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From: a_larosa
Date: Tue, 24 Aug 2004
Subject: Mongiana, domande di fondo
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Zitara risponde a Larosa
|
Questo testo è una risposta alla lettera di Giulio Larosa, che è data, per così dire, alla larga.
I problemi che Larosa pone sono parecchi. Le risposte soltanto tre o quattro. La più importante riguarda l’idea di portar fuori il Sud dallo Stato italiano e dall’Unione Europea.
Ma perché una cosa del genere, se l’Italia è tanto bella e se l’Europa è ancora meglio? Ci isoleremmo, si afferma. Chi ci darà i soldi per costruire il nuovo edificio?.
Politicamente si tratta di alibi, storicamente ed economicamente
di banalità. E’ isolata la Svizzera? E’ isolata la Svezia?
E’ isolata la Tunisia? Eppure si tratta di formazioni sociali, di
Stati, di popolazioni minori del Sud, di paesi che hanno storie recenti
se confrontate con quella trimimillenaria del Sud.
In effetti, l’idea di unità e quella di disunità d’Italia
sono il risvolto ideologico di un conflitto di classe. Il padronato
duosiciliano, che tradì Francesco II e prima di lui
Ferdinando II, perché ambiva a impadronirsi delle terre comunali
ed ecclesiastiche, oggi difende l’unità perché fa
assegnamento sullo Stato unitario, storicamente uso ad
allungargli una cima e a trarlo in salvo dalla tempesta antropologica
dentro cui il Sud è stato strapiombato dal legame con la
Toscopadana.
L’unità italiana è costata e sta costando al Sud
una crisi occupazionale (produttiva) dietro l’altra. E’ un fatto certo,
storicamente duro come un sasso: il sistema nazionale italiano
impedisce ai lavoratori meridionali qualunque produzione che non siano
i vecchi pitali in terracotta, quelli di cui si servivano don Giustino
Fortunato e don Benedetto Croce.
Oggi siamo alla terza crisi epocale. La prima si collegò alle
luttuose procedure liberiste introdotte da Cavour e portate avanti dai
suoi successori, nella speranza che, vendendo alla Francia i prodotti
agricoli di tutta l’Italia, la Padana generasse un suo capitalismo e si
affrancasse dalla stessa Francia, di cui era tributaria da almeno due
secoli.
Un’opzione a dir poco fallimentare. Perché si potesse arrivare
al risultato sperato, fu necessario abbandonare i fumi liberisti di
Camillo Benzo e adottare (appena trenta anni dopo Marsala) quella
politica protezionista per cui i Borbone e Napoli erano stati additati
come colpevoli di fronte alla storia.
Tra liberismo cavourrista e protezionismo crispino e precrispino, il
Sud perse sette milioni di lavoratori (metà della popolazione) e
perse anche le loro rimesse americane, gagliardamente inghiottite da
Agnelli (futuro senatore per meriti fottitorii) e dai suoi colleghi,
fra cui i signori Crespi, quelli del “salotto buono” e del Corriere
della Sera.
La seconda crisi scaturì dal crollo del mondo contadino, nel
secondo dopoguerra. Un crollo decretato dalla produttività del
lavoro statunitense, e perciò inevitabile. Però i rimedi
posti dai governi italiani furono, per il Sud, peggiori del male, come
tutti sanno. In sequenza: il fottisterio del controvalore delle
Am-lire, la Cassa del cemento per il Mezzogiorno, gli affitti delle
soffitte di Torino e Milano alle stelle in modo che i terroni cacassero
ai padroni di casa buona parte della paga, la Legge Sullo rispedita a
Benevento (o Avellino, non ricordo) con il suo autore, e altre
ostilità .
La fuga di esseri sub-umani, propriamente di terroni, dal Sud
questa volta fu anche più consistente, dando luogo a una grande
pacchia. I terroni in Padana ebbero un’accoglienza strepitosa. Soffitte
a volontà e letti a 20 mila cadauno (x 15/20 persone a soffitta
= non meno di tre milioni al mese, 36 milioni l’anno esentasse).
Salari a 40 mila lire al pezzo. Marciapiedi interclusi, ma
parità antropologica (con olezzi di borotalco) nelle riunioni
delle Camere del Lavoro. Non come oggi, con Bossi che li vuole stanare
e ridurre a extra-lumbard, toglier loro la carta
d’identità e magari la tessera
alimentare.
La terza crisi è in atto. Come finirà per gli
attuali disoccupati meridionali e per quelli che lo diventeranno
da qui a qualche mese, e dove essi finiranno, non si sa. Certo,
ognuno di loro ha un parente in America, che è in condizione di
trovargli un lavoro, ma i terroni (grazie ai nostri fratelli delle
Città d’Arte) si sono fatti la tripla fama di mafiosi, di
fannulloni e di imbroglioni; qualità positive sicuramente per i
produttori di Holliwood, ma non anche per i sindaci di Boston e New
York. Cosicché il Congresso USA gli italiani non li vuole.
Meglio i messicani, costano di meno.
Di fronte al nuovo disastro cosa farà l’Italia di cui
ciampicamente facciamo parte? L’Italia di Berlusconi, e dei suoi
nemici, la filiera Agnelli – sindacati – sinistra rivoluzionaria e non
rivoluzionaria – burocrazia e intellighenzia romane dei ministeri e
della Tv, dove è in auge il neonepotismo laico?
L’Italia di Bassolino, re della munnezza? L’Italia di Prodi
euro-Olimpico, dei dotti quotidiani – sette supplementi a
settimana e collane di libri a strafottere? L’Italia dei sapienti
editorialisti, dello smisurato Giuliano Ferrara, del vanesio Emilio
Fede, di Maurizio Costanzo e di sua moglie, dell’ambasciator non porta
pena, Sergio Romano? L’Italia delle banche, della Commissione
Episcopale Italiana e degli antichi Palazzi papalini rimodernati per
l’uso patriottico?
Cosa farà l’Italia lo sappiamo bene dalla storia dell’ultimo
trentennio: mafia a go go. La mafia mantiene la pace sociale al Sud e
porta capitali freschi a Milano! Non so invece cosa farebbe, nella
circostanza, un ipotetico stato indipendente del Sud. Ma certamente si
porrebbe il problema in termini vitali, come se lo pose al tempo del
Viceregno spagnolo l’economista Antonio Serra.
Vale la pena di rifletterci su. Se già agli albori del secolo
XVII l’intellighenzia meridionale era capace di porsi il problema della
produzione, perché non dovrebbe saperselo porre anche oggi? E
tuttavia, per poterlo fare, è necessario non essere
intrappolati negli idola fora unitari dei maestri di scuola, del
Presidente Ciampi e della Nazionale Italiana, che le perde tutte.
Senza l’indipendenza mentale non si ha lo spirito per rendersi conto
che anche noi abbiamo la testa. Attualmente le cose sono messe in modo
che il lusso di una tale consapevolezza ce l’hanno soltanto i
banchieri, gli industriali, i professori e i giornalisti padani. Altro
che Antonio Serra! E’ la Bocconi che produce scienza economica!
Allora, apertura incontrollata o controllata agli scambi
internazionali? Intanto c’è da precisare che la difesa delle
produzioni interne e il connesso controllo sulle importazioni sono la
regola generale, osservata nell’Unione Europea e negli USA. Presso le
grandi potenze economiche e militari il protezionismo riguarda
essenzialmente le merci tradizionali (l’agricoltura e l’industria
matura), mentre per le merci d’avanguardia il protezionismo è
“dall’interno”, attraverso gli accordi monopolistici sul prezzo.
Per i paesi arretrati, il problema è assai diverso. Ed
è certamente colpa mia se non sono stato chiaro sulla questione.
La quale non si pone in termini economici, come si compiace e trova
comodo sostenere l’economia corrente. Il problema è
antropologico. Difatti, un conto è la libertà dei
mercati nelle relazioni fra paesi industrializzati, per i
quali la concorrenza è auspicabile, in quanto rappresenta
uno stimolo a produrre meglio e a prezzi non controllati; un altro
conto è la libertà dei mercato nei rapporti commerciali
tra una potenza industriale e un’im-potenza industriale.
Lo sviluppo e il suo opposto, il sottosviluppo, possono persino trovare una spiegazione nella storia e nella teoria economica, ma non sono fatti economici; sono fatti politici e militari. Sviluppo e sottosviluppo, civiltà (grado di evoluzione produttiva) e arretratezza scaturiscono dalle armi, dalla guerra.
Cronologicamente, prima che insorgesse antinomia sviluppo/sottosviluppo
c’era un fenomeno diverso: “l’ineguale sviluppo delle nazioni”; un
fatto antico quanto gli Egizi e gli Ittiti, ma incardinato in
termini concettuali solo al tempo della Prima Guerra Mondiale ad
opera di studiosi dell’imperialismo. Alcuni decenni fa il tema è
stato riaffrontato da Samir Amin e da altri pensatori marxisti, mentre
i filosofi liberali si sono provati, sì e no, a sfiorare
l’argomento. E a ragione. Infatti i guai vengono proprio dalla
spasmodica ricerca di materie prime e di sbocchi da parte delle potenze
liberal-democratiche.
Teoricamente e praticamente il liberismo non ha altro rimedio, ai guai che va combinando, che un maggiore liberismo. Tanto per togliersi d’impaccio i liberisti continuano a sostenere che lo scambio fra due nazioni avvantaggia entrambe. In effetti avvantaggia il venditore e inaridisce il compratore. Il problema è complesso, le spiegazioni molteplici.
Secondo chi scrive la distrofia economica non consiste (o non consiste
soltanto) nel prezzo relativo dei valori scambiati, e neppure
nell’enorme quantità di tempo di lavoro che il paese non
industrializzato cede per ottenere una merce industriale. (La cosa si
può così esemplificare: un operaio italiano compra un
auto di media cilindrata con otto, dieci mesi di lavoro, un operaio
eritreo la pagherebbe con duecento anni di lavoro. Per un padrone
eritreo che compra un’auto in Italia ci sono duecento morti di fame che
lavorano per lui uno, due, tre interi anni).
Ma, dicevo, queste, che sono tutte cose che alimentano il
sottosviluppo, non sono il peggio. Il peggio è il lavoro che la
merce moderna, venuta da fuori, toglie ai lavoratori locali,
bloccandoli sulla strada del progresso, a cui altrimenti sarebbero
spinti dall’emulazione. Già nell’VIII secolo prima di Cristo,
Esiodo ne esaltava l’importanza ai fini della produzione economica. Ma
per gli uomini del sottosviluppo, l’emulazione è divenuta una
spinta velleitaria, economicamente frustrante.
Prendiamo ad esempio un comunissimo bicchiere di vetro infrangibile (o
quasi). Non so quanti ne produca in otto ore di lavoro un operaio
occidentale, ma credo di non sbagliare se sparo una cifra vicina o
superiore a 50.000. Ovviamente, dietro una tale produttività
stanno macchine e impianti, e dietro ancora scoperte scientifiche,
progressi tecnici, conquiste tecnologiche.
In Occidente il prezzo di un bicchiere si aggira intono a 0,50
euro, ma in detto prezzo c’è il ricarico di venditori
benestanti. Altrove presumo il prezzo non superi i 20 centesimi di
euro. A questo prezzo lo compra anche la famiglia appartenente al mondo
quasi povero. Nel Mediterraneo Orientale il vetro ha dietro di
sé più di 2000 anni di storia, quando gli antenati di
Bossi bevevano facendo una coppa con le due mani o nella zucca vuota di
un Bossi antenato. In appresso fabbricarono una coppa di legno, e dopo
ancora una di argilla.
Finalmente impararono da qualche altro popolo a scaldare e fondere i
silicati. Un eritreo del 2004 è ancora allo stesso stadio del
Bossi antenato: non sa impiegare i silicati e non sa fabbricare un
bicchiere di vetro. Tuttavia oggi beve la sua acqua, il suo latte (il
vino no, sarebbe peccato), la sua cacca-cola nei bicchieri di
vetro che noi gli vendiamo. Di conseguenza quelli che prima
fabbricavano coppe di argilla hanno perduto il lavoro.
E hanno perduto valore anche le zucche dei Bossi antenati. Ma non
basta. Anche se gli arretrati avessero i capitali occorrenti per
impiantare una fabbrica di bicchieri, non si metterebbero a
fabbricarli, in quanto sono ben consapevoli che i loro bicchieri non
sarebbero concorrenziali in termini di prezzo e di qualità. Il
folle che si arrischiasse a tentare, fallirebbe il mese
dopo.
La tesi succintamente enunciata ha un riscontro in fatti
noti. Il punto di partenza è la colonizzazione dell’America
centromeridionale, con la rapina dei metalli preziosi da parte dei
conquistatori e il connesso massacro degli aborigeni. Seguono nel tempo
le piantagioni di zucchero, tabacco, cotone etc. che danno luogo a veri
e propri scambi commerciali. A questo punto non è più
necessario ammazzare (in tutti i casi) i nativi, per arricchirsi.
La Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda acquistano prodotti coloniali da
piantatori (europei emigrati), che impiegano manodopera schiavistica a
costo del minimo vitale (e anche a un costo di un minimo mortale).
Le madripatrie pagano con manufatti artigianali, prodotti (in patria)
da liberi lavoratori, o con derrate coloniali portate da altri
continenti (per esempio, il tè di Giava che arriva in America)
da marinai remunerati secondo il livello salariale dei paesi
europei (le famose triangolazioni tra Gran Bretagna, Francia,
Olanda con l’America e con paesi terzi)..
Storicamente il commercio mondiale non ha reso eguale il mondo, anzi ha
degradato a guerra gli scarti epocali, che in passato erano
coperti con l’imitazione e l’emulazione. Gli Usa sono al 2000 dopo
Cristo, ma il Bangladesh è al 2000 avanti Cristo. L’Etiopia
è ancora al tempo degli Etruschi e dei Galli insubri (gli
antenati di Bossi, ma forse meno brutti di lui).
La Spagna e il Portogallo sono al 1965 e il Suditalia al 1830,
allorché Ferdinando II salì sul trono di Napoli. Il
commercio fra paesi che hanno un diverso grado di sviluppo dà
luogo al tipo di scambio sopra esemplificato, che è
incontestabilmente tarato dalla guerra alle altrui produzioni.
Questa disuguaglianza sta nel tempo di lavoro umano che, dove è
aiutato da macchine, attrezzi, impianti altamente tecnologici, si
restringe enormemente. C’è una bella differenza tra l’artigiano
del ‘700 che fabbrica duecento chiodi al giorno e l’operaio di una
fabbrica d’oggi che, con l’ausilio di macchine ad hoc, ne produce
parecchie centinaia di migliaia o forse milioni in otto ore. Il sapere
è certamente lavoro pagato, ma è stato pagato dalle
precedenti generazioni. Le successive pagano soltanto la sua traduzione
in macchine e impianti. Ma i costi storici riemergono come benefici
attuali.
A partire dalla Rivoluzione commerciale, i paesi avanzati vendono con
profitto alle popolazioni non avanzate il sapere scientifico
storicamente incorporato nelle loro merci. Cosicché il sapere
non si trasmette più per via di imitazione, ma già
elaborato in merci da consumare. Cioè brutalmente,
disumanamente.
In questo sistema il Sud italiano figura, contemporaneamente, come
avvantaggiato e come perdente. Come avvantaggiato, in quanto partecipa
allo sfruttamento degli arretrati, beneficiando insieme agli altri
italiani dell’ineguale sviluppo della nazioni. Come perdente
soffre il vincolo della non imitazione. Nello scambio di merci con
l’altra Italia scambia ignoranza contro sapere. Il risultato funesto
è l’inoccupazione di una quota elevata di popolazione in
età lavorativa, allo stesso modo di un paese storicamente in
ritardo di secoli.
Con l’Europa è doveroso andare cauti. L’elemento culturale
più efficiente fra gli europei è l’ingordigia. Fino alla
Rivoluzione industriale, la Civiltà europea non ha avuto,
tecnologicamente, la posizione del primo della classe. La sua
avanzata sulla scena mondiale ha avuto carattere essenzialmente bellico
e militare. Basti pensare alla distruzione delle Città greche
nel Suditalia e in Sicilia; un mondo costretto a tornare indietro
di sei secoli.
Dal momento in cui i romani decidono di sopprimere Archimede –
espressione di una civiltà superiore - al momento in cui
Longino, il servo bruzio di un legionario romano, trafigge
Cristo, passano appena duecento anni. Un popolo che vendeva sapere,
incorporandolo nelle merci, passa a una condizione di servitù e
di barbarie. E si pensi anche ciò che gli Spagnoli
fecero con le civiltà andine e messicane, a ciò che la
Padana, la Francia e la Germania fecero con le Crociate, a ciò
che l’Olanda, la Gran Bretagna e la Francia fecero in Asia,
specialmente contro le più avanzate civiltà cinese
e indiana.
Sicuramente è un fatto genetico, gli allevatori europei sono una
razza di conquistatori abili, agguerriti e regolarmente immorali. Dalla
Spagna alla Russia Bianca, dalla Norvegia all’area toscolaziale, la
storia registra prima la guerra e la conquista, e solo poi il progresso
tecnologico.
Nel campo della produzione, il rapporto tra il Sud e il Nord d’Italia
si è molto degradato dal momento che Francesco II, battuto
ad opera dello stesso padronato siculo-napoletano, lasciò
Napoli. Vinta la resistenza contadina, l’operazione retrocessiva del
Sud è stata condotta consapevolmente dallo Stato nazionale,
costantemente al servizio delle regioni padane (ovviamente, non tutte
egualmente accanite a spolpare risorse). L’ammutolimento delle
popolazioni meridionali fu realizzato con cinque diverse
operazioni e modalità.
Prima e decisiva: il governo sabaudo spossessa i Comuni e la Chiesa
delle terre destinate all’uso promiscuo e, invece che dividerle ai
produttori, le rivende agli stessi meridionali, dando luogo in tal modo
a una forma di neofeudalesimo aquilino, gestito da proprietari
impoveriti dei loro capitali. L’operazione anti-Sud prosegue con
un’esosa fiscalità, in forza della quale il capitale fresco
fluisce verso l’acquisto di terre messe all’asta o spontaneamente
svendute. Partendo da questa fonte, il capitale (che impiega lavoro)
mette le vele verso la Padana.
Secondo: il Sud paga imposte, lo Stato spende una parte di quel che
incassa al Sud, ma lo fa attraverso la mediazione di un personale
politico di tipo clientelare, il quale galleggia o affonda a seconda
che operi positivamente o negativamente a favore della Padana.
Terzo: la banca centrale e tutte le altre banche rischiano risorse
nazionali soltanto con i settori industriali che padroneggiano i
governi. Tali centrali oggi sono a Milano, a Firenze, a Bologna. In
passato ebbero un gran peso anche Genova e Torino.
Quarto: l’industria padanista ha nel Sud un importante sbocco per le
sue merci che, se oggi godono solo di una protezione di tipo
organizzativo, in passato furono ferocemente protette. In ottemperanza
al padanismo istituzionale, l’industria conserviera e pastaia
dell’hinterland napoletano viene strangolata dal sistema bancario, il
quale contemporaneamente ne favorisce la “delocalizzazione” in Emilia.
Quinto. il Sud è un paradiso abitato da diavoli. I sudichi sono
sudici, familisti amorali, mafiosi, clientelari (il bue che chiama
cornuto l’asino), sfaticati, imbroglioni, sporchi, ignoranti,
inaffidabili. Al Sud non ci sono città d’arte, mancano le
strade, i treni sono dei cessi che viaggiano a trenta chilometri l’ora,
il mare è inquinato, il cielo è sporco. I sudici hanno
idee antiquate, le donne vestono di nero, i maschi sono grassi e di
regola impotenti. La gente pratica riti pagani.
Chi riesce a pronunziare tre parole in lingua italiana lo fa in modo
approssimativo e con inflessioni che rendono incomprensibili le parole.
Spesso l’inflessione dialettale è divertente, come nel caso di
De Mita e di Lino Banfi. Guardate a Milano. Lì, sì che
c’è la civiltà. Lì sì che c’è il
Tempio della Musica, che risale al tempo di Orfeo. Lì, si che
c’è il buongoverno, che risale a Maria Teresa, a Giuseppe, a
Caio Gracco, a Gaio Mario e a Giulio Cesare.
Ciò che è stata definita la questione meridionale, e che
in effetti è “la Conquista dell’Impero”, ha una sola
possibile soluzione: rompere in tutto e per tutto, con un bel confine
economico e morale con gli Arlecchini più abili del mondo.
***
Quanto all’Europa unita, nella quale, secondo Larosa e secondo i più, dovremmo restare, ho una personale e radicata diffidenza. Basti questo. Con un’abilissima operazione monetaria, la Banca Centrale Europea ha svalutato i risparmi della povera gente, i salari e le pensioni, e arricchito i commercianti. E’ probabile che all’orifine volesse arricchire le imprese industriali. Ma con il suo liberismo dozzinale, ha inciampato ed ha fatto proprio ciò che non voleva.
La Banca di Francoforte mirava anche a fare dell’euro una moneta buona
per pagare il petrolio alle Sette o più Sorelle, al posto del
dollaro, ma anche qui ha fallito. Bush l’ha bloccata con la guerra in
Iraq. Per giunta gli USA hanno abilmente scatenato i cinesi contro le
produzioni europee. Insomma occidentali ingordi contro occidentali
ingordi: saggezza vorrebbe che noi, che occidentali non siamo
storicamente e culturalmente, ci facessimo da parte. La classe
operaia europea sta andando a carte quarantotto.
Che facciamo? Ai nostri italici guai aggiungiamo il guaio cinese?
Fantasie? Fatti? Chissà!
L’Italia (del Sud, cioè l’Italia storica) e l’Europa sono
alternative e nemiche sin dal tempo in cui i Romani vinsero i Sanniti.
Sono passati i secoli, sono passati i millenni, ma il rapporto tra Sud
e Centronord è sempre quello del genocidio dei sanniti sotto le
mura di Roma.
Storicamente, gli scarti antropologici non si livellano imponendo
a tutti il metabolismo del paese più avanzato. E’ – forse –
inevitabile che il paese più avanzato faccia da modello, in
quanto i suoi abitanti vivono meglio degli altri. Però non
è giusto che il suo metabolismo diventi una specie di Credo
economico a cui il resto del mondo si deve piegare.
Pertanto, a livello teorico e a livello pratico, una difesa del
libero commercio è propriamente una puttanata.
***
Questione monarchica – La forma repubblicana è più avanzata e democratica della forma monarchica? In astratto sembrerebbe, storicamente non so se Hitler fu meglio del Kaiser e se Stalin fu meglio dello Zar Nicola II, se Bush e Ciampi siano meglio del re del Belgio. Il concetto di repubblica troppo spesso è una fumo pestifero messo in circolazione dalla sponda sinistra della filosofia liberale e capitalistica, che sta divorandosi il mondo con i suoi “lumi” imperialistici.
Quel che so di certo è che Ferdinando II e suo figlio Francesco
II furono uomini politici migliori dei liberali napoletani; migliori
per l’intelligenza dei fatti, per l’attaccamento al paese napoletano,
per la capacità d’intuire a cosa avrebbe condotto l’unificazione
italiana.
Comunque sia, un Suditalia indipendente in mano a dei presidenti della
Repubblica partoriti dalla classe politica meridionale, che è
cresciuta nella corruzione italiana, sarebbero dei presidenti
travicello (della corruzione partitica). La democrazia meridionale non
può venire dalla democrazia liberale, ma solo dall’idea dello
Stato per sé. Da uno stato non soggetto ad altri stati.
In una fase storica di genesi politica, l’ipotesi di uno scontro fra
classi e ceti è realistica. Se ciò che avvenne nella
Germania sconfitta, a partire dal 1917/18, e se ciò che avvenne
in Italia a partire dal 1943 fanno testo, allora bisogna pur dire che
la repubblica è foriera di molti pericoli, mentre la monarchia,
persino una monarchia vile come quella sabauda, riesce a mediare i
contrasti.
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