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1799-1848

La Sicilia tra inglesi, francesi e napolitani


Bandiera Santa Fede - Regno nel 1806 - Bruto Amante

Per raccontare gli anni che vanno dal 1799 al 1848 ci rivolgiamo a tre autori, due calabresi (Nicola Zitara ed Enzo Ciconte) ed uno napoletano (Gennaro Marulli).  Cominciamo con un ampio stralcio dall’articolo “Il biografo calabrese del calabrese Cardinale Ruffo” scritto nel gennaio del 2008 per FORA… da Zitara.

“Le gloriose (preunitarie e pregaribaldine) legioni francesi arrivarono ai confini del Regno di Napoli nel 1798, dopo cinque anni dal loro primo ingresso in Italia. L'esercito napoletano,  battuto, si disperse. Il re e la corte coraggiosamente si rifugiarono a Palermo. Gli altri napoletani, non avendo anche loro la flotta inglese a disposizione, rimasero con la faccia rivolta all'invasore. Anche senza radio o televisione, cinque anni sono un tempo sufficientemente lungo perché una cattiva fama viaggi di bocca in bocca. Cosicché l'onere della difesa (anzi della legittima difesa) passò a carico delle popolazioni inermi, che così divenne resistenza nazionale. Secondo la retorica risorgimentale queste popolazioni erano accanitamente contrarie al progresso e così primitive che mangiavano i francesi senza prima arrostirli, cosicché non li accolsero come dovevano, con trombe, tamburi e fuochi d'artificio; non li invitavano a casa a dormire con le proprie mogli e con le proprie figlie;  non regalavano loro, in segno di ospitalità e di gratitudine, i ducati che tenevano nascosti sotto il mattone, le collanine, gli orecchini e le fedi d'oro. Insomma non stavano dalla parte della futura patria italiana, ma dalla parte dei sozzi borboni e dell'immonda chiesa cattolica.   

Qualche giorno prima dell’entrata delle truppe francesi a Napoli, ai giacobini napoletani venne finalmente il coraggio, dopo cinque anni che se n'erano stati buoni buoni. Per mostrare il loro zelo,  con un tranello s’impossessarono di un forte posto su un colle,  e da questa comoda e sicura postazione presero a bombardare i quartieri poveri della città, disseminandola di migliaia e migliaia di morti.

Il giacobinismo e il sanfedismo sono il displuvio della storia d'Italia.

[...] L'inquinamento della verità giunse al culmine dopo l'unità. Siccome, nonostante le proclamazioni, il Sud venne trattato come una terra da sfruttare,  l'Italia unità, per salvare la faccia, dovette crearsi un alibi e mise in piedi la retorica negativa dei Borbone, dei sanfedisti, del Cardinale Ruffo,  mostri contro i quali tenere sempre i riflettori accessi. 

Le varie versioni del moto di Santa Fede girano intorno agli stessi fatti. Solo che, chi li racconta, li condisce in modo diverso. Il fatto certo è la lotta tra popolazioni napoletane ed esercito francese, affiancato dai  giacobini partenopei. Di fronte al tribunale della storia ogni rivoluzionario ha il diritto di esserlo e di farlo, se lo fa a proprio rischio e pericolo.  Ma a Napoli i rivoluzionari si mossero solo dopo che l'esercito francese fu entrato nelle province  napoletane. Un simile comportamento, a voler essere parchi con gli aggettivi, appare poco elegante per qualunque rivoluzionario o controrivoluzionario, anche se partenopeo.

Dagli Abruzzi alle Calabrie,  le popolazioni, resistenti o no, vennero disinvoltamente massacrate. In molti luoghi, per risparmiare cartucce, i francesi serrarono gli abitanti in una chiesa e gli dettero fuoco (lo racconta uno di loro). Un generale francese, nelle sue memorie, afferma che in poche settimane furono passati per le armi sessantamila resistenti, cifra a cui bisogna aggiungere i morti in battaglia. In sostanza le popolazioni aggredite si difendevano con coraggio, ma non riuscivano a bloccare l'invasore. Dalla Sicilia, dov'era con la corte,  Ruffo  si rese conto di tale debolezza.

Con molto ardimento e sicura valutazione delle cose, sbarcò in Calabria con otto compagni, senza soldi e senza armi. Il Cardinale non era un prete qualunque, ma uno dei primi uomini  della Chiesa, un uomo di Stato, un politico avveduto ed esperto, che era stato per ben sette anni il primo ministro del pontefice e, in appresso, l'organizzatore del celeberrimo setificio di San Leucio. Appena In Calabria, chiamò alle armi il clero e la nobiltà fedele al re, e inalberò l'unico vessillo credibile presso il popolo contadino, la Croce. L'esercito volontario, formato con i dispersi dell'esercito regio e con le  masse dei contadini insorti, in pochi mesi raggiunse Napoli e costrinse i francesi alla fuga.

Il richiamo al moto vandeano  cade a sproposito. La Vandea ebbe all'origine il pane.  Santa Fede fu una guerra vittoriosa contro lo straniero. E' una vicenda storica diversa, e somigliante invece alle precedenti e future guerre di liberazione, condotte dalle popolazioni insorte. La sola cosa che lo distingue dall'insurrezione dei vietnamiti o  dalla resistenza toscopadana ai tedeschi e ai repubblichini di Salò, è la Croce.”

L’invenzione della guerriglia come metodo di combattimento che gli storici attribuiscono agli spagnoli, per Gennaro Marulli fu opera dei Calabesi (Cfr. Ragguagli storici sul  Regno delle Due Sicilie, Napoli 1845):

È d’uopo avvertire il lettore in riguardo a questa guerra calabrese, che le truppe del Generale Reynier non batterono la marcia del trionfo, poiché in quel volgere di tempo non furono esse totalmente prive di ostacoli come avevano cercato far credere i francesi e gli aderenti loro; ma bensì un gran numero di soldati sbandati dell’esercito napolitano, riuniti a molti calabresi avversi a quelli occupatori, comandati da diversi Capi formarono più e separate bande, e tormentarono l'esercito il di e la notte al passo dei gioghi e degli stretti, e nell’asprezza dei monti, uccidendo gli sbandati distruggendo i piccoli drappelli e gl’isolati soldati, infestando le comunicazioni, e intercidendo i convogli ed i corrieri; ed ora apparendo in un punto e quindi rapidamente dileguandosi, per ricomparire più numerosi in un altro, dettero principio a quella famose riunioni, tanto ricordate da ognuno, che io ne parlerò diffusamente allorché nell’apice loro furono ridotte, le quali vennero poscia dagli Spagnuoli tanto imitate e con tanto successo: epperò dire puossi con franchezza, che la composizione delle cosi dette guerriglie ebbe il suo cominciamento ed origine nelle montagne, nostre di Calabria. Ed a far sì, che queste cose che io dico credito maggiore acquistino, riporterò qui un brano di una lettera del Generale Reynier scritta a Parigi all’imperatore sul proposito di oprare una spedizione in Sicilia ora che h Calabria consideravasi vinta. «Non esservi più in questa lunga penisola un sol punto, che offrisse la menoma resistenza; essere l’invasione completa; sembrare pacificate le Provincie; ma non potersi i francesi chiamar padroni se non del terreno, che calpestavano; e che se non fossero state prontamente inviate in suo soccorso novelle forze, doversi considerare questo paese, come non conquistato».

In un suo recentissimo testo, così Enzo Ciconte descrive il ritorno dei francesi (Cfr. La grande mattanza Storia della guerra al brigantaggio - Laterza, 2019):

Prima che le cose si mettano male, Giuseppe Bonaparte visita la Calabria e ne trae un’ottima impressione; le accoglienze, forse inaspettate, sono lusinghiere. I notabili più in vista, i galantuomini, i ricchi proprietari terrieri si affrettano a manifestare tutta la loro simpatia al nuovo regime. Comprendono che sta dalla loro parte e non si lasciano sfuggire l’occasione. Ma appena due mesi dopo la Calabria insorge e respinge i francesi ai confini con la Basilicata, dove nel frattempo in molti comuni esplodono casi d’insorgenza. Come mai cambia così repentinamente la situazione? Cos’è successo di così grave? È una sorpresa, ma solo per chi non conosce la Calabria. È una regione che all’alba dell’Ottocento è considerata quasi selvaggia, conosciuta soltanto per i frequenti terremoti. Gli inglesi la definiscono «the terra incognita of modern Europe». E adesso, con le sue ribellioni, la Calabria sarà davvero conosciuta in tutta Europa.

La situazione precipita per il comportamento dei francesi, che con l’occupazione militare creano gravi disagi. Inoltre – ed è questione altrettanto importante – sin dall’inizio del loro arrivo adottano un «modo duro, barbaro ed insultante» di tassare il popolo: così scrive il Consiglio provinciale della Calabria Citra nel 1809. Ci sono tasse che sono, oltre che odiose, oltraggiose.

Buona lettura e tornate a trovarci.

Zenone di Elea - Novembre 2019


1799-1830

1839
1840
1840
1840
1840
1841
1844
1845
1845

1830-1848


1839 Progetto di un trattato di commercio  tra le Due Sicilie e la Gran Brettagna
1840 La questione degli zolfi - Sulphur War
1840 Risposta alle petizioni de' negozianti inglesi pei zolfi di Sicilia
1840 Sulla proposta del trattato di reciprocanza e di commercio di Michele Solimene
1840 Biografia del Cav Lodovico Bianchini scritta da Filippo Minolfi
1841 Memorie e sunti - Il Regno delle due Sicilie - Rivista Europea (Cesare Cantu')
1844 Trattato de' Banchi Nazionali del Regno delle due Sicilie di Aniello Somma
1845 Della scienza del ben vivere sociale della economia degli stati di Lodovico Bianchini
1845 De's chemins de fer en italie - Revue Nouvelle - C. Cavour


La rivoluzione napoletana del 1820-1821 tra 'nazione napoletana' e 'global liberalism' di Zenone di Elea

Great Britain: Paper Correspondence Despatch relating to the Southern of Italy

Questione napoletana, brigantaggio e mitologia patriottarda antimeridionale

«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» ovvero dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu di Zenone di Elea





Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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