveva avviato gli scavi archeologici di Pompei.
Ma fu grazie al fallimento di Lamberti, avvenuto nel 1752, che si
iniziò, per volontà reale, a dare vita a quell'industria
siderurgica meridionale statale, che mosse i primi passi con la
creazione della fabbrica d'armi di Torre Annunziata, seguita come
vedremo nel 1770 dal grande complesso siderurgico di Mongiana
(attualmente comune in provincia di Vibo Valenzia), e nel 1789 dalla
più moderna e funzionale fonderia di Ferdinandea, oggi frazione
di Stilo.
La Ferdinandea, così denominata in onore di Ferdinando II di Borbone, re dal 1830, era un complesso siderurgico costituito da due distinti edifici: il primo, disposto a ferro di cavallo, con corte interna, ospitava la residenza amministrativa, con uffici, alloggi per le truppe, carceri e chiese; il secondo, di cui rimangono solo due fabbricati dei quattro esistenti in origine,costituiva la vera e propria fonderia. Essa era disposta su due livelli: quello superiore era adibito a deposito per il carbone e ad alloggi per le maestranze,quello sottostante fungeva da deposito per i manufatti. Nel cortile antistante,addossato al fabbricato, si situava il grande altoforno, capace di produrre oltre 10 tonnellate di ghisa al giorno.
Negli impianti siderurgici di Mongiana e di Ferdinandea [18] , che
raggiungevano un'altezza di oltre 10 metri, gli altiforni, costruiti
con blocchi di granito e rivestiti internamente di materiale
refrattario, avevano una forma molto semplice: erano infatti costituiti
dalla sovrapposizione di due tronchi di piramide o di cono, uniti dalla
base maggiore e venivano caricati dall'alto, alternando il materiale
ferroso al carbone e al materiale fondente.
La combustione avveniva anche grazie all'immissione di una forte
corrente d'aria, prodotta da mantici e nel nostro caso da particolari
"trombe a vento" funzionanti ad acqua. In questo secolo il complesso
siderurgico si allargò ulteriormente. Ai primi forni fusori del
Fieramosca (XV e XVI sec.),ormai in disuso, ed alla ferriera di Pazzano
(XVI sec.), ubicata lungo il fiume Stilaro e ancora attiva nel 1749, si
aggiunsero, in un primo momento, "le vecchie ferriere di Stilo"[19],
site nei boschi di Ferdinandea ed in seguito quelle del complesso
d'Assi lungo il corso medio-alto dell'omonimo fiume.
E' interessante ricordare che proprio nelle ferriere calabresi furono
costruiti, nel 1754-55, sul modello dell'architetto Luigi Vanvitelli,
gli oltre 2000 tubi necessari per la costruzione dell'acquedotto che
avrebbe rifornito la Reggia di Caserta.
[...]
5.2 FERRIERE E FONDERIE
Nelle varie fonti che trattano del processo siderurgico antico si è notato l'uso consolidato del termine "ferriera" per indicare genericamente sia il singolo edificio produttivo sia l'intero complesso edilizio interessato allo stesso fenomeno. Analogamente, fino al tardo '700, non sembra sia stata operata una netta distinzione fra gli edifici ove avvenivano rispettivamente le operazioni di prima e di seconda fusione.
Nelle fonti più antiche il luogo che ospitava l'altoforno,
cioè il luogo di produzione della ghisa, era indicato
generalmente come "casa del forno" o utilizzando il nome di "fornace"
e,solo con molto ritardo, con il sostantivo più appropriato di
fonderia. Con il termine ferriera, viceversa, è stato sempre
indicato il singolo edificio di raffinazione ma, in molti casi, lo
stesso termine è più volte comparso ad indicare
indiscriminatamente sia l'uno sia l'altro, ovvero entrambi
contemporaneamente, dando luogo a non pochi equivoci.
In sintesi, la fonderia era il luogo in cui avvenivano la produzione e
l'utilizzo della ghisa per la costruzione di manufatti (cannoni e
bombe) e in essa erano situati gli altiforni; la ferriera, invece, era
il luogo in cui si produceva il ferro comune e in cui raramente
avveniva la raffinazione della ghisa; in essa erano presenti i soli
forni di raffinazione [22].
Con l'avvio del funzionamento delle fabbriche di Mongiana e di Ferdinandea, la condizione operaia cambiò radicalmente.
Mentre in passato l'impiego dell'operaio nelle ferriere e nelle
fonderie era limitato al periodo di maggior attività delle
stesse, che coincideva con i mesi invernali, in quanto solo in quel
periodo si aveva abbondanza d'acqua per il funzionamento a pieno ritmo
dei forni, e, nei restanti mesi, l'operaio smetteva i panni di minatore
e ritornava al lavoro nei campi, in questi grandi impianti, grazie ad
un ciclo continuo di lavorazione, egli diventa a tutti gli effetti un
operaio a tempo pieno.
I risultati non mancarono, sia sul piano della produzione sia su quello
del miglioramento della condizione operaia. Se nel '500 la produzione
di ferro, come già detto, non superava i 300 quintali, dal 1808
al 1815, con Gioacchino Murat, salì a 4000 q. annui, per
raggiungere i 10000 q. con l'avvento al potere di Ferdinando II di
Borbone; tutto questo grazie anche alla preziosa opera dei
mineralogisti inviati in Europa che, rientrati in patria nel 1798,
incominciarono a mettere a frutto tutta la loro esperienza.
Con Murat,venne costruita a Mongiana una piccola fabbrica per "canne da
facile", embrione di quella fabbrica d'armi che sarà in seguito
edificata per volere dei Borbone.
In questo periodo crebbe anche la qualità dei prodotti i quali
vennero addirittura esportati in Francia. Per migliorare la
qualità della ghisa, il governo borbonico incrementò
anche in Calabria l'uso del carbone minerale, intensificandone
l'estrazione dalle miniere di Anagna Calabra.
Gli operai impiegati nell'attività siderurgica calabra
ammontavano a circa 1500 unità fra mulattieri, minatori,
carbonai e fonditori ai quali vanno aggiunte le altre maestranze
impegnate in iniziative siderurgiche private[23].
Prima i Napoleonici e poi i Borbone, con Ferdinando II, consci della
grande importanza che la loro attività rivestiva per la
sopravvivenza stessa del Regno, concessero a questa classe operaia una
serie di trattamenti assistenziali impensabili per quei tempi: pensione
dopo 35anni di lavoro, assistenza medica, assistenza infortunistica,
pensione di invalidità e istruzione scolastica per i figli.
Consapevoli di questi privilegi, gli operai delle fabbriche
siderurgiche calabresi dimostrarono la loro gratitudine nel plebiscito
post-unitario quando si astennero per protesta dal voto o manifestarono
pubblicamente contro l'annessione del Regno delle due Sicilie al
neonato Regno d'Italia. Con Ferdinando II,che possiamo tranquillamente
definire un re "imprenditore", a causa delle sue larghe vedute in campo
industriale [24], si ultimò la costruzione degli stabilimenti
siderurgici di Mongiana e di Ferdinandea, che potevano da soli produrre
in media 12-15 mila quintali di ghisa annui.
5.22 FABBRICA D'ARMI DI MONGIANA
A Mongiana, nel 1852, venne costruita, su progetto di Fortunato Savino e sotto la direzione di Tonson Latour, una moderna e funzionale fabbrica d'armi, che sostituì, di fatto la vecchia "fabbrica di canne da fucile" voluta da Murat, e che poté considerarsi l'erede della fabbrica d'armi costruita da Lamberti nel 1746.
Nella nuova fabbrica in cui lavoravano circa duecento armieri e che
forniva l'equipaggiamento bellico all'esercito borbonico (bombe,
cannoni, pistole e fucili) era sicuramente operante anche un reparto di
progettazione, in quanto qui furono elaborati i progetti per la
realizzazione di un cannone binato, tra l'altro mai realizzato,e furono
ideati e realizzati numerosi fucili di precisione fra cui il famoso
fucile da fanteria modello "Mongiana". In essa annualmente potevano
prodursi 2000-3000 armi da fuoco, con punte di 8000 in caso di guerra e
altrettante armi bianche. Armi, che per la perizia con le quali
venivano costruite,ottennero degli ambiti riconoscimenti nelle
Esposizioni Industriali di Firenze(1861) e di Londra.
[...]
II 30 Agosto del 1860, i garibaldini presero possesso dello stabilimento di Mongiana; il 7 Settembre dello stesso anno Garibaldi entrò vittorioso a Napoli, proprio con la ferrovia voluta dai Borbone [26].
La dinastia borbonica cadde, e con essa, venne così ad
interrompersi repentinamente un'attività che per secoli aveva
caratterizzato in positivo l'economia di un vasto territorio calabrese
e che aveva dato occupazione tra mulattieri, minatori, fonditori e
carbonai, a circa 1500 operai. A nulla valsero gli accorati e disperati
appelli rivolti al Governo da parte delle Amministrazioni Comunali del
luogo.
Il nuovo governo unitario, con l'estensione delle leggi Piemontesi
sulla forestazione, con la non applicazione delle leggi sulle miniere,
ma soprattutto con la legge che prevedeva l'estensione delle tariffe
doganali Piemontesi all'ex Regno (i cui dazi protettivi furono
abbattuti di circa 1*80%), che sopravvalutava di fatto le reali
possibilità di ripresa dell'economia meridionale, mise in
ginocchio tutte le attività industriali del Sud (fabbrica d'armi
di Torre Annunziata, officine ferroviarie di Pietrarsa, industria
tessile di San Leucio, la Zino & Henri, che costruì, insieme
alla Bayard, la prima ferrovia italiana) [27] e con esse anche
Ferdinandea e Mongiana.
L'annessione, infatti, portò ai meridionali un forte aggravio
del carico fiscale. Aumentarono l'imposta fondiaria, le imposte
indirette e tutte le vecchie quattordici tasse borboniche ed i
meridionali furono subissati immediatamente da ventiquattro nuovi
balzelli d'importazione piemontese e, poco dopo, insieme a tutti i
cittadini del nuovo Stato [28], da altre dieci tasse di nuovo conio tra
cui la famigerata "tassa sul macinato" altrimenti nota come "tassa
sulla miseria". Se per il Sud le tasse, a due soli anni
dall'Unità, aumentarono già del 40%, nel 1865 raggiunsero
1'87% in più rispetto al 1860. L'effetto di drenaggio fiscale fu
drammaticamente avvertito dall'industria, cui vennero a mancare i
capitali. Inoltre, mentre un piatto della bilancia fu appesantito dal
carico improvviso delle nuove tasse, il piatto delle commesse fu
alleggerito delle forniture militari e ferroviarie.
Le stesse casse dell'ex Regno delle Due Sicilie [29] saranno
"alleggerite" dai cospicui fondi di Risparmio Nazionale Meridionale,
sottratti e dirottati al nord dai piemontesi. Orfana di capitali e di
commesse, la siderurgia meridionale ebbe davanti un futuro di
bancarotta.
Il nuovo Stato le commetterà, nel decennio 1860-70, solo il 5-7%
del fabbisogno militare e non più del 6% di quello ferroviario.
Delle 600 locomotive previste per le linee del Sud, solo 1/6
toccherà a Pietrarsa, la più importane ed esperta
officina ferroviaria italiana dell'epoca. La filosofia economica
del"libero scambio", fatta propria dal nuovo ceto dirigenziale
nazionale, favorì l'intervento privato e compresse quello
pubblico.
Nel sud l'intervento statale aveva anticipato teorie in voga molti anni
dopo; scopriamo così che in materia di sviluppo la teoria
meridionale era valida e all'avanguardia quando incentivava la
costruzione di un'ossatura produttiva statale niente affatto
monopolistica, senza deprimere, anzi favorendo, l'industria privata e
aprendo tra le due un regime di aperta concorrenza. Se nella statale a
volte i costi di gestione erano alti, si doveva tenere presente che per
mille vie questi apparenti "sprechi" rifluivano nel paese per mano dei
salariati.
Solo l'industria statale, proprio perché lontana dalla logica
capitalista del profitto immediato, poteva sottostare ad una serie di
passività e di oneri cui, quasi mai, al suo nascere, si sarebbe
sottomessa quella privata. Lo Stato unitario privilegiò subito
la componente piemontese-ligure, che aveva cervello e cuore pulsante al
Nord e specialmente a Torino, capitale vicina al centro di quell'Europa
nella quale la nuova nazione tenterà d'inserirsi ancor prima
d'essere organica, omogenea e priva di ghetti [30].
Il nuovo Governo favorì spudoratamente la siderurgia ligure
tanto che l'Ansaldo, che prima del 1860 contava la metà dei
dipendenti di Mongiana e di Pietrarsa, a Italia fatta, li
raddoppiò mentre, allo stesso tempo, si dimezzarono quelli del
meridione, un meridione inferiore e degno solo di"vocazione agricola"
in cui "innaturale", perché periferico, sembrò lo
sviluppo industriale. Il Sud si trovò a recitare il ruolo di
portatore d'acqua ed i meridionali quello di braccia-lavoro.
Delle decisioni prese dal solo Nord-Italia, tutta la nazione si sarebbe
trovata poi a pagare le conseguenze poiché il Mezzogiorno,
arrestato nel suo cammino dall'amputazione della gamba-industria, non
poté reggersi neppure sulla gamba-agricoltura, dal momento che
neppure quella fu sviluppata.
Se oggi il Sud è degradato e "diverso" dal Nord, il motivo è da ricercarsi in quella lontana concezione di "unità".
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