L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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L’importanza di chiamarsi terroni

di Antonio Orlando

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Marzo 2012
 

Molto tempo fa, si era nei primissimi anni ’50, in uno dei nostri paesi, un maturo professore, per la precisione era un maestro elementare, stanco di essere appellato con il soprannome affibbiato, da tempo immemorabile, alla sua famiglia (la famosa “’ngiuria”, appellativo che, da sempre, distingue e contraddistingue, nei nostri paesi, parecchie famiglie e che, spesso, evita di fare confusione tra omonimie) avanzò domanda al Tribunale per ottenere che quella “’ngiuria” entrasse a far parte del suo cognome. Al termine di un non breve iter giudiziario finalmente venne accontentato e d’allora si fregiò di quell’appellativo che i suoi familiari continuavano a considerare ingiurioso, esibendolo come secondo cognome. Il che portava molti a pensare che il Nostro avesse scoperto una sorta di ascendenza nobiliare della quale adesso si pavoneggiava. Strano a dirsi, ma è vero, da quel momento nessuno lo chiamò più con il soprannome, diventato ex lege cognome, mentre tutti i suoi parenti continuarono ad essere identificati con quell’appellativo. Aveva depotenziato il soprannome, non solo gli aveva tolto la carica offensiva, che lui reputava esserci contenuta, ma appropriandosene ne aveva accettato tutte le implicazioni che erano, probabilmente, appartenute ai suoi antenati.

La collettività, però, non riconosceva alcun valore a quella innovazione e quindi non lo voleva più identificare con quella famiglia. Naturalmente l’interessato, con un certo sussiego, tra l’altro, cominciò a presentarsi e a firmare con il doppio cognome.

Questo episodio mi è tornato alla mente riflettendo sul libro di Lino Patruno, che è stato per tredici anni direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, che reca un titolo che, se non ho capito male, vuol essere un grido di battaglia, un urlo di guerra che deve fungere da richiamo, da invito a stringersi e a riconoscersi, fino ad accettarlo, in un appellativo volutamente infamante ed ingiurioso che però noi dobbiamo fare nostro e rimandare al mittente.

“Alla riscossa, terroni”, s’intitola il volume. Ben fatto! E poi? alla riscossa di che cosa? “Terrone”, comprese tutte le sue varianti dialettali (terùn, terù, tarùn o terone) è un toscanismo, è uno dei tanti regali che dobbiamo all’Unificazione della quale abbiamo appena terminato di ricordare (altri dicono “celebrare”) il 150° anniversario.

 In se e per se non è un termine offensivo. In origine indicava il proprietario terriero, specificamente un latifondista, poi a metà dell’800 si cominciò ad usarlo per indicare i villani, i cafoni, i braccianti agricoli meridionali sfruttati come bestie da soma. Da qui il passo fu breve per estendere il termine genericamente a tutti gli abitanti dell’ex Regno delle Due Sicilie che subito risposero attribuendo ai concittadini al di sopra del Po, l’epiteto di “polentoni”, mangiatori di polenta. I due termini persero da subito tutta la loro innocenza.

Il terrone divenne “il mangiatore di terra”, l’appartenente ad una terra ballerina o matta, la persona dalla pelle scura, simile alla terra. Il polentone passò a designare l’alloco, la persona che non sa parlare o parla una lingua sconosciuta ed incomprensibile, la persona che balbetta o si mangia le parole. Terrone divenne ben presto un insulto anche pesante con connotazioni negative al limite della discriminazione sociale se non del razzismo e, soprattutto veniva pronunciato con rabbia, con rancore, con odio e con disprezzo.

“Polentone”, invece, restava, tutto sommato, un appellativo bonario, scherzoso, detto senza acredine. Dopo la guerra di Libia a “terrone” venne associato il termine di “beduino”, riferito principalmente ai siciliani e ai calabresi, con evidenti connotati razzisti. Nel breve volgere di qualche decennio in questo appellativo sono confluiti tutti gli stereotipi antimeridionali dalla presunta ignoranza alla scarsa voglia di lavorare, dal disprezzo delle più elementari norme igieniche alla mancanza di senso civico. La parola ha assunto il significato di persona rozza, incolta, priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata.

Il classico “tamarro”, lo zoticone, rustico e sgarbato, dai modi grossolani che ancora non ha imparato a vivere in una società civile ed organizzata. Per i giudici della Cassazione “terrone è un insulto di stampo razzista” perciò un meridionale ha tutto il diritto di sentirsi offeso nella sua dignità di cittadino italiano e quindi deve essere risarcito. Non credo che un simile riconoscimento giudiziario possa essere di aiuto o di conforto. Se eliminiamo le connotazioni razziste e le implicazioni legate al pregiudizio, possiamo anche assorbire con un sorriso tale appellativo giusto per depotenziarne la carica. Del resto l’ironia, in questi casi, risulta l’arma migliore. D’accordo, e poi? che fare? Forse sarò eccessivamente pessimista, ma non vedo all’orizzonte nessuna voglia di riscossa o di riscatto. Chi dovrebbe guidare questa riscossa? In nome di che cosa? Per fare cosa? Voglio essere provocatorio fino in fondo: siamo proprio sicuri che esista ancora il Meridione? Per l’Italia, esiste il “Mezzogiorno”, termine odioso (ogni volta che lo sento mi provoca una violenta orticaria) che, tutto sommato, non meritiamo e che però, viene ripetuto pappagallescamente dagli stessi meridionali con enfasi, quasi con voluttà, calcando la voce su quelle due zeta per rafforzare una inesistente identità o, forse, per evocare appunto un’identità perduta. Pretendono di trasformarci in una specie di gigantesco orologio e si meravigliano che, alcuni di noi, non siano disposti ad accettarlo. Per tornare al nostro discorso, quello che appare come un semplice slogan, non perdiamolo di vista, è in realtà il titolo di un libro di un intellettuale meridionale, non molto conosciuto, purtroppo perché anche questo non conoscere “i nostri” è indicativo dello stato di emarginazione ed isolamento del Meridione, che, dopo un’attenta analisi storica, suggerisce alcune soluzioni. Nella (presunta) società globalizzata è più facile poter leggere, in tempo quasi reale, l’ultimo romanzo di uno scrittore americano alla moda tipo Ken Follet o Tarrow o John Grisham, che il libro di un autore calabrese o pugliese o siciliano, tranne Camilleri, che, peraltro e per inciso, personalmente adoro e prima o poi dovremo necessariamente dedicargli tutta l’attenzione che merita. Conta molto, però, sapere che esiste un’altra Italia, che esistono altri autori, altri pensatori e studiosi non omologati al pensiero unico corrente e dominante, che, tra l’altro, non si distingue né si divide più neppure nella classica e tradizionale dicotomia “Destra/Sinistra”, bensì nell’essere “con” o “contro” il potere, con o contro la maggioranza, con o contro la moda, essere “omologato” o “emarginato”.

Il problema, dunque, non è tanto accettare o meno un appellativo o rivendicare con orgoglio la propria appartenenza (“Terron pride”!) quanto verificare se esiste veramente un’identità meridionale. Il titolo completo del libro di Patruno è: “Alla riscossa, terroni. Perché il Sud non è diventato ricco. Il caso Puglia”. Avete capito adesso? Noi meridionali stessi ammettiamo oramai che il Sud non esiste più, si è frazionato o è stato frazionato (per il momento ha poca importanza come tutto questo sia avvenuto) in tante porzioni grosso modo corrispondenti alle attuali regioni geografiche ed amministrative. Da questo novero dobbiamo escludere, per ovvie e storiche ragioni, la Sardegna, isolata ed isolazionista e la Sicilia, tendenzialmente e sotterraneamente separatista. L’esortazione rivolta a tutto il Meridione continentale a scuotersi dal proprio stato di torpore e, addirittura, a lanciarsi alla riconquista di un “possesso perduto” verso un riscatto ed una liberazione totale, appare la classica, rituale e solita fuga in avanti. Muovere poi, per incitare gli animi alla lotta, dal ribaltamento delle connotazioni dispregiative della propria identità perduta o è un azzardo o è una velleità o l’ennesima trappola. Il frazionamento del Sud ha portato alla formazione di una società a macchia di leopardo; ha portato ad una separazione tra le diverse zone; ha generato la scomposizione e la successiva ricomposizione di aree tra loro molto differenti.

Le aree interne e montane risultano più deboli e più abbandonate di quarant’anni fa; i vecchi “poli di sviluppo” sono diventati distretti industriali in disfacimento e le città sono molto distanti (e non certo dal punto di vista geografico) dai paesi della provincia o dell’entroterra. Se dovessimo disegnare una moderna ed attuale carta geografica del Sud questa apparirebbe frastagliata, frazionata, irregolare e discontinua. Tutto questo si riverbera sulla popolazione che è a sua volta divisa, separata, discorde, staccata, a volte assente e troppo presa dai propri guai, quasi rinchiusa in se stessa. Risorge, con connotati nuovi, il mai sopito spirito municipalista e questa volta presenta caratteri di egoismo, di particolarismo e di esclusione.

Il senso di appartenenza, l’identità, la cittadinanza meridionale si sono affievoliti, sono diventati evanescenti e rischiano di essere ricompresi unicamente dentro una connotazione negativa, quella, appunto, di terroni della quale ciascuna regione, ciascun comprensorio, ciascuna area, al limite ciascun comune, tenteranno di liberarsi scaricandola su quelli che stanno peggio e sono più emarginati. Del resto Nord e Sud sono punti cardinali, non categorie dello spirito e perciò la Baviera è sud rispetto ad Amburgo e la Scozia pur essendo a nord è sottosviluppata rispetto a Londra che si trova a Sud, così come la California è ricca anche se è vicina al Messico. Altri fattori possono contribuire a farci riconquistare la nostra identità perduta, per esempio la cultura e la musica. Già Rino Gaetano, che era avanti anni-luce, cantava “…chi ama la zia, chi va a Porta Pia, chi copia Baglioni, chi odia i terroni… ma il cielo è sempre più blu…









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