In una di quelle case di cui ora vi ho parlato, la prima domenica di giugno dell'anno 1830 nacqui io da Francesco Crocco Donatello e da Maria Gera di Santo Mauro. Mia madre fu sposa nell'anno io ai miei ricordi, mia madre aveva dato alla luce cinque figli cioè Donato, Carmine, che sono io. Rosina, Antonio, e Marco; il sesto era per venire al mondo, quando Iddio invidioso della nostra felicità, incominciò a flagellarci.
Ora voglio raccontare quale era la felicità d'una famiglia povera.
Mio padre era pastore e contadino; quando prese moglie si divise da suo padre, comprò poche pecore e alcune capre, e, tolto in affitto un pezzo di terra da una famiglia patrizia, cominciò a seminare grano, legumi, formentone e qualche poco di canapa. Col suo lavoro quotidiano ricavava tanto da pagare il fitto al padrone e provvedere al vitto della famiglia, mentre colle capre e colle pecore guadagnava altra moneta per far fronte alle spese di casa. Mia madre aveva ereditato un tumolo di terra, piantata a vigna, la quale era la delizia di noi creature; possedeva pure due casupole ed esercitava il mestiere di scardar lana, con cui lucrava il pane per sé e pei figli.
Sia mio padre che mia madre, che Iddio li abbia in pace, non ci lasciavano mancare nulla. Bello era al mattino quando mio padre apriva l'ovile e le capre usavano all'aperto, saltellando per nutriti pascoli, mentre noi bambini scorazzando uniti, andavamo a gara in cerca di fiori per portare alla mamma.
E mia madre quanta bontà nei suoi sguardi pieni di affetto, quanto amore nelle sue cure, quanta assidua volontà di lavoro! Si alzava all'alba, preparava la bisaccia del marito, rassettava la casa, curava i figli e poscia con faticosa lena si dava al lavoro, sicura di guadagnare i suoi 40 centesimi prima del tramonto. Quanta pazienza deve avere una madre nell'allevare i suoi figli! Il bimbo piange, strilla a più non posso e la mamma fa tutti i tentativi per tranquillizzarlo e spesso non vi riesce; gli da la poppa, no; gli da del pane, lo butta; gli da il balocco, 10 rompe; lo pone a sedere per terra, si rotola nel fango; lo corica nella culla, si butta giù, e la mamma pazienza, lo bacia, lo vince coll'amore. Eppure ho inteso da certi uomini dire: «Eh sono femmine e basta!»quale disprezzo massimo per le donne. Taci fellone: la femmina è la madre dell'uomo, la femmina è la moglie dell'uomo, senza di essa non vi è vita.
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Fotomontaggio
- Carmine Crocco dinanzi alla casa paterna
(Ringraziamo l'amico e
collaboratore FDV per averci fornito la foto) |
La femmina è la figlia dell'uomo senza di essa non vi è padre contento; e finalmente la femmina è sorella dell'uomo e senza di essa non vi è fratello contento, ne famiglia contenta. Pensa a quanto scrisse Guerrazzi: «rispettare la donna poiché sua madre fu tale» e se questo rispetto non senti profondamente in tè, impugna l'aratro e zappa la terra, tu non meriti sorte migliore.
Io sentivo per mia madre un'affezione così potente e così forte, che nei momenti di maggior orgasmo la sua memoria era sprone all'ardire ed all'audacia ed essa mi appariva col suo sguardo fiero e mi fissava vivamente in viso, come per dirmi : «colpisci, vendicami, altri non ebbero pietà di me, di tuo padre, di tua sorella!». Ed ora dopo tanti anni vi ripeto che quel figlio che ha la sorte di nascere da una virtuosa madre, dessa avendo ricevuto il minimo oltraggio da un uomo prepotente, se non prende vendetta, egli è un codardo, un uomo dappoco.
Dunque io che nascendo, ho creduto che sulla terra ero qualche cosa, per un oltraggio fatto alla mia povera madre, mi sono accinto a fare scorrere torrenti di sangue, e vi sono riuscito a meraviglia!... Perdona lo sfogo di un animo addolorato, mio caro lettore, e sii meco cortese, favorisci con me e andiamo a casa mia. Quivi non sperar di trovare sofà, comò, tavolini, poltrone ed altri oggetti, non dico di lusso ma di comodo.
Sono due casupole annerite dal tempo e più ancora dal fumo; una serve da fienile e da stalla per le bestie, nell'altra dormiamo noi. Vedi quel misero letto sostenuto da assicelle fradicie e cavalletti arrugginiti? Là dorme la sorella piccina; e nella culla, sospesa sul letto e fabbricata con pochi vimini e molta paglia, dorme l'ultimo nato, Marco di pochi mesi. Eccoti mia madre che si strugge a scardar lana, osserva come è tutta unta e bisunta di olio.
Guarda quel cassone affumicato, contiene segala, formentone, fave, piselli e un poco di grano con cui fare il pane bianco quando Iddio ci castiga colle malattie. È il raccolto fatto da mio padre. Dio sa quanto sudore versò per pochi legumi!
Alza il tuo sguardo al soffitto, vedi quei travi come sono anneriti dal fumo ed i muri carichi di fuligine?
Senti il tanfo della capre, delle pecore, dei conigli, dei polli?
Che ne dici?
Sul davanzale d'una finta finestra stanno gli utensili di cucina, pignatte, tegami e piatti di creta, cucchiai di legno, una pentola di rame, ecco tutto. Approfitto della tua bontà e t'invito a sedere su queste scranne di legno, fatti a colpi di scure da mio padre, cosi avrò il piacere di presentarti mio zio Martino, il mio maestro di scuola. Egli è un vecchio sergente maggiore d'artiglieria ed all'assedio di Saragozza in Spagna perde la gamba sinistra portata via da una palla di cannone; egli è nato qui.
Vi è un altro vecchio che ebbe il braccio mozzato da un ulano ed ora quel povero uomo vive di elemosina, perché il governo borbonico non ha riconosciuta la miserabile pensione avuta da Gioacchino Murat. Poco oltre vi è un altro vecchio cieco; perde la vista alla Beresina, ed ora vive cantando verbum caro. Ma di grazia tu sei qui venuto per saper tutt'altro e non per sentir parlare di un zoppo, d'un monco e di un cieco.
Ma io voglio con ciò conchiudere che i Governi, generalmente parlando, non guardano mai dove nascono i figli della miseria, ne come essi fanno a vivere, ne si occupano in un modo qualunque onde alleviare in qualche maniera la miseria e toglierli dall'ignoranza. Invece li cercano quando son fatti uomini capaci di vivere da sé e porgere qualche sollievo ai vecchi genitori; allora ecco il signor governo, senza dimenticarne uno solo, se li prende come sua proprietà e ne fa quello che gli pare e piace.
Il pretesto è bello, la Patria, la Legge, la prima è una puttana, la seconda peggio ancora.
E Patria e Legge hanno diritti e non doveri e vogliono il sangue dei figli della miseria. Ma vi è forse una legge eguale per tutti? Non dirmi ciò, non parlare di questo gigante mostruoso, poiché conosco che la legge leale non è mai esistita, ne esisterà fin tanto che Iddio non ci sterminerà tutti. L'innocente. mio padre non trovò ne la legge ne la giustizia; la trovò invece Don Vincenzo C... assassino di mia madre.
Riguardo a me non detesto ne la legge ne il governo, anzi sono loro debitore della vita, ma ripeto quello che Mastrogianni e Victor Hugo scrissero: «Lasciatelo vivere nella miseria e nell'infamia!!!». Ed eccomi alle cause per le quali scaturì la scintilla che doveva dal 1860 al '64 esser causa di tanto sangue nelle Puglie ed in Basilicata.
Siamo al 1836, un bel mattino del mese di aprile, Donato, mio fratello maggiore ed io eravamo tornati dalla scuola dello Zio Martino. Pochi minuti dopo entrati in casa Donato fu mandato a raccogliere l'erba per i conigli, io a comprar del sale per la cucina. Ratti come l'ape corremmo uno a levante, l'altro a ponente ed un quarto d'ora dopo eravamo di ritorno; avendo fatto ognuno il proprio dovere per bene, non ci furono busse, poiché al piccolo sbaglio correvano schiaffi e scappellotti. Per me' le busse della mamma erano tanto saporite che qualche volta per averne sbagliavo appositamente.
Venne l'ora del pranzo e seduti attorno ad un tavolo con un gran scodellone di minestra fumante ci ponemmo a mangiare, mentre la mamma dava il latte al suo figliuoletto. Questo gruppo, che nella miseria era pur felice, fece invidia a Satana, che volle guastarlo e per sempre; in un altro cantuccio della stanzetta eravi un altro gruppo felice di bestioline, conigli e galline che mangiavano l'erba portata da Donato, e il Diavolo, forse geloso anche delle bestie, volle turbare quella felicità; anzi si servì di quelle bestie per portare la sventura in casa nostra..
Inaspettatamente un magnifico cane levriero entrò con un salto nella nostra stanza ed afferrato un coniglio se ne fuggìfuori. A quella vista noi piccini cominciammo a strillare ed uscimmo fuori per togliere la preda a quella bestia, che veniva a turbare la nostra gioia, ma pur troppo il coniglio non fu lasciato che morto. Donato, che era corso ad armarsi di un randello, assestò un formidabile colpo sulla testa del cane, ed il magnifico levriero cadde morto sul colpo.
Disgrazia volle che questo cane appartenesse ad un ricco signore, certo Vincenzo C... il quale non vedendo presso di sé la sua bestia tomo sui suoi passi e trovatala morta sul limitare della casa nostra, scagliò all'indirizzo di mia. madre un milione di vituperi, e col frustino cominciò a picchiare noi di santa ragione. Mia madre cercava scusa, perdono, invocava pietà, ma era tutto fiato sprecato, che l'altro, il signorotto, volendo assolutamente sapere chi aveva ucciso il cane, continuava a tempestar di pugni il povero Donato, tenendolo fermo per un braccio.
Allora mia madre vedendo flagellare suo figlio, corse in sua difesa; posò il piccino, che aveva in braccio, per terra e si scagliò furibonda verso quell'aguzzino, ma lo scellerato imbestialito le assestò un vigoroso calcio nel ventre, che la fece cadere semiviva per terra. L'uomo brutale, dopo che ha commesso il delitto, dopo di aver dato sfogo all'infame sua rabbia, piange come il più vile degli esseri.
Cosi fu per Don Vincenzo. Dopo aver quasi uccisa una donna incinta di 5 mesi, si chiuse nella sua camera, e incominciò a piangere. Egli piangeva non per paura della legge, per timore della giustizia, di una condanna, che a noi poveri sarebbe toccata di certo; egli ben sapeva che la giustizia abita milioni e milioni di metri lontana dalle case dei ricchi e dei potenti, ma piangeva per l'onta e per il rimorso.
Corsero i parenti spaventati, venne il medico, ma mia madre non rinveniva; come Dio volle aprì gli occhi. Ma sarebbe stato meglio non li avesse aperti mai! Dall'aprile del 1836 al maggio 1839 la povera donna fu costretta a guardare il letto.
Chi può dire quante lacrime spargemmo noi cinque creature, il più grande ottenne, il più piccolo di due anni! Chi pensava più a noi? Chi ci puliva, pettinava, rassettava i panni? Chi ci accarezzava? Oh quante volte ho sospirato gli amorosi scappellotti della mamma! Mio padre non poteva lasciare il lavoro, che saremmo morti di fame.
Una zia ladra e ghiottona ebbe l'incarico della casa; essa rubava tutto ciò che le capitava sottomano, divorava quello che trovava di buono, lasciando per noi la roba fradicia e puzzolente. Addio scuole, addio zio Martino, parenti, compagni, amici, addio tutti! Disperazione e miseria sono con noi. La morte ed il carcere è serbata ai miseri! Eppure abbiamo un padrone in cielo, Iddio, un signore in terra, il Re: in quei tempi avevamo Francesco II per Re, Maria Cristina per Regina; la santa ed il Re buono dei Napoletani; ma essi pensavano alle feste ed alla gloria, mentre, noi morivamo di fame.
Dopo un faticoso aborto mia madre parve migliorare, e si fu allora che il padre mio partì per Venosa, alla dipendenza dei signori Santangelo per tosare le pecore e mietere campi di grano.
Don Vincenzo C... l'assassino della mia madre, chiuso nel suo palazzo aveva frattanto pensato al pericolo di una vendetta e, prudentemente, era riuscito ad ottenere che mio padre venisse cassato dal ruolo delle guardie urbane, in conseguenza di che gli fu tolto il fucile.
Ma Iddio non paga il sabato; un bei mattino Don Vincenzo, tutto solo si recò in campagna caracollando un superbo morello. Era armato come un cavaliere antico: pistole all'arcione, fucile a bandoliera, pugnale. Ma con tutto ciò prima di arrivare al punto detto La Torre, a tre miglia circa da Rionero, fu accolto da una fucilata, che lo fece ruzzolare insanguinato a terra.
Un altro uomo vegliava sopra di lui ed informato precisamente di quella gita da una spia di casa, misurando luogo, tempo, ebbe agio di dar sfogo al suo odio, quasi certo dell'impunità, poichéegli ben sapeva che la colpa del mancato assassinio non sarebbe caduta su di lui, ma su un altro che egli infamemente a mezzo di vigliacche e false testimonianze avrebbe indicato alla giustizia degli uomini.
Disgraziatamente la mano del vile tremava, forse non per l'assassinio che egli si accingeva compiere, ma per la falsa denunzia colla quale preparava la condanna d'un innocente; e fu cosi che la palla sfiorò la fronte di Don Vincenzo C... portandogli via una ciocca di capelli.
Il tentato assassinio di Don Vincenzo doveva essere punito anche a rischio di far vittime innocenti; bisognava assicurare i rei alla giustizia, od almeno fare qualche arresto, anzi molti arresti, per far vedere che gli sgherri del generale Del Carretto, non se ne stavano colle mani nella cintola. Chi credete che sia stata la prima persona arrestata? Mio padre! Sì, si proprio mio padre, il quale nell'ora del misfatto si trovava a Venosa, in casa di Don Felice Santangelo, a nove miglia da Rionero.
Non valsero le dichiarazioni dei suoi padroni di Venosa, ne le testimonianze di ventotto persone di specchiata probità che lavoravano assieme a mio padre; la causa a delinquere era così evidente, così naturale in lui, che niuna testimonianza poteva distruggere la convinzione ch'egli fosse l'assassino materiale e cosi Francesco Donatello posto in nudo carcere. venne sottoposto a procedimento penale.
Con mio padre vennero pure arrestati altri cinque poveri diavoli, carichi di numerosa famiglia contro i quali la polizia aveva trovato una lontana ragione a delinquere contro Don Vincenzo. E con queste causali ne avrebbero dovuti arrestare parecchi altri, poiché la prepotenza eccessiva del signorotto era tale, che egli aveva questionato con tutti i contadini del luogo, ora per ragioni di passaggio, ora per derivazione di acque, ora pel pagamento degli affitti, per la divisione del raccolto ecc.
E pensare che quei severi giudici fantasticando sulle cause del delitto non ricordavano il famoso detto «Cherchez la femme!». Sicuro, proprio la donna, una druda di Don Vincenzo era stata la mandante. E quante lacrime per quella lurida femminaccia.
Chi può considerare il dolore di un uomo innocente posto in carcere, con pericolo di cadere in mano del boia. Il reo non ha dolore poiché la sua coscienza si cheta e per lo più diciamo: ho mancato e soffro un castigo che mi sono meritato; ma l'innocente non ha requie, l'innocente non sa darsi pace della libertà perduta, dell'infamia che copre il suo nome, e piange, maledice, impreca... ma tutto invano.
La prigionia di mio padre ebbe il contraccolpo nella malandata salute di mia madre. Quando la povera donna seppe dell'arresto del marito restò pietrificata, non volle più prender cibo ed in breve smarrì la ragione. Una volta piangeva, poco dopo rideva, ora si buttava giù dal letto, ora tentava uscir sulla strada in camicia, distruggeva tutto ciò che le capitava nelle mani, e guai a noi se le andavamo vicini, minacciava strozzarci. L'unica persona che potesse avvicinarla e che esercitava su di lei un ascendente era suo fratello, il quale però aveva una nidiata di figli e più che a mia madre doveva attendere a zappare la terra per dar da mangiare alla famiglia.
Mio padre dal carcere di Potenza scriveva lettere strazianti, raccomandava ai parenti, agli amici la moglie, i figli, ma intanto il piccolo patrimonio nostro andava liquidandosi e la più squallida miseria in breve battè alla porta di casa nostra.
Lo zio, il fratello di mia madre, riunì a consiglio tutti i parenti, e fu deciso che la sorella Rosina se ne andrebbe con la zia materna. Antonio andò in casa di uno zio paterno e morì poco dopo bruciato vivo; Marco, il più piccolo, capitò sotto le unghie di quella zia ladra che durante la malattia della povera mamma, si era rubato ogni cosa. Etonato andò a pastorare le pecore presso un signore, ed io seguii la sorte del fratello presso altro signore in-Puglia.
Lontano dal mio paese, da mia madre pazza, da mio padre carcerato, io crebbi conducendo al pascolo armenti, crebbi col veleno nel cuore, colla rabbia nell'animo, col vivo desiderio di offendere...
Dal capitolo II dell'Autobiografia
Nell'anno 1845 il caso volle che io salvassi dalle acque dell'Ofanto certo Giovanni Aquilecchia di Atella, persona facoltosa, che, mi ricompensò, dell'atto da me compiuto, con 50 scudi.
Quella somma rappresentava un tesoro per me, avvezzo a guadagnare due lire al mese; mi credetti ricco, onde dato un addio alle mie pecore ed alle fertili pianure pugliesi decisi partire per Rionero. Ero assente da casa da oltre 5 anni e mi pullulavano nell'animo tanti e svariati pensieri che il ricordo dei cari genitori ebbe un'attrazione potentissima.
Mio padre aveva esercitato su di me un ascendente morale potentissimo, io non potevo comprendere com'egli uomo gagliardo e forte si fosse così volenterosamente assoggettato alle ingiustizie sociali e avesse accettato sommesso e tranquillo tutti gli insulti più crudeli, che la giustizia degli uomini gli aveva infamemente gettati sul viso. Francamente parlando dirò che l'idea predominante in me era quella di vincere l'animo di mio padre, di indurlo a scuotere il giogo della servitù, toglierà tutti dalla condizione di umilissimi pastori e tentar fortuna.
Il lavoro non mi faceva paura, mi sentivo sano e vegeto, ero avvezzo ai disagi, per cui avrei faticato volentieri tutto il giorno pur di coltivare col tempo un pezzo di terreno che fosse mio.
Ma purtroppo io non ero nato per zappare il suolo, a me non spettava la gioia dell'uomo onesto; il serpentello della povera pazza doveva da vero rettile schifoso avvelenare la sua e migliala di esistenze e così purtroppo fu.
Ed ora che nella solitudine del carcere penso al passato e cerco colla mente scoprire come mai io, nato poverissimo, abbia di poi, col crescere della ragione saputo vincere questa smisurata tendenza a voler prevalere, a voler essere qualche cosa, sia pure un grande infame, ne attribuisco la causa a ragioni diverse.
Prima e principalissima è stata quella poca istruzione che lo zio Martino con religiosa pazienza seppe impartirmi. E come nel regno dei ciechi lo sguercio è considerato signore, così io mescolato fra tanta plebe rozza e analfabeta, io che sapevo scrivere una lettera, che facevo versi all'innamorata, mi sentii sommamente a loro superiore.
La vita nomade condotta da fanciullo quale guardiano di cavalli, contribuì in non poca guisa a sviluppare in me il germe della grandezza.
Girando per le fiere avevo visitato Bari, Barletta, Andria, Altamura, Foggia, Gravina, Cerignola, quindi avevo appreso che il mondo, che la vita non era racchiusa tra i confini del Vulture e le boscaglie di Monticchio. Nei contratti di vendita che si stipulavano quotidianamente vedevo le monete d'oro correre di mano in mano, ed i miei padroni aumentare il già pingue patrimonio, senza una fatica al mondo anzi standosene seduti all'ombra nelle ville loro; e pensavo al perché fosse a loro riservata tanta fortuna, e miseria per noi che eravamo i soli a lavorare.
Aggiungi a tutto ciò un animo ulcerato dalle sventure di famiglia e non sarà difficile renderti ragione come abbia di poi trasmodato in tanta guisa, rendendomi col tempo celebre non per virtù e per bene ma per infamia e per male.
Mio padre fu sordo alle mie proposte; mostrandomi praticamente come egli fosse felice nella sua miseria, cercò calmare i miei istinti di grandezza e mi consigliò a mantenermi modesto e lavoratore.
Lo lasciai al suo podere o meglio al podere del suo padrone e di comune accordo decidemmo che io sarei ritornato in Rionero a cercar lavoro conducendo meco la sorella Rosina.
Quivi vissi felice un po' di tempo lavorando il terreno di un proprietario certo Don Biagio Lo Vaglio. Alla masseria di questo signore benefico e buono vi erano numerose famiglie di contadini, i quali conoscendo le sventure della mia famiglia mi colmarono di gentilezze e di bontà. D fattore, Marco Consiglio, mi assegnò la quota di terreno n. 85, un paio di buoi, la stalla n. 5, l'aratro e gli strumenti da lavoro, e mi accolse quale figlio.
In breve colla volontà e coll'assiduo lavoro m'impratichii nell'arte di agricoltura e potei dedicarmi da solo a coltivare la mia quota.
Nel primo anno il raccolto fu fecondo ed il ben di Dio compensò il mio sudore. Grano, granone, piselli, ceci, fagiuoli, patate, zucche, pomidoro, erano così abbondanti che io non sapevo dove metterli. Oh terra, madre feconda!... perciò Iddio mandò Adamo lo fece contadino e non Rè! Fatto il raccolto, pagato il fitto ed il pedaggio dei bovi, trovai che avevo guadagnato due lire al giorno, mentre prima, dall'altro padrone, ricevevo 36 centesimi e dovevo lavorare il triplo e, quello che peggio, ero schiavo notte e giorno.
Io ero felice e contento e più di me la mia sorella Resina che da piccola massaia mi teneva la casa in ordine perfetto. Alla sera ci riunivamo in parecchie famiglie in una stalla a sentir le storie che ci raccontavano i vecchi. Ricordo un bei tipo settuagenario, ancora vegeto e robusto, che sapendo scarabocchiare il suo nome, voleva passare assolutamente per scienziato, e guai a contrariarlo.
Egli ci parlava dei tempi della repubblica e affermava di aver preso parte alla caduta di Vienna, alla presa di Berlino, alla battaglia di Iena e alla ritirata di Mosca. Aveva memoria ferrea e ricordava fatti storici avvenuti sotto il governo di Giuseppe Bonaparte e sotto quello di Gioacchino Murat e del brigantaggio al tempo del Cardinale Ruffo.
Dopo il racconto di scene brigantesche commesse dai numerosi capibanda, dal Vandarelli di Foggia al Fra Diavolo di Itri, da Talarico a Taccone, quel vecchio sagace ci ammaestrava dicendo: «Figliuoli miei cercate di essere sempre buoni, con la legge, coi superiori, coi signori; fuggite i cattivi compagni, fate del bene quando potete, così facendo godrete libertà e stima e sarete sempre uomini dabbene, che pur essendo poveri, servendo onestamente, si tira avanti la vita e Iddio provvede a tutto. Vedete figliuoli miei io sono più contento di mangiare ghiande cotte sotto la cenere, che polli e capponi di provenienza furtiva, e vi dico sopra il Vangelo, che vale più un carlino stentato col sudore della propria fronte, che centomila ducati rubati».
Ah, povero vecchio, poteva mai supporre, che colui che gli era vicino, e che di tanto in tanto gli porgeva da bere, era appunto quello che doveva l'innovellare le scene luttuose e nefande di Fra Diavolo e del Vandarelli! E non per una sera soltanto io ascoltai quei patemi consigli e sentii quel vecchio ripetere il ritornello: «Fate bene ed avrete bene». Io da quei racconti appresi il bene ed il male; finché la partita mia si mantenne nel bene fui buono anch'io, quando poi fui urtato dal male, adoperai il cattivo e di peggio divenni il serpente mostruoso.
Non credere però che Carmine Donatello Crocco sia veramente un ladro ed un assassino, o come taluni credono un funesto soggetto; niente di tutto ciò. La mia ferocia si riduce alla difesa personale ed essendo di complessione forte, di pronta percezione, di acuto intendimento e di lesta mano, un secondo di tempo che l'avversario mi concedeva, egli era cadavere, con qualunque arma, fosse pure a sassate. Del resto, amante della quiete, della pace, dell'ubbidienza, del rispetto dovuto al superiore, alla legge, pronto a soccorrere il mio simile, io non cercai mai litigi, ma... guai a chi mi stuzzicava.
Sono 25 anni che sono rinchiuso in case di pena, non ho mai questionato con alcuno ed avrò divisi un paio di centinaia di rissanti che senza di me avrebbero sparso sangue. Ma torniamo alla storia e con essa ai bei anni di mia giovinezza.
Nella masseria del signor Lo Vaglio lavoravo un mattino del maggio 1847 ad arare terreno, quando un giovanotto di famiglia nobile, montato sopra un superbo cavallo ed accompagnato da una diecina di bracchi, mi passò poco distante.
Fermai l'aratro ed appoggiato il braccio a tergo in atto di riposo fissai quel giovanotto che avanzava verso di me; un mio compagno di lavoro vedendomi in quella posizione di ozio, passandomi vicino mi disse: «Tocca giovinetto, che fa notte, non perder tempo a guardare il figlio di quel scellerato Don Vincenzo C..., ti potrebbe capitar sventura, per quanto si dica eh 'egli non sia come suo padre brutale malvagio». «Ed io, caro zio Matteo, risposi, voglio attenderlo per dargli una lezione, che se poi non si accontenta, gliene darò una seconda che sarà soverchia».
Quel giovanotto, come ben ricorderai o lettore, era il figlio dell'assassino di miamadre; immaginati il mio stato d'animo in quel momento.
Quando fu alla mia portata mi diressi a lui e con voce alterata esclamai: «Ehi pertichino, chiama a tè i cani, altrimenti...»; con questa frase io speravo .provocare la sua collera, dar luogo ad un litigio, per freddarlo di poi con una fucilata e dire, e uno, ma Iddio non volle.
Il giovine patrizio fermò il cavallo, smontò, chiamò a sé i cani, poi venne alla mia volta e mi salutò domandandomi perché gli avevo detto di chiamare i cani, e se questi arrecavano danno.
«Sicuramente signor Don Ferdinandino, risposi io, poiché essendo il grano in fiore, dove mette piede il cane, rompe il tenero stelo e la spiga va perduta, e ciò a tutto danno nostro poiché il padrone di danni non vuoi saperne e sull'aia si paga colla misura».
«Vi assicuro che non sapevo ciò, soggiunse il Signorino, e vi ringrazio della lezione, di grazia come vi chiamate bel giovinetto?».
«Sono Carmine Donatello Crocco per servire vostra signoria».
Il signorotto montò a cavallo e partì di galoppo; verso sera venne da me certo Vito De Feo, massaro di pecore alla fattoria La Torre, pregandomi di favorire dal signorino Ferdinandino C... che aveva bisogno di parlarmi. Non volevo si potesse lontanamente supporre ch'io avessi paura, onde indossai la giacca, mi assicurai che vi fosse il coltello ed in compagnia di compare Vito mi avviai alla Torre.
Fui ricevuto come non credevo, un bicchierino di rosolio, dei biscotti di Francia, un sigaro avana ed invitato a sedere su d'una comodissima poltrona. Don Ferdinando portò il discorso sulle disgrazie di mia famiglia facendomi diverse domande; per tutta risposta gli presentai un manoscritto nel quale era per filo e per segno narrata la storia delle nostre sventure. Il Signorino lesse e senza dimostrarsi contrariato mi disse:
«Ieri avete cercato adunque di provocarmi?».
«Se vostra signoria ieri adoperava il frustino come soleva fare vostro padre, risposi, vi avrei data una fucilata; dopo avrei preso il vostro cavallo, mi sarei recato da mio padre, e seco lui avrei fatto giustizia di tutti i testimoni che vennero a dire il falso contro mio padre».
Il Signorino parlò a lungo, disse che le colpe dei padri non devono cadere sul capo dei figli; mi assicurò ch'era disposto a soccorrere tutte le vittime di suo padre, a cominciare dalla mia famiglia, e mi offrì il posto di fattore in una sua masseria. Ringraziai, ricusando il posto di fattore ed accontentandomi di avere in affitto tre tumoli di terra, coi quali speravo guadagnare i duecento scudi necessari per esimermi dal servizio militare. Il Signorino voleva a tutti i costi offrirmi in regalo la somma per l'esenzione del servizio, ma rifiutai, pregandolo di offrirmi quanto mi sarebbe mancato al momento della leva.
Così rimanemmo intesi ed io me ne tomai a casa pieno di entusiasmo per Don Ferdinandino e lieto di speranze per me. Ma il destino mi era contrario. Il giovane patrizio essendo immischiato nei partiti politici, nella rivoluzione del 15 maggio 1848, in Napoli fu trucidato dagli svizzeri mercenari sotto il palazzo del Duca di Gravina, e mancandomi il suo appoggio e conseguentemente i duecento scudi, dovetti recarmi alle bandiere. Eccomi soldato di Ferdinando II; partii da Potenza il 19 marzo 1849, arrivai a Napoli il 26, ammesso al I reggimento d'artiglieria.
Il 24 giugno andai a raggiungere la mia compagnia di sede a Palermo.
Il servizio militare mi era simpatico, e non mi pareva pesante; quello che non potevo soffrire era il vedere quasi tutti i giorni bastonare i compagni, che per non essere attenti cadevano in qualche mancanza disciplinare. In quanto a me abituato al duro tratto dei castaldi pugliesi, la disciplina rigida e severa non mi spaventava. Sulle prime piangevo pensando al paese, agli amici, alla fidanzata (che si scordò subito di me sposando un altro, che poi io le tolsi per farlo brigante); ma grado a grado mi abituai e fui ottimo soldato di rara condotta, come risulta dai ruoli matricolari del I reggimento artiglieria, 2^ compagnia.
Il 16 dicembre 1851 partii da Palermo ed il 18 stesso mese giunsi a Gaeta mia nuova guarnigione, ove mi trovai meglio essendo meno lontano da' miei cari. Mia sorella aveva frattanto raggiunto i suoi 18 anni. Era di statura giusta, di complessione snella, aveva la testa coperta da una selva di biondi capelli, mento ovale, occhi neri, naso e bocca giusti, viso tondo, petto largo e gonfio.
La poveretta senza padre e senza madre, lontani, separata dal fratello, soldato, campava lavorando 14 ore al giorno, ed era felice nella sua miseria. Carattere fiero, ma indole amorosa, non era rimasta indifferente alle proteste d'amore di un suo coetaneo contadino, onde di tanto in tanto canterellava : ... palombella che zompa e vola nelle braccia di Nenna mia...
Ma un giorno una donna infame, una mezzana, certa Rosa... con finta ipocrisia e falsa affezione cercò insinuarsi nell'animo vergine della pastorella e quando credette il momento le propose il turpe mercato con un signorotto certo Don Peppino C...
N'ebbe in risposta una rasoiata in viso, equo compenso all'iniquo mestiere.
La sfregiata nascose la sua ferita, mia sorella fuggì in casa dei parenti chiamando loro in protezione ed aiuto. Stavano così le cose quando ricevetti da Rionero lettera colla quale mi si narrava l'accaduto.
Lascio alle persone di cuore il considerare quale fosse lo stato dell'animo mio nel leggere quella lettera, quale tempesta agitò il mio cuore. Un disonesto ci aveva trascinati nella miseria e alla disperazione, un altro della stessa specie, di una casa infame (poiché sei fratelli avevano cadauno la propria ganza, consapevole la madre, anzi questa serviva da mezzana) voleva toglierci l'onore e la reputazione. Non potendo più tollerare tanta iniquità sodale, mi frullò nelle vene quel sangue inacidito che da fanciullo aveva cominciato a guastarsi. Una voce mi gridò:
«Ah non ti ricordi che da piccolo era qualche cosa sulla terra, è ormai tempo di metterti all'opera e di finire una volta di essere vile».
Avevo da tempo in sospeso una quistione di onore : mi liberai di quel tale che da tanti giorni mi era d'impaccio, poscia strisciando al suolo come un serpente, per Mola, Caserta, Avelline, giunsi alla casa di mia sorella in Rionero.
A notte fatta bussai alla porta.
«Chi è» domandò una timida vocina.
«Aprimi Nezza mia, sono io» risposi commosso.
«Tu qui a quest'ora Carminuccio! Che facesti, fuggi, faggi subito per carità; la notizia del tuo delitto è giunta fra noi, ieri Don Luigi me ne fece parola; hai ucciso un tuo compagno vero?».
In quel momento ebbi paura, abbracciai e baciai la mia diletta sorella, la consigliai a mantenersi onesta e poscia uscii sulla via.
Don Peppino il bellimbusto che aveva mercanteggiato l'onore di mia sorella, faceva vita scioperata al Circolo, ove ogni sera si giocava impunemente all'azzardo. Rincantucciato in un angolo oscuro presso la porta di casa sua, attesi tranquillo la vittima; un buon colpo di pugnale punì l'audacia di quel libertino.
Compiuta la vendetta mi diedi alla campagna ove in breve ebbi a compagni di mestiere altri tré individui, essi pure ricercati dalla giustizia.
Nascosti nel più fitto delle boscaglie, noi si aggrediva chi ci capitava limitando le nostre imprese a svaligiare i viandanti, rubar loro coi denari i cavalli.
Capitato nelle mani degli sgherri di Del Carretto fui condannato a grave pena e mandato al bagno penale.
Dal capitolo III dell'Autobiografia
Le vittorie di Garibaldi ebbero per effetto di far insorgere i cosiddetti liberali della Basilicata; i comitati segreti che facevano capo a Corleto avevano da tempo preparato le popolazioni a insorgere contro il mal governo borbonico, per cui in tutti i paesi era un tacito affaccendarsi a prontar armi, a fabbricar cartucce per essere pronti a menar le mani nel momento designato.
Credetti giunto il momento della mia riabilitazione morale. Condannato a grave pena per aver ucciso un vile, che aveva cercato di disonorare l'unica mia sorella, io aveva coll'astuzia e colla forza, vinta là continua persecuzione dei gendarmi, guadagnandomi la libertà con altro sangue, la vita con rapine ed aggressioni.
Sotto un governo nuovo, da tutti proclamato liberale, nel trambusto d'una rivoluzione generale, in momenti di entusiasmo e di giubilo, io speravo sorgere a vita nuova, riacquistare quella libertà perduta, per l'onore della famiglia, onde approfittando dei moti popolari mi mescolai cogl'insorti di Rionero e con essi presi parte al moto rivoluzionario.
Non la mia povera penna deve descrivere la storia dell'insurrezione della Basilicata, altri che sono dotti e letterati avranno in proposito scritti volumi, che a me non fu e. non sarà dato di leggere, posso però con sicura coscienza affermare che in quei giorni non commisi atti disonesti ho fatto sempre e dovunque il mio dovere, mostrandomi audace ed intrepido nei momenti di maggior pericolo.
Premeva a me riabilitarmi specialmente di fronte ai paesani, e far vedere ch'ero pronto a dare il sangue mio per l'idea liberale, cercavo tutti i mezzi per distinguermi e così avere persone che potessero a tempo opportuno testimoniare in mio favore. Ma era scritto ch'io non avessi pace mai; mia madre mi aveva profetizzato serpente, ed io da rettile velenoso dovevo avvelenare il mio paese, la mia bella regione e rendermi celebre per atti briganteschi.
Le spie che avevano servito S. M. Francesco II, cambiando bandiera non cambiarono mestiere; i parenti di D. Vincenzo C... ebbero paura che la mia presenza in Rionero potesse portare danno alla tranquillità delle loro famiglie; i fratelli del signorotto, da me ucciso perché cercava sedurre mia sorella, si unirono anch'essi agli altri e tutti uniti vollero la mia rovina.
Vivevo tranquillo in paese da due mesi, sicuro di avere ottenuto una tacita grazia pei delitti prima compiuti, quando nel novembre 1860 fui segretamente avvertito, esservi per me un mandato d'arresto, spiccato dalla regia autorità giudiziaria.
Compresi il pericolo che mi minacciava e senza por tempo in mezzo mi salvai, dandomi alla campagna. Ormai in me non rimaneva che odio e desiderio di sangue, mi ero cullato nella speranza di una riabilitazione, che forse, dato i miei istinti, sarebbe venuta meno da sé più tardi; essa invece venne troncata, non per causa mia ma per la infamia dei miei nemici, per cui crebbe in me il desiderio di vendetta e con esso il bisogno di vivere.
Mi unii con altri, che si trovavano presso a poco nelle mie condizioni, e, scelto per dimora la foresta di Monticchio, armato di fucile iniziai le nuove gesta colle aggressioni di viandanti.
La mancanza assoluta di soldati, lo scarso servizio fatto dalle guardie civiche, ci resero in breve temerari e baldanzosi, offrendoci mezzo ai ricchi sequestri, a taglie onerose, a guadagni abbondanti.
Protetto dal terreno eminentemente boschivo, aiutato dai pastori e dai boscaiuoli del luogo, gente derelitta che traeva un'esistenza miserissima, la mia piccola banda crebbe di numero reclutando i fuggitivi delle patrie galere, i contumaci alla giustizia, i molti renitenti alla leva ed i non pochi disertori del Regio Esercito. Ma coll'aumentare della forza numerica crebbero i bisogni indispensabili non solo al l'esistenza, ma alla difesa personale, come più tardi si senti la necessità di provvedere il materiale necessario all'offesa.
Ed allora scorazzando per le campagne cominciammo a requisire cavalli ed armi; tanto che in breve comandavo una ventina di briganti bene armati e meglio equipaggiati, che già avevano sostenuto brillantemente il battesimo del fuoco in uno scontro coi militi di Atella.
Conveniva trarre vantaggio da tutto ciò che poteva essere utile alla nostra esistenza, cercare per quanto possibile l'ausilio dei pastori, dei poverelli, approfittare della crassa ignoranza dei nostri cafoni, per apparire ai loro occhi, non come malfattori comuni, ma come vittime di un'ingiustizia; farsi paladini di un'idea, di un principio e con esso e per esso aver aiuto materiale e morale da tutti coloro che, non contenti del loro stato, avevano nel cuore un'amarezza e nella mente l'idea della ribellione...
A poco a poco io mi trovai quasi involontariamente a capo dei moti reazionari e m'ingolfai in essi, sicuro di ricavarne guadagno e gloria. Abilmente preparato il moto reazionario scoppiò il 7 aprile alla Ginestra. Contadini, pastori, cittadini di ogni età e condizione al grido «Viva Francesco II», corsero ad armarsi di fucile, di scure, di attrezzi colonici e in massa compatta avanzammo su Ripacandida.
La notizia che le guardie mobili di Avigliano e Rionero movevano unite contro di noi, portò un po' di sgomento nella mia gente; conveniva a me, all'inizio della spedizione, non espormi ad una facile sconfitta, affrontando i militi nazionali in aperta campagna. Una disfatta anche parziale avrebbe influito enormemente sullo spirito delle popolazioni, facendo svaporare quell'entusiasmo popolare, ch'io con tanto lavoro segreto, avevo grado a grado saputo destare per ogni dove.
Ad una lotta aperta e cruenta preferii la guerra d'astuzia, per cui, lasciata la via, m'internai nei boschi ove sarebbe stato facile l'agguato e la vittoria.
La Ginestra era il mio impero, la sede sicura, il centro della mia forza, e di là mossi risoluto su Ripacandida. Attaccai violentemente ed in breve fui padrone della caserma dei militi e in possesso delle loro armi. La folla selvaggia ch'io comandavo non aveva freno, ne a me conveniva mitigarla. Quella mia condiscendenza alla distruzione, al saccheggio, era fomite per me di maggior forza avvenire, l'esempio del fatto bottino traeva dalla mia altri proseliti anelanti di guadagnar fortuna col sangue.
Lasciai quindi ognuno libero di sé ordinando solo si rispettassero le famiglie dei nostri compagni d'armi. Nel conflitto avuto coi militi paesani, il loro capo era caduto morto, il cadavere di costui trascinato per le vie venne portato innanzi all'abitazione 'della famiglia sua mentre la folla ne saccheggiava la casa. Durò per più ore la baldoria ed il ladroneggio e solo verso sera pensai a riordinare quell'orda ubbriaca.
Prima cura fu quella di decretare decaduta l'autorità imperante, e chiamato a consiglio i caporioni, nominai una giunta provvisoria che doveva sedere al municipio, e di là emanare decreti e proclami. Volli che per le chiese venisse cantato il Tedeum in onore della vittoria, e si abbattessero tutti gli stemmi del nuovo governo innalzando quelli, già abbandonati, del Borbone.
Da Ripacandida a Barile breve è il cammino; numerose sollecitazioni mi chiamavano colà a liberare la plebe dalle sozzure dei ricchi prepotenti, per cui mossi tosto per quella volta, e, preso possesso del paese, ne ordinai il governo come avevo fatto per Ripacandida.
Le vittorie di quei primi giorni se avevano allarmato, non a torto, i signori, avevano per altro affezionato alla mia causa migliala di contadini, così che correvano a me da ogni dove a stuolo numerosi armati per mettersi ai miei ordini. Compresi come dovessi, senza perder tempo, prendere possesso di centri più importanti, per cui inviai alcuni fidi in Venosa perché mi preparassero il terreno.
Ed il mattino del giorno 10 col mio piccolo esercito di predatori mossi alla conquista della vetusta Venusia. Sapevo che la città (8000 abitanti) era preparata a difesa e che in aiuto della guardia civica erano giunti i militi di Palazzo S. Gervasio, ma sapevo altresì che in paese la mia venuta era attesa da molte persone, e che queste non erano tutte del popolo, ma in buona parte signori.
A mezza via fui informato che la milizia civica, allarmata dalla forza che era ai miei ordini, aveva deciso chiudere le porte, asserragliare le vie, portandosi ad occupare il castello. Giunto in vicinanza della città, ripartii la mia forza in diversi gruppi a cadauno dei quali assegnai un settore di attacco; mentre ero occupato in tale operazione, vidi sventolare dall'alto delle chiese alcune bandieruole bianche, segnale a me ben noto, per cui ordinai senz'altro l'attacco. Ma fu un attacco incruento, poiché scavalcate le mura mi vennero aperte le porte senza colpo ferire, ed io entrai coi miei occupando subito la piazza principale, di dove mossi per assalire il castello.
Dalle grida di gioia e di furore dei miei, a cui faceva eco l'acclamazione popolare, la difesa comprese tosto essere vano ogni suo sforzo; pochi colpi di fucile sparati contro la mura ebbero il merito di ottenere una resa a discrezione, sotto promessa di lasciar a tutti la vita.
Venosa era mia ed in men che non si dica io ricevevo le congratulazioni dei maggiorenti, mentre a migliala affluivano a me le suppliche d'ogni genere e specie. Prima mia cura fu di spalancare le carceri, nominare un consiglio reggente e pubblicare il nome delle persone che dovevano aver rispettate la proprietà e la vita, pena la morte ai trasgressori. Dal 10 al 14 io rimasi coi miei in Venosa spogliando, depredando, imponendo taglie, distruggendo uomini e case, facendo man bassa su tutti coloro che erano nemici della reazione.
Dopo Venosa era stata decisa l'occupazione di Melfi, dove i nostri amici avevano tutto preparato perché fossi accolto cogli onori dovuti al mio grado. Il 14 aprile 1861 lasciai Venosa e mi gettai su Lavello accolto da quella popolazione al grido «Viva Francesco II».
Raccolto in paese quel poco che ci fu dato trovare, stante le poche risorse sue e nominata la solita Commissione a governo del Municipio, mi affrettai avanzare su Melfi che con plebiscito popolare aveva decretato decaduto il potere regio.
Fra le non poche soddisfazioni ch'io pure provai nell'avventurosa mia vita, io ricordo con viva compiacenza la maggiore, la più splendida, quella cioè che accompagnò il mio ingresso nella città di Melfi, capoluogo di circondario. A qualcuno, leggendo queste memorie, potrà apparire esagerato il mio scritto, ma giuro non sul mio onore, ma sulla sacra memoria di mia madre, che non esagero, che non mento, e d'altronde credo che parleranno di ciò i documenti ufficiali.
Ai piedi della non breve salita che, staccandosi dalla rotabile, conduce alla porta principale, fui accolto, al suono delle musiche, da un comitato composto delle persone più facoltose della città, mentre suonavano a distesa le campane a festa, e dai balconi, gremiti di persone e parati con arazzi variopinti, le donne lanciavano fiori e baci. Giunto sulla piazza principale il signor... dall'alto del sontuoso suo palazzo dopo un acconcio discorso inneggiante le virtù e le glorie del governo Borbonico, invitò il popolo ad acclamare in Crocco, il fiero generale del buon Re Francesco II.
Rispose a quell'invito un triplicato «Evviva a Crocco», mentre sparavano per le vie i mortaretti in segno di maggior contento.
Nella chiesa, addobbata riccamente per me, era stata esposta la Madonna del Carmine, perché io rendessi omaggio devoto alla Vergine che mi aveva protetto portandomi vincitore e illeso dopo tante ed aspre lotte. Alla sera del mio ingresso per tutta la città vi furono luminarie, feste, balli e baldoria...
Dal capitolo IV dell'Autobiografia
Siamo al 10 agosto dell'anno 1861; mi presento a te, cortese lettore, non più come capo riconosciuto dei moti reazionari, ma bensì come generale di formidabile banda brigantesca.
Ho il cappello piumato, la mia tunica ingallonata, un morello puro sangue, sono armato sino ai denti, e quello che più conta, esercito il comando su mille e più uomini, che muovono ed agiscono ad un mio cenno. Sul far del giorno mi avvicino verso un paesetto, nomato Ruvo del Monte, situato sul pendio di una collinetta, ombreggiata da fronzuti castani, da ubertosi vigneti. Qua e là per l'ombreggiante terreno incontro piccole ma ridenti villette e grosse masserie. Spicca da lungi una gigantesca torre, che sovrasta sul diroccato castello feudale, e palesa l'antichità del villaggio.
Ho ai miei ordini 1200 uomini e 175 cavalli; le campane della parrocchia suonano a stormo, indizio certo che gli abitanti si preparano alla difesa delle loro vite, delle loro sostanze e del loro onore. Mi fermo ad un mezzo miglio distante dalle prime case e scrivo al Sindaco ed alla Giunta la seguente lettera:
«Egregio sig. Sindaco e Signori di Ruvo del Monte. «Sono qua in presenza vostra, non per farvi male, ma bensì per pregarvi affinchè le SS. LL. Ili .me abbiano la bontà di fornirmi per oggi il foraggio per 1200 uomini e 175 cavalli, pagando lo sconto in oro sonante. «Fatto ciò proseguirò il mio cammino; spero che Loro nobili signori esaudiranno la mia preghiera e non mi obbligheranno ricorrere alla forza. Dò un'ora di tempo per rispondere.
Sono: Carmine Donatello Crocco.
Dopo mezz'ora ricevo la seguente risposta:
«Caro Carminuccio. «Non possiamo assolutamente accettare la fattaci richiesta; essa non solo ci compromette col R. Governo ma tocca il cuore ed il nostro amor proprio. E siccome ci troviamo ben forniti di cartucce e vogliamo provare la nostra polvere ed il nostro coraggio, così aspettiamo che ti faccia avanti coi tuoi pastorielli che noi ti faremo il piacere di ucciderli. «Il miglior consiglio che noi ti possiamo fare è quello che tu vada via e presto, poiché fra poco verranno forze da Rionero, da San Fele e da Calitri, ti metteranno in mezzo e sarà finita per tè e per i tuoi.
«Sindaco Blasucci
Dopo data lettura di questa lettera ai miei compagni, così dissi loro: «Giovinetti bisogna vendicare col sangue non solo il rifiuto, ma l'insulto, di averci chiamati pastorielli; chi ha fegato mi segua».
Disposi quattro centurie sul fronte, che avanzarono furibonde sul paese, accolto da un fuoco di moschetteria ben nutrito ma poco diretto, mentre altri 200 uomini ebbero ordine di attaccare di fianco. I cavalieri lasciai a guardia sulla strada di Rionero coll'ordine di spingersi in avanti per assicurarmi in tempo da ogni arrivo di truppe; un'altra centuria la diressi sulla strada di Calitrì collo stesso mandato. I rimanenti uomini agli ordini di Ninco-Nanco lasciai indietro per la riscossa.
L'attacco fu simultaneo e terribile. In eterno onore di quei valorosi cittadini caduti, posso assicurare che disputarono palmo a palmo quella loro cittadella. Perduta la prima posizione avanzata; si appostarono sulla piazza; cacciati anche di là, presero posizione sul largo della chiesa e dopo aver sparato tutte le cartucce ingaggiarono una lotta corpo a corpo coi miei.
Sopraffatti dal numero, tentarono ridursi alla torre, e trovata chiusa la via, si disposero a morire, quando le donne si buttarono piangenti fra i combattenti implorando pietà e grazia pei loro padri e pei loro mariti e figli. Sulla torre sventolò bandiera bianca, cosi la lotta finì, ma le vie erano seminate di cadaveri ed i miei si davano al saccheggio.
L'autorità municipale sedeva in permanenza, onde, quando entrai nel palazzo del comune, trovai i consiglieri al loro posto. Ordinai mi fossero consegnati il ruolo della guardia nazionale, i fucili e le munizioni dei militi, cassa del comune e quella della fondiaria. Mi si rispose che facessi terminare le stragi è l'incèndio, e sarei esaudito. Cosi fu fatto.
Ricordando quella famosa giornata io mi domando ancora dove quei poveri cittadini avevano potuto apprendere l'arte della guerra, da esplicare tanta resistenza e tener fronte, in numero di circa 300, per diverse ore a 1000 e più uomini giovani, sitibondi di piaceri e di bottino.
Quei prodi non avevano preso parte mai ne a piccole ne a grosse manovre, anzi la ferocia del governo borbonico proibiva loro di portar il fucile, e per aver il porto d'armi bisognava pagare 5 scudi.
Oh, perché il Borbone non seppe utilizzare tanto valore e tanto eroismo così spontaneo, nei figli di questa forte regione, cosicché il potente esercito borbonico fu messo in fuga da un pugno di giovinetti e questi furono chiamati eroi, e vili quelli? La verità di quelle facili vittorie, la causa delle fughe, il facile sbandarsi..... e chi noi sa!
Bisognava vedere un quartiere militare borbonico che cosa era; ed io lo vidi e lo conobbi. Ho .visto quante infamie si commettevano, e la frusta, il bastone e le fucilazioni sommarie, e le punizioni tremende, di guisaché in noi soldati prevaleva il concetto: «Questo regno è tuo e de' tuoi sbirri, difendilo da tè e con i tuoi, non io morirò per la gloria tua e per conservare sul tuo capo la corona».
Ma qualcuno mi dirà, e con ragione, come mai tu che conoscevi le infamie del Borbone, dopo la caduta di questi, ti sei rimescolato nel fango ed hai messo tu ed i tuoi compagni alla mercé d'una causa, che aveva destato in tè tanto orrore. Non si parli di me, io allora mi ero già macchiato le mani di sangue, la mia persona era cercata, lottavo per vivere, ero il serpente ricordato dalla povera mia madre, morta pazza nel manicomio di Aversa.
Torniamo a Ruvo. Sul cader della sera lasciai nel pianto quel villaggio e feci la ritirata sulle colline delle Frunti a un miglio appena dai primi fabbricati. La notte da tutti i paesi limitrofi mi giunsero corrieri, coi quali mi si faceva conoscere lo scoraggiamento dei paesi o la partenza di dispacci per riunire forze contro di me, onde ne dedussi, che nel dì seguente non sarei stato disturbato.
Fatto giorno organizzai una nuova compagnia di recinte che armai coi magnifici fucili di Ruvo; portai la cavalleria al numero di 190 coi 15 cavalli tolti ai Ruvesi; verso mezzogiorno venne il capo-banda Agostino Sacchitiello con 162 uomini e 60 cavalli, tutti armati di splendidi fucili e di numerose munizioni, cosicché tutti uniti raggiungemmo la forza di 1541 uomini e 256 cavalli, i migliori delle Puglie.
Sul cadere del giorno 11 mi fu riferito che l'autorità governativa non se ne stava colle mani alla cintola. Il comando della forza era in Rionero, ove s'erano riuniti drappelli numerosi di vari distaccamenti. Se ben mi ricordo, vi era un battaglione di bersaglieri, uno del 62° fanteria, tré battaglioni di guardie mobili, due compagnie del 32° fanteria e molta guardia nazionale.
Il comando aveva deciso attaccarmi vigorosamente nella mia posizione tentando l'accerchiamento. Sapevano ch'io era ferito, ma non pensavano che la tigre ferita fa tremare il cacciatore.
Sicuro di non essere molestato, verso il meriggio calai su Ruvo ove mi feci medicare la ferita, e verso sera colla fanfara in testa presi la via che conduce al fiume Ofanto, nella dirczione di Calitri. Ognuno credeva che io mi avanzassi per occupare Calitri, invece a notte avanzata, cambiai inaspettatamente dirczione e dopo tré ore di contromarcia mi fermai in una posizione che mi parve assai forte.
Questa posizione era costituita da una massa boscosa riparata di fronte e, lateralmente a destra, dalle ripide sponde di un torrente detto Vernina, mentre a tergo ed a sinistra si trovava una pianura estesa, che permetteva alla cavalleria di manovrare.
In questa posizione decisi aspettare le truppe, pronto a morire anziché abbandonarla. Allo spuntare del giorno successivo la truppa giunse a Ruvo, e, avuto notizie della mia partenza e della dirczione Sì presa, si pose all'inseguimento, sicura di sorprendermi nei boschi di Castiglione oppure in quelli di Monticchio.
Le mie spie, dopo accompagnate le truppe fino all'Ofanto, mi informarono che queste avevano riposato nella località Scona, da me lontana otto miglia di pessima via. Per meglio rafforzarmi nella posizione presa, pensai far costruir una palafitta, di circa 400 metri di fronte, a forma di mezza luna. Spiegato sommariamente ai miei uomini lo scopo della difesa, ne ordinai la costruzione ed in un attimo duecento scuri cominciarono a tagliare arboscelli, così che in poche ore io avevo fatto costruire un forte riparo pei tiratori, i quali rimanevano coperti di fronte alle nude praterie presso cui passava la strada carrozzabile che da Melfi conduce a Napoli.
Verso le due del mezzogiorno, il Sottoprefetto Decio Lordi di Muro Lucano, avuto il cambio, lasciava la città di Melfi per prendere la sottoprefettura di Eboli. Scortato da una compagnia di guardia mobile e da una dozzina di gendarmi montati, se ne veniva a cavallo per la carrozzabile, quand'io informato del passaggio, lo feci assalire da' miei cavalieri. Sorpresi da una brillante carica, i militari della guardia dovettero cedere le armi senza poter combattere, mentre il fortunato Decio si salvò a stento con due gendarmi, mercéla velocità della sua cavalcatura. In quel conflitto caddero morti tré militi e sei furono feriti.
Comandava la scorta un giovane luogotenente di San Fele e fu mercé sua se la guardia nazionale superstite, in mezzo a tanto desiderio, nei miei, di uccidere, potè tornar sana e salva in paese. Il padre di quel luogotenente aveva altra volta beneficiato mio padre, onde salvai la vita a lui ed a' suoi. Prima che si accomiatasse pregai l'ufficiale di riverirmi il comandante piemontese posto alle mie calcagna, e di avvertirlo che lo avrei atteso alla macchia di Toppacivita, di dove non mi sarei mosso per un pò di tempo.
Ritornato in paese l'ufficiale narrò l'avventura occorsale poiché subito dopo ricevetti una lettera, concepita presso a poco in questi termini:
Rionero in Vulture, 13 agosto 1861.
«Sig. Carmine Donatello Crocco.
«Rendo grazie della libertà accordata ai miei dipendenti caduti nelle vostre mani. Una seconda volta nell'interesse del paese, di tante famiglie e nell'interesse vostro, io vi invito a deporre le armi e vi assicuro che non sarete fucilati e la causa vostra sarà rimessa alla clemenza sovrana. Dimani non verremo pel lasciarvi tempo a riflettere. Se nonostante questa mia insisterete a mostrarvi ribelle alla legge, sarò costretto, mio malgrado, darvi la caccia per avervi o vivo o morto.
«P. C»
Ecco la mia risposta:
«Signori a tutti ossequi. «Non posso assolutamente aderire alla vostra domanda perché S. M. Vittorio Emanuele ha rigettato l'istanza dell'avvocato signor Francesco Guarini e rigetterà ancora ogni altra, anche appoggiata da V. S. E siccome non voglio servire di trastullo a chi assisterebbe alla mia fucilazione, cosi sono pronto a vendere a caro prezzo la vita. «Sovvengavi che nel posto che io occupo ora, nel 1808 fu trucidato un intero reggimento di Re Gioacchino Murat.
«Carmine Crocco»
Fedele alla parola data il Comandante piemontese stette 24 ore inoperoso nella speranza che io mutassi consiglio; questo tempo fu per me preziosissimo poiché ebbi mezzo di rafforzarmi nel mio piccolo campo trincerato.
Vedevo con piacere con quanto ardore i miei pastorielli lavoravano; essi avevano compreso di quanta utilità potesse tornar loro quella specie di siepe, fatta di pali, fascine, terra e sassi; e misurandone l'altezza, la resistenza, facevano pronostici sull'imminente combattimento. Il Coppa, più feroce tra tutti, aveva giurato di ubriacarsi di sangue, come gli era successo a Caiazzo, altri men feroci facevano tra loro promesse brutali, e tutti erano animati da un vivissimo desiderio di lottare.
In me prevaleva la certezza della vittoria e la tranquillità spontanea della mia persona, la nessuna preoccupazione per l'attacco avevano vinti i più timidi, di guisaché in tutti più che speranza era viva la sicurezza di un prossimo trionfo. Non dovete però credere che i miei fossero tutti pastorielli.
Avevo un piccolo esercito con quadri completi, un capitano, un luogotenente, un medico, sergenti maggiori, caporali tutti appartenenti al disciolto esercito borbonico.
Avevo seicento soldati di tutti i corpi, cioè cacciatori, cavalleria, artiglieria, volteggiatori, zappatori, minatori, granatieri della guardia e che so io. Che importa se costoro erano pastori, contadini, cafoni? Forse che gli eserciti attuali non sono composti tutti di figli della miserabile plebe. Che se poi dovessi io scegliere fra due reggimenti uno di studenti, l'altro di pastori o di contadini sarei sempre pei secondi, perché avvezzi al freddo, alla fame, alle fatiche ed al camminare.
Non dico che gli studenti siano vili; no, Iddio mi guardi da sì infame calunnia, ma preferisco l'uomo rozzo, il cafone, più facile ad allenarsi, più pronto ad ubbidire, meno esigente nel mangiare, e incapace di criticare gli ordini ricevuti. Avvisato dalle spie dell'avanzata delle truppe, feci sortire dal campo i miei cavalieri, divisi in cinque plotoni che diressi in cinque diverse direzioni, col mandato preciso di esplorare lontano lontano e di riferire.
Ci dividevano dai soldati sei buone miglia di strada, ciò non pertanto, appena la truppa uscì da Porta di Napoli, noi dall'alto della posizione con buoni cannocchiali potemmo osservarla e seguirla ne' suoi movimenti.
Ai primi raggi del sole nascente luccicavano le armi e le uniformi degli ufficiali; questi erano tutti montati chi su mule, chi su cavalli; avevano la sciarpa azzurra a tracolla, la pistola al fianco e qualcuno il fucile alla spalla. Mentre le colonne avanzavano silenziose, io pensavo a quel comandante piemontese ed a' suoi ufficiali, che avevano di noi meridionali un concetto così basso, che ci credevano tutti vili e come tali trattavano le popolazioni che davano loro ospitalità.
«Vedrete, vedrete cosa sapranno fare questi miei pastorielli», mormoravo tra me e me. «Qui tra noi non troverete il lusso di fucili rigati, ma vecchi archibugi, non sciabole affilate e accumulate, ma scuri taglienti, pistole a pietra focaia, lunghi pugnali, coltelli catalani. Senza il lusso di ricche uniformi, anzi laceri e scoperti, scalzi o con scarpe di tela, cappellaccio alla calabrese, cartuccera alla cintola, noi di pastorielli abbiamo solo le sembianze, ma siamo pronti a ricevervi da pari a pari».
E con tali pensieri mi preparai alla lotta. Appostai dietro alla palafitta 800 uomini, i meglio armati ed i più risoluti; a circa 300 metri da loro, dentro il bosco, ne collocai 200 armati di fucile da caccia, colla missione di proteggere la ritirata in caso di sconfitta, mentre altri 200 collocai sul fianco al coperto per irrompere nel momento decisivo.
Ogni drappello di 200 uomini era comandato da un capo, chiamato capitano, che aveva alla sua dipendenza sottocapi e sergenti maggiori. Per ogni 10 individui vi era un caporale. Gli uomini disarmati, per deficienza di fucili, ebbero l'incarico di trasportare i feriti dalla palafitta al bosco grande. Ciò fatto mi consigliai col vecchio capitano Antonio Bosco, col luogotenente Francesco N..., col sottotenente Luigi Siciliano e coi vecchi sottufficiali dell'esercito borbonico, ed all'unanimità si convenne che le nostre posizioni erano formidabili e che solo l'artiglieria avrebbe potuto farci sloggiare.
(Ringraziamo la ragazza di Rionero che ce l'ha fornita)
Lasciai il comando di tutti al capitano Bosco, che, dopo giuramento, nominai colonnello, e poscia postomi alla testa dei cavalieri mi avanzai contro la truppa coll'intento di attirarla gradatamente sotto il tiro dei miei compagni appostati dietro la palizzata. In caso di sconfitta la ritirata doveva farsi in direzione di Monticchio verso la chiesa di S. Michele. Rivolto ai miei vecchi compagni di mestiere, già avvezzi alla musica del piombo, ordinai loro di montare in sella e di prepararsi al cimento.
Erano con me il feroce Ninco-Nanco, il sanguinario Giovanni Coppa, Agostino Sacchetiello, suo fratello Vito, Giuseppe Schiavone, Michele di Biase, Tortora Donato Teschetta, Gambini, Palmieri, Cavalcante, Serravalle, Teodori, D'Amato, Caruso, Sorotonde ed altri.
Alla testa di questi rinomati briganti v'era il serpente, giusta la profezia di mia madre. Divisi in cinque squadroni avanzammo in colonna serrata fino al ponte di Atella ove sostammo sopra un poggio dominante la fiumana. Dall'alto della posizione ebbi campo di scorgere l'avanzata della truppa; la chiesa di S. Lucia era già occupata dalla fanteria mentre altre truppe avevano oltrepassato il camposanto.
Come di uso primo a comparire fu il battaglione di bersaglieri, che con mirabile ardire passò a guado il torrente ed avanzatesi presso di noi cominciò ad aprire un fuoco vivissimo dopo il quale a baionetta in canna, ed al grido di «Savoia» mosse all'attacco.
Noi certamente non restammo colle mani alla cintola. Dodici carabine a revolver, giunte la sera da Napoli assieme a sessanta revolver di fabbrica inglese, dovevano essere sperimentate, e furono le prime a vuotare i loro globi di rotazione contro i bersaglieri.
Vidi con i propri occhi cadere fulminato uh caporale, un altro soldato rovesciarsi al suolo mortalmente ferito, il cavallo del maggiore colpito al petto cadde per non più rialzarsi; ma i bersaglieri da veri indemoniati avanzavano sempre, così fu necessario lasciar la posizione e ritirarci in una bella pianura.
Approfittando di un momentaneo slegamento, prodottosi nel battaglione che ci aveva attaccati, quando i soldati erano giunti sulla collina da noi occupata e poscia abbandonata, ordinai ai cavalieri di fare fronte indietro in battaglia e muovere alla carica.
Il nostro movimento rapidissimo sorprese i bersaglieri che avanzavano stanchi alla spicciolata e produsse gran disordine nella colonna, e sarebbe toccata mala sorte, se l'apparire di un battaglione del 62° fanteria non avesse frenato il nostro ardimento, costringendoci a fuggire. Dopo un miglio di galoppo guadagnammo la masseria Mezzanotte. Le truppe avevano dato il segnale alt ed il battaglione del 62°, che ci aveva inseguiti, ebbe ordine di ritirarsi e si andò a riunire colle altre truppe nel piano detto Cartolico.
Approfittai di quella tregua momentanea per visitare i miei uomini, i bersaglieri ci avevano ucciso un compagno e ne avevano feriti sei; dei cavalli, sedici erano stati feriti alcuni di daga e altri da colpi di fucili; spedii i feriti al mio piccolo campo trincerato, poscia ci rassettammo alla meglio, stringemmo le cinghie ai cavalli, e, distesi in cordone, ci ponemmo in osservazione.
La truppa era in movimento; si erano formate diverse colonne spinte in dirczione diverse coll'obbiettivo di convergere sopra di noi.
Un battaglione di guardia nazionale avanzò di fronte e giunto a portata di tiro apri il fuoco; noi rispondemmo tosto ed ai primi colpi cadde morto, come seppi di poi, il figlio di mio zio, Michele Crocco, esattore della fondiaria. La lotta era ingaggiata arditamente da ambo le parti, piovevano le palle ch'era un piacere a vederle smuovere il suolo asciutto, quando due compagnie strisciando al suolo giunsero non viste sulla nostra destra e ci attaccarono alla baionetta.
Quell'urto inaspettato scompigliò i miei cavalieri che a tutta corsa si ritirarono inseguiti dalla truppa. Ma essendo i soldati a piedi e noi a cavallo tomo facile porci fuori tiro, poscia, utilizzando diverse capanne di pastori, ci ponemmo in agguato. La truppa avanzando sempre celermente guadagnò in breve la distanza che ci separava, ed avuto sentore della nostra presenza dietro le capanne, cominciò a sparar colpi, dopo i quali al grido di«Savoia» venne all'assalto.
Ma l'astuzia e l'arte dell'inganno prevalse al valore.
Una metà di noi finse ritirarsi e venne inseguita; l'altra metà girando da sinistra a destra, con rapido movimento piombò sul fianco della colonna e, rotto il centro, costrinse la coda a ritirarsi, mentre la testa veniva caricata dai miei, ritornati improvvisamente all'assalto.
Riavutisi dall'inaspettato tranello, la colonna si riordinò quando noi eravamo già lontani. In questo scontro ebbi il cavallo ferito da un colpo di baionetta. Certo Vito..., della città di Avigliano, provincia di Potenza, dopo di aver combattuto contro di noi da vero leone, vistosi accerchiato, féatto di consegnare il fucile, e mentre un mio compagno gli si avvicina per ricevere l'arma, egli con rapido movimento gl'immerge la baionetta nel fianco; a tal vista io, che mi trovavo vicino, gli feci fuoco a bruciapelo. Colpito in pieno petto ebbe campo di volgersi contro di me e lanciarmi un tremendo colpo di baionetta, che per caso colpì in mia vece il cavallo.
Poco dopo quel valoroso spirò.
Scopo mio era di attrarre gradatamente la truppa sotto il tiro dei miei compagni appostati alla palafitta, onde la ritirata e le fughe avevano una direzione costante. Il battaglione di guardia nazionale che ci aveva sempre inseguiti con ammirabile lena, andò a dar di cozzo contro i compagni appostati e venne accolto da una terribile scarica. In breve la strada fu coperta di cadaveri e feriti; i soldati non potendo muovere all'assalto, essendo impossibile superare le ripide sponde del torrentaccio, oltre il quale i miei erano in posizione, fu giocoforza rispondere col fuoco al fuoco nostro. Ed infatti durò per un pò di tempo l'azione, poi i cittadini armati si ritirarono dirigendosi verso le truppe retrostanti che venivano avanzando sulla nostra destra.
Io coi miei stanchi compagni, con 19 prigionieri, entrammo nella piccola fortezza ove trovai tutto nel massimo ordine. Gli amici invidiavano la sorte a noi toccata e si lamentavano di quella loro lunga attesa, contraria alle abitudini loro. Tranquillizzai tutti assicurandoli che fra non molto sarebbe venuta anche per essi l'occasione di muover le mani. «Non dubitate dissi loro, poiché fra poco sarete più fortunati di noi.
Guardate come il Comandante nemico se ne viene a noi cheto, cheto, come il romita che recita il rosario. Chi sa cosa rumina pel capo quel vecchio avanzo di Crimea.
Sapete cosa mi fa tremare?
È il sangue freddo, è la flemma di quell'uomo. Oh come lo vorrei vincere, non tanto pel piacere di far scorrere dell'altro sangue, quanto per dimostrare e fargli toccar con mano come nelle provincie del nostro disgraziato paese, vi sono uomini che valgono tanto per quanto valgono gli altri uomini della terra; per insegnare a cotesta gentaglia piemontese, che con motti arguti ci ha chiamato: "testoni, codardi, cafoni, rozzi, ignoranti e bigotti", come anche noi abbiamo del fegato e del cuore!».
Ciò detto volli render conto della situazione e soggiunsi : «Abbiamo avuti due morti, un prigioniero, sette feriti e ventun cavalli messi fuori di combattimento. A nostra volta abbiamo sequestrati venti soldati, settantacinque fucili e parecchie munizioni, i morti di truppa se li conteranno loro.
Cosa faremo dei prigionieri?
Se attaccati saremo costretti a fuggire, chi è vivo ha per dovere, prima della fuga, uccidere quanti più ne può, almeno i morti non parleranno; all'opposto se non saremo oltre molestati, domanderò il cambio di essi coll'unico nostro.
«Voi Giovanni, Giuseppe e Agostino Schiavone montate tosto a cavallo, andate da Beppe Ninco-Nanco, fate riunire il personale, lasciate solo venti persone colà imboscate agli ordini di Andreotto e coll'incarico di custodire la posizione da quel lato. Il resto del personale trarrete con voi occupando la collina della Caprareccia di Mezzanotte.
«Colà giunti farete uscire una pattuglia di venti persone coll'ordine di perlustrare le colline di Cartono, la strada ed il vallone della masseria. Qualora il Comandante piemontese mandasse da voi uno de' suoi battaglioni, è vostro compito non impegnarvi a fondo, anzi dovrete, con fuoco in ritirata, attrarlo sotto il tiro dei nostri. I cavalieri si spingeranno verso la bicocca cercando di tener occupato il battaglione di Bersaglieri, Al resto penserò io».
Nel mentre io facevo ai compagni un tal ragionamento, la truppa evidentemente stanca, era stata messa in riposo. Gli ufficiali riuniti a gran rapporto, con le carte topografiche alla mano, studiavano sul da farsi. Dopo un'ora di riposo udimmo il segnale dell'attenti, e, formata in colonna, la truppa avanzò verso di noi.
«Eccoli! esclamai io, eccoli che si avanzano contro la nostra posizione coll'intento di fucilarci tutti quanti, coraggio adunque fratelli, facciamo loro vedere che noi pastorielli sappiamo riceverli bene e siamo pronti a scannarli, come sappiamo scannare i capretti. Coraggio adunque io sono con voi; se dovessimo sloggiare da qui, sarò sempre io l'ultimo ad uscire».
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