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STORIA DELLA GRECIA NEGLI ULTIMI TRENI'ANNI

IN CONTINUAZIONE A QUELLA DI POUQUEVILLE

GIUSEPPE ROVANI

MILANO

PRESSO LA LIBRERIA FERRARIO

1854

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Eleaml.org - Dicembre 2016

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IV

Volgendo ora uno sguardo retrospettivo su questa storia, possiamo ben dire che la Francia e l'Inghilterra ebbero torto di riconoscere come presidente della Grecia un uomo che doveva tutto alla Russia, che non dipendeva che da lei sola, e che si occupò dal primo giorno del suo avvenimento alla presidenza a rovesciare dalle fondamenta tutte quelle istituzioni municipali del paese ch'egli era stato incaricato d'amministrare.

I soli germi d'organizzazione sociale che ancora si trovavano in Grecia erano le tradizioni patriarcali e le elezioni municipali. Capodistria le distrusse. «Vedete,» pareva ch'egli dicesse ai re legittimi, «con che destrezza io precipito questa nazione verso il dispotismo.» E confermandosi poi alla lettera del suo giuramento, convocò un'assemblea nazionale, e inserì nella legge organica una moltitudine di piccole frodi che l'inesperienza dei Greci, poco accostumati al giuoco della macchina rappresentativa, fu incapace di comprendere e di sventare.

Nel mezzo di cosi abili manovre, che cosa avveniva del popolo? Questo aveva saputo procedere dapprincipio all'elezione de'  suoi demogeronti, ma quando fu necessità creare una camera di deputati, i suoi imbarazzi furono immensi. La complicazione della nuova macchina rappresentativa lo gettò senza difesa e senza speranza in braccio alla corruzione, all'intimidazione, all'intrigo. I deputati furono realmente nominati da Capodistria, che, investito d'un potere quasi dispotico, lo adoperò a seconda delle intenzioni della Russia sua mandataria.

Gli avversari di Capodistria non sapevano come liberarsi di quest'uomo, despota in realtà e in maschera liberale, devoto al potere assoluto, mentre pure era stato sostenuto dai liberali, che sapeva mettere a profitto le piaghe e i vizi della Grecia, e che godeva della confidenza di Francia e d'Inghilterra; destinato a sgombrar la via alla conquista russa, e messo a governare questo importante punto del globo dalla mano onnipotente dell'autocrata.

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Non sapendo adunque come comportarsi con esso, lo sopportarono fin dove e fin quando fu possibile sopportarlo, poi si tentò di spodestarlo senza violenza. Ma la Russia si affrettò a intervenire colla sua marina, mentre i rappresentanti dell'Inghilterra e della Francia impiegarono tutta la loro influenza morale, per conservarlo al potere. Allora il furore s'impadronì dei Greci patriotti, e il pugnale, orrenda ed ultima risorsa della disperazione, terminò la lotta.

Il senato, creato per la volontà di Capodistria ed erede del suo spirito, si trovò investito d'un potere arbitrario. Di camera deliberante e consultiva, si fece assemblea costituente. Una commissione del governo provvisorio, sottomessa al sistema russo, fu composta di Colocotroni, Agostino Capodistria, fratello del presidente, e Coletti, capo del partito nazionale, e dopo il cominciamento della rivoluzione, nemico dichiarato del partito russo..-.

Si volle che il suo nome figurasse in questa nuova combinazione tanto per soddisfare all'opinione pubblica, quanto per comprometterlo associandolo agli atti della fazione di Capodistria. In effetto si aveva una gran cura di stabilire, che nel consiglio la maggioranza de'  voti equivalesse all'unanimità. Ma se la Russia era previdente, il popolo greco, che si chiama barbaro, superò, in accorgimento diplomatico, tutte le nazioni moderne dell'Europa, invecchiate nell'intrigo.

Alla fine dell'anno 1831 il senato nominò presidente del governo provvisorio il conte Agostino Capodistria. Poi fu convocata un'assemblea nazionale, che non valse ad altro che a soffiare nelle vampe delle dissensioni politiche.

Il governo diretto dal conte Agostino Capodistria non fu migliore di quello di suo fratello. Indarno sir Stratfort Ganning, attraversando la Grecia per andare in Turchia, additò gli errori e le piaghe dell'amministrazione. Indarno domandò l'amnistia generale, l'apertura delle prigioni, la libertà dei condannati e,de'  prevenuti politici, la formazione d'un governo fondato sulla fusione dei partiti, l'adozione delle misure favorevoli ai veri interessi della Grecia; niente di tutto ciò. Il regno della violenza si perpetuò senza perdere nulla del suo furore.

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I deputati dell'opposizione dimandarono al governo un'amnistia generale, ma il governo stette forte a negarla, e fece anzi bloccare Idra, dov'eransi raccolti i deputati liberali, perché non potessero far parte del congresso d'Argos. Per tal modo quel congresso, composto per la maggior parte d'uomini ligi alla Russia, confermò alla presidenza il conte Agostino Capodistria, ciò che provocò una protesta dell'opposizione, e la protesta scritta fu sostenuta dalla protesta armata, e il giorno 21 dicembre scoppiò un tumulto che bagnò di sangue le contrade di Argo. Il governo fece venir cannoni da Nauplia, ma le sue truppe furon battute dalle bande armate de'  tumultuanti, che, non potendo però continuar la lotta per mancanza di munizioni e d'artiglieria, si ritirarono a Corinto, dove i deputati dell'opposizione nominarono una commissione esecutiva composta di Conduriotti, Zaimi e Coletti, e si disposero a rinnovare con ogni possa la lotta per rovesciare il governo e il conte Agostino, che da Argo era stato sollecito a riparare a Nauplia. L'autorità di lui scemava un di più dell'altro, e continue defezioni indebolivano il suo esercito, defezioni che venivano ad aumentare l'esercito di Coletti, ch'erasi recato a Megara. Tra per queste circostanze e per aver potuto i deputati bloccati in Idra eludere la vigilanza dei vascelli russi e raggiungere i colleghi del loro partito che si trovavano al congresso, l'opposizione v'ebbe la maggioranza, e con un decreto in data del 18 gennaio 1832 fu annullata l'elezione del conte Agostino Capodistria. Se non che quell'elezione era stata riconosciuta da un protocollo delle tre potenze in data del 7 gennaio, e il conte vi si appoggiava e non voleva ceder terreno; ma l'opposizione non ebbe riguardo ad ostacoli, e facendo invadere il Peloponneso da un corpo di Romeliotti, questi, di vittoria in vittoria e in mezzo alle acclamazioni universali, si portarono su Nauplia, e dopo molti combattimenti con Colocotroni, quella città cadde in loro potere, e il conte Agostino Capodistria fu costretto ad abdicare, e parti lasciando dieci piastre nella cassa pubblica.

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Si presentò allora una nuova occasione per ristabilire l'ordine in Grecia. Tutti gli occhi erano rivolti a Coletti In questo momento arriva un protocollo della conferenza di Londra, concepito nell'ipotesi che le raccomandazioni di sir Stratford Canning avessero avuto il loro effetto, cioè che fosse stato realmente creato un governo basato sulla fusione dei partiti. Si esprimeva nel protocollo il desiderio che un tal governo dovesse mantenersi ad ogni costo.

La nazione aveva applaudito alla rivoluzione che si era operata così facilmente, e il partito russo, decaduto in sì poco tempo e rovesciato da un colpo vigoroso, sentiva tutta la sua debolezza; che cosa si fece allora? Si ritornò all'idea di codesta fusione di partiti, che per verità sarebbe stato un eccellente rimedio all'epoca in cui, la Russia onnipotente, avevasi bisogno di trovare un contrappeso, ma che non poteva servir più, nel nuovo ordine di cose, che a restituire all'influenza moscovita l'importanza ch'ella aveva felicemente perduta. Strana combinazione di circostanze! I residenti stranieri non avevano insistito sulla formazione d'un governo misto, quando una tale formazione contrariava i progetti del gabinetto russo e gli toglieva ogni onnipotenza; e ne parlavano invece come d'una necessità, quando appunto un tale riordinamento presentava una buona occasione alla Russia. Tutto adunque si mise in opera, e si volle ricostruire il governo, perché il gabinetto di Pietroburgo ritrovasse una parte almeno della sua influenza. Un nuovo potere anticostituzionale fu dato al senato; gli si diede l'incarico di nominare i membri del governo, e cominciò per eleggere cinque persone, quattro delle quali erano devote alla Russia. Goletti respinse questa combinazione. Vi si aggiunsero allora due altri membri, ma la maggioranza risultò ancora russa. Soltanto a forza di riclami e di rimostranze si ottenne la nomina di sette governanti, quattro dei quali erano costituzionali e tre della fazione russa: se non che fu ritrovato un sotterfugio per paralizzare la nuova autorità. Si dichiarò che la maggioranza di cinque voti doveva essere indispensabile alla legalità degli atti. Nel consiglio i tre moscoviti rimasero indissolubilmente uniti; e il risultato di questa nuova combinazione fu una spaventevole anarchia.

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Quest'infelice paese, sin dal principio della guerra dell'indipendenza, si era diviso in tre fazioni, che portavano i nomi di partito francese, inglese e russo. Ciascuna di queste tre suddivisioni attaccava ad una di queste potenze la speranza dei destini della Grecia. Noi riputiamo che una tale divisione sia stata funesta fin dalla sua origine; ma senza alcun dubbio, dopo la ratificazione del trattato di luglio, ella fu per questo paese una causa perpetua di guerre intestine, e per conseguenza ha servito ai disegni della Russia. Egli era evidente che, a datare da quest'epoca, non potevano esistere che due soli partiti nello Stato. Da una parte gli amici di Capodistria e i promotori dei disegni della Russia; dall'altra quelli che volevano l'ordine, la tranquillità e un buon governo. Era dunque inutile il segno di riconoscimento adottato da ciascun individuo. Quand'uno era manifestamente animato da intenzioni patriottiche e che aveva sufficiente acume per vedere le macchinazioni dei fautori dell'anarchia, era evidente ch'egli apparteneva al partito inglese.

Colocotroni era uno dei capi della fazione russa; i suoi interessi riposavano sull'anarchia; la sua vita era trascorsa nella pratica del brigandaggio. Andrea Metaxa, di Cefalonia, era il nemico della potenza che aveva tiranneggiato Corfù, ed era attaccato a Capodistria per legami particolari. Dotato d'un carattere versatile, non possedeva altra influenza in Grecia che quella acquistata coll'intrigo, e però vedeva chiaramente ch'egli non poteva sostenersi se non appoggiato all'influenza russa, e s'era fatto l'agente devoto di questa potenza.

Zaimi era il primo personaggio che si distingueva fra i capi del sedicente partito inglese. Altre volte si era mostrato alla testa dei primati del Peloponneso. Durante la vita di Capodistria, se ne stette quasi sempre tra le file dell'opposizione, e solo il presidente era riuscito a indebolire notabilmente la di lui influenza, maneggiando intrighi coi primati della Morea. Zaimi, dominato, aveva cercato spesso d'accostarsi al presidente, e di conservare la propria influenza gettandosi nelle braccia della Russia, e ne era sempre stato distolto da circostanze fortuite che sono estranee al nostro racconto.

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All'epoca dell'assassinio di Capodistria, egli trovavasi ad Idra; accettò l'amnistia nella quale era stato compreso, e abbandonò i suoi amici politici quando non li vide a raccogliere altro che la collera delle due potenze di cui difendevano gl'interessi. Cominciando adunque da questo momento, egli divenne il partigiano devoto della Russia, e nel consiglio dei sette andò sempre d'accordo co' suoi nuovi amici.

L'uomo, che pe' suoi talenti era stato messo alla testa del partito inglese, era il principe Maurocordato, di nascita Fanariota, ma che fu de'  primi ad accedere alla rivoluzione. In molte circostanze pericolose e decisive, egli si era comportato assai onorevolmente, e aveva altresì molta fama d'abilità nel maneggio degli affari; tuttavia una certa diffidenza pesava su di lui, e veniva a diminuire d'assai la sua influenza. Dotato d'una sagacità mirabile, Maurocordato s'accorse fin da principio che se l'Inghilterra avesse saputo giocare il suo giuoco, essa si sarebbe facilmente impadronita del terreno, e che allora, per avere il comando della Grecia, sarebbe bastato il poter dirigere il partito inglese. Egli calcolava inoltre sulla preponderanza marittima dell'Inghilterra e sulle immense relazioni commerciali ch'ella aveva in Oriente, e non poteva presupporre che una nazione tanto abile volesse danneggiarsi colle proprie mani. L'Inghilterra aveva inspirato a quest'uomo troppa confidenza. Egli soltanto aprì gli occhi nel momento che la sua testa messa a prezzo, la sua fortuna distrutta, i suoi amici perseguitati, e l'Inghilterra immobile gli fecero vedere che la Russia sola poteva offrire appoggio in Grecia all'uomo politico. Fu allora che anch'esso cangiò direzione, e all'assemblea nazionale si accinse a rappresentare in politica la nuova parte che doveva metterlo al coperto della vendetta moscovita.

Ad edificazione però degli uomini di fede inconcussa possiamo opporre alla condotta del principe Maurocordato quella degli uomini che non hanno mai abbandonato il partito costituzionale. Coletti è il primo nome che noi dobbiamo citare. La sua influenza politica non può essere attribuita al suo attaccamento alla Francia e alla sua posizione come capo di questo partito; giacché la Francia, al pari dell'Inghilterra, ha danneggiato colle proprie mani la posizione che essa aveva diritto di sperare in Grecia.

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L'influenza di Coletti derivò sovrattutto dalle sue relazioni colla Romelia, e dall'aiuto che gli hanno sempre prestato i capi militari di questa provincia. Conduriotti e Mauromicali figuravano altresì in prima linea fra i costituzionali. Considerati come partigiani dell'Inghilterra, essi prendevano la loro forza, l'uno dalle sue relazioni colle isole, l'altro dalle sue relazioni col Maina,

La conferenza formata a Londra dei rappresentanti delle tre potenze aveva intanto nominato un re per la Grecia, fino all'arrivo del quale fu istituito un consiglio esecutivo di sette membri presieduto da Conduriotti; non fu però possibile che le fazioni avessero tregua anche dopo una tale istituzione. A Patrasso si eresse un governo in opposizione a quello di Nauplia, e l'irrequieto Colocotroni appoggiò le pretese del primo. Per tal modo, essendosi indebolito il governo creato da coloro che avevano deposto Capodistria, il partito di quest'ultimo rialzò il capo. I corpi romeliotti e i soldati di Colocotroni furono impegnati in continue battaglie, senza che gli uni potessero mai compiutamente soverchiare gli altri, e una confusione orrenda avvolse per tal modo la Grecia, da far desiderare a quegli stessi che più l'amavano che non avesse mai pensato a ricuperare la sua nazionalità. Ma la fortuna non voleva abbandonarla, e la conferenza di Londra fu oltre ogni credere sollecita nel nominare il principe Ottone a suo re. Le condizioni di quella elezione furono, che la sovranità ereditaria della Grecia doveva passare dal principe Ottone a'  suoi eredi diretti, legittimi, primogeniti, che la corona di Baviera non dovesse mai essere riunita a quella della Grecia. Siccome poi il principe Ottone nel momento dell'elezione era minorenne, cosi fu stabilito che la sua età maggiore cominciasse a vent'anni, ossia al primo di giugno dell'anno 1835; che durante la sua minorità la Grecia sarebbe governata da una reggenza composta di tre consiglieri nominati dal re di Baviera; che le tre potenze dovevano garantire al re un prestito di sessanta milioni, e che, dal canto suo, la Baviera avrebbe dovuto dare alla Grecia un corpo di tremila e cinquecento uomini, perché gli alleati potessero da quel suolo ritirare le loro truppe.

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Due mesi dopo, il 21 luglio fu conchiaso a Costantinopoli un trattato, pel quale la Porta acconsentiva all'estensione dei confini della Grecia, dal golfo d'Arta cioè al golfo di Volo, contro l'indennità di dodici milioni di franchi. Ma tornando all'elezione del principe Ottone, dal nuovo congresso nazionale della Grecia,, convocato il 25 luglio, essa fu riconosciuta e confermata all'unanimità in mezzo alle acclamazioni universali, alle quali però contrastava troppo duramente lo stato di perpetua guerra civile in cui trovavasi la Grecia, e la penuria finanziaria spinta al punto che l'esercito, il quale da qualche tempo non riceveva le paghe, si ammutinò, assalì il governo, e trasse con sé in pegno i più ricchi tra i suoi membri con violenza inaudita. L'arrivo del nuovo re era dunque invocato da tutti quanti s'accorgevano che la Grecia non poteva essere pacificata che da un governo sostenuto da erario e da forze proprie, e tale da far tacere tutte le rivalità, imponendo il rispetto per sé medesimo.

Se non che sul principio dell'anno 1833 la massa degli uomini indisciplinati e dei palicari valorosissimi, ma rapaci, a'  quali giovava lo stato perpetuo d'anarchia, allo scopo di costringere il re a ritirarsi, si riunirono nella pianura d'Argo per dettare ed imporre al futuro governo delle condizioni che non avrebbero potuto essere accettate. Ma i rappresentanti della Francia, avvisati in tempo, fecero occupare Argo dalle truppe francesi, il che diede luogo ad una collisione sanguinosa, che avrebbe potuto compromettere per sempre le sorti della Grecia. I Francesi, agguerriti e disciplinati, poterono, come doveva aspettarsi, sbaragliare i corpi dei palicari sostenuti dal solo cieco. furore. Inaspriti dal quale, i Francesi forse eccedettero nella rappresaglia, avendo invaso anche le case de'  palicari.

Una cupa tranquillità succedette a queste deplorabili scene, e la nazione greca versava tra il timore di nuovi conflitti e la speranza che l'arrivo del re dovesse assicurar la pace al paese, quando appunto il re Ottone veleggiava da Brindisi a Nauplia.

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Il giorno d febbraio discese a terra, e fece il solenne ingresso in quella città fra gli evviva d'una popolazione numerosissima, accorsa colà da tutte le parti della Grecia. Dopo la pubblicazione d'un proclama in cui promise agli Elleni tutto quello che i re sogliono promettere nei primi momenti del loro governo, e nella quale accordava la solita amnistia di pratica, dopo aver veduto quasi umiliati innanzi a sé que' feroci capi palicari, ch'erano sempre sembrati indomabili, e tra gli altri lo stesso orgoglioso Colocotroni, i quali eran venuti a rendere più splendide le pompe regali colle ricche e lucenti loro vesti; dopo aver goduto lo spettacolo della gioia universale, non turbato dal minimo contrasto, del che nessuno s'era tenuto sicuro, non ebbe a far altro che lasciare alla reggenza il pensiero di ordinare lo Stato.

Ma le gioie furono d'un giorno, e pur troppo il consiglio di reggenza trovò un paese coperto di sangue, rovinato, fatto in brani, quasi senza speranza. Noi non ci fermeremo a dipingere la condizione rovinosa della Grecia all'epoca dell'arrivo del nuovo governo, ma per dare una giusta idea delle difficoltà che la reggenza ebbe a vincere, parleremo d'intrighi, d'impacci e d'imbarazzi d'altro genere che le furono provocati contro. Nel trattato 7 maggio 1832 era stato espressamente stipulato che la reggenza doveva essere il governo permanente e definitivo della Grecia, fino all'età maggiorenne del giovine re, fissata al primo giugno 1835, come sappiamo, e che questa reggenza doveva esercitare il diritto di sovranità in tutta la sua pienezza, senza intervento di potenza straniera; perché, diceva il protocollo, se mai tra le due corone di Baviera e di Grecia vi fosse qualcosa che somigliasse ad un'unione, la bilancia dell'Europa sarebbe stata distrutta. Quantunque una tale asserzione fosse esagerata, non si può tuttavia negare che l'intervento del re di Baviera nei consigli della reggenza doveva per lo meno far nascere il pericolo di compromettere tale bilancia.

Si vide allora il senato, che i residenti avevano risuscitato, indotto dal re di Baviera a circondare co' suoi consigli la reggenza. Ma il senato non era che uno strumento russo, e il re di Baviera s'affannava appunto per l'interesse della Russia.

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Il consiglio di reggenza doveva intanto comportarsi con estrema prudenza. Esso consultò prima di tutto gli interessi della Grecia; non riconobbe nel senato né legalità, né popolarità, e lo lasciò cadere nel suo nulla. Stabilì per principio fondamentale della sua politica che agli impieghi fossero ammesse tutte le capacità, di qualunque partito esse fossero. Maurocordato ministro delle finanze; Tricoupi, ministro degli affari esteri; Praidès, della giustizia; Psyllas, dell'interno; Schmalz, bavarese, della guerra; Coletti, della marina, composero il governo. Da questa composizione non furono eccettuati che Golocotroni e i suoi partigiani. La prima impresa a cui attesero, e che in sul principio sembrava pericolosa e difficile, fu.il disarmamento dei palicari. Ma la riuscita di tale impresa fu completa e decisiva, e dimostrò come non sia impossibile governare la Grecia quando alla testa delle cose vi sieno forti intelligenze e forti volontà. La reggenza divise in seguito il paese in nomarchie, e decise che un consiglio scelto nei vari distretti sarebbe attaccato a ciascuno dei nomarchi. Una tale misura ebbe risultati felicissimi. Gli Europei e gli Asiatici, devoti all'imitazione europea, commettono quasi sempre l'enorme errore di applicare il principio dell'amministrazione centralizzata a popolazioni che. pei loro costumi e per le loro abitudini, sono più fatte per l'amministrazione municipale, locale e divisa. Non par vero, del resto, che si debba ancora persuadere agli uomini politici, che. l'essenza appunto della politica sta, precisamente nella simpatia delle leggi coi costumi.

In quanto alle truppe bavaresi furono stabilite su tutti i punti della Grecia nelle fortezze e nelle isole, e per ciò che ne riguardava l'ordinamento, si decretò che la milizia dovesse consistere di dieci battaglioni leggieri, di sei d'infanteria, di quattro compagnie d'artiglieria, di pionieri, del treno, di operai, di sei squadroni di lancieri, sommanti in tutto a novemila uomini circa, ai quali dovevano aggiungersi altre trecento guardie reali in assisa bavarese.

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Passando poi alle altre aziende d'interna amministrazione, fin che si promulgasse il codice, furono instituiti, per rendere giustizia, tribunali civili e criminali, composti d'un presidente, di quattro giudici, d'un procuratore di Stato e d'un cancelliere, i quali dovevano regolarsi colle leggi tolte ai codici di Venezia, e procedere sommariamente e sentenziare senza che vi fosse diritto d'appello. Alla stampa fu accordata libertà assoluta, ma la libera difesa e i pubblici dibattimenti non furono assicurati. Il ministero fu composto di sette segretari di Stato dirigenti sette sezioni, quella degli affari esteri, degl'interni, della giustizia, dell'istruzione e culto, delle finanze, della guerra, della marina. Ordinati tutti i quali rami d'interno reggimento, la pubblica tranquillità cominciò ad aver meno parosismi, il commercio per conseguenza tornò a rivivere, la prosperità ad espandersi. Ma un fatto venne a minacciare di nuovo la pubblica sicurezza, e fu lo scioglimento delle truppe irregolari. Albanesi, Epiroti e Tessali non volendo disciogliersi, né entrare al servizio del governo, abbandonarono il regno dopo essersi battuti coi Bavaresi, portando la desolazione nei paesi per dove passarono.

L'errore però venne dal consiglio di reggenza, che ordinò una gendarmeria all'europea per reprimere questa gente, mentre doveva darsene l'incarico agli stessi abitanti della Grecia. Il generale Heydeck, autore principale di questa misura, avrebbe dovuto ricordarsi di ciò che era avvenuto sotto al governo di Capodistria. Prima che si terminassero le negoziazioni relative al principe Leopoldo, molte orde di briganti infestavano la Grecia. I paesani avevano proposto di armarsi e di purgare il paese da tali bande devastatrici, ma Capodistria rifiutò; la sua politica voleva che il paese fosse ancora per qualche tempo agitato da turbolenze; ma allorquando Leopoldo ebbe rinunciato alle sue pretese, e che non si trattò più di spaventare alcuno collo spettacolo della trista condizione della Grecia, egli accettò la proposizione degli abitanti. Le municipalità seguirono il costume orientale, che rende ciascun distretto immediatamente responsabile degli atti di cui è teatro. La misura fu per tal modo efficace e l'effetto rapido.

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Ciascun distretto fu mallevadore della sicurezza del proprio paese, e in meno d'un mese non s'intese più parlare d'alcun brigante.

La stessa inclinazione alle istituzioni europee si riscontrò Dell'amministrazione delle finanze adottata da Maurocordato. Gli esattori delle tasse si comportarono in modo da provocare l'esasperazione del popolo, che confidava nei vecchi sistemi patriarcali. Il ministro delle finanze volle economizzare il trenta per cento sull'erogazione delle imposte, ma lo Stato perdette più del cinquanta per cento del suo potere. Dopo aver licenziati i palieari, che tiranneggiavano i paesani, il ministro distrusse la popolarità di codesta impresa, facendo entrare nel dominio dello Stato i terreni sparsi, che fino allora avevano servito di pascolo comune. I paesani videro con dispiacere, che in compenso d'aver tolte le armi a soldati tanto temuti, venissero privati d'un loro antico provento. Nè qui finivano le querele.

L'elemento troppo alemanno e bavarese venne col tempo a dispiacere all'universale, che si lamentava delle soverchie lentezze della reggenza, e di un sistema d'interna amministrazione adottato alla prima e mantenuto ostinatamente senza interrogare il genio della nazione greca. La fazione russa, capitanata da Colocotroni, cominciò allora ad alzar la testa, e pareva minacciar futuri disastri, e tanto più in quanto le truppe francesi, che da cinque anni occupavano la Morea, avendo stabilito d'abbandonarla senza più, lasciavano il paese esposto alle gare pericolosissime delle fazioni che rimanevano a contrastarselo. Allora una cospirazione molto estesa, divisa in due partiti distinti, e mossa da quella potenza occulta che non risparmia alla Grecia alcuna miseria, si formò ed ebbe a sostegno alcuni dei nomi più accreditati e più influenti. Da una parte Colocotroni doveva aver ricorso all'imperatore della Russia, presentargli i suoi reclami contro il consiglio di reggenza, chiedergli che si proclamasse l'età maggiore del re, l'espulsione del consiglio e la nomina d'un ministero russo; da un'altra parte un amico di Colocotroni, il conte Roma di Zante, alleato del principe Gustavo Wreda e devoto alla Russia, doveva, coll'aiuto del dottor Franz, segretario del conte d'Armansperg, riclamare presso il re di Baviera l'espulsione di Maurer e del generale Heydeck,

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al posto dei quali doveva collocarsi il conte Armansperg in qualità di solo reggente. Nel caso di non riuscita si rimettevano tutti alla spada di Colocotroni, che con essa doveva tagliare ogni difficoltà.

Nel momento in cui questa duplice cospirazione stava per iscoppiare, si vide arrivare un incaricato d'affari di Pietroburgo, il quale erasi recato a Monaco allo scopo di suscitare il malcontento del re di Baviera contro i membri componenti }a maggiorità della reggenza. I protocolli avevano espressamente dichiarato che le decisioni della maggiorità della reggenza dovevano essere supreme, e tuttavia due corti lavoravano direttamente contro a una tale stipulazione. La reggenza doveva inoltre essere considerata come un potere inamovibile, sino all'epoca dell'età maggiorenne del re, e ad onta di ciò tutte le armi dell'intrigo erano messe in opera per rovesciarlo.

La reggenza era sì malcontenta della condotta di Catacazi, che fu deciso in consiglio, ch'egli avrebbe domandato il suo richiamo alla corte di Pietroburgo. Allorché una tale risoluzione fu annunciata allo stesso Catacaziegli mostrò una lettera del conte d'Armansperg a Nesselrode, nella quale esso dichiarava che Catacazi era assai ben veduto dal governo greco. Non è possibile spiegare del resto in che modo il conte d'Armansperg ha potuto credersi autorizzato a corrispondere colle corti straniere, non solamente all'insaputa de'  suoi colleghi, ma contro alle risoluzioni della maggioranza. Ciò che v'ha di certo si fu, che gl'imbarazzi del governo s'accrebbero notabilmente per la divisione che si manifestò nel seno del consiglio di reggenza.

Ad onta di tutto ciò la congiura fu scoperta, e la spada di Colocotroni fu d'impaccio a sé stessa. II conte Roma prese la fuga, Colocotroni fu arrestato. Il segretario Franz, le carte dèi quale mettevano in grave compromessa il conte d'Armansperg, fu mandato in Baviera dopo un interrogatorio superficiale; e le carte gli furono restituite senza nemmeno averle aperte.

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L'investigazione intanto, incominciata nel mese d'ottobre del 1833, intorno alle cause della cospirazione, aveva messo in luce fatti importantissimi. Abbiamo già detto che la reggenza aveva voluto in principio dar posto nell'amministrazione a tutte le capacità, comunque fossero i loro antecedenti. Andrea Metaxa, uomo di spirito e d'intrigo, stato nominato consigliere di Stato dalla reggenza e nomarca dell'importante provincia di Maina, era segretamente devoto alla Russia. Si scopersero allora i suoi maneggi, le sue relazioni con Colocotroni, e lo si condannò ad un esilio diplomatico, mandandolo al Cairo in qualità di console generale. Egli differì la sua partenza, sotto molti pretesti, si recò a Cefalonia, e vi tramò un nuovo complotto, che scoppiò in Arcadia all'epoca del richiamo di Maurer. Zografos, nomarca d'Arcadia, trascurò d'avvertirne il governo, e fu mandato a Costantinopoli in qualità di ministro plenipotenziario, esilio che subì senza punto sconcertarsi, e si attaccò apertamente al partito russo. Gli stessi motivi determinarono l'allontanamento di Praides, di Psyllas e di Tricoupi. Il ministero fu ricomposto. Si tolse a Maurocordato il portafoglio delle finanze, che s'era mostrato incapace d'amministrare, e fu fatto segretario degli affari esteri e ministro della marina. Coletti ebbe il dipartimento dell'interno; Schinas e Thèoqaris, devoti a Coletti, furono nominati ministri della giustizia e della finanza. Schinas del resto era cugino di Catacazi, ministro russo, ma la sua opposizione alla Russia non fu per questo meno vigorosa; egli si mostrò pieno di zelo per la fondazione del sinodo ecclesiastico, che era tanto avversato dal gabinetto russo, e fu uno degli istigatori più ardenti del processo di Colocotroni. Nell'aprile del 1834 fu presentato contro quest'ultimo L'atto d'accusa, e nel maggio il veterano presentò le sue difese. Mà non era cosa facile il punire quest'uomo; la popolazione greca Jo temeva al punto di non voler deporre contro di lui. D'altra parte il conte d'Armansperg voleva ad ogni costo salvare Colocotroni, e per ciò aveva avuto-l'appoggio di Maurocordato. e quello altresì del presidente del tribunale e di cinque giudici. I colleghi del conte dovettero prendere allora delle misure decisive. I due membri del tribunale furono sospesi dalle loro funzioni, e Maurocordato fu punito coll'esilio diplomatico, e lo si elesse ad inviato presso la corte di Baviera.

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All'Europa potò essere oggetto di meraviglia il veder la reggenza confidare incarichi diplomatici presso le corti straniere ad uomini ch'ella disapprovava, ma era questa pur troppo una dura necessità della sua posizione. Essa non poteva lasciare in Grecia uomini che vi esercitavano un'influenza prepotente. Bensì fu obbligata di trasferire il principe Soutzo da Parigi a Pietroburgo, poiché a Parigi le relazioni di lui colla Russia potevano essere pericolose, a Pietroburgo non potevano avere nessuna conseguenza. Ma tornando al fatto di Colocotroni, si ebbe a durar fatica prima di trovare un uomo di legge abbastanza coraggioso da attaccare di fronte quell'uomo, il cui nome faceva terrore. Il signor Masson, inglese di nascita, ma che, cosa rara, parlava il greco con una facilità straordinaria, ebbe l'ardire d'assumersi un sì pericoloso incarico. Egli si era già incaricato di difendere Mauromichali in faccia alle bajonette russe e al cospetto d'un giurì venduto. I suoi sforzi erano già stati coronati da un felice successo. In questa nuova circostanza poi, l'intrepidezza e l'eloquenza di Masson vinsero il terrore e l'anarchia. Alcuni fatti curiosi traspirarono durante il corso del processo, e non lasciarono più alcun dubbio sulle relazioni tra la Russia e Colocotroni. Questi fu dunque condannato a morte, ma la sua pena non tardò ad essere commutata in una prigionia di vent'anni.

La condanna di Colocotroni non impedi ai nipoti di lui e di Plapoutas, suo complice, di far nascere una sommossa in Messenia e in Arcadia, lo scopo della quale si era di far mettere in libertà i loro capi, e di far promulgare una costituzione. Ma il governo seppe fare in modo ch'ella non prendesse una soverchia estensione. Griva, alla testa de'  Romeliotti e de'  soldati reali, fu spedito contro gl'insorgenti, i quali furono attaccati e sbaragliati presso al villaggio di Solu. In questa vittoria, ottenuta a vantaggio del re e dèi vero partito costituzionale, ebbe massima parte Coletti, uno de'  suoi ministri più abili e più stimati.

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Codeste agitazioni in cui ebbe a versare il regno, non impedirono però che si attendesse alle cose interne del paese, e a quella parte eziandio del pubblico decoro, a cui non si pensa per consueto che in mezzo alla più profonda tranquillità. Si decretò pertanto l'erezione d'una chiesa in Atene, in commemorazione dell'indipendenza data alla Grecia, e di tre monumenti, l'uno a Navarino, dove fu riportata la vittoria che fermò le sorti degli Elleni, l'altro a Petacodi, dove le potenze decisero di dar loro un ordinamento stabile, il terzo in quel luogo presso Nauplia dove Ottone era approdato.

Nel 1834 si pubblicò inoltre il codice penale e il codice di procedura civile e criminale, nel primo de'  quali si provvide a riservar la pena di morte pel minor numero di casi.

In quest'anno si ordinò anche la pubblica istruzione. Si decretò la fondazione d'un'accademia di scienze ed arti, d'un'università, d'una biblioteca, d'un museo archeologico, d'un gabinetto numismatico, d'uno di storia naturale e di fisica, d'un ateneo e d'un osservatorio astronomico. A segnalare poi gli uomini distinti della nazione greca, e quelli ancora fra gli stranieri, che avessero ben meritato di essa, fu instituito l'ordine cavalleresco del Salvatore. Allo stesso oggetto si stabilirono pensioni agli invalidi, alle vedove, agli orfani dei prodi morti per la patria, e una frazione delle terre demaniali da concedersi in proprietà assoluta dei veterani che avevano presa parte gloriosa nella guerra per l'emancipazione della Grecia. Per ultimo, quando furono regolate le diplomatiche relazioni d'uso fra la Porta e il regno della Grecia, si stabilì, con decreto 30 settembre, che la città d'Atene sarebbe stata la capitale invece di Nauplia..

Sempre intento il governo a dare stabilità alle cose interne del paese, molti e grandiosi progetti d'utilità pubblica segnalarono il principio dell'anno 1835. La creazione di una banca, un'impresa di battelli a vapore per mettere in comunicazione la Grecia con Costantinopoli, con tutto il Levante e i porti italiani e francesi di Marsiglia e Genova; una strada ferrata da Atene al Pireo, e i lavori per la totale ricostruzione d'Atene, occuparono in modo la Grecia, da non lasciarle quasi tempo di attendere alle escursioni d'alcune bande di klefti. Pur sul principio dell'anno stesso fu conchiuso un trattato di commercio fra la Grecia e l'Austria.

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Questo trattato si compose di diciannove articoli, in virtù de'  quali fu stabilita una libertà reciproca di commercio e di navigazione, tra i sudditi dell'Austria e della Grecia, in tutti i porti di mare delle due nazioni, per la quale potessero godere d'una perfetta eguaglianza di diritti e di vantaggi commerciali, eccettuati gli articoli di guerra, in tempo di guerra, e. il cabotaggio. Un tal trattato doveva durare dieci anni. Ma, nel mezzo di questi affari amministrativi, giunse il tanto aspettato primo di giugno, nel quale il re, compiendo i suoi vent'anni, toccava l'età maggiorenne, e doveva per conseguenza venir solennemente incoronato. Le insegne del re erano state fatte a Parigi, sui disegni eseguiti dalla mano stessa del re di Baviera. Un discorso del presidente della reggenza aprì la solenne cerimonia, che si compì fra salve d'artiglieria, riviste di truppe, corse in mare su battelli a vapore, e colpi di cannone dei bastimenti della rada. In questo stesso giorno il re diresse ai Greci il seguente proclama:

«Collocato sul trono dalle potenze, che coi loro magnanimi sforzi hanno assicurata la vostra indipendenza, chiamato dal dovere, ho lasciato la mia casa e la mia patria, e fui sollecito di venire in mezzo a voi per consacrare tutta la mia vita all'utile vostro. Voi mi avete accolto con gioia, e la vostra affezione è il contraccambio di quella che vi porto. Io ho invitato la nazione ad unirsi coi legami della concordia, ed ella ascoltò la mia voce. L'anarchia è cessata, e i colpevoli tentativi di rivoluzione furono compressi senza lasciar traccia nessuna. La tranquillità e il buon ordine si sono stabiliti nel nostro bel paese, e le vostre famiglie e le vostre proprietà furono poste in quella sicurezza che per tanto tempo era mancata. Protetto dal trono, il vostro territorio s'è ampliato, le vostre case risorsero dalle rovine, le istituzioni giudiziarie furono create, altre fondate; furono saldate innumerevoli ferite, poste solide fondamenta alla vostra prosperità avvenire. Che sieno rese grazie alla Provvidenza che veglia su di voi, alle tre grandi potenze che cj hanno conservato il loro appoggio, ai vostri nobili sentimenti, alla vostra confidenza nel governo del re. Tuttavia, malgrado tutti i favori del cielo, molte ferite ci restano a rimarginare, ci restano a soffrire molte privazioni, ad onta della prosperità del paese,

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ad esercitare un' assidua vigilanza per far iscomparire le impronte della sventura, che, per più secoli, hanno percosso questo paese. Greci! io conosco i vostri patimenti, i vostri bisogni, i vostri voti. Conosco i sagrifizi incredibili che avete fatto, la magnanimità, il coraggio con cui avete combattuto, la gloria immortale dei vostri avi e la vostra gloria. Io so apprezzare i vostri meriti e i vostri diritti ad esser finalmente felici. Greci! io sarò sempre felice in mezzo a voi, gli occhi miei saran sempre fissi ai vostri interessi, alla vostra prosperità, senza indietreggiare alla vista di verun sagrificio, senza lasciarmi vincere e sopraffare da ostacolo veruno. Io vivrò in mezzo a voi e sol per voi.

«Nel punto di prendere le redini del governo, vi rinnovo la mia promessa di proteggere la religione de'  miei sudditi, di difendere la Chiesa, di rendere giustizia a tutti, d'agire in conformità della legge, e coll'aiuto d'Iddio di difendere e mantenere i vostri diritti e la vostra indipendenza. Io manterrò energicamente l'ordine e la tranquillità pubblica, senza cui non si dà sicurezza. Io stenderò la mia reale clemenza a molti sciagurati, che in questo punto son privi della loro libertà in conseguenza di condanne giudiziarie. Ma il braccio della legge raggiungerà d'ora innanzi tutti coloro che tenteranno di mettere a tumulto il paese, dipendendo la prosperità sua dalla tranquillità onde potrà godere. Che dunque sieno banditi per sempre dal mezzo di noi l'arbitrio, gli odii, la discordia. Io provvederò al miglioramento delle leggi, proteggerò la proprietà e le libertà legali de'  miei sudditi, garantendole col fondamento progressivo delle istituzioni in relazione collo stato del paese e coi giusti desiderii della nazione. A tutte le occasioni testimonierò l'alta mia stima per la Chiesa greca, e prenderò le necessarie misure per la successione al trono. Mi occuperò delle scuole, del loro miglioramento e del progresso della pubblica istruzione. Le arti e le scienze saranno incoraggiate, e torneranno così a brillare in Grecia del loro antico splendore. Né trascurerò mezzi per promuovere il commercio e l'industria, correggere gli abusi dell'amministrazione, accrescere la prosperità del paese. Io mi occuperò sovrattutto del miglioramento delle finanze, per mettere finalmente un bilancio tra le spese e le entrate del paese.

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Non dimenticherò mai né i sagrifizi, né i servigi della nazione, ma i mezzi di cui io posso disporre dovranno essere i limiti de'  miei sforzi. Greci! la mia confidenza in voi e il mio attaccamento saranno senza misura. Non posso dissimularmi, del resto, la gravezza dell'incarico che mi sono assunto; però dal vostro canto voi non dovete abbandonarvi a speranze troppo spinte. I vostri voti non ponno essere soddisfatti che gradatamente. In quanto a me, saprò adoperarmi con tutte le mie forze per adempiere a quella missione, che la Provvidenza m"ha affidata, e nella quale spero di riuscire appoggiato al vostro aiuto. La vostra gloria e la vostra prosperità saranno l'oggetto e la ricompensa di tutti i miei sforzi.»

A seconda d'un tal proclama fu accordata un' amnistia generale per tutti i delitti politici, e troncati tutti i processi già incominciati in questa materia criminale: furono per tal modo rimessi in libertà Colocotroni e Plapoutas.

Rimontiamo ora a qualche «tempo addietro onde vedere gli avvolgimenti, sotto l'influenza de'  quali si venne ordinando il regno dopo l'incoronazione di Ottone. Alla partenza di Maurocordato, la reggenza erasi gettata intieramente nelle braccia del partito nazionale, e si determinò finalmente a promulgare la legge municipale, che le dissensioni interne avevano ritardato sino a quel punto. E il governo avrebbe scansati tanti disordini, sventate le cospirazioni, messi fuor di combattimento gli ambiziosi, s'egli avesse cominciato dal promulgare questa legge, che avrebbe pacificata la Grecia, rassicurata la popolazione, e distrutta l'influenza di Colocotroni e de'  suoi seguaci. Il partito nazionale domandava istantaneamente una tale promulgazione, il partito russo vi si rifiutava. Si conobbero troppo tardi gli opposti interessi che erano in lizza, e il grave errore che si era commesso.

La Russia e il re di Baviera temevano l'ordinamento municipale e rivoluzionario: malgrado le clausole dei protocolli, l'influenza del re di Baviera sui destini della Grecia continuava ad essere possente; quanto al timore inspirato dal repubblicanismo delle municipalità, esso datava da gran tempo.

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Allorquando si volle far sentire a Capodistria l'utilità dell'organizzazione municipale, questi rispose con ambigue circonlocuzioni che non davano alcun significato preciso.

La molla più potente che può esercitare la Russia negli affari della Grecia consiste nell'identità della sua fede religiosa con quella d'una gran parte delle popolazioni della Grecia e della Turchia. «Conservate la fede dei vostri padri, scriveva Nesselrode a Colocotroni; «è l'unico pegno della vostra salute e della vostra prosperità. Nella stessa lettera proponeva che l'imperatore della Russia fosse il protettore della religione greca. Un vascello di guerra sbarcò a Nauplia ornamenti e libri ecclesiastici, imagini sacre, istrumenti di musica, rituali; era una armata allestita per una conquista ecclesiastica, la quale aveva attraversato i Dardanelli per invadere la Grecia. In faccia al palazzo del re s'eresse allora una cappella esclusivamente greca e ortodossa, servita da sacerdoti russi all'uso dei fedeli Greci. Ma il teologo Maurer avversò codesta fusione religiosa, e proclamò la convocazione d'un sinodo greco indipendente. Scoppiarono allora le ardenti reclamazioni dei ministri russi; allora i popi moscoviti si querelarono altamente perché la Chiesa greca precipitasse nell'apostasia. Allora i paesani fanatici di Maina appresero con dolore dalla bocca di Metaxa, che la Panagia (la Reata Vergine) di Tine avea versato lagrime di sangue.

E fu in conseguenza della condotta liberale della loro amministrazione, che Maurer e Abel furono deposti; poiché avevano espressamente contravvenuto alle istruzioni che loro eran venute da Monaco, di farsi ad obbedir Catacazi in tutto. Kobbel, che rimpiazzò Maurer, arrivò carico di dispacci per l'inviato russo, e fu messo a'  fianchi di Catacazi, per aiutarlo a sostenere gl'interessi della Russia. Il generale Heydeck diede allora la sua dimissione, che fu rifiutata: e allorquando il principe Ottone fu dichiarato maggiorenne, egli si dispose ad abbandonare un posto, che non si poteva più tenere, e a ritornare in Raviera.

Il conte d'Armansperg, ch'era il più ostinato rappresentante del partito russo, rimase allora padrone del campo.

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Un diplomatico, che già era stato ministro di Baviera in Inghilterra, fu spedito a sostenerlo col proprio credito. Al giovine re s'imposero intanto le stesse tendenze moscovite, e il suo seguito si compose in modo che medici, artisti, aiutanti di campo, lo venissero formando ed avvezzando alle idee ed alle viste del cunte d'Armansperg, che fu, per soprammercato, nominato dal re arcicancelliere del regno. Così, il vero re fu il conte d'Armansperg. Protetto dalla firma reale, difeso da tutti gli attacchi, egli potè promulgare decreti senza la reale sanzione, mentre il re non poteva far nulla senza ottener prima la sottoscrizione del suo arcicancelliere.

Perché il conte d'Armansperg riuscisse al tutto libero da qualunque soggezione, un'ordinanza del re, in data del primo giugno, disciolse il ministero presieduto da Coletti, che a mandarlo in esilio, sotto colore di onorarlo, fu inviato ambasciatore a Parigi. In luogo suo e d'altri benemeriti della patria, la Grecia vide allora affollarsi alla corte del re uomini vissuti lungi dai pericoli, ed ottenere la protezione dell'arcicancelliere. Esso aveva stabilito di far entrare nel nuovo ministero il principe Soutzo, a quell'epoca ambasciatore a Pietroburgo, il conte Metaxa e i Cantacuzeni; composizione di ministero cosi notoriamente russa, che la diplomazia dovette protestare contro di essa. In conseguenza di che più che mai vennero a fermentare i desiderii per la pubblicazione della costituzione, e lo stabilimento d'un governo nazionale. I giornali, segnatamente, parlavano alto perché la lingua greca dovesse adottarsi come lingua ufficiale, a scansare la confusione inevitabile che derivava dal cozzo delle tre lingue, tedesca, francese e greca. Intanto i briganti, a sfogare le loro ire, senza attendere le innovazioni desiderate, mettevano a rumore le. province occidentali, levavano contribuzioni, incendiavano case, e facevano strazio dei Bavaresi che cadevano in loro potere. E in quelle bande, dove la barbara ferocia era placata da qualche capo giudizioso, i soprusi si commettevano con una veste più politica; tra le altre le masnade romeliotte portavan scritto sui loro vessilli: ch'essi volevano il re Ottone, ma senza corteggio di stranieri e che combattevano ad ottenere una costituzione. Il governo dovette risolversi pertanto a metter Nauplia in istato di difesa.

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Ciò non valse però a mettere in soggezione i banditi. Gli assassinii si commettevano fin presso alle città. La Ftiotide in ispecie divenne il teatro d'una guerra da cannibali, contro i quali non valsero gli sforzi di tre generali alla testa di truppe agguerrite. È però a notare che il cattivo successo di tale impresa si dovette anche al corpo dei soldati bavaresi, non già perché mancassero per sé stessi al loro dovere, ma perché, eccitando la gelosia delle truppe nazionali e del popolo, impacciavano più di quel che giovassero. Ma codesti soldati che riuscivano d'un peso insopportabile alla povera Grecia, tanto stremata nelle finanze, ci conducono a far menzione del prestito di sessanta milioni di franchi, due rate del quale erano già state sborsate, e la terza era stata domandata in novembre con una nota alle tre potenze. Delle prime due rate il governo greco non aveva realmente incassati che poco più di diciotto milioni di franchi, stati consumati per intero in ispese ordinarie e straordinarie, gli altri dovettero impiegarsi a rimborsare Francia e Inghilterra, e i signori Eynard e Thiersch di crediti vecchi, al pagamento convenuto colla Turchia, nelle perdite di cambio e di trasporto, e nelle somme destinate ad uso d'ammortizzazione e d'interesse. Così il tesoro venne a trovarsi assolutamente vuoto sul finire dell'anno 1835, e tutto valutato, l'eccedente delle spese normali sulle rendite normali doveva riuscire per l'anno successivo di oltre a dodici milioni. A questi disastri finanziari, che resero la popolazione più che mai diffidente del governo, vennero ad intrecciarsi le dispute violenti in materia di religione, a proposito della destituzione d'un vescovo greco, per la quale i prelati indirizzarono una protesta, contro cui il governo non seppe né che rispondere, né che fare.

Impacciato da tanto intreccio di cose, l'arcicancelliere si trovò costretto a scrivere al re di Baviera perché volesse recarsi personalmente in Grecia; intanto, per gettare qualche soddisfazione al popolo che reclamava, si promulgò una legge, col titolo di dotazione delle famiglie elleniche, avente per iscopo la distribuzione dei vasti dominii dello Stato ai cittadini greci; per adire alla quale bisognava essere un Greco indigeno o nato in qualche luogo appartenuto già alla Grecia; o, anche senza esser Greco,

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bastava aver combattuto per la causa dell'indipendenza, venendo poi escluso dalla dotazione chiunque esigesse un credito superiore a quello accordato dalla legge. Al fine poi di far tacere le gelosie dei soldati nazionali, si stabilì di formare una falange d'uomini scelti pel servizio speciale del re, nella quale entrerebbero esclusivamente i veterani difensori dell'Eliade. Nel tempo stesso, quasi a controlleria del potere, il governo decretò la creazione del consiglio di Stato, il quale doveva essere la suprema autorità consultiva per tutte le questioni di legislazione civile e criminale; per tutto ciò che si riferiva alla Chiesa nelle sue relazioni collo Stato; che si riferiva alle imposte, al budget, al debito pubblico. Il consiglio doveva essere costituito di non meno di venti membri, oltre il segretario generale e alquanti relatori: il presidente ed il vicepresidente dovevano essere nominati dal re ogni sei mesi. A rendere poi codesta istituzione più gradita al paese, si scelsero, per comporre il consiglio, quegli uomini che si erano segnalati nel servire alla patria. Tra essi figuravano Mauromicali, Maurocordato, Bozzari, Conduriotti, Coletti, Trjcupi e perfino il veterano Colocotroni. Ma la nomina di quest'ultimo provocò una strana meraviglia, perché nessuno poteva comprendere come potesse far parte d'un tal consiglio colui che era stato condannato a morte per delitto di Stato, e pur dopo tante vicende serbava indomabile l'irrequieta sua natura, ed era ancora il più fanatico agitatore della fazione russa.

Tali concessioni si vollero fare al popolo greco prima dell'arrivo del re di Baviera, il quale sbarcò al Pireo il 7 dicembre. Se non che ad accontentare i pubblici desiderii ci volea ben altro. Ciò che volevasi innanzi tutto era la costituzione e il licenziamento delle truppe bavaresi. Avvenne poi che non si eseguisse religiosamente il decreto dell'assemblea d'Argos, relativamente alla distribuzione d'una parte delle proprietà nazionali alle famiglie dei prodi caduti in guerra. Questo bastò a far iscoppiare nel febbraio del 183(5 una rivoluzione nell'Acarnania. A reprimerla provvide il governo, per una parte, col combattere i ribelli di tutta l'energia ond'era capace, per l'altra a cattivarsi la nazione dandole speranze e promesse.

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A tale scopo, fintanto che il ministero si fosse ricostituito in un senso popolare, il re diresse un proclama alla popolazione del continente greco, per eccitarla a prender le armi contro agli insorti. A tal fine fu aumentato il numero delle truppe accampate alle frontiere del nord, e si fece una leva di duemila uomini. Soltanto gli ufficiali e i soldati che avevano combattuto per l'indipendenza dovevano essere ammessi in questo corpo, il quale sarebbe comandato dai più veterani e gloriosi capitani della Grecia, quali erano Zavella, Goura, Grivas, Zongo, Vasso ed altri. Codesto piano, come fu saviissimo, riesci altrettanto fortunato, e tanto più in quanto la rivoluzione aveva trovato sì poca simpatia nel popolo, che quei di Missolungi, non protetti da guarnigione nessuna, s'erano armati contro ai rivoltosi ch'eran venuti ad attaccarli, di modo che, quando giunsero le truppe reclutate dai capitani sunnominati fra i soldati della guerra dell'indipendenza, essi vennero battuti e sbaragliati in guisa che furono costretti a ripararsi al di là del confine greco. Complesso questo movimento, che poteva riuscire pericolosissimo, il re, sicuro che la tranquillità non sarebbe stata sì di leggieri compromessa, per qualche tempo almeno, pensò ch'era venuto il tempo di adempire ad un desiderio suo e ad una necessità del trono, qual era quello di avere una sposa reale. Credette adunque di abbandonare per poco la Grecia onde cercarla in Germania. Si mise così in viaggio nel mese di maggio, lasciando il governo nella padronanza assoluta del conte d'Armansperg. Ma questi, appena il re fu lontano, si vide tosto attaccato dai giornali dell'opposizione, che continuavano a rimproverargli la sua preferenza per gli uomini della Germania, la dilapidazione delle finanze, l'abisso del debito pubblico in cui gettava il paese, e la nessuna sicurezza degli abitanti per essere tuttoquanto infestato da masnade di briganti, che qualche volta osavano portar le loro armi aggressive fin quasi presso le città. «Il conte,» andava ripetendo il giornale più accreditato della Grecia, «il conte non ha fondata, né ordinata cosa alcuna, e la Grecia è ormai sazia di lui.» Ma l'estensore di quel giornale, il Salvatore, che non lasciava mai riposo al ministro, fu citato al tribunale di prima istanza in Atene.

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Il processo fu messo al giudizio ne' primi giorni di settembre. Il popolo, vivamente interessato a tale questione, accorreva ogni giorno affollandosi intorno al tribunale, mentre i soldati bavaresi stavano a guardia parati a respingere la violenza colla violenza. Non ne fu nulla però, ché i giudici, più rispettosi del conte d'Armansperg che del giusto e del diritto, più timorosi della sua persecuzione che del furore del popolo, si disimpacciarono, dichiarando che gli ordini governativi, di qualunque natura essi fossero, erano inaccessibili ad ogni critica, e interdissero la parola al gerente del giornale e a'  suoi difensori, i quali insistevano sul fatto legale, che soltanto la persona del re era inviolabile, mentre il suo ministro era responsabile. Non potendo più parlare, i difensori si ritirarono protestando, e quando il gerente si mosse per seguirli, il presidente lo fece arrestare, ma la prepotenza inaudita noni gli riusci, perché l'uditorio indignato invase la sala, e trasse con sé libero il gerente. Ciò non tolse però che si pubblicasse la sentenza del tribunale, per la quale fu condannato il gerente a un anno di carcere e a duemila dramme d'ammenda, e al redattore in capo fu sospeso l'esercizio della sua professione d'avvocato. Se non che, essendosi il gerente appellato all'areopago, questo distrusse la sentenza che condannava II Salvatore, colpi d'incapacità legale i giudici intrusi, che avevano servito il potere in onta al diritto, e dichiarò libera la stampa di discutere gli atti del governo. Così l'ammenda già incassata si dovette restituire, il gerente fu rimesso in libertà, e il giornale tornò ad uscire in pubblico.

Nel mezzo di questi avvenimenti, e pur a dispetto delle colpe che il conte d'Armansperg aveva in faccia al paese, per volontà e adesione sua si promulgarono molte leggi importanti; una sulla banca e le altre delle imposte sui pascoli e sui bestiami, e quella sulla contribuzione delle case e delle professioni diverse. Ma, tacendo della revisione del codice penale, che fu pubblicata nel 1836, e della compilazione del codice civile, che continuava alacremente, il fatto più importante di tutti fu l'instituzione dei 17 consigli distrettuali, i membri dei quali dovevano essere eletti dal popolo, il che equivaleva a dire che si era già sulla via della costituzione.

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Stavano così le cose, quando nei primi mesi del 1837 si seppe in Atene che il re Ottone aveva sposato la principessa Amelia Maria, figlia maggiore del granduca d'Oldenburg. L'orgoglio greco fu singolarmente colpito nel sentire che le offerte di sua maestà il re della Grecia erano state rifiutate da molte principesse alemanne, prima che una di loro acconsentisse a dividere con lui il trono della Grecia rigenerata. Il re era assente da nove mesi, e aveva lasciato in Atene il conte d'Armansperg arcicancelliere, con poteri illimitati. Durante codesto interregno il numero dei nemici del conte erasi considerevolmente accresciuto, tanto che si era sparso il rumore che la sua dittatura sarebbe stata di breve durata. Si spinse la cosa fino a nominare il suo successore, che dicevasi essere in viaggio anch'esso per la Grecia in compagnia delle loro maestà il re e la regina. Il conte d'Armansperg era infatti stato invitato dal re di Baviera a dare la sua dimissione al re Ottone, e a ritornare in Germania. Ma un tale incidente restò sepolto nel più profondo segreto.

L'improvvisa disgrazia del conte era opera dell'ambasciatore russo. Questo diplomatico aveva eccitato lo czar a spedire alla corte di Monaco il conte Orloff, per dimandare il richiamo dell'arcicancelliere, di cui la sola colpa era di mostrarsi un po' tepido per gl'interessi della Russia, dopo averli troppo secondati. Il conte sperava ancora di scongiurar la tempesta e stornare i progetti de'  suoi nemici prima dell'arrivo del re. Una circostanza particolare lo manteneva in questa speranza, ed era, che il re Ottone non aveva risposto alla lettera, colla quale egli domandava la propria dimissione. Per questo ritardo era forza conchiudere, che i desiderii del padre erano in contraddizione colla volontà del figlio.

I ministri di Francia, d'Inghilterra e d'Austria appoggiavano l'arcicancelliere con tutte le loro forze. Il ministro inglese segnatamente erasi impegnato con tutto il calore e l'attività. La sua condotta era in ciò molto somigliante a quella che avevano tenuto i ministri russi nel 1831 per Capodistria; tanto che, senza l'improvviso richiamo del conte, che troncò di colpo tutte le manovre, una seconda vittima sarebbe caduta probabilmente sotto il pugnale dell'assassino.

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L'amministrazione del conte era caratterizzata dalla caparbietà la più deplorabile; pure non era questo il solo suo rimprovero: egli aveva successivamente allontanati dal potere gli uomini di talento e di coscienza, tolti alla reggènza Maurer e Àbel, spogliati delle loro diverse funzioni o condannati all'esilio diplomatico Coletti, Schina e Lesuire.

I Greci non risparmiavano alcun genere d'accusa all'arcicancelliere, ma in assenza d'ogni rappresentanza nazionale, il loro malcontento non trovava altro sfogo che nei pubblici fogli, la maggior parte de'  quali ridondavano d'invettive contro l'amministrazione. Ma la franchezza non era senza pericoli. L'editore del Salvatore finì per essere assalito dai soldati irregolari di Teodoro Grivas, distinto uffiziale della guerra dell'indipendenza, e divenuto poi il più abbietto satellite del potere. L'editore stava per entrare in casa propria a notte cadente, allorché vide innanzi alla propria abitazione molti individui di equivoca apparenza. Non avendo però alcun sospetto, egli aveva messo piede a terra, e data la briglia del cavallo ad uno che trovavasi vicino alla porta, allorquando un assassino si avventò su lui e gli misurò sulla testa un colpo col calcio della pistola. L'editore fu rovesciato, ma ebbe però la forza di rialzarsi e spingersi verso la porta, che per fortuna in quel punto s'aprì. Avendo gli scellerati presa la fuga, molte persone che li inseguirono, li videro entrare nella casa del general Grivas, il quale non seppe negare dipoi d'aver avuto parte in questo fatto.

L'editore del Salvatore ottenne dal capo della polizia una scorta di due gendarmi, che l'accompagnavano dappertutto, ed egli continuò ad attaccare l'amministrazione del conte con tanta violenza, che l'arcicancelliere lo fece tradurre davanti all'areopago per delitto di libello e di diffamazione.

Ma in quel mentre dovette l'arcicancelliere stesso comparire davanti ad un altro tribunale. Lo si accusava pubblicamente di dissipare i fondi del tesoro, e guardando alle date del versamento del prestito e alla somma del deficit annuale delle rendite, ì Greci non avevano torto di chiedere cosa si facesse del danaro di cui quotidianamente si solevano pagar gl'interessi.

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Bene il consiglio di Stato discuteva il budget di vari dipartimenti, ma una folla di spese diverse erano senza controlleria. Corsero allora infinite dicerie, l'esattezza delle quali si può rivocare in dubbio, ma che non erano del tutto senza fondamento. Si diceva, per esempio, che all'epoca in cui Maurer e Abel furono allontanati dalla reggenza, egli aveali fatti rimpiazzare da un suo confidente, avendo levato inoltre dalla cassa del governo settantamila franchi per pagare i debiti fatti a Monaco. Si diceva ancora che i beni del conte in Germania erano stati liberati da ipoteche molto più superiori alla somma de'  suoi emolumenti. L'esasperazione era dunque al colmo, e se i Greci non avessero creduto possibile un cambiamento all'arrivo del re, probabilmente sarebbero andati a quegli eccessi, che sono troppo facili in mezzo ad un popolo appena uscito da una rivoluzione civile. Le turbolenze di Romelia e di Messenia giustificano abbastanza codesta ipotesi.

L'arcicancelliere sentiva intanto che il terreno gli mancava sotto i piedi, ma egli sperava di poter conservarsi al suo posto malgrado la procella che imperversava da tutte le parti. La voce del suo prossimo richiamo fu dapprincipio contraddetta nel modo il più positivo. Una persona attaccata all'ambasciata osò perfino mostrare un falso dispaccio d'Inghilterra, che smentiva tali dicerie, le quali ebbero a verificarsi pochi giorni dopo. Il conte seppe trar profitto dell'intermezzo per persuadere al consiglio di Stato di presentare al re un indirizzo, dove fosse lodata la saviezza e l'abilità della sua amministrazione. Tre consiglieri soltanto rifiutarono d'apporre la loro firma a questa strana dichiarazione. Questi tre consiglieri furono: Giorgio Conduriotis, presidente del consiglio e primate dell'isola d'Idra; Bollatis, distinto ufficiale di marina dell'isola di Spezia, e Battinos, capo d'una delle più influenti famiglie di Morea. Il conte fece inoltre correre la voce ch'egli stava preparando una nuova costituzione. Per verità era un'abile astuzia per confederarsi il partito costituzionale, ma tutto andò a vuoto.

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Il giorno 14 febbraio, la fregata Porttand, avente a bordo il re, la regina e il successore del conte, entrò nel porto di Egina e su quella stessa fregata l'arcicancelliere dovette imbarcarsi per lasciar la Grecia; così colla dimissione del conte d'Armansperg fu abolita per sempre anche la sua carica.

Questi fatti provocarono l'applauso di tutta la Grecia, il che prova quanto fosse abborrito il ministro, e in generale, il sistema del governo bavarese; ciò non fece però che si mettesse fine a un regime, che l'opposizione designava sotto il nome di xenocrazia; poiché, a capo dell'amministrazione fu posto ancora un altra bavarese sconosciuto, il signor Rudhart. Esso fu nominato ministro degli affari esteri e della casa del re, e presidente del consiglio dei ministri. Quest'uomo per altro portò, al suo primo comparire, un miglioramento notabile nell'amministrazione, avendo fatto abolire la lingua tedesca nella pubblicazione degli atti ufficiali, essendo esso abbastanza esperto della lingua greca, da potersene valere nelle pubbliche bisogne. Se non che questo ministro, sebbene non avesse affatto avversaria l'opinione pubblica, ebbe però un nemico formidabile nel signor Edmondo Lyons, ministro d'Inghilterra in Grecia.

I rancori si svegliarono tra di essi per un fatto singolare. Nel luglio del 1835 il governo reale fu informato, che il famoso Mazzini, istitutore della società segreta, conosciuta sotto il nome di Giovane Europa, stava per inviare in Grecia un suo concittadino, incaricato di formare in questo regno una sezione di quella società. Il governo, persuaso dei danni recati non solo alla Francia e alla Svizzera, ma anche agli altri Stati che avevano dato asilo a codesti membri, e che perciò poteva porre in grave pericolo la tranquillità del paese, ordinò subito a'  suoi ministri e consoli residenti all'estero, d'impedire l'ingresso in Grecia all'emissario Emilio Usiglio, ma questi, ad onta di quel divieto, nel tempo che il conte d'Armansperg partiva e gli succedeva Rudhart, sbarcò senza incontrare ostacolo alcuno, e recossi alla capitale munito di passaporto inglese rilasciato dal console residerite in Firenze.

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Informato di ciò il governo, e credendo di opporsi prontamente alle mire dell'introdottosi emissario, ordinò che fosse tosto espulso dal regno. Usiglio non obbedì a quest'ordine se non dopo avere scagliate alcune invettive contro il governatore della capitale, da cui emanava l'intimazione. Per questo fatto si pretese che il presidente del consiglio, Rudhart, avesse dichiarato la guerra ad ogni libertà. Ma su tal proposito il ministro della Grecia rispondendo molto vivacemente alle accuse, si lamentò dal canto suo che l'Inghilterra, in tale emergenza, figurasse come la protettrice delle società segrete; e non mancò di accennare ad alcune voci sparse intorno alle agitazioni politiche da quest'ultima promosse, e specialmente ai tumulti di Portogallo, Spagna e Italia.

Corsero allora per l'Europa due note diplomatiche, l'una di Lyons l'altra di Rudhart, che fecero molta impressione sul pubblico. Nella prima Lyons rappresentò «che il signor Emilio Usiglio, di Modena, munito di passaporto rilasciato dall'ambasceria inglese in Toscana col visto del console greco di Multa, erasi presentato alla cancelleria dell'ambasciata inglese in Atene, dichiarando essergli stato intimato di lasciare la città prima di sera, e che in caso contrario sarebbevi costretto colla forza. Ch'egli (Lyons) vi aveva dapprima prestato poca fede, ma per le ripetute protestazioni del signor Usiglio. aveva mandato il signor Griffith, segretario della legazione, dal consigliere ministeriale signor Delyanni, onde avere spiegazioni in proposito; che questi rispose ne avrebbe tosto informato il signor Rudhart, e gli avrebbe fatto conoscere i risultati. Così rimaste le cose fino alle ore cinque, il segretario ricevette una lettera di Usiglio, nella quale gli annunziava, che se non partiva prima delle cinque e mezzo, sarebbe stato condotto via dalla gendarmeria, per cui determinavasi recarsi al Pireo prima delle sei.» A questa succinta istoria di fatto, Lyons conchiudeva con queste parole dirette a Rudhart: «Non dovete dimenticare, signor cavaliere, che tale avvenimento darà occasione a profonde considerazioni alle potenze, le quali, avendo contribuito sì efficacemente alla rigenerazione della Grecia e ad innalzarla al grado di regno sotto il dominio del re Ottone,

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non intesero di creare in Levante una potenza, che divenisse, per dir così, agente di polizia dei piccoli Stati italiani, e tramutasse una sentenza d'esilio in una delle morti più crudeli che immaginar si possano.... Per ora mi limiterò ad esprimere il mio rammarico per aver voi mancato a quei riguardi che i vostri antecessori hanno sempre usato verso questa legazione, e che da voi sono posti in non cale nel cacciare dalla Grecia colle baionette un innocente, ché tale devo ritenere il signor Usiglio, finché non mi sieno note le doglianze che può muovere il governo contro di lui.

Nella risposta di Rudhart, si dichiarò, che il signor Usiglio era stato espulso d'ordine di S. M. il re; che in ciò S. M. esercitava un diritto che appartiene ad ogni sovrano, e di cui non era tenuto a dare soddisfazione. Si dichiarò inoltre, non volere il governo che la Grecia diventasse il focolare di politici raggiratori, e perciò essersi prefisso di far severamente eseguire le leggi sui passaporti. Essere Usiglio suddito modenese, ma privo di passaporto delle autorità del suo paese. Non potersi poi riguardare siccome valido quello rilasciato da un' autorità non competente. Intimatogli di partire dal governatore d'Atene, aver esso risposto con insolenza; sapersi dal governo, fuor d'ogni dubbio, esser colui membro della Giovane Italia, ed in relazione con Mazzini; avere perciò adoperato il governo nel proprio interesse, e non in quello dei piccoli Stati italiani, come gratuitamente supponeva il signor Lyons. Quanto alle doglianze mosse perché solo dopo cinque ore il signor Griffith ricevesse una risposta dal signor Delyanni, questi non poteva fare altrimenti, non essendo lecito a qualsiasi impiegato del ministero di comunicare ad un impiegato straniero i motivi che fauno operare i governi, senza averne prima ottenuta la permissione. Per altra parte poi aver il signor Delyanni dichiarato al signor Griffith, che, l'allontanamento del signor Usiglio era stato ordinato dal ministero dell'interno.» Il signor Rudhart quindi conchiudeva: «Credo dovervi far osservare, signor cavaliere, che la benevolenza, da cui le tre potenze non hanno mai cessato d'essere animate per la Grecia, è ben nota al suo governo; ma che questi non intende ch'essa costituisca per le medesime un diritto d'immischiarsi ne' suoi affari interni.

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Per ciò che riguarda al mio modo di trattare la legazione di S. M. Britannica, quantunque non mi sembri che tale considerazione dovesse essere riprodotta in un casa in cui io non poteva supporre ch'ella volesse proteggere tale uomo qual è Usiglio, che non è suddito inglese, e mentre essa non ne ha un diritto speciale. non credo che mi possa venir fatto un fondato rimprovero. Io mi sono prefisso non solo di far rigorosamente il mio dovere, ma anche di prestarmi a tuffi i desiderii che fossero ragionevoli, e dal canto mio nulla più vivamente desidero che di mostrare agli altri la stessa premura, la lealtà medesima, e quella reciprocanza di buoni sentimenti che sola si accorda colle amichevoli relazioni dei rispettivi governi.»

Riportiamo anche la seguente lettera di Lyons a Rudhart, perché gli accidenti della questione, ed altri fatti di gran rilevanza vi appaiono assai chiaramente.

«Ier sera,» tale era il tenore della lettera, «tornato appena in questa capitale, ebbi l'onore di ricevere la vostra in data del giorno 5 corrente, nella quale osservo, con gran rammarico, esser voi d'opinione ch'io, per voler servire a riguardi personali, abbia dimenticata la mia qualità diplomatica. Questa è una grave accusa, signor cavaliere, ch'io rigetto pienamente; e mentre v'assicuro che vingannate, debbo pur confessarvi ch'ella mi sorprende; poiché, quali sien per essere gl'inconvenienti che potrebbero derivare da tale carteggio, non si può negare ch'io vi fui costretto dall'avere voi mancato di cortesia negli usi diplomatici, ommettendo di fare la minima comunicazione a quest'ambasciata intorno all'arbitraria espulsione d'una persona munita di passaporto inglese e col visto d'un console greco; inoltre, perché avete trascurato per ventidue ore di rispondere alle informazioni ch'io vi chiedeva; e infine, per aver rifiutato ogni spiegazione anche dopo il fatto, che venne compiuto nello spazio succennato.

«Quando il primo ministro d'un regno è uno straniero, e affatto sconosciuto al paese, senza conoscenza di abitudini, di costumi, e forse è di sentimenti politici contrarii al popolo che governa, la sua condizione è e dev'essere scabrosa.

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Un rappresentante straniero, riconoscendo il diritto incontrastabile del sovrano di scegliere il suo primo ministro senza consultare nessuna potenza estera, si comporterà sempre con delicatezza, ed avrà riguardo a tal condizione speciale. Ma se accada che il primo ministro sia altresì degli affari esteri, il rappresentante straniero non è, a mio avviso, impedito dal fare il proprio dovere, per ciò che le sue lamentanze contro il governo sono pure riferibili anche alla sua direzione politica. «Qui la lettera si diffondeva accusando il nuovo ministro.dejla Grecia d'essere ostile all'Inghilterra, e di seguire i consigli e la politica delle altre potenze continentali; indi proseguiva: «Tali fatti, o signore, sono pubblicamente noti; non appartiene quindi a me il decidere della loro esattezza, ma non posso però essere dell'opinion vostra, pensando ch'ebbero per iscopo di produrre sull'animo del re Ottone, e sugli stranieri, l'impressione di cui parlate. So all'incontro ch'essi furono generalmente considerati come una confessione della determinazion vostra, di dare, cioè, la preferenza ai principii della politica d'altre potenze. In quanto poi alle relazioni colla Baviera, basta por mente alla notificazione del vostro arrivo in Grecia, nella quale vi si dà il titolo di consigliere e ministro di Stato bavarese. Ciò non vi era molto confacente per dare alla vostra nomina un carattere greco ed indipendente, sì necessario al bene e, posso dirlo, alla tranquillità del paese. Tale spontaneo avvertimento delle vostre relazioni colla Baviera produsse, ne potete esser certo, uno sfavorevole effetto su questo popolo ambizioso, e tanto più pel continuo ingaggio che si fa d'uffiziali e soldati bavaresi, in onta ai desiderii ben noti dell'Inghilterra e della Francia. Oltre a ciò contribuì pure a destare una sciagurata impressione (la quale non so se sia bene o mal fondata), il sistema d'educazione pubblica affidato alla direzione del professore Brandeis, e pel quale avversò i Greci contro la Baviera in modo da produrre tristissimi effetti. Per quel che riguarda a me, come rappresentante d'una potenza, che ha sì grandemente contribuito all'emancipazione della Grecia e alla sua instituzione in regno, aiutandola con prestiti e guarentendo la sua integrità, e non avendo continuamente altro scopo che di consolidarla sotto la dinastia del re Ottone, mi sento in obbligo,

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o signore, di prendere in esame tutti questi particolari, e di volgere l'attenzione sulle troppo probabili e troppo minacciose conseguenze che aver potrebbe un contegno simile a quello usato col signor Usiglio, ove accadesse con altri.».

Dopo queste accuse, e discolpe, e interpellanze, e dilucidazioni, e ingiurie scagliate e restituite, che parvero offendere la dignità della diplomazia e quasi uscirne dal campo, le cose parvero acquietarsi, e l'Europa non badò più a un contrasto che fini in un pettegolezzo.

Lyons non lasciò mai per altro sfuggirsi occasione alcuna per palesare tutta l'antipatia che nutriva per Rudhart. Avendo il re Ottone dato un banchetto, il gran maggiordomo, signor Weichs, secondo l'uso di corte, assegnò, d'ordine del re, a ciascun convitato la dama che doveva condurre a tavola; venuto il momento, il signor Rudhart si disponeva a dare il braccio alla dama destinatagli, quando s'interpose il signor Lyons, dichiarando, con impeto, essere egli il cavaliere cui quella dama era stata destinata. Rudhart fece le sue scuse, ma il gran maggiordomo, chiedendo perdono se a caso avesse preso errore, pregò il signor Lyons di scegliersi un'altra dama. E siccome appunto era rimasta senza cavaliere la signora Rudhart, da tutti assai venerata, gli fece capire che quella volesse accompagnare. Ma invece di aderire all'insinuazione, il signor Lyons, presa sotto il braccio la propria moglie, se ne andò a casa sua, dove rifiutò di ricevere il gran maggiordomo, che vi si era recato per chiarire la cosa. Il signor Lyons mostrò di credere che la cosa fosse stata appositamente così concertata; però, riguardando offesa in lui la dignità della Gran Bretagna, diede ordine che nessun legno da guerra inglese, che approdasse al Pireo, avesse a fare il saluto reale prima che non gli fosse stata data una solenne soddisfazione. A tali inezie private troppo spesso viene a trovarsi congiunta la cosa pubblica!

Ma l'alterco insorto per il fatto dell'Usiglio produsse un tristo -effetto sul popolo greco, il quale s'accorse avere il ministro Rudhart troppo intime relazioni colla Baviera, e tanto più s'accrebbero i rancori quando si vollero assoldate altri ufficiali ed altre truppe bavaresi, e quando la pubblica istruzione fu di nuovo affidata a un professore tedesco.

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Né questi soltanto erano i titoli, per cui il ministro ebbe ad incontrare una forte opposizione; ma riclami ben più gravi si provocarono in proposito di questioni finanziarie,,e della penuria del tesoro, e dei denari sprecati a danno della popolazione povera, per mantenere una folla d'impiegati bavaresi. Costoro erano l'oggetto delle accuse e delle ingiurie dei giornali dell'opposizione, ciò che dava luogo a querele particolari, a scene di violenza, a vendette private, e finì per costringere molti Bavaresi ad abbandonare un paese, dove non era più possibile venire a patti «olla popolazione. Fu. allora che il re invitò il consiglio di Stato a deliberare sulla questione, se la presenza delle truppe straniere era o non era necessaria in Grecia, ma il consiglio di Stato, come doveva attendersi, dichiarò non solo ch'essa era indispensabile, ma che la Grecia era obbligata, in loro riguardo, all'osservanza delle leggi del paese. Soltanto per ciò che spettava alla creazione d'un esercito nazionale, fu pubblicata una legge, per la quale esso venne costituito d'ottomila uomini tra infanteria, cavalleria e artiglieria, la durata del servizio stabilita a quattro anni, l'età dai diciotto ai trenta per la prima leva, dai diciotto ai ventidue per le successive, fissato il numero di duemila reclute per ciascun anno, ed obbligati tutti i Greci indistintamente ad adempiere a questa legge, meno le eccezioni di consuetudine.

Contemporaneamente alla promulgazione di questa legge, per avere il consiglio di Stato fortemente protestato contro alla licenza giornalistica, fu modificata la legislazione vigente, e nel dicembre, una tale modificazione fu promulgata come legge. Per essa, oltre la cauzione di diecimila dramme, imposta precedentemente a tutti i giornali, fu stabilito, che ogni redattore responsabile d'un giornale politico possedesse per cinquemila dramme in immobili, che conoscesse per lo meno la lingua greca antica, che non fosse al servigio d'alcun particolare, e che non avesse mai subite condanne criminali, che quattro condanne per delitto di stampa togliessero la facoltà d'essere redattore responsabile.

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Queste leggi provocarono una tempesta, contro la quale non poté star forte il ministro Rudhart, che fu costretto, verso il 19 dicembre, a domandare la sua dimissione, la quale fu accettata, e per la quale, in mezzo agli applausi della nazione, cessò finalmente d'esistere la tanto abborrita xenocrazia. Zographos, ambasciatore di Grecia a Costantinopoli, fu nominato ministro della casa del re e degli affari esteri; Conduriotti e Zaimi furon chiamati a rimpiazzarlo in caso d'assenza. Pochi giorni dopo, Glarakis fu nominato ministro degli interni, degli affari ecclesiastici e dell'istruzion pubblica. Solamente i tre ministri della giustizia, della marina, delle finanze, Paikos, Kriesis e Lassaris furono lasciati al loro posto.

In questa circostanza il giovine re mostrò la ferma volontà di voler ridursi in mano le redini del governo, e ciò fu caparra d'un avvenire migliore. Avendo abolito qualunque carica arbitraria, e confidandosi, senza riserva, all'amore dei Greci, il re stabilì di mettere in pratica tutte le riforme veramente necessarie, e di ridurre al minimo le spese dello Stato, che prima erano state esorbitanti pel mantenimento delle truppe bavaresi, e per altre dilapidazioni. Le nuove misure posero in sì pieno accordo governati e governo, che la legge sulla coscrizione non trovò ostacolo in luogo nessuno, ché anzi in taluna città fu accolta con entusiasmo, di maniera che s'arrolarono volontari più di centocinquanta giovani appartenenti alle più cospicue famiglie elleniche. Né la disciplina e l'uniforme europea, per la quale i Greci avevano una speciale avversione, fu d'ostacolo a nessuna delle riforme militari. Allorché dunque fu condotta a termine l'organizzazione d'una milizia assolutamente nazionale, si poté licenziare una parte delle truppe bavaresi, che costavano un occhio alla Grecia non ricca. Soltanto gl'Idriotti, indocilissimi e caparbi fra tutti gl'isolani, e che si eran mostrati renitenti alle riforme di lord Cochrane, si opposero alla nuova legge sulla coscrizione, e al punto, che il ministro della marina, Kriesis, dovette recarsi ad Idra, e minacciarla d'impiegar la forza se entro quattro giorni gli abitanti non si fossero sottomessi.

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Gl'Idriotti chiesero allora di poter mandare. una deputazione al re, ma questi si rifiutò a riceverla, onde i rumori si accrebbero nell'isola, e non si racquetarono sino a tanto che una divisione dell'armata navale non venne ad occupare la città fra le grida di viva il re.

Alla riforma capitale della milizia; verso la metà del 1838, tennero dietro altre riforme speciali, come quella delle spese di guerra e del corpo del genio. Sotto la sorveglianza dell'intendente generale della guerra, fu creata altresì una banca per agevolare le relazioni commerciali tra paese e paese.

Tutte codeste misure portavano il loro frutto, il commercio si animò, la prosperità si diffuse. La città d'Atene ed il porto del Pireo parvero trasmutarsi; fabbriche per la filatura di seta, di cotone e per altre manifatture, vi furono introdotte. Ma, a dispetto di tutto ciò, e delle spese ristrette, e dell'entrate accresciute, gl'imbarazzi finanziari non vollero cessare sì presto, tanto più che in quell'anno doveva pagarsi la terza rata del prestito, greco, e la Baviera pretendeva nel tempo stesso d'essere rimborsata d'una somma di due milioni di fiorini, il che provocò il malcontento delle tre potenze. A chiarire il qual fatto giova sapere, che fin dal tempo dell'amministrazione dell'arcicancelliere, il prodotto del prestito era stato inviato in Grecia a mezzo della casa Eschtal di Monaco, perché i conti si saldassero amichevolmente senza che le potenze ne fossero avvisate. Ma il ministero tolse alla casa Eschtal quell'incarico, e volle che i fondi si mandassero direttamente ad Atene. La Baviera dovette allora rivolgersi alle potenze, cogliendo l'occasione dello sborso della terza rata; se non che l'Inghilterra dichiarò acerbamente, che se la Grecia aveva a fare de'  pagamenti, doveva averli fatti colle due prime rate; che, d'altra parte, la Baviera non aveva adempito a nessuna delle sue obbligazioni, perché in forza del trattato del 1832, ella s'era impegnata a sostenere il giovine re Ottone, e che in questa circostanza avrebbe fatto meglio a soccorrerlo, che a reclamare un rimborso di danaro.

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L'interesse delle potenze protettrici non permettendo del resto di lasciare il re Ottone in tale imbarazzo finanziario, fu inviata una nota al re stesso, nella quale si dichiarava che la terza rata sarebbe stata sborsata, ma a condizione che la Grecia darebbe per ipoteca alquanti dominii nazionali, per le rendite dei quali dovevano presentarsi i conti ogni sei mesi; che dalla terza rata di prestito si dedurrebbe l'interesse e l'ammortizzamento per l'anno in corso, che il governo greco era tenuto a bilanciare rendite e spese, che in quanto alla Baviera non poteva pretendere il rimborso della somma data se non fino all'anno 1849. Liberato da tali imbarazzi, il giovine re non pensò più che all'interna prosperità del suo regno, contro la quale non poté nulla la rivoluzione di Messenia provocata dall'arresto d'un tal Manioti e che fu tosto compressa.

Quantunque si potesse dire che la pubblica tranquillità fosse rassicurata generalmente, e che il mare fosse quasi libero dai pirati, pure dalle montagne discendevano sovente i clefti a mettere a rumore il paese; il governo fu dunque costretto a proclamar contro di essi la legge marziale, e ad istituire de'  consigli di guerra per condannare i colpevoli colti sul fatto. Codeste misure spaventarono per tal modo i clefti, che il viaggiare attraverso le montagne cominciò a diventare assai meno pericoloso. Ma se da un lato si acquetarono i briganti, non riposarono dall'altro i nemici politici del paese, e a Maina scoppiò una rivoluzione macchinata, come corse allora la voce, dalla fazione russa. Trecento Mainotti marciarono su Maratona, assalendo i magazzini e impadronendosi dei mercanti. Ma in faccia delle truppe che il governo fu sollecito a spedir loro contro, i ribelli dovettero tosto deporre le armi e ritirarsi, lasciando scornata la fazione che li aveva spinti innanzi, e più sicuro il governo della potenza propria. In questo fatto si vide tutta la fermezza di volontà onde il giovine re era capace, fermezza che parve ancor maggiore, quando si vennero a discutere certi riclami dell'Inghilterra relativamente agli affari delle isole Ionie: perché osò parlare all'Inghilterra un linguaggio alto e severo, in forza di che ottenne che non si turbasse menomamente l'ordine delle cose.

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Di questo fatto la nazione gli fu riconoscentissima, tanto che, quando il re si parti colla sua corte per la Romelia, fu accolto con segni d'entusiasmo per tutti i luoghi dove ebbe a passare. Né qui finirono le sue premure per il nuovo regno, ma provvide anche alla prosperità interna del paese non dimenticando l'istruzion pubblica, ché pensò a far mettere in esecuzione il decreto del 31 dicembre 1826, e il 14 luglio pose la prima pietra dell'Università, istituzione che fu accolta con entusiasmo dopo d'essere stata fomentata da tutti gli sforzi del paese, e poco tempo dopo si pensò all'erezione d'una biblioteca e d'un gabinetto di fisica, ad arricchire i quali contribuirono eziandio moltissimi stranieri. In quest'anno il celebre sacerdote Teofilo Kairis, dopo aver consumati cinque anni a raccogliere denari da tutte le parti, fondò nell'isola d'Andros una scuola cui diede il nome di Orfanotrofio della Grecia. Ma la Russia, che aveva sempre perseguitato al tempo del governo di Capodistria questo venerando sacerdote, gli sobillò contro tutta la comunione greca, e il patriarca di Costantinopoli, che lo scomunicò. Essendo poi cresciuta, in conseguenza di questo medesimo rigore, la popolarità di Kairis, e la sua scuola aumentando ogni di più, il clero russo indusse il governo a far chiudere la scuola, e a citare Kairis in Atene, per rispondere innanzi alla santa Sinodo alle accuse d'ateismo che gli eran mosse contro, e cosi il venerabile sacerdote fu messo al bando del regno come reo d'empietà, né si ebbe timore del popolo, che circondando il suo palazzo, lo chiamava a gran voce e padre e maestro e nuovo savio della Grecia. Un tal fatto produsse tanto rumore che quasi si passò sopra alla dimissione del barone di Hengel, tesoriere del re, stato colto in corrispondenza segreta con un giornale inglese e a danno del suo signore.

La condanna del sacerdote Kairis diede fermento alle questioni religiose. Un membro della santa Sinodo, che in un'opera intorno alla differenza del battesimo praticato nelle chiese di Russia e d'Oriente, aveva combattuto il progetto di riunione sotto d'un sol capo, fu costretto a domandare la sua dimissione.

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Contemporaneamente a fare impressione sullo spirito del popolo fu fatta diffonder la voce della prossima fusione delle due Chiese. Si fondò allora una società segreta col nome di società ortodossa, e lo stesso Glarakis, ministro dell'interno, la presiedeva, ingannando il re iutorno al vero scopo di questa eteria, che era quello di giovare al nappismo, rovesciando l'ordine delle cose. Nell'Epiro, nella Tessaglia e nella Macedonia doveva scoppiare un'insurrezione; ma tutto fu scoperto, malgrado la complicità di molti pubblici funzionari, e il governo potè comprimere la ribellione. Fatti molti arresti, si poterono scoprire le file della congiura; era il conte Capodistria che ¥ aveva provocata e fomentata, ma egli stesso cadde nelle mani della giustizia. Scoperti i principali agitatori, Glarakis fu destituito e nominato governatore della Livadia per allontanarlo dal centro degli affari. Ma una tale condanna, ironicamente dissimulata sotto specie d'onore, non fu accettata dal fedifrago ministro dell'interno, che aveva fatto correre alla Grecia il pericolo di cadere nelle mani della Russia. Nè appena il governo fu uscito da questo gravissimo pericolo, che tosto, e fu sul principio del 1840, trovossi impigliato in altri guai per aver voluto fermare una reciproca convenzione tra la Grecia e la Turchia. Il popolo greco portava un odio troppo implacabile agli antichi padroni perché potesse piegarsi a trattar direttamente colla Porta; ma il governo del re avea creduto opportuno d'inoltrare al Divano delle proposizioni, e con tanta maggior sicurezza in quanto che erano al tutto favorevoli agli interessi politici, marittimi e commerciali della Grecia.

Zographos, ministro degli affari esteri, si recò a Costantinopoli per tale oggetto, e dopo aver superato infinite difficoltà, aveva ottenuto di conchiudere un trattato pel quale il regno di Grecia veniva ad avere considerevoli vantaggi. Ma la repugnanza dei raia greci non potè vincersi per questo, e Zographos fn preso di mira e attaccato da tutte le parti, al punto che dovette giustificarsi per mezzo della stampa periodica; non essendovi modo di far tacere l'opinion pubblica che si faceva anzi sempre più minacciosa, il re fu costretto a rifiutar la sanzione a quel trattato per timore d'una sommossa popolare. Quando poi Zographos lasciò indignato il ministero, il popolo, a testimoniargli la propria avversione, gli pose innanzi alla casa un cumulo di sassi.

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Ma l'odio che i Greci mostrarono ai Turchi, fu loro pienamente corrisposto da questi a Costantinopoli. Quando venne a notizia che il trattato era stato respinto, i mercanti greci che dimoravano in quella città furon costretti a chiudere le loro botteghe, e Rechid pascià, indignato del rifiuto, fece pubblicare che i Greci, a cominciare dal primo ottobre, dovevan cessare dal cabotaggio sulle coste della Turchia; che quelli colti in flagrante nei paesi della Porta dovevano essere tradotti ai tribunali turchi, e che le merci d'importazione greca dovevano essere caricate della tassa del venti per cento. La Grecia dovette per queste misure appellarsi alle potenze, ma il nuovo ministro Christides, spedito al Divano, non ottenne per questo che il decreto di Rechid pascià fosse mutato, ma soltanto che se ne facesse l'applicazione con modi meno ostili.

In questo tempo, -sovra gli altri partiti erasi alzato il partito inglese, impaziente di giungere al potere; a tal fine esso domandò una libertà più ampia nelle elezioni provinciali, il licenziamento definitivo delle ultime truppe bavaresi, e una presidenza assoluta nel consiglio dei ministri. Trascinato pertanto verso il partito trionfante, il re richiamò da Londra Maurocordato, l'uomo più distinto di quel partito, al quale appunto diede l'incarico di formare un nuovo gabinetto. L'abile Greco fu rapido e avvedutissimo nella nuova ricomposizione, e per la prima volta non si videro al ministero uomini stranieri, e quantunque il re avesse esplicitamente e officialmente dichiarato che tutto sarebbe camminato sulla via di prima, Maurocordato esercitò ampiamente la presidenza ministeriale, volle quel che volle, e pretese la subita partenza dei Bavaresi. La circolare ch'egli diresse a tutti i governatori del regno fu generalmente approvata come generalmente fu lodata la fermezza della sua volontà, ma quando giunse il momento delle elezioni comunali, una camarilla, che non s'era mai dilungata dai privati consigli del re, cercò di dominare le elezioni in un senso ostile al nuovo ministero per accelerarne la caduta. Nè il re dissimulava ai ministri stessi la poca simpatia che aveva per essi. In conseguenza di ciò Maurocordato diede la sua dimissione il 22 agosto, e fu seguito da quasi tutti i suoi colleghi.

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Intanto che avveniva questo cambiamento e che il re ricostituiva il ministero con altri uomini greci, tra i quali trovavansi Christides e Crizeis, il ministero francese diresse alle potenze un dispaccio relativo alla condizione della Grecia. In quella nota s'insisteva sul fatto, che il re, preso continuamente di mira dalle pretese rivali delle fazioni, nascondendosi nell'isolamento che lo allontanava dal popolo, non poteva camminare di piè sicuro, aggiornava ogni cosa ed era nel pericolo di cadere nella nullità, non trovando appoggio in nessun luogo. Che le cose erano giunte a tal punto, ch erasi creduto opportuno a metter fine a codeste esitanze, persino di dare alla Grecia un governo costituzionale; ma che la Francia non trovava nell'ordinamento interno della Grecia, e nemmeno nelle abitudini del popolo, gli elementi omogenei a questo modo di governo; bensì, essa ripeteva, che per avviare la Grecia ad un migliore avvenire bisognava cercarne i mezzi nelle istituzioni già esistenti in Grecia. Conchiudeva dunque proponendo che si aumentassero le attribuizioni del consiglio di Stato, corroborandolo coll'aiuto dei consigli provinciali e municipali di cui le tradizioni erano antiche nel popolo greco.

Intanto la fazione inglese, punta di non aver potuto confermarsi al potere, sostenne che il nuovo sistema di governo era per ogni verso retrogrado, e che la nessuna fiducia che inspirava, impediva che potessero aver luogo le operazioni della banca nazionale. Ma il governo rispose coi fatti alle parole del partito inglese, e fece tanto ch'essa potesse incominciarle per il principio dell'anno successivo.

Nel 1842 infatti il governo greco non ebbe a cuore che la confezione delle leggi finanziarie, ché più d'ogni altra cosa gli premeva di creare la ricchezza, e per stabilirsi bene in casa propria, e per emanciparsi il più presto possibile dall'assistenza politica delle potenze straniere; però insieme al cominciamento della banca nazionale, le dogane furono completamente riorganizzate. Il giorno 12 gennaio 1842 ne fu promulgata la legge in dodici capitoli, che fu tosto messa in esecuzione. Il governo pertanto fu degno piuttosto di lode che di censure; ma in quanto al paese, la cieca ostilità delle fazioni che si lasciavano guidare dalle straniere influenze impediva continuamente che lo spirito greco assumesse un carattere proprio.

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La sola cosa intanto, onde il popolo si mostrò preoccupato, fu la questione delle istituzioni rappresentative, alle quali il governo ebbe torto di guardare con troppa indifferenza, fiducioso che bastasse al paese la prosperità reale, e senza considerare che il popolo si compiace talvolta più delle forme esterne che del ben essere reale, perché il popolo non è che l'uomo collettivo, che, al pari dell'uomo individuo, getta talvolta le ricchezze per gli onori, la dignità, la libertà.

In questo stato continuarono le cose per tutto il 1842 senza che vi fosse nessun avvenimento di rilievo, e così la Grecia parve avere imparato a vivere in calma. L'anno successivo si aprì medesimamente in pace. Gli esperti però s'accorgevano di qualche sintomo foriero della procella. A dispetto delle leggi di finanza, della banca nazionale e delle dogane, gl'imbarazzi ond'era iugulato il governo erano appunto imbarazzi finanziari. E dal prestito contratto fin dal 1833 se ne dovevano ripetere le cagioni. La Grecia non avendo credito sufficiente per inspirare fiducia ai capitalisti d'Europa, le potenze protettrici dovettero a quel tempo farsene garanti. Ma anch'esse, alla lor volta, per garantirsi contro a qualunque evento,. serbavano in propria mano la terza rata del prestito. Ora avvenne che le potenze l'ebbero consumata per il pagamento della rendita, senza che la Grecia si trovasse al punto da potere adempiere ai propri impegni. Allora le potenze riunite in conferenza a Londra dovettero acconciarsi per continuare ai creditori della Grecia il pagamento degl'interessi, e tutto si combinò amichevolmente, ma nel paese questo fatto produsse una grande sensazione, e il re, per far tacere le accuse, dovette ridurre la cifra della sua lista civile. Ma se questo fatto diede argomento a molti parlari, doveva presto esser posto in dimenticanza per un fatto di molta maggiore importanza. Il popolo che, siccome abbiamo detto, ambisce le forme che lo costituiscono in dignità, e le antepone talvolta al benessere materiale, più che alle questioni finanziarie erasi interessato a quelle del governo rappresentativo, e la parola Costituzione avea suonato all'orecchio degli Elleni con sì potente fascino, che non seppero più abbandonarne il pensiero.

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Fin dal 1828 gli ambasciatori delle tre potenze riunite a Poros non aveano mancato di gettar qualche lusinga ai desiderii del popolo. Essi avevano detto che nel proporre di stabilire in Grecia un governo ereditario, non volevano impedire ai Greci di partecipare al potere legislativo, dal momento che perfino sotto il dominio turco solevano eleggersi i loro magistrati municipali, e che i loro primati erano generalmente investiti del diritto di ripartire le imposte esatte dalla Porta. Così pensarono di quel tempo gli ambasciatori delle tre corti, ma la Russia, senza farne le viste, lavorò sott'acqua, e avversò quelle idee per lei soverchiamente liberali. Assecondata poi dal conte Capodistria, ella si affannò a mostrare come fosse una strana illusione il pensar seriamente a organizzare in Grecia un governo basato su principii costituzionali. In conseguenza di ciò, quando la Grecia ottenne un re, l'ebbe senza istituzione rappresentativa. Ma in mezzo alle vicende molteplici che gli Elleni ebbero a subire, non seppero mai dimenticare le promesse di Poros. Guardando a questo non mai soddisfatto desiderio dello spirito pubblico, alcuni pochi pensarono di attuare la costituzione, imponendola per sorpresa al governo quando meno ei se lo pensava. Però, l'insurrezione scoppiò in Atene senza che nessuno l'avesse preveduta, perché ella non era che il voto e non l'opera della popolazione. Bensì l'autore principale ne fu Calergis, e Metaxa quegli che ne raffermò il successo.

Vociferavasi già dovesse aver luogo un movimento rivoluzionario in que' giorni, ma nessuno vi prestava fede, perché tali voci venivano sovente sparse da alcuni che volevano darsi certa importanza, o da altri che speravano con ciò di provocarla. Del resto, la causa vicina più probabile di questo movimento fu l'orgoglio offeso di taluno. In occasione dell'anniversario della festa della rivoluzione, la quale accadeva in primavera, furono promossi a gradi superiori alcuni palicari, molti de'  quali di nome affatto sconosciuto alla nazione. Ciò produsse qualche malcontento, e diede origine ad altri maggiori. La congiura fu ordita con molta cura, e si estese non soltanto fra i capi dei palicari nella capitale, ma sibbene ne' più remoti angoli del regno. Le riduzioni ch'ebbero luogo nell'esercito e la partenza delle truppe bavaresi favorirono il disegno.

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Sulla fine d'agosto partirono i cannonieri bavaresi, e si stabilì di promulgare la Costituzione al 19 settembre, ma, per circostanze particolari, la rivoluzione scoppiò il 15. 1l rnirarca della gendarmeria n'aveva avuto sentore, per cui furono intercettate alcune lettere che compromettevano molto Macryani e Calergis, per la qual cosa venne istituita una segreta corte marziale e, dato tosto l'ordine del loro arresto. Nella notte del 1.4 al 15 una divisione di gendarmeria recossi all'abitazione di Macryani; questi, raccolti intorno a sé alcuni palicari che aveva in casa, lor disse: «Figliuoli, Siam traditi; la nostra vita è in pericolo, viva la Costituzione!» e con tal grido di guerra mossero in,-, contro ai gendarmi, e ne uccisero uno. Indi s'avviarono verso la caserma maggiore, dove l'infanteria si mise tosto sotto le armi. Pochi momenti prima fu recato avviso della congiura scoperta a Calergis, che stava giuocando in una casa; ma egli, senza perdersi d'animo, uscì tosto, e messosi alla testa della cavalleria, di cui era comandante, fece battere la generale. Una folla di persone correva per le vie gridando: «Su, su, amici I Come mai ve ne state addormentati? Su, su presto, a palazzo! Chiedete la promessa Costituzione» All'istante da cinque a seimila persone trovaronsi radunate davanti al palazzo del re, chiedendo tumultuosamente la Costituzione. Esso mosse varie difficoltà e domandava qualche dilazione, ma il popolo gridava fortemente: Costituzione! Subito! subito! Il re, che trovavasi solo, e privo de'  suoi aiutanti, tranne Grivas, Colocotroni figlio e il colonnello Hess, spedì tosto il primo di questi in cerca di truppe, ma egli venne arrestato da Calergis per aver rifiutato di giurare per la Costituzione, e soltanto venne lasciato libero sotto la parola d'onore che non avrebbe mosso alcun passo contro di essa. Colocotroni venne trattato allo stesso modo, e allorquando venne spedito l'uffiziale d'ordinanza al palazzo, barone di Steindorf, alla caserma d'artiglieria per prendervi i cannoni, gli fu risposto dal comandante di essa ch'egli obbediva ad altri ordini; e tosto l'artiglieria venne disposta in batteria contro il palazzo. Il re dovette allora sottoscrivere il proclama alla presenza di Calergis, il quale gli stava davanti colla sciabola sguainata; ma la Costituzione noti venne da lui giurata, e soltanto nelle sottoscrizioni alle ordinanze usò l'espressione: Io accordo.

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Calergis ordinò intanto che si portasse il nastro rosso, non potendosi al momento coniare una medaglia, ed i negozianti che avevano la fortuna di possederne, lo vendettero a caro prezzo. I più caldi lo portavano foggiato a grandi rosette, i più moderati s'accontentavano d'un pezzettino all'occhiello dell'abito, e i paurosi cercavano di nasconderlo, e lo mostravano a norma delle circostanze.

La Costituzione venne accolta dappertutto con giubilo ed entusiasmo, e tranquillamente nelle province. Solo in una fortezza di confine si venne alle mani, e vi furono sessantatrè tra morti e feriti. Il comandante della guarnigione di Nauplia, il- tenente colonnello Fabricio (filelleno), venne arrestato per non aver voluto prestarvi giuramento prima di riceverne la notizia ufficiale, e si trasferì poscia a Rodius. Il generale maggiore Grisioti, capo dei palicari romeliotti, era in marcia per Atene con duemila uomini, quando venne avvertito con istaffetta di retrocedere, ché tutto era passato tranquillamente. Calergis, in quest'occasione, commise un grave errore facendo mettere in libertà i debitori privati e quelli dello Stato, alcuni dei quali dovevano in totale la somma di dieci milioni di dramme, e gli esattori fraudolenti delle decime. Macryani voleva fare lo stesso coi malfattori, che in numero di sessanta trovavansi nelle carceri criminali, ma per buona sorte venne impedito da Calergis, il quale la faceva da dittatore.

Il re, abbandonato da tutti i suoi amici, non par?e conservar più l'ombra del potere. Però, corse voce, che allorquando tutto fu compiuto, ei volesse abdicare e rinunziare affatto al trono; ma che la regina e gli ambasciatori esteri, lo persuadessero a rimanersene e ad adattarsi, come|fece, alle circostanze.

Intanto, a diffondere vastamente la notizia della rivoluzione compiuta, l'Osservatore greco uscì con questo preambolo:

«Una saggia rivoluzione, compiuta in un giorno, in mezzo all'ordine più perfetto, senza che nessun grido malevole sia stato proferito, neppure contro ai Bavaresi, ha rinnovato i titoli del popolo greco alla stima, alla simpatia delle nazioni e de'  governi. Si sa in qual misera condizione si trovasse la Grecia.

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Gli Elleni avevano esaurito tutti i mezzi per ricondurre il governo in una via nazionale. I parlamenti di Francia e d'Inghilterra, la conferenza di Londra, avevano indarno riconosciuta la giustizia de'  lagni troppo numerosi del popolo greco; il governo persisteva nulladimeno nel suo consueto contegno. Questa nazione era costretta ad immergersi nell'abisso scavato da dieci anni di falli e d'imperizia, od a ritrarsene con uno sforzo pericoloso, ma divenuto inevitabile. Da qualche tempo, s'intendeva da tutte le parti del paese a preparare tal movimento affinché egli avesse a succedere senza disordine. Il malevolo comportamento, assunto dal governo contro coloro che si sono sforzati d'illuminarlo; le disposizioni straordinarie prese in questi ultimi giorni pel fine d'attentare alla libertà, alla vita medesima de'  cittadini più devoti agl'interessi nazionali, dovettero accelerare la manifestazione del movimento che si apparecchiava.

«La giornata del 15 settembre sarà, d'oggi in poi, una gran festa nazionale; ell'ha consolidato il trono ed assicurata la futura prosperità della Grecia. L'entusiasmo che c'inspira, e che ci sforziamo di moderare scrivendo queste linee, a fine di non presentare all'Europa se non la esposizione de'  fatti, non ci permette di tacere appieno quanto tale rivoluzione fu toccante, spontanea, esemplare. Il popolo greco si alzò in tale incontro a livello della nazioni più incivilite, più degne di simpatia; ei fece una rivoluzione pura e senza macchia, egli che appena esce da un' oppressione di tanti secoli! l'Europa, ne siamo certi, renderà giustizia agli Elleni.

«Or non ci rimane che rivolgere le nostre congratulazioni a questa saggia ed intelligente popolazione, al patriottico esercito ellenico, a'  suoi capi, ed a rammentar loro che il compimento di quest'opera avrà effetto col mantenimento non interrotto dell'ordine pubblico, qual ei sussiste al presente. Certo, l organizzazione della guardia nazionale ne sarà in breve la più sicura garanzia.

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Diffatto, malgrado l'agitazione degli animi, la quiete si mantenne nella capitale, quantunque ognuno andasse armato fino ai denti per le contrade.

Come appena il ministero entrò in funzione, si occupò tosto a rinnovare i membri dell'amministrazione e a provvedere per la convocazione dell'assemblea nazionale. Un grave pensiero però lo preoccupava, ed era, che nel punto dell'incertezza del movimento rivoluzionario d'Atene, si erano chiamati da ogni parte molti palicari di Morea, e specialmente quelli di Romelia, onde valersi in caso di bisogno. Per meglio assicurarsi della loro adesione, erasi fatta spargere la voce dell'arrivo di Coletti, il quale aveva molta influenza su costoro, e che il movimento sarebbesi appunto operato sotto la sua direzione. Il nome di Coletti era da tutti tenuto in gran credito, e perciò da ogni parte accorrevano i palicari; ma terminata che fu la cosa, non si seppe più che farne di tanti armati.

Da gran tempo temevasi la loro indocilità, il che dava seriamente a pensare al nuovo ministero nei primi giorni, ma la sera del 17 le apprensioni si calmarono. Infatti, il dì prima vennero spediti molti corrieri in tutte le direzioni onde sospenderne la marcia, e si seppe di poi ch'eransi fermati. Criziotis lasciò i suoi a Colcide, e tutti gli altri manifestarono l'intenzione di non proceder più oltre. Infine, dopo gli avvenimenti accennati, i palicari s'abituarono a migliori condizioni. Alcuni di questi venivano ammessi alla corte, altri s'impiegarono nella pubblica amministrazione, e ciò valse non poco ad uniformarli alle costumanze occidentali ed all'osservanza delle leggi, e i più di essi s'ammogliarono, per cui la prosperità e il buon ordine parvero finalmente essere stabiliti. Il vecchio Colocotroni era morto da poco tempo, e dopo di lui morirono altri capi ancora, la cui voce bastava per suscitare la ribellione.

Ma intorno a questi fatti accaduti in Atene molti furono i parlari che si fecero in Europa.

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La stampa periodica, devota all'ordine, andava dicendo non potersi che estremamente deplorare il modo con cui furono compiuti, che l'autorità regale era stata violentata, senza ch'essa avesse violata alcuna legge; che qualunque fossero i motivi che adunarono il popolo, l'esercito e il consiglio di Stato medesimo per imporre al re i loro voti, ch'era sempre una grave offesa al principio monarchico e a quell'unità di cui la Grecia aveva bisogno più d'ogni altro paese, poiché una monarchia solidale era la garanzia necessaria alla sua indipendenza; che per proprio suo utile essa, malgrado le giuste lagnanze che aver potesse contro un governo bene intenzionato sì, ma poco abile, doveva aspettare ancora ed aver pazienza; ché nessuno rifiutava al re Ottone la coscienza de'  propri doveri, e il vivo attaccamento pel paese di cui cingea la corona e gli sforzi delle potenza, le quali nutrivano per la Grecia una  vera amicizia scevra d'ogni venalità, avrebbero senza dubbio terminato coll'ottenere fra sovrano e popolo un'avventurata transazione. Sotto un'amministrazione più ferma, più illuminata e più indipendente, essa sarebbe giunta a poco a poco, senza scosse rivoluzionarie, fino a quella libertà politica, che è il compimento della civiltà.

Questi amici dell'ordine non mancavano però di soggiungere, che non si voleva accusare di leggieri un popolo sì intelligente, valoroso e degno di riprendere il suo posto nel mondo, e che non altro era a desiderarsi fuorché fosse capace d'usare sobriamente e con saggezza della libertà politica che aveva conquistata! Gli ultimi fatti, confessavano essi, si sono compiuti in modo che non si può rifiutar loro il carattere d'una volontà nazionale. L'ordine fu mantenuto quanto poteva essere nessuna violenza, nessuno di que' delitti, troppo frequenti nelle commozioni popolari, macchiò il trionfo di coloro che domandavano una costituzione; e in questa unanimità stessa, e in tale moderazione vi è quanto basta per nobilitare la necessità sottó cui il re ha piegato. Quel giovine principe non disperò punto di sé stesso e della Grecia; e rimanendo al suo posto, ei s'acquisto un titolo alla stima dell'Europa ed alla riconoscenza del suo popolo.

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In una condizione penosa ei si assoggettò ad un personale sacrifizio, e non ha disertato il trono.

Consideravano poi, che ogni tentativo di reazione non poteva avere che deplorabili effetti, e bisognava essere nemici del re per consigliarlo ad intraprendere una lotta, che sarebbe terminata colla ruina del trono e con un'orribile confusione. Che se l'assemblea nazionale, che stava per radunarsi, era senza dubbio una peripezia pericolosa, pure avrebbe anche potuto essere una crisi salutare. Né costoro mal s'apponevano, perché la Grecia non avea d'uopo che d'una buona amministrazione e dell'autorità reale, regolata con saggi limiti. Né doveva disperarsi del patriottismo e della ragione d'un popolo, il quale ben sapeva che, avventandosi nelle rivoluzioni e nelle turbolenze civili, avrebbe aperta la porta ai raggiri di tutti coloro, che vedevano con occhio geloso la prosperità e l'indipendenza sua. Supponendo che tali raggiri avessero avuto qualche parte nel movimento scoppiato in Atene, i nemici della Grecia non dovevano far altro che spingere il re ad una resistenza dissennata. Ma finché le cose continuavano del primo passo, non c'era rivoluzione, e nulla era perduto. Non trattavasi che di un cangiamento, il quale, condotto con prudenza, doveva migliorare lo stato interno della Grecia, senza pregiudicare le sue buone relazioni colle potenze protettrici. Una reazione avrebbe ridestate le passioni assopite; una reazione sarebbe stata il segnale d'una rivoluzione completa. E qual probabilità di buon successo poteva avere? Con quali forze il re avrebbe tentato d'imprenderla? Il re della Grecia poteva abbassarsi a non essere più altro che un capo di partito? Le memorie ch'ei vuol lasciare in quel paese, conchiudevano finalmente gli amici dell'ordine e della Grecia nel tempo stesso, dove trovò una corona, non saranno esse se non memorie di lotte intestine e di calamità? L'onor suo non è di ricuperar il potere perduto, ma di rimaner fedele alla sua promessa. La Grecia, dal canto suo, non abuserà della sua vittoria; vittoria sempre pericolosa, quand'ella è riportata contro le leggi e contro l'ordine costituito. Ella renderà al trono, con sagge istituzioni 'l prestigio e la forza ch'essa ha momentaneamente perduto;

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si rammenterà che quel trono è uno scudo contro le cupidigie che l'assediano e che già la divorano in isperanza. La moderazione del popolo, la condiscendenza e la fedeltà del re, sono le basi sulle quali si fonda tutto l'avvenire della Grecia.

 Noi sentiamo, --- diceva la stampa francese, «una profonda simpatia pel popolo ellenico, quel popolo generoso che ricuperò la sua indipendenza a prezzo di tanto sangue. Sarebbe troppo doloroso che il compimento di tanti sforzi fosse la miseria, l'anarchia e la ruinal L'Europa calcolò molto sulla Grecia: essa volle farne uno Stato che servisse di barriera a disegni ambiziosi di conquista. Ebbe fede nella maravigliosa intelligenza del popolo greco, nelle rimembranze della sua antica grandezza, nel suo eroismo, nello spirito d'indipendenza e di libertà. L'Europa ha combattuto per quel popolo amico, ne ha guarentito il territorio, le ha dato un re e le fece generosamente parte de'  suoi tesori. Che vogliamo noi, se non che la Grecia sia felice, sia libera, e faccia rifiorire una seconda volta nel mondo l'ammirabil suo genio? Niuna cosa domandiamo per noi alla Grecia: non le chiediamo che d'esser degna di sé stessa e di corrispondere a'  propri destini.»

Ma quasi in risposta a queste voci del giornalismo europeo, Metaxa, compiuta e raffermata la Costituzione, diresse uia nota alle tre potenze protettrici. Il nuovo ministro degli affari esteri tentò di giustificare in essa la trasformazione dello Stato greco in monarchia costituzionale, riferendosi alla promessa formale ed iterata della conferenza di Londra, nella risposta confidenziale ch'ella spedi al plenipotenziario di Baviera in data 7 maggio 1832. L'inviato bavarese presso la corte di Saint-James aveva presentato, in nome del suo governo, alla conferenza di Londra quattordici punti, i quali concernevano l'elezione del prìncipe Ottone a re della Grecia, e intorno a Cui si desiderava anzitutto intendersi colle tre potenze. In uno di tali punti enumerava i pericoli a cui s andrebbe incontro se si determinasse la costituzione del nuovo Stato greco sin dall'arrivo del re Ottone. È grandemente a temere, che tale carta non sia il prodotto dell'effervescenza e l'epilogo di deliberazioni agitate dalle passioni, vi diceva il delegato bavarese;

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pure, egli aggiungeva, lungi dal voler fondare un governo arbitrario, è a desiderarsi che esso sia forte e monarchico, ed abbia ad esser riserbato al principe di soddisfare al voto nazionale nelle forme che l'esperienza avrà dimostrato più favorevoli allo sviluppo della prosperità.

Il ministro Metaxa si fondò pertanto su ciò nella sua nota; dimostrando che, essendo state le forme d'amministrazione introdotte nel 1833, provate da un'esperienza di dieci anni, la nazione greca aveva il diritto d'introdurre una nuova forma di governo, come la conferenza di Londra aveva espressamente notato nell'articolo terzo delle istruzioni comunicate agl'inviati delle tre potenze protettrici in Grecia, in data 7 maggio 1832, ove è detto: «L'assemblea generale della nazione potrà eleggere nel proprio seno una giunta, incaricata d'adoperarsi colia reggenza alla costituzione definitiva dello Stato, la quale venga regolata col libero concorso della nazione e del suo re.» Infine, lo stesso Metaxa s'appoggiò ad un dispaccio del ministro bavarese degli affari esteri, in data del giorno 31 luglio 1832, in cui leggevasi il seguente passo: «Una delle prime cure della reggenza rea' e, nominata a tenere le redini del governo durante la minorità del re, sarà di convocare un'assemblea generale della nazione per ricevere il re eleggere nel seno di essa una giunta, incaricata di cooperare colla reggenza a preparare la costituzione dello Stato.» Con tali citazioni, il ministro greco cercò di provare che gli atti del 15 settembre rimanevano entro i limiti della legalità, avendo chiesto soltanto al trono la pronta convocazione d'un'assemblea nazionale, la quale doveva, unitamente al re, determinare la costituzione definitiva dello Stato.

Ad onta però di tali convincenti rimostranze del presidente del ministero greco alle potenze, la nuova rivoluzione ateniese fece un'impressione sgradevolissima sul gabinetto delle Tuillerie.

In quanto alla Russia, protestò adducendo per motivo l'attentato fatto all'autorità reale, e la violenza onde fu strappata una promessa al re. Richiamò pertanto il suo ministro, e ordinò al fratello di Calergis, suddito russo da lungo tempo, di abbandonare gli Stati imperiali.

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Ma questo non impacciò né poco né assai l'andamento delle cose in Grecia, e il nuovo ministero cominciò senza più le sue operazioni; il seguente proclama diretto al popolo fu il primo suo atto.

«Il consiglio dei ministri si fa premura d'informarvi che il nostro augusto monarca volendo dare al popolo greco nuove prove della sua volontà sincera e costante relativa all'adozione della gran riforma del 15 settembre, e alla convocazione dell'assemblea, nazionale per lo stabilimento del governo rappresentativo, si è degnato di riunire il 20 ottobre corrente, nel suo palazzo,, il consiglio dei ministri, il consiglio di Stato, il presidente del Sinodo e i capi della guarnigione d'Atene, ai quali sua maestà si degnò di fare le seguenti dichiarazioni:

«— Dopo avere adottate le istituzioni rappresentative, che io considero come utili e necessarie alla prosperità della nostra Grecia diletta, io desidero ardentemente vederle stabilite in mezzo all'ordine e alla tranquillità. Io v'invito pertanto a comunicare questo ardente desiderio del vostro sovrano a quelli che da voi dipendono e a tutti coloro che vi circondano, affinché nessuno possa ignorare la mia reale volontà, né disconoscere con atti o parole il nuovo ordine di cose. —

«Nell'apprendere la manifestazione spontanea di questa paterna volontà del re, gli Elleni benediranno il cielo d'avere inspirato al loro augusto monarca tali sentimenti che raffermano la salute dello Stato; essi uniranno con confidenza gli interessi della patria a quelli del trono costituzionale, da cui dipende la prosperità di questa cara patria, la Grecia, e la sua gloria al cospetto delle nazioni. Per giungere al momento in cui i voti della nazione saranno compiuti conformemente a'  suoi bisogni, bisogna implorare di nuovo l'assistenza dell'Altissimo per essere continuamente inspirati dai sentimenti d'unione fraterna che condurranno a un risultato felice la grand'opera intrapresa per la salvezza della patria.»

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A questo proclama tenne dietro un decreto del re, diretto a convocare entro trenta giorni un'assemblea nazionale per redigere la costituzione dello Stato. In esso, per quanto riguardava le assemblee elettorali, si richiamava in vigore la legge pubblicata prima del 1833, colla sola differenza che il presidente doveva essere nominato a pluralità di voti. Nello stesso tempo si dichiarò festa nazionale il giorno 15 settembre e fu instituita una decorazione a commemorazione del fatto ed a compenso de'  suoi principali autori, portante da un lato la data, dall'altra l'iscrizione

(trono costituzionale),

e ad altro non si pensò che all'apertura dell'assemblea nazionale, che venne stabilita pel giorno primo novembre', nel frattempo tutta la Grecia celebrò la festa del re con una solennità inusitata, tanto lo spirito pubblico era pago. Con tutto ciò in Atene, l'ordine venne turbato il giorno stesso delle elezioni, cbè alcuni individui avevano fatto la congiura di abbattere colle armi il nuovo ordine di cose. Essi si avvisarono di svegliare nella mente del re il pensiero d'una controrivoluzione, facendogli capitare la falsa notizia, che una completa anarchia regnava nella capitale, e che la guarnigione erasi rivoltata. Ma il re seppe respingere tali insinuazioni, e dichiarò invece a tutti gl'impiegati del suo palazzo, che chiunque avversasse i fatti del settembre, abbandonasse immediatamente il suo servizio. Dopo questo avvenimento i fautori del vecchio sistema furon costretti a partire dalla città d'Atene e dalla Grecia, e il figlio di Colocotroni, aiutante di campo del re, e Rhally, ex ministro di finanza, appena poterono aver salva la vita dal furor popolare. Intanto il paese aspettava con viva impazienza il giorno stabilito per la riunione dell'assemblea nazionale. Coletti e Maurocordato erano per essa ritornati dall'esiglio. Finalmente giunse il 20 novembre, ché si dovette aspettare fino a tal giorno, e l'assemblea fu inaugurata nel modo più solenne. Il re vi comparve, e pronunciò il seguente discorso:

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«Io vengo nel mezzo di voi colla ferma convinzione che da questa assemblea uscirà il bene della nostra cara Grecia. Fin da quando venne fondata la monarchia, diverse istituzioni liberali furono stabilite allo scopo di preparare la via ad una costituzione definitiva. Le leggi municipali libere, i consigli provinciali e il giurì furono i precursori del governo rappresentativo in Grecia. Oggi il nostro proposito è d'incoronare quest'edificio coll'introduzione e lo stabilimento d'una costituzione. Coll'aiuto dell'Altissimo, uniamo i nostri sforzi per formare una legge fondamentale conforme ai bisogni reali ed alla situazione dello Stato, e adatta a promuovere e ad assicurare i veri interessi dell'universalità. Che la saviezza e la giustizia regnino in tutta la loro forza, e che il vincolo d'un'affezione vicendevole ci unisca tutti nel piantare la costituzione della nostra patria comune. Facciamoci delle mutue concessioni, ma c'inspiri e ci guidi soltanto il desiderio di promuovere e di consolidare la prosperità dello Stato. Voi conoscete, o signori, il mio amore per la nazione. Esso non venne mai meno in nessuna circostanza, ed animato da questi sentimenti, io non desidero né maggiore, né minor potere di quello che mi è necessario per la felicità e la sicurezza della Grecia. Facciam dunque un contratto reciproco che possa essere una garanzia di durata e di stabilità. 1l mondo incivilito ha gli occhi rivolti su noi, e l'istoria giudicherà l'opera nostra da' suoi risultati. Colla maggior confidenza nel vostro partito illuminato io apro quest'assemblea. Dio voglia nella sua bontà ch'ella conduca al vantaggio ed al bene della Grecia; ché la prosperità della Grecia è l'oggetto della mia preghiera e della mia gloria.»

Il regolamento e la verificazione dei poteri furono, come di consueto, i primi lavori dell'assemblea. In quanto al primo si stabilì, che la votazione fosse palese per tutti i casi, ad eccezione di quelli che si riferivano alle persone ed alle elezioni. Per ciò che riguardava la verificazione dei poteri, cento ottantaquattro voti contro due confermarono: essere indispensabile ai non indigeni, per venir riconosciuti plenipotenziari all'assemblea, l'aver dimorato cinque anni nella provincia, e il possedere beni stabili; l'essere eccettuati da questa regola generale Coletti, Maurocordato, Mauromicali, Metaxa, Church, a cagione dei grandi servigi resi da loro al paese;

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dovere i rappresentanti di corporazioni d'emigrati greci, appartenenti a province suddite della Porta, esser membri delle corporazioni stesse, per poter far parte dell'assemblea. Dopo di ciò, essendosi passato alla discussione sull'indirizzo in risposta al discorso del re, la commissione presentò il seguente progetto:

«I rappresentanti del popolo hanno dal fondo del loro cuore rese grazie alla Provvidenza quando videro la Maestà Vostra in mezzo ad essi. Oggi adempiono ad un dovere ben dolce esprimendovi i loro vivi sentimenti di gioia e di profonda riconoscenza. Essi accettano come un felice presagio dell'avvenire della Grecia le sagge parole della M. V. Essi riconoscono, con una soddisfazione inesprimibile, che i vincoli che fin dal 1833 uniscono il popolo greco al re son divenuti indissolubili nel giorno in cui i nobili voti del cuore paterno di V. M. hanno suggellato il compimento del desiderio nazionale, espresso a tanta unanimità. La nazione greca, o sire, finché durò la santa guerra per l'indipendenza, ha domandato ripetutamente in tutti gli atti delle sue assemblee le garanzie costituzionali, tanto vantaggiose al popolo. La nazione prova un sentimento sincero di riconoscenza per le leggi liberali che, dopo la fondazione del regno, furono, promulgate conformemente a' suoi principii; mala riconoscenza del popolo greco è stata ancor più grande il giorno in cui Vostra Maestà, accogliendo i voti recentemente espressi dalla nazione, si degnò di compir l'opera, proclamando il sistema della rappresentazione nazionale, come un trattato tra il popolo e il re; trattato che deve consacrare irrevocabilmente i diritti del popolo e le prerogative del trono. Sì, o sire, questo trattato solo e il governo costituzionale apriranno la via, ed assicureranno la durata alle leggi liberali che furono promulgate, da che il trono fu eretto ed innalzato su basi indistruttibili l'edificio della nostra costituzione politica. Abbracciando in un solo e medesimo pensiero il presente e l'avvenire della società greca, i rappresentanti, colla protezione dell'Altissimo, faranno ogni sforzo per innalzare quest'edificio. Dividendo compiutamente il desiderio di V. M. e i voti ch'ella fa per assicurare la felicità della nazione, essi non saranno avari delle concessioni indispensabili a raggiungere questo fine.

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Essi faranno ogni sforzo per mettere la legge fondamentale della costituzione del paese in armonia coi veri bisogni del popolo greco, per renderla degna delle speranze del mondo incivilito, e nel tempo stesso per presentare la monarchia in tutta la sua forza circondata del rispetto che le è dovuto, serbando al trono tutti i diritti necessari per proteggere i legittimi interessi di ciascuno e la prosperità generale della nazione. Credete, o sire, che in ogni occasione il popolo greco ha riconosciuto l'amore che V. M. gli porta, e che i suoi rappresentanti sanno apprezzarlo degnamente. Essi adunque si metteranno all'opera col più profondo interesse, e inspirati dal sentimento dell'equità e del patriottismo, si occuperanno, d'accordo con Vostra Maestà, a redigere la costituzione definitiva del regno rappresentativo della Grecia, sforzandosi a darle il suggello della stabilità. I rappresentanti del popolo adempiranno altresì, coll'aiuto dell'Altissimo, ai sacri doveri che loro impone la ricevuta missione, e si confidano di potere assicurare per sempre la felicità della Grecia, in modo ch'ella sia inseparabile dalla gloria del trono della Maestà Vostra.»

Un tal progetto, dopo essere stato oggetto di vive discussioni, perché in esso non erasi fatto menzione degli autori della rivoluzione di settembre, fu adottato ad una gran maggioranza, previa un'emenda del deputato Axelos relativa ai vincoli d'unione indissolubile tra il re e la nazione; e cosi fu presentato da una deputazione al re, che in quella occasione disse parole che provocarono il più vivo entusiasmò in tutto il paese. Tali furono i primordi dell'assemblea nazionale, da cui la nazione attendeva con ansia quella costituzione che potesse dar basi inconcusse alla libertà, all'indipendenza, alla grandezza della Grecia.

A proposito della qual costituzione, alcuni giorni dopo l'apertura dell'assemblea, lord Aberdeen diresse un dispaccio al ministro britannico in Grecia, nel quale leggevansi le seguenti dilucidazioni: «Per quanto concerne la maniera d'esporre costituzionalmente i principii, e d'organizzare in Grecia un sistema ben ordinato di governo liberale, io debbo far notare che, dopo aver rifiutato l'ambasciatore di Russia di prender parte direttamente a tale questione, l'ambasciatore di Francia ed io ci siam sovente riuniti e non abbiam trovata alcuna difficoltà ad accettare alcuni principii generali,

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senza cui il governo di S. M. non vedrebbe la possibilità di stabilire un governo costituzionale che avesse elementi di forza e di durata. Questi principii possono riassumersi ne' termini seguenti: Inviolabilità del re; nomina a tutti gl'impieghi civili e militari di spettanza del re, come pure l'iniziativa delle leggi per il governo esecutivo; formazione delle due camere, l'una elettiva, l'altra a vita o ereditaria, prerogativa di sciogliere il parlamento. Il governo di S. M. crede altresì necessario che le camere vengano convocate annualmente, e che il re abbia l'iniziativa delle leggi finanziarie Sarebbe incomodo per l'indipendenza del re e del popolo greco che le potenze straniere volessero impor loro' una costituzione, ma d'altra parte queste potenze, che desiderano la consolidazione e il benessere della Grecia, possono esibire, con qualche frutto, al re e a'  suoi consiglieri il loro parere disinteressato intorno a questioni costituzionali... Ecco dunque come il governo di S. M. desidera che, d'accordo col vostro collega di Francia, voi determiniate i notabili della nazione greca a far quello che lutti gli uomini ragionevoli ed esperimentati considerano siccome il più sicuro mezzo di consolidare uu nuovo ordine di cose. Intanto voi saprete cogliere tutte le occasioni per far sentire al re la necessità, non solo di mantener fedelmente le promesse fatte al suo popolo, ma d'astenersi da qualunque atto e da qualunque discorso che possa provocare il minimo sospetto ne' suoi sudditi. Mali incalcolabili risulterebbero dalla resistenza del re alle speranze ed ai voti generalmente espressi da' suoi sudditi. Ma, d'altra parte, voi farete ogni sforzo per distogliere i più influenti Greci da ogni teoria assurda sull'estensione del principio democratico.

Il diritto elettorale, quand'anche accordato in una certa estensione, dovrà avere per base la proprietà. Il governo di S. M. desidera che i cittadini greci possano esercitar soli il diritto elettorale; perché l'estensione di questo diritto ai sudditi della Porta farebbe nascere imbarazzi e difficoltà serie.

In un momento in cui regna un grande entusiasmo nazionale, sarà inutile l'aggiungere che noi respingiamo qualunque intervento negli affari delle province limitrofe.

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Il governo di S. M. non permetterà imprese che possan provocare collisioni e disordini nelle province turche. Durante questa crisi importante voi non perderete mai di vista che il governo di S. M. non ha a cuore che il bene della Grecia. Noi non vogliam, del resto, che vi predomini un' influenza inglese, ma non permetteremo in pari tempo che un'altra potenza raggiunga in Grecia un'influenza eccessiva.

«Noi vogliamo che la Grecia sia indipendente sotto i' egida di un governo costituzionale Desideriamo che la Grecia, invece di fare appoggio dello straniero, abbia fede, e riposi nelle proprie forze morali e fisiche, per piantare i suoi interessi su basi che abbiano uno stretto rapporto co' suoi bisogni e colla sua posizione sociale.»

Ad onta di questa nota di lord Aberdeen, gli amici dell'indipendenza ellenica, si domandavano quale sarebbe stata la condotta dell'Inghilterra, Francia e Russia in faccia ad essa, e quali sarebbero state le conseguenze del regime costituzionale? Essendo state pertanto consultate le tre potenze, gli ambasciatori si riunirono a Londra in una conferenza, nella quale, dopo aver ripetute le cose esposte subito dopo la rivoluzione, dichiararono essere loro volontà che la Grecia si mantenesse compiutamente nei confini fissati tra il suo territorio e quello della Turchia, a prevenire qualunque causa di turbamento interno nelle province ottomane, e d'altra parte che non trascurasse punto l'adempimento degl'impegni tra il governo ellenico e le tre potenze, in seguito ai trattati degli anni 1832 e 1843.

Su questi interessi soli le tre potenze furono pienamente d'accordo, ma in quanto all'appoggio ch'esse promettevano all'amministrazione per lo stabilimento del governo rappresentativo, soltanto la Francia e l'Inghilterra avevano intenzione di mantenere la loro promessa, ma, per ciò che spetta alla Russia, se mai pensò a ristabilire relazioni diplomatiche state interrotte, si può ben credere che non fu per l'amor suo alle istituzioni costituzionali.

Venendo ora ai lavori dell'assemblea nazionale, il 3 gennaio si lesse nel suo seno il rapporto della commissione, incaricata della confezione della legge fondamentale.

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La prima cosa a cui pensò la commissione fu l'avvenire e l'importanza che la Grecia doveva avere in Oriente. I più caldi patriotti greci credevano che la loro patria fosse destinata a raccogliere la ricca eredità dell'impero ottomano quando sarebbe incominciata la successione. La commissione dichiarava d'aver consultato lo stato morale e materiale della nazione, il suo carattere, il suo genio, la sua storia politica e le sue costituzioni anteriori. Dopo questo preambolo, essa entrò a parlare dei particolari del progetto, fra i quali la religione aveva il primo posto. Dopo aver trattato di quest'ultima, la commissione venne a stabilire i principii di diritto pubblico, alla quale metteva per base l'eguaglianza in faccia alla legge, avversando qualunque idea d'aristocrazia, di privilegi esclusivi e di titoli di nobiltà, dichiarando che in Grecia non vi doveva essere altra distinzione fuor quella del merito personale. La libertà individuale, il domicilio del cittadino, i suoi beni, il suo ingegno, le sue opinioni, tutti questi diritti imprescrittibili dovevano essere posti sotto la salvaguardia della costituzione. Medesimamente doveva far valere l'abolizione della tortura, della confisca, della tratta dei Negri, e far rispettare la libertà della stampa e il giudizio del giurì. Piantati questi principii, la commissione credette inutile parlare della forma di governo, dal momento che la necessità della monarchia era riconosciuta da tutti quanti. Quando poi si venne alla divisione dei poteri, non credette di dovere allontanarsi dalle idee europee, dividendoli in potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Il diritto d'iniziativa doveva essere di competenza di due camere, stabilendo il principio dell'inviolabilità della persona del re è della responsabilità dei ministri, e dichiarando il trono ereditario di maschio in maschio, a patto che l'erede presuntivo dovesse professare la religione dello Stato. Alle due camere veniva accordata la pubblicità dei dibattimenti e la libertà dei voti, come pure il voto per l'imposta. La camera dei deputati poi, siccome quella che rappresentava direttamente la nazione, aveva il diritto di votar per la prima tutti i crediti in generale, tutte le leggi relative alle rendite ed alle spese dello Stato, ecc., ecc.

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Furon però fatte restrizioni importanti alla legge elettorale, per quanto riguardava agli Elleni nati fuori dei confini del regno allora determinati. In quanto alla formazione del senato, la commissione, dopo aver presentati diversi sistemi, conchiuse proponendo di prorogarne la soluzione definitiva a dieci anni di tempo, stabilendo un senato, i membri del quale dovevano essere di nomina reale ed inamovibili.

La quistione della responsabilità dei ministri fu risoluta dalla commissione, proponendo d'introdurre nella Carta alcune disposizioni speciali, fintantoché si adottasse una legge speciale, accordando del resto alla camera dei deputati il diritto di accusarli, ed a quella dei senatori di giudicarli. In quanto al potere giudiziale, la commissione lo fece basare sull'inamovibilità dei giudici, sull'istituzione del giurì e sul principio della pubblicità dei dibattimenti. Oltre a queste disposizioni fondamentali, ne diede altre secondarie, ma indispensabili, quella tra le altre che impediva l'ingresso di truppe straniere sul territorio greco, se una legge apposita non lo accordasse. La commissione finalmente chiamò l'attenzione dell'assemblea in ispecialità sugli argomenti seguenti: Gli affari ecclesiastici, la distribuzione delle terre nazionali, l'ordinamento della guardia nazionale, l'agricoltura, l'industria e il commercio, le imposte, la riduzione delle spese pubbliche. La questione sulla religione greca ne' suoi rapporti colle altre credenze e collo Stato aprì la discussione, che si rese animatissima per una petizione sottoscritta da sei vescovi, proposta sotto forma di emenda, ma l'assemblea adottò semplicemente e puramente i due articoli del capitolo primo, che riconosce la religione greca per dominante, pur concedendo libertà agli altri culti, proibito il proselitismo, e che stabilisce l'indipendenza della Chiesa greca, amministrata da un Sinodo di vescovi, ad onta dell'unione morale con quella di Costantinopoli.

Ma la parte del progetto che presentava la massima importanza era quella che si riferiva alle qualità volute per essere cittadino greco. Secondo il pensiero della commissione, i soli cittadini greci dovevano essere ammissibili ai pubblici impieghi, e in questo fatto si trovavano in conflitto due interessi importantissimi:

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da una parte, l'interesse dello Stato, che era d'estendere più che si poteva il numero de'  suoi membri, e d'attirare a sé tutti quelli che erano Greci per origine, per lingua, per religione, per sentimento, e si trovavano dispersi nell'impero turco; dall'altra, l'interesse particolare degli indigeni, i quali ricorrendo agli impieghi pubblici come ad uno dei migliori mezzi di vivere in un paese dove erano ancor tanto scarse le vie aperte all'attività ed al talento, desideravano restringere la concorrenza più che si poteva. Dalle petizioni presentate all'assemblea in numero considerevole relative a questo punto tanto controverso, risultava che la maggior parte desiderava escludere dagli impieghi pubblici tutti quelli che erano giunti in Grecia dopo il 1828; altri poi proponeva d'ammettere soltanto gli autoctoni che avevano preso parte alla guerra dell'indipendenza fino all'anno 1827, tutti coloro che avevano emigrato dalla Turchia per istabilirsi in Grecia, e tutti quelli che si eran fatti naturalizzare legalmente. Se non che a queste grette vedute, e a questo esclusivismo geloso si opponevano i capi del paese e tutti gli uomini generosi e benveggenti. Rendy fu il primo a parlare contro il partito degli indigeni, e in modo da produrre la più viva agitazione, che si accrebbe più che mai alle forti parole di Coletti, delle quali crediamo opportuno che si onori questa istoria.

«Io trasalisco, o signori,» egli prese a dire, «quando mi rammento l'ora in cui giurai di cooperare all'opera della rigenerazione della Grecia. Io ho giurato, e anche voi, o signori, avete giurato al par di me, di tutto sagrificare, fortuna, amici, parenti, la vita medesima per l'indipendenza della patria nostra e pel riscatto di tutta la cristianità orientale. Vivono ancora molti di coloro che hanno prestato questo solenne giuramento. È venuto il momento di richiamarcelo oggi che siam qui riuniti per dare alla Grecia il suo politico vangelo. La Grecia, posta tra l'Oriente e l'Occidente, quasi nodo comune, deve alla sua posizione geografica il suo passato e quell'avvenire che voi non dovete mai perdere di vista, quell'avvenire che più che mai dovete avere a cuore allorquando i Greci son chiamati a prendere una di quelle straordinarie determinazioni, da cui può dipendere la caduta o lo splendore d'un impero.

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Allorquando la Grecia cadde annientata sotto l'invasione dei barbari, dalla sua caduta sprizzò una scintilla che illuminò l'Occidente. Ridesta, dopo molti secoli, dal suo sonno di morte, la Grecia parve risplendere alle nazioni d'un vigore giovanile, che dovrà comunicarsi alla civiltà d'Oriente. 0 Germano, Zaimi, Colocotroni, e voi tutti miei antichi compagni di gloria e di sventura, perché non vi trovate in mezzo a noi, mentre abbiamo in nostra mano i destini della stirpe ellenica, e pur sembriamo dimentichi della grande opera a cui la Provvidenza ci ha chiamati. Oh! dove siete voi, coraggiosi capi dell'Epiro, della Macedonia, della Tessaglia, della Servia, della Bulgaria, voi tutti che avete innalzato lo stendardo della Guerra Santa per liberare la patria comune, la Grecia tutt intera. Voi ci richiamereste alla memoria le parole dell'immortale Riga, il poeta della nazione. — Catene de'  monti Tenegrini, aquile dell'Olimpo, abitanti d'Agrafa e del Peloponneso, non abbiate d'ora innanzi che un'anima sola. — Sì, o signori, noi non dobbiamo avere in effetto che un' anima sola. Dalle cime del Parnasso a quelle del Taigete noi ci siam levati come un sol uomo al grido disperato della patria in lutto, e abbiamo trionfato. Noi eravamo tutti uniti allora in quel tempo d'entusiasmo patriottico! ed oggi discutiamo freddamente per sapere qual è cristiano e qual è greco di tutti coloro che hanno sparso il loro sangue per darci l'indipendenza! Ma non siamo noi dunque gli uomini stessi che con una mano teniamo lo stendardo della libertà, coll'altra quello della religione, simbolo dell'unione e dell'emancipazione di tutta la stirpe ellenica? Non abbiam dunque noi dato il giuramento medesimo che hanno prestato i nostri fratelli, che ci osservano in questo momento, per vedere in che modo noi sappiamo mantenere un giuramento?

Signori, il motivo che nel 1833 m'impegnò a votare nel consiglio dei ministri contro la separazione della Chiesa greca dalla grande comunione ortodossa, fu un motivo di speranza nell'avvenire. Gli stessi motivi che nel 1835 m'han fatto dire che la capitale della Grecia non sta nei confini della Grecia attuale, gli stessi motivi m'infiammano ancor oggi, e proveranno che il gran giuramento prestato da me nel 1821. io l'ho religiosamente mantenuto.

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Io non posso credere, o signori, che non si trovi in mezzo a voi un uomo solo che non divida questi sentimenti, in mezzo a voi, rappresentanti del popolo greco e discendenti degli uomini i più completi. I Greci hanno oggi una patria, una patria comune dove essi debbono trovare aiuto, protezione, eguaglianza di diritti. Egli fu per conquistare un tale appoggio che voi avete sopportato tante sventure e tanti disastri, e che avete tutto sagrificato. Voi godete oggi del frutto delle vostre fatiche.

«Rappresentanti del popolo greco, voi siete riuniti in Atene. Che posso dire di più senza fare ingiuria a dei cuori elleni? Atene e la Grecia, dopo avere empito il mondo della propria gloria, è caduta sotto alle proprie rovine; ha dovuto perire perché era divisa, e perché nessun sacro legame di nazionalità, di patria comune, univa le sue province. Ma, grazie alla divina Provvidenza, la Grecia oggi rinasce, forte della sua unione, ella rinasce simbolo e patria di tutta la razza ellenica. La sua costituzione politica dev'essere l'espressione di questo destino, ed ogni cuore veramente ellenico deve adoperare con perseveranza per imprimervi questo carattere. La Grecia libera è la patria comune di tutti i nostri fratelli, che dagli avvenimenti politici furono gettati su terra straniera, di tutti quei Greci, costretti ancora ad abitare in quelle province che nou fanno parte del regno. Ignorate voi con quale entusiasmo questi Greci pensano alla loro madrepatria, oggetto d'ogni loro voto e d'ogni loro speranza? Ascoltate dunque il seguente fatto, del quale io fui testimonio a Palermo, in Sicilia: Seimila ortodossi, che abitano in questa città, ogni anno, nel giorno di Pasqua, ascendono in processione su d'un'alta montagna, portando ciascuno una torcia accesa, e di là, volgendo i loro sguardi verso la Grecia libera, innalzano al cielo voti ardenti per la prosperità dello Stato greco e per la riunione del Panellenio. Respingerete ora voi, amici compatriotti, questi Greci che, gettati su d'una terra straniera, sospirano la madre terra come le figlie di Sionne?

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Negherete loro il diritto di cittadino greco? No, certo. Io leggo ne' vostri cuori che voi li accoglierete come si accoglie il fratello dopo lunga assenza, perché, s' essi non hanno potuto venir tutti a prender parte alla guerra santa dell'indipendenza, non fu che per aver incontrato ostacoli invincibili.

«Sapete voi perché l'Europa e le potenze hanno mostrato per la Grecia tanta deferenza, tanta simpatia, tanto entusiasmo? Sapete voi perché in Europa anche oggidì il nome della Grecia risveglia tanti nobili sentimenti? È perché l'Europa e le potenze hanno apprezzato tutto l'eroismo della razza ellenica, che da tutte le province dell'impero bisantino ha mandato i suoi figli a morire sui nostri campi di battaglia, per fondare col loro sangue la grande unione della stirpe ellenica. È perché anche oggi la Grecia libera è, per l'Europa, la patria comune di tutti i cristiani d'Oriente. Richiamatevi quel tempo di dolore e di desolazione, in cui la causa greca era, per cosi dire, disperata; ma io m'inganno, io non ho giammai disperato della nostra causa, perché vidi quelli del Peloponneso, cacciati dal loro focolare, rifuggirsi nelle montagne e nei boschi, ma sempre animati dallo stesso patriottismo, facendo pagar ben care alcune vittorie agli Arabi, ai quali uccidevano ogni giorno venti, trenta, persino cento uomini. Io non ho mai disperato un solo istante del successo, allorquando vidi un generale, che or siede in mezzo a noi, rifiutar de'  milioni, che Ibrahim gli offriva in pagamento del Palamidi, dove allora esso era comandante. A quest'epoca le nostre sventure e la nostra perseveranza hanno determinato le potenze a mettere un termine a questa guerra di sterminio. Esse hanno voluto che vi fosse una Grecia libera, esse hanno creato un campo d'asilo, dove i Greci dell'impero ottomano potessero trovare una nuova patria, una famiglia, un equivalente alla patria ch'essi hanno abbandonata per devozione alla patria comune. Tale fu il pensiero che governò la redazione dei protocolli, pensiero magnanimo, pensiero che spetta all'avvenire, e pel quale l'Europa realizzò il voto nazionale e sanzionò l'idea generale che aveva sempre portata in sé stessa la rivoluzione greca.

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Medesimamente le potenze alleate hanno compreso, che non bastava dichiarare indipendente una parte del territorio greco, ma che bisognava proclamare eziandio il diritto di emigrazione, perché, sotto alla possente loro protezione, tutti i Greci potessero venire a cercare un asilo sul suolo della Grecia indipendente. L'Europa ha in tal modo operato, perch'ella sapeva che tutti i membri della grande famiglia ellenica avevano preso parte alla lotta direttamente o indirettamente, e che la libertà doveva essere comune a tutti quelli che avevano divise le sventure della guerra.,

«In qual battaglia non abbiam noi veduti i rappresentanti di tutte le tribù della grande famiglia combattere insieme per la causa comune? fa bisogno di citarvi esempi? Non vi rammentate Dervenakia, dove il bravo Nikita distrusse un esercito di quarantamila uomini, e conquistò il nome di Turcofago? Ghi combatteva con lui era l'intrepido Cadzi-Christo e i valorosi Bulgari. Vi parlerei altresì del campo di Karaiskaki, dove ciascuna famiglia greca aveva, per cosi dire, il suo deputato, e di tutte quelle battaglie, dove i Romeliotti, confusi coi Peloponnesi, i Serviani e i Bulgari, i palicari dell'Eubea e quelli di Cesarea, combattevano tutti per la causa comune, per la libertà della Grecia, per la gloria della nostra santa religione ortodossa.

«Ebbene, miei antichi compagni, e voi, giovani nostri successori, mettetevi una mano sul cuore, e rispondetemi: È egli giusto che noi abbiamo a discutere, se questo o quel Greco dovrà o non dovrà godere del diritto di cittadino nella Grecia libera? Io leggo ne' vostri occhi che voi lo dichiarate ingiusto. No» voi non siete inspirati da un basso esclusivismo; un pensiero nobile, più largo, più greco, più cristiano fa palpitare i vostri petti.

«E frattanto, da qualche giorno ci andiam trascinando penosamente in questa discussione, per la sola ragione che siete stati malversati da alcuni uomini, che sotto il vecchio regime hanno abusato del potere. Comprendo, e non posso che approvare nel tempo stesso codesto, rivoltarsi della vostra dignità ferita. Vi furono degli abusi, moltissimi abusi, pur troppo. Ma questi abusi, questi impiegati che vi hanno ferito ne' vostri più cari interessi, che cosa hanno di comune col diritto di cittadino?

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Alcuni giorni sono voi avete discussa una gran questione; l'unione della Chiesa della Grecia libera colla grande Chiesa di Costantinopoli. Voi allora avete adoperato da profondi politici, voi allora avete manifestata la convinzione che tutta la Grecia non forma che un sol corpo, e ch'essa non ha che un'anima. E perché dunque volete oggi essere in contraddizione con voi stessi, stabilendo categorie, classificando, per epoche, i Greci che devono godere del diritto di cittadino al loro arrivo in mezzo a noi? Oh ditemi, gli Eteristi, questi uomini affiliati alla grande società che abbraccia tutto l'impero bisantino, dal pastore di Pindo fino al patriarca di Costantinopoli, sono o non sono cittadini greci? Dovrem noi forse discutere su ciò? Chi di noi non conosce il capitano Giorgaki, quest'intrepido uomo, che si fece saltar in aria nel proprio ridotto insieme a'  suoi palicari, piuttosto che arrendersi ai nemici? L'altro giorno una donna vestita di nero, tenendo un fanciullo per mano, venne da me. Il dolore, il pa-, timento, la miseria erano impresse sulla sua faccia. — Chi siete voi? le chiesi. — La vedova del capitano Giorgaki-Olympioti, mi,, rispose. — Nell'udire questa parola il mio cuore fu colpito. Ma quanto sarebbe stato maggiore il mio dolore, se io non avessi avuto la speranza, che la patria riconoscente potrà presto ricompensare nel figlio i servigi del padre, scontargli il debito che il sangue del martire ci ha legato? chi oserebbe contendere al figlio del capitano Olympioti i diritti di cittadino greco?... Eppure egli non è venuto in Grecia che nel 1838. Io non vi cito altri esempi. Questo basta per farvi comprendere che una tale, discussione, troppo lunga, troppo penosa, deve troncarsi; e che noi dobbiamo ben guardarci dal mettere nella nostra costituzione disposizioni che ci vincolino per l'avvenire; giacché il nostro vangelo politico dev'essere per noi inalterabile come il Vangelo di Cristo.

«Dopo una tale determinazione, che risponderemo noi alle potenze, le quali avrebbero incontrastabilmente il diritto di chieder conto dell'opera nostra? che risponderemo noi al mondo, allorquando ci volesse far ispiegare la distinzione che si pretende di fare tra Greco e Greco?

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D'altra parte, come accettare i protocolli che hanno creato la nostra indipendenza, che l'hanno fatta riconoscere dall'Europa e dalla Turchia, e rigettare i protocolli che sono stati il complemento dei primi? Rifletteteci bene, pensateci maturamente, esaminate scrupolosamente i sentimenti da cui siete mossi, e noi sarem tutti d'accordo; perché voi siete Greci, ed il cuore degli Elleni m'è noto. La religione ci ha uniti, e ci dovrà disgiungere la libertà che è la sua figlia primogenita? Ed oseremmo forse dire che noi vogliamo la libertà per noi soli? che non vogliamo dividerla coi nostri fratelli, i quali, al pari di noi, hanno sofferto per questa sacra libertà? Gli stendardi della religione e della libertà furono sempre uniti durante la battaglia; li vorremmo noi disgiunti dopo la vittoria?

«Ma, direte voi, l'amministrazione ha fatto troppo soffrire il nostro popolo, e per conseguenza egli si trova in una pericolosa effervescenza. Io lo so. Il popolo ha molto sofferto; i suoi diritti, i suoi giusti riclami furono disprezzati. Ma è questa una ragione per dubitare un solo istante a riconoscere i diritti de'  suoi compagni, de'  suoi fratelli? In che circostanze fu egli cieco a'  suoi veri interessi? Non facciamo ingiuria al popolo greco, anch'io lo conosco. Quando la patria era in pericolo, quando bisognava marciare contro il nemico, quante volte non venne egli a domandare il soldo che gli era dovuto di molti mesi, allorquando il tesoro era esausto? Allora gli si rispondeva che non v'era danaro, ma che il nemico s'avanzava, ma che la patria era in pericolo e bisognava combattere, ed essi correvano alla battaglia con entusiasmo. Il patriottismo che animava il Greco a quell'epoca eroica, lo ha conservato fino ad oggi puro e ardente del pari. A dubitarne, sarebbe calunniare il popolo.

«Quand'io considero l'enorme cifra delle popolazioni greche che abitano fuori dei confini della Grecia libera; quand'io vedo il nostro ministro a Costantinopoli e i nostri consoli affannarsi di continuo per proteggere i diritti degli Elleni, io m'interrogo s'egli è vero che noi, plenipotenziari della nazione, offriamo per questa discussione uno spettacolo si dannoso agl'interessi di questi milioni d'Elleni che ci osservano con patriottica ansietà, confidando nella santità del giuramento che noi abbiam dato solennemente prima del 1821.

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Voi lo sapete. Ebbene, la verità è una sola, e se noi siam basati sul vero, vedremo accumularsi sul banco presidenziale quarantasei ammende a un solo articolo della nostra costituzione Io propongo pertanto, che la nostra costituzione rimanga pura da qualunque macchia vi possa apportare un principio d'eccezione, lo spirito della discordia; ma che in un decreto solenne, l'assemblea prenda le misure che crederà più convenienti per appurare l'amministrazione. Tale è la mia opinione: io la sottometto al serio esame dell'assemblea, credendola conforme al giuramento che abbiamo prestato, al voto di tutti i Greci, alla benevolenza che mostrarono le potenze a riguardo della stirpe ellenica, e al destino che il cielo serba alla patria nostra.»

Il discorso di Coletti fu sostenuto dalle parole di Maurocordato, il quale, dopo aver dimostrato, che non bisognava confondere due cose assai differenti, i diritti di cittadino e i diritti che i Greci potevano avere ad occupare i pubblici impieghi, formulò un progetto di decreto, in forza del quale, quando fosse stata promulgata la costituzione durante sette anni, erano da preferirsi per gl'impieghi pubblici gl'indigeni del regno, e gli uomini che avevano preso parte alla guerra fino al 1827, quelli che fino dal 1837 erano emigrati dalle province turche per aver prese le armi per la guerra dell'indipendenza, quelli che notoriamente avevano sofferto per la causa nazionale, e le cui famiglie erano state uccise, imprigionate, esiliate, o sottoposte alla confisca dei beni. Un tal decreto fu adottato con qualche modificazione, proposta dal partito indigeno. Un altro argomento, che trovò le opinioni assai controverse, fu quello dell'eredità al trono, trattandosi di sapere se poteva aver soltanto luogo di maschio in maschio, o se anche le donne vi potevano aver diritto. Ma siccome la prescrizione dell'articolo ottavo del trattato 7 maggio 1832 era favorevole alla più grande estensione dell'eredità, così fu proposta la riproduzione pura e semplice dei termini del trattato, che fu sostenuta da Metaxa e da Maurocordato, e adottata all'unanimità.

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Pariménti all'unanimità fu adottato l'articolo, il quale stabiliva che il successore al trono doveva necessariamente professare la religione nazionale. In quanto alla questione della reggenza, essa non venne punto regolata, e solamente venne votato un decreto a favore della regina Amalia, proposto da Metaxa, pel quale fu stabilito, che nel caso che la regina non passasse a seconde nozze, sarebbe stata chiamata alla reggenza se l'erede al trono fosse stato minorenne. ''

Dalla questione sulla reggenza si passò a discutere la proposizione relativa alla consacrazione del diritto concesso fino allora alle corporazioni degli emigrati, d'inviare alla rappresentazione nazionale deputati speciali, la quale fu respinta con una gran maggioranza di voti, nella considerazione che quel diritto, una volta concesso, conduceva alla conseguenza di distruggere l'eguaglianza innanzi alla legge. Dopo codesta spinosa risoluzione si venne alla grande questione del senato, che parimenti veniva a mettere in pericolo, l'eguaglianza dei diritti. In Oriente più che altrove gli spiriti respingono ogni idea d'ineguaglianza, e la ragione di ciò sta nel sentimento intimo delle popolazioni, che si adattano a sopportare il dispotismo monarchico, ma non già un'aristocrazia organizzata. I Greci non potevano nemmon pensare allo stabilimento d'un senato ereditario, e su tal punto era tanto il loro ardore pel trionfo, delle idee d'eguaglianza, che temevano perfino il sistema del pariato a vita conferito dal re. Tuttavia un tal sistema fu adottato siccome il più atto a stabilir l'ordine, e a dar basi inconcusse al trono reale in un paese combattuto da tante passioni opposte e da opposti interessi. Ma codesta risoluzione dell'assemblea provocò una tempesta nel pubblico; la stampa dell'opposizione, gridando perfino al tradimento, invocò l'ira del popolo contro gli oratori che più vi avevano contribuito, e segnatamente contro Maurocordato e Coletti. Per la qua! cosa Metaxa e i suoi colleghi, adducendo la difficoltà di governare nel mezzo dell'irritazione del popolo, diedero la loro dimissione.

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Ma intanto che il re stava costituendo un nuovo ministero, la discussione della costituzione, pervenuta al suo fine, fu votata nel complesso, e non vi mancava altro che la sanzione del re, la quale fu data, dopo che l'assemblea, esaminate attentamente le osservazioni di lui, ebbe in alcuni punti modificato il progetto.

Piantata la costituzione della Grecia, le tre potenze vi aderirono, quantunque si fossero allarmate del paragrafo che faceva della fede greca una condizione dell'eredità al trono, e del panato a vita sostituito alla camera ereditaria. Non rimaneva pertanto a far altro che a metterla in atto; ma cominciavano le difficoltà nel punto che parevano terminate. Per la ricomposizione del nuovo ministero, si tentò innanzi tutto di conciliare i due partiti inglese e francese rappresentati da Maurocordato e da Coletti. Il desiderio della maggior parte e del re stesso era che si potesse formare un ministero, in cui precisamente si fondessero i due partiti, i quali s'accordavano almeno nel dar vita alle pubbliche libertà, e nel resistere con energia allo spirito invadente della Russia. Ma tali desiderii non si poterono appagare per la divergenza dei due capi; così avendo Coletti pel momento rinunciato al potere, Maurocordato rimase padrone del campo, e il ministero fu costituito nel modo seguente: Maurocordato presidente, ministro di finanza e di marina, A. Loudos dell'interno, Rhodius della guerra, Tricoupi degli affari esteri, culto e pubblica istruzione, X. Loudos della giustizia. Ma questo gabinetto, che pareva prometter bene in quanto all'interno accordo, per l'unità delle sue opinioni, veniva per questa unità stessa a trovarsi necessariamente in lizza nelle sue relazioni col paese, e tanto fu ciò vero, che, per conservarsi forte, dovette ricorrere alla corruzione.

A guadagnar voti furono profuse le decorazioni, e siccome questo modo di corruzione non era sufficiente, così si dovette ricorrere alla violenza. L'intimidazione fu impiegata, e il gabinetto fu costretto a destituire il ministro di giustizia, Loudos, per impedire la pubblicazione d'una lettera, nella quale esso raccomandava ai funzionari civili e militari di assicurare la sua elezione con ogni mezzo, e quando vi fosse stato il bisogno, coll'aiuto della sciabola e del bastone. Questi fatti mostruosi suscitarono turbolenze in più luoghi, in Messenia, nella Laconia, in Acarnania.

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La stessa popolazione d'Atene più volte si era attnippata minacciando, e indarno repressa dalla forza, tornò a gridar alto in occasione delle elezioni, al punto che poté respingere la stessa forza armata, gridando: abbasso il ministero, abbasso Maurocordato, viva Coletti! Allora il re stesso si presentò al popolo a calmarne il furore, e a fargli noto che il ministero era decaduto. Dopo di che si rivolse a Coletti come a colui che la pubblica opinione designava come il capo desiderato d'una nuova ricomposizione di ministero, e Coletti accettò chiamando Metaxa a farne parte. Di tal modo si aperse, il 19 settembre l'assemblea, che, dopo il discorso del re, passò il resto dell'anno nei lavori preparatorii, intanto che il gabinetto stava redigendo il progetto di legge e completando il senato, il quale, nel giorno in cui le camere si erano aperte, non contava che venticinque soli membri.

V.

La fermezza e la moderazione di Coletti parvero promettere il più felice andamento nella cosa pubblica. Il ministero annunziava vaste riforme, basate sul principio della centralizzazione. Intanto, dopo l'apertura delle camere, cominciò la discussione sul progetto d'indirizzo, che fu adottato il giorno 8 febbraio, esposto come segue:

«È oggi un giorno memorabile, giorno d'allegrezza e di felicità. La camera si presenta innanzi al re costituzionale, facendogli testimonianza dell'amore del popolo verso la libertà e l'ordine, e verso il regno che ne è la salvaguardia.

«La nazione ha applaudito al concorso prestato da S. M. allo stabilimento del regime costituzionale, convinto che dall'accordo fra il trono e il paese risulterà lo sviluppo progressivo di tutti i frutti della costituzione.

«La camera si congratula delle relazioni amichevoli che esistono fra la M. V. e le potenze straniere. Essa è in particolar modo riconoscente verso coloro, che avendo già sostenuto le gravi cure della nazione, continuano a favorire generosamente la nostra prosperità.

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Noi ci occuperemo con zelo, o sire, delle proposte che ci saranno presentate dai ministri di V. M. riguardo all'organizzazione ed alle finanze dello Stato, e noi ci sforzeremo a metter d'accordo la necessità d'una severa economia colle esigenze del pubblico servizio e coi bisogni dell'avvenire.

«Noi accorderemo alla gloria ed ai diritti del passato l'attenzione che meritano; lo splendore e la forza della nostra santa religione saranno l'oggetto della nostra più viva sollecitudine. Congratulandoci in tale occasione della conformità onde la M. V. considera queste cose, la camera non dubita punto che, d'accordo col tenore della Carta, coi voti del paese e in vista del miglioramento dei costumi, l'organizzazione della Chiesa ci sarà immediatamente proposta. Noi ci occuperemo inoltre dei mezzi necessari per ristabilire l'antica sapienza; ci occuperemo dell’organizzazione delle truppe, della semplificazione e del miglioramento delle nostre leggi, degl'interessi dell’agricoltura, dell'industria, del commercio e della marina, che sono le fonti della pubblica ricchezza, della nostra potenza marittima, e le basi della futura prosperità, prendendo per guida nei lavori, intorno a questi importanti argomenti, l'esperienza e l'esatta co, gnizione della situazione del paese.

«I lavori della presente sessione saranno in effetto della più alta importanza, dividendo per questo proposito le giuste preoccupazioni del re; e rispondendo all'espressione dei nobili sentimenti di V. M. in favore del popolo, la camera sarà sempre sollecita, secondo il dover suo, di prestare al governo l'aiuto necessario per potere adempiere a tutto ciò che ha decretato l'assemblea nazionale.

«Il ricordo dell'intervento illegale del ministero 11 aprile nelle elezioni, è doloroso al par di quello dei mali che ne furono la conseguenza e che afflissero il paese. Ma apprezzando i sentimenti generosi del re, la camera volge gli occhi lontano da queste scene penose, e desiderando ch'esse si cancellino dalla memoria del popolo greco, ella è sollecita di vegliare agli affari più urgenti, agli interessi generali del paese.

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Per l'emulazione in vista del ben pubblico, per la stretta osservanza delle leggi, per l'incoraggiamento della virtù, noi entreremo con più sicurezza che mai nella via della prosperità, e invocheremo con fiducia la grazia dell'Onnipotente per l'adempimento completo dell’opera della sua provvidenza.»

Chiusa la discussione dell'indirizzo, Coletti, qual presidente del consiglio dei ministri, dopo aver presentati quattro progetti di legge, l'uno relativo all'interno riordinamento degli uffici ministeriali, il secondo alla divisione territoriale del regno, il terzo all'adozione d'una legge pei delitti di pirateria e di baratteria, il quarto alla lista dei giurati pel 1845, diresse ai deputati un eloquentissimo discorso, nel quale dimostrò ch'era venuto il momento per la Grecia di provvedere nel tempo stesso ed alla sua educazione municipale, ed al miglioramento morale e materiale del paese.

Ascoltato con rispettosa attenzione il saviissimo discorso di Coletti, la camera passò a discutere la questione sul riordinamento della santa Sinodo. La commissione, stata incaricata di redigere un progetto in proposito, essendo per la maggior parte composta di nappisti, gli aveva impresse le proprie idee, per la qual cosa il ministero era stato costretto a redigere un controprogetto. Quando pertanto si venne alla discussione, il primo oggetto che si presentò, fu di sapere quale sarebbe stato nel regno della Grecia il capo della Chiesa. I nappisti lo volevano indipendente dal re, e scelto da un'assemblea di arcivescovi e vescovi, il che equivaleva, per l'influenza che il clero esercita sul popolo greco, a voler dare al presidente del Sinodo un potere superiore a quello del re, che professava un'altra religione. Ma il ministero voleva invece che il presidente del Sinodo continuasse ad essere nominato dalla corona, affinché il partito nazionale potesse trionfare sul partito russo. In tale questione i partigiani di Metaxa si divisero da Coletti, senza per altro potergli togliere il voto della maggioranza. Nel tempo stesso i seguaci di Maurocordato si separarono da Coletti per una questione di dinastia.

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Si trattava di sapere se il matrimonio sarebbe in Grecia considerato soltanto come un sacramento che la Chiesa sola poteva consacrare o disciogliere, o se, come era il desiderio del partito nazionale, il matrimonio sarebbe anche un,atto civile sottomesso all'autorità temporale. La camera, alla maggiorità di sessanta voti contro trentacinque, decise, che la consacrazione del matrimonio apparteneva alla Chiesa, ma che il divorzio non poteva essere pronunciato che dai tribunali civili. Il progetto di legge conteneva inoltre una disposizione, che interdiceva gl'impieghi pubblici ai sacerdoti che avevano rinunciato ai loro voti. Ma la camera, sulla proposizione del ministero, soppresse puramente e semplicemente quell'articolo del progetto. Dopo di queste ed altre discussioni meno importanti, si passò a quella del budget. Per rendere più chiara la situazione finanziaria dello Stato, Coletti aveva fatto eseguire un lavoro importante, che equivaleva ad un rendiconto generale della gestione finanziaria degli undici anni del governo monarchico. Dall’ispezione delle tabelle presentate, risultava, che le spese pel 1845 offrivano, su quelle dell'anno antecedente, una diminuzione d'un milione e più di franchi. Ma con tutto ciò nemmeno l'amministrazione di Coletti potè andar salva dalle accuse.

Si diceva di Coletti, che cresciuto alla scuola del pascià d'Egitto, s'era imbevuto di principii anticostituzionali. Lo si accusava d'aver lasciato cader la Grecia in una spaventevole anarchia;i diceva che la costituzione era stata messa da parte, che le elezioni qualche volta si erano fatte colla controlleria della forza armata; che deputati già eletti, ma che non eran piaciuti al governo, erano stati esclusi dalla camera da una commissione nominata in onta alla costituzione, che si era presa in canzone la libertà della stampa, che in luogo dell’esercito illegalmente disperso si eran sostituite bande di palicari e di ladri. Nè solo Coletti incontrò quest' opposizione di parole e di calunnie per parte de'  suoi avversari, ma si vide contrariato da colui ch'egli stesso aveva chiamato al potere vicino a sé, vogliam dire di Metaxa che rifiutò d'andar ministro presso la Porta Ottomana. Maurocordato e quelli del suo partito videro in questa determinazione la prova, che Metaxa si accostava ad essi.

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Se non che il collega di Coletti nel punto di dare i motivi della sua ritirata, tolse ogni illusione ai filortodossi, non avendo portata nessuna accusa all'amministrazione. Calergis intanto lasciava la Grecia; questo generale, quantunque fosse l'aiutante di campo del re, s'.era fatto centro a tutte le lamentanze; quelli della fazione russa e della inglese convenivano presso di lui, la qual condotta in un uomo che stava presso il re, non poteva che compromettere il potere. Il re dovette pertanto dimettere Calergis dal suo posto d’aiutante di campo, e lo nominò ispettore militare dell'Arcadia. Se non che, avendo il generale rifiutato questo nuovo incarico, e chiesto invece un passaporto per l'estero, questo gli fu immediatamente accordato. Medesimamente il colonnello Scarrelli, che era stato ai fianchi di Calergis nella rivoluzione di settembre, fu messo in disponibilità, perché al re fu riferito, ch'esso cercava il posto di comandante la guarnigione d'Atene, per poter giovare agl'intenti d’una nuova cospirazione. E una nuova cospirazione scoppiava infatti. I capi maurocordisti e nappisti, avendo per parola d'ordine abbasso il ministero, s'impadronirono della fortezza di Bortounia, dove prepararono i loro mezzi di difesa. Se non che le popolazioni, invece di congiungersi, presero le armi contro di loro, e li inseguirono sintantoché, aiutate da alcuni distaccamenti di gendarmeria e d'infanteria leggera, s'impadronirono dei capi, e li consegnarono all'autorità. Contemporaneamente fu arrestato Pierakas, il quale doveva sorprendere la città fortificata di Modone, e venne scoperta la congiura della guarnigione di Nauplia e della marina d'Idra. Ma Coletti non si sgomentava in mezzo a tanti pericoli. Nella camera dei deputati sapeva conservarsi la maggioranza, nel senato sapeva mantener l'equilibrio in proprio favore, si faceva confederato tutto il ceto degl'impiegati con opportune ricompense, nell’esercito dava i posti principali agli uomini che gli eran devoti. Seppe ancora farsi amico il clero; di modo che il partito francese, per opera di Coletti, potè uscire vittorioso dalle mene dei nappisti e dei maurocordisti. Tuttavia, quando, ad onta delle turbolenze, si riaprì in dicembre la sessione parlamentare della Grecia,

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e la maggioranza si dichiarò in favore del ministero Coletti, nel progetto d'indirizzo del senato fu inserita una manifesta riprovazione della sua condotta, e il presidente della camera dei deputati, Riga Palamide, lo biasimò in molti punti della sua politica interna. Votato l'indirizzo nel febbraio del 1846, assicurato dalla maggioranza il ministero Coletti, questi attese con più fermezza che mai ad assicurare l'interna sicurezza, a migliorare la condizione delle finanze, ad aprire nuove vie di ricchezza e di prosperità. Ma se la sua volontà era forte, molto più forti erano gli ostacoli, ché l'agricoltura e l'industria si sviluppavano con lentezza, e la pubblica sicurezza era ogni giorno compromessa da torme di briganti, che invadevano armata mano le campagne.

Questo fatto diede argomento ad una nota severa che Palmerston diresse a Lyons, nella quale si voleva che il governo fosse responsabile di tali disordini. Ma Coletti con fermezza e dignità respinse le accuse del ministro inglese in una risposta, di cui riportiamo il brano seguente:

«Non è soltanto diritto, ma è dovere del governo greco di respingere, nel modo più energico, le accuse, che quantunque scagliate da un governo amico, non men per questo offendono l'onore d'una corona e d'un paese, la dignità e l'indipendenza del quale deve interessare le potenze, che con tanta generosità hanno contribuito alla sua fondazione. No, il brigandaggio, gli assassinii, le violenze non sono incoraggiate in Grecia, quantunque talvolta i delitti rimangano impuniti. Dappertutto e sempre, e nonostante ostacoli continui, la volontà ferma del governo ha fatto rispettare la legge; la vita e la proprietà degli uomini tranquilli e laboriosi sono assicurate: lo provano il progresso del commercio e dell'agricoltura Nel punto di conchiudere una risposta cosi ingiustamente stata imposta al governo di S. M. il re della Grecia; io vorrei a suo nome ed a nome de'  più gravi interessi, esortare il governo di S. M. britannica a non accogliere delle accuse inconsiderate.»

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Ma più che il fatto del brigandaggio furono cagioni di gravi rimostranze per parte del governo inglese gl'imbarazzi finanziarii, e l'impossibilità nella quale la Grecia si trovava di pagare gl'interessi del debito ch'ella aveva contratto colle tre potenze protettrici. Ma anche intorno a ciò, non esattamente informato il governo britannico, dopo aver scagliato gravi accuse contro al modo onde la Grecia veniva amministrata, venne a dichiarare ch'egli pretendeva dal governo greco, che l'eccedente delle rendite annunciate nel budget fosse consacrato a servigio del prestito garantito dalle tre potenze. Ed anche in ciò il governo, respingendo le accuse ingiuste, accettò le proposizioni del gabinetto di Londra, non per altro che per provare quanto fosse disposto a qualunque sacrifizio. Se non che l'opposizione si valse di questi fatti per mostrare alla Grecia, come l'Inghilterra avesse cominciata una lotta sistematica contro il ministero Coletti. A screditarlo e a renderlo oggetto di timori per l'avvenire, andavano profetando chela Russia si sarebbe ben presto unita all’Inghilterra in questa crociata contro al capo del partito francese. E infatti, alla nota del gabinetto inglese ne tenne dietro un'altra del gabinetto russo, e l'uno e l'altro sollecitarono dal ministero le garanzie delle promesse da lui fatte a proposito dell'eccedente delle rendite, tanto che Coletti fu costretto ad inviare ai tre gabinetti un quadro esatto delle rendite e delle spese, da cui risultava, che il totale generale delle rendite era di 53,340,000 franchi,.quello delle spese di 53,900,000 franchi, senza contare i dodicimila franchi d'interesse e d'ammortizzazione dell'imprestito Rothschild. Ma, ad onta di una si virulenta opposizione al di dentro ed al di fuori dello Stato, la maggioranza non mancò mai al ministero Coletti, e allorquando per rimediare agl'imbarazzi finanziarli domandò un credito straordinario, sessantanove voti contro trentatrè glielo accordarono; e quando fu fatta la proposizione d'un indirizzo al re per pregare la M. S. a cambiare il ministero, la stessa maggioranza, fedele a Coletti, la rigettò senz'altro.

Quantunque però il ministero fosse abbastanza forte per dominare la procella parlamentaria, sorvennero nel 1847, nei rapporti tra la Turchia e la Grecia, tali vertenze che misero Coletti in grave impaccio, e tanto più in quanto le fazioni nemiche se ne valsero contro di lui.

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Avendo avuto parte nel movimento insurrezionale della Tessaglia, avvenuta l'anno 1841, un tal TzamiKaratasso, ufficiale greco, il governo del re, per dare una soddisfazione alla Turchia, fece relegar quell'uffiziale nella fortezza di Nauplia. Ma dopo qualche tempo, avendo questi ottenuta la libertà, e dopo un lungo esiglio essendo rientrato in Grecia, e in vista della sua condotta esemplare stato ammesso ai servigi del re, non si credette di dover negargli un passaporto per Costantinopoli, quand'esso, per affari privati, dovette recarsi in quella città; se non che, essendo necessario il visto del ministro di Turchia, questo gli venne rifiutato. Per tal fatto, essendosi il re lamentato con Mussurus, ministro della Porta, in occasione d’una festa da ballo, quegli non si degnò di rispondere al re, e senza più abbandonò la festa, né di ciò stette pago, ma il dì successivo domandò nientemeno che una riparazione per il procedere del re a suo riguardo. Com'è naturale, la riparazione venne rifiutata, onde Mussurus domandò i suoi passaporti.

Coletti intanto aveva scritta una lettera ad Ali Effendi, ministro degli affari esteri in Turchia, dove gli esponeva la storia Ai fatto genuina. Ma Ali Effendi trovò che avea ragione Mussurus, al quale anzi ingiunse d'abbandonar tosto Atene se il re Ottone non gli scriveva una lettera di scusa. S'interposero allora gli ambasciatori delle potenze, ma, dopo molte esortazioni, non seppero ottener altro fuorché la Porta si accontentasse che il ministro Coletti scrivesse a Mussurus una lettera, in cui gli esprimesse il suo rincrescimento per la condotta del re.

Coletti non volle dare una soddisfazione concepita in questi termini, ma si esibì invece ad attestare il proprio desiderio di conservarsi in buona relazione colla Porta; dichiarò poi nel tempo stesso, che quanto era succeduto era affatto particolare a Mussurus, che questo ministro si era sempre mostrato ostile alla Grecia; epperò, che se la Turchia voleva spedire un altro rappresentante alla corte di Ottone, egli era disposto a darle qualunque riparazione. Ma il Divano allora pretese, come mezzo di conciliazione, la dimissione di Coletti, contro la qua! pretesa protestarono energicamente molti membri del corpo diploma,fico, e più degli altri il ministro inglese Bourqueney.

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Per tal modo col primo aprile cessarono le relazioni diplomatiche tra la Grecia e la Turchia. Contemporaneamente a ciò, per accrescere le difficoltà al gabinetto, i suoi nemici gli suscitarono contro un'accusa per malversazione esercitata a detrimento del commercio. Ma i modi dell'accusa furono tali da mettere in avvertenza i membri dell'assemblea e il pubblico sui motivi che l'avevano provocata, onde l'accusa non fu accettata senza esame, e i membri della maggioranza credettero opportuno di recarsi dal presidente del consiglio per assicurarlo del loro appoggio. Senza dunque occuparci di questo fatto al tutto sterile e inconcludente, ci resta ora a parlare d'un argomento di ben maggiore importanza: la discussione sull'imposta fondiaria. Nel tempo che Metaxa era stato ministro delle finanze, pensò di sostituire la percezione diretta fiscale all'appalto della decima, dal che dovevano derivare immensi vantaggi tanto ai contribuenti che al tesoro. Ma una modificazione così importante nel sistema finanziario non era l'opera d'un giorno solo, e Metaxa aveva compreso, che i vantaggi della percezione diretta non potevano realizzarsi in una prima applicazione. Avvenne poi che, quando si apri la discussione intorno a quest'argomento, essendo ancora in vacanza molti deputati ministeriali, l'opposizione credette poter cavar partito dalla sua superiorità numerica, epperò chiese che si passasse ai voti, dopa che i suoi oratori ebbero rinunciato alla parola. Ma il presidente essendosi rifiutato di chiudere la discussione, l'opposizione fece tumulto, onde l'assemblea fu costretta a disciogliersi. Il giorno dopo si rinnovarono i guai tra i conservatori e l'opposizione, e le cose camminarono di maniera, che si dovette aspettare il ritorno dei deputati assenti. Quando furon giunti, s'impegnò la lotta decisiva. Le differenze sollevate tra la Grecia e la Turchia, la presenza dei bastimenti inglesi al Pireo, l'arriva a Zante del generale Calergis, istigatore della guerra civile, tutte queste cose insieme unite scemarono la maggioranza al ministero Coletti. L'opposizione si credette dunque alla vigilia d'uu trionfo. Cosi, per esperimentare le proprie forze, essa domandò per ammenda che l'imposta fosse appaltata.

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Ma l'ammenda fu respinta, quantunque alla semplice maggioranza d'un voto, la tali circostanze il ministero provocò lo scioglimento delle camere, che fu pubblicato il giorno 16 aprile accompagnato da un manifesto di Coletti; per il che all'opposizione non restò altro a fare fuorché imbrogliare le elezioni, al che attese man dando emissari dappertutto ed eccitando il popolo a rifiutare l'imposta. Ma dal canto suo non riposava Coletti, e per essere più poderoso contro all'imperversante opposizione, ricostituì il ministero, introducendovi elementi nuovi, e riuscì in fatto & tenere in freno le fazioni nemiche, non però a togliere di mezzo gl'imbarazzi finanziarii, che si facevano ogni giorno sempre più gravi per la solita cagione del debito contratto nel 1832. La Grecia non aveva mai potuto soddisfare regolarmente al pagamento degl'interessi e all'ammortizzamento del capitale, e già stava per iscadere un altro semestre. Il ministro inglese Lvons, nei termini i più duri dichiarò di voler esigere il pagamento di questa parte di debito, e quel ch'è peggio, alcuni bastimenti inglesi si presentarono al Pireo per appoggiare i reclami del ministro; ma il tesoro si trovava nell'assoluta impossibilità di soddisfare un creditore così inesorabile. Per fortuna il celebre filelleno Evnard si esibì a prestare al governo d'Atene cinquecentomila franchi, la qua! cosa bastò per far rinascere la fiducia. Allora Coletti usci a protestare contro le accuse dell’Inghilterra, in una Nota diretta alle tre potenze, dove, per tutta prova delle sue giustificazioni, offriva alle potenze garanti del prestito di sottometter loro il budqet della Grecia con tutti i particolari del servizio finanziario. Se non che, non bastando giustificarsi del passato, Coletti volle inoltre far conoscere alle tre potenze le risoluzioni ch'egli aveva preso per l'avvenire. Dichiarò dunque essersi il governo greco determinato all’alienazione, se non di tutti i beni nazionali, di quelli almeno che avevano un valor produttivo attuale. Col mezzo di queste nuove risorse la Grecia s'impegnava a pagare annualmente dal 1848 al 1850 il terzo degl'interessi e dell’ammortizzamento; dal 51 al 53 la metà, dal 54 al 56 i due terzi, dal 57 al 59 i tre quarti. Così col 1860 le potenze garanti avrebbero cessato di venire in aiuto della Grecia, che sarebbe bastata sola a'  suoi impegni. Presentava inoltre altri progetti ed altre garanzie.

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Prevedendo poi che gli sarebbe stata fatta un'obbiezione relativa al semestre scaduto del settembre 1847, egli dichiarò, che nel caso le potenze esigessero che l'accomodamento avesse il suo effetto col semestre scadibile in settembre del 1848, egli metteva a loro disposizione cinquecento azioni della banca nazionale.

Non appena Coletti ebbe compiuto quest'atto, che fu colpito da cruda malattia, della quale dovette morire. Il caso funesto avvenne il giorno 6 settembre, e fu per la Grecia una grande sventura, poiché le fu tolto colui che solo forse aveva la capacità e la fermezza di condurre felicemente a termine l'arduo assunto di sanarle tutte le piaghe. E intanto il primo fra i tristi effetti della sua morte fu quello, che il paese rimase in balia dei fazionisti, l'insurrezione si risvegliò nel modo il più allarmante. I generali Griziotis, Grivas, il tenente colonnello Pharmakis, il colonnello Papacosta, il maggiore Valenza si ribellarono al governo. Per rendere più pericolose queste interne piaghe, si aggiungevano le dimostrazioni ostili della Turchia a proposito dello stolido e caparbio pettegolezzo suscitato da Mussurus, i dispacci inviati ai consoli ottomani residenti in Grecia di abbandonare questo territorio, e minacce di misure più gravi nel caso che il governo greco non pensasse ad una riparazione. E senza dubbio che si sarebbe corso il pericolo di una guerra, se non si fosse intromesso il ministro della Russia Persiani, a cui il governo greco consegnò una lettera pel ministro turco Mussurus, nella quale gli si esprimeva il dolore ond'era compreso per la malintelligenza del 21 gennaio 1847, e lo si assicurava che, dimenticato il passato, lo si sarebbe ricevuto in Grecia coi riguardi dovuti al rappresentante d'una potenza alleata. Compiuto cosi quest'affare tanto disgustoso quanto frivolo, si riaperse la sessione parlamentare. Riga Palamide era stato messo alla presidenza del ministero, e godeva della piena confidenza del re, nel tempo stesso che il più perfetto accordo regnava tra lui e la camera dei deputati. Questa si occupò allora della proposizione di Eynard, riconobbe come debito nazionale il prestito fatto dall’illustre filelleno alla Grecia per soddisfare agli ultimi riclami dell’Inghilterra, e dopo avere approvate tutte le garanzie che il governo gli volle dare per il rimborso del prestito, gli votò per acclamazione i ringraziamenti di tutto il paese.

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In questo mentre il governo ebbe ad indirizzare una nota alle tre potenze per essere stati i ribelli Papacosta, Valenza, Condojanni neutralmente aiutati dai capi dei distaccamenti ottomani posti ai confini; e conchiuse un trattato di commercio e di navigazione colle città anseatiche. Stando così le cose, l'anno pareva voler camminare tranquillamente, ma a un tratto si scatenò la più fiera procella. Si rinnovarono le insurrezioni nelle province, i ribelli s'impadronirono della città di Patrasso, che a stento venne ripresa dalle truppe reali; Messenia e Acarnania si sollevarono, e nel mezzo di tanti disordini una crisi ministeriale rovesciò, il 17 luglio, il ministero Riga Palamides, a cui successe il ministero Conduriotis, che presto dovette dimettersi anch'esso per essere sostituito dal ministero Canaris. Egli fu al tempo di quest'ultimo ministero che la presenza dei Russi in Moldavia e in Valacchia, e la dura condizione in cui venne a trovarsi la Turchia, esaltò il sentimento della nazionalità greca. Né gli avvenimenti sorvenuti in Europa negli anni 1848 e 1849 erano tali da poter tranquillare gli spiriti. L'arrivo in Atene d'un gran numero di rifuggiti italiani e stranieri diede luogo a insolite manifestazioni. Il nuovo patriottismo veniva incoraggiato nella camera elettiva da un partito, alla testa del quale si faceva distinguere un tal Cleomenès, imputato già d'assassinio. Redattore d'un giornale violento, cercò di provocare l'indignazione della camera contro alcune misure prese dalla Porta relativamente a'  suoi sudditi greci, e conchiudeva le sue declamazioni con un appello enfatico per la guerra; al cospetto delle quali cose, essendosi il ministero mostrato troppo timido, se ne chiamò offeso il rappresentante della Porta in Atene. Non ne fu altro però, e per quell'anno il ministero trasse innanzi la fiacca sua vita, e, al pari di lui, la camera si trascinò in discussioni sterili sino a che, dopo la votazione del budget, venne chiusa per ordine del re. Ma codesta vita letargica doveva ben presto ricevere una scossa tremenda da un fatto tanto straordinario quanto inaudito, vogliamo accennare alla famosa aggressione inglese, operata nel gennaio del 1850 dal viceammiraglio Parker.

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Da qualche anno la Grecia, come abbiam veduto, era padroneggiata dal partito francese, che aveva trionfato col mezzo di Coletti, il quale tuttavia non aveva saputo respingere l'alleanza del partito russo. Preoccupato dell'estensione territoriale del suo paese, soldato della guerra dell'indipendenza e devoto alle tradizioni dei palicari, Coletti non cessò mai d'aver riguardo ai mezzi d'ingrandimento che la Russia poteva offrire alla Grecia. Egli è per questo che il nome di Coletti si mesce sempre ai commovimenti politici che hanno spesso agitate le province turche. Riponendo ogni sua fiducia nella Francia, che diede sempre alla Grecia delle prove di simpatia senza mire d'interesse, ma senza tuttavia aver potenza per aiutarla a difendersi, non volle mai abbandonare del tutto la Russia, la cui politica erasi mantenuta sempre rivoluzionaria in Òriente. Ma viveva diffidente in sommo grado dell'Inghilterra, la sola fra le tre potenze che si fosse pentita della vittoria di Navarino, e che fu sempre costante nel respingere qualunque progetto di spostamento territoriale nell'Oriente. Coletti impiegò pertanto tutta l'arte sua e tutta l'energia ond’era capace la sua forte natura per combattere il partito inglese, al quale potè avventar colpi tremendi. Né dopo la morte di Coletti il partito inglese potè rialzarsi. Allora Palmerston apprestò un gran colpo con cui abbattere la Grecia. Sotto pretesto d'esorbitanti indennità ch'erano dovute alla Gran Brettagna, si lusingò di poter provocare una reazione in favore del partito inglese, sostenuto dalla minaccia sempre presente della sua marina. Fu allora che il viceammiraglio Parker, giunto nel porto d'Atene con sedici legni, presentò, di concerto col ministro Wyse, a Londos, ministro degli affari esteri, una serie di reclami, pei quali si esigeva una soddisfazione completa entro ventiquattro ore. Si trattava in primo luogo d'un indennizzo di quarantaquattromila dramme a un certo Fintav, antico possidente espropriato dell'area su cui era stato costruito il palazzo reale.

Il viceammiraglio domandava inoltre ottantamila dramme per un certo don Pacifico, ebreo portoghese, già console, poi suddito naturalizzato della Gran Brettagna, la casa del quale era stata saccheggiata in occasione d'una sommossa.

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Nell'impossibilità di giustificare la cifra enorme delle sue pretese, don Pacifico pretendeva inoltre d'aver perduti in quella circostanza de'  ricapiti importanti da cui risultavano i suoi diritti ad un indennizzo reclamato da lui contro il Portogallo. A queste prime domande se ne aggiunsero tre altre, una di duemila dramme per un bastimento saccheggiato dai pirati, un'altra di duemila sterline per un abitante dello Zante stato maltrattato, l'ultima di cinquecento sterline da pagarsi dalla Grecia come ammenda, quando non avesse soddisfatto in tempo a questi riclami. Linguaggio inaudito nella storia della diplomazia, e che non si spiega che col diritto del più forte. E non era tutto: ma dopo quelle pretese finanziarie, la nota inglese reclamava, come facenti parte delle isole Jonie, gl'isolotti di Cervi e di Sapienza, situati sulla costa occidentale della Morea. Il ministro greco Londos, non avendo potuto che respingere quelle pretese e appellarsi all'arbitrato delle due potenze garanti Francia e Russia, il ministro inglese non badò alle parole, e cominciarono così le violenze minacciate. Un vascello greco fu catturato e condotto a Salamina, e da quel giorno tutti i navigli di commercio che si esponevano ad uscir dal" Pireo furono egualmente staggiti.

Ma questa aggressione fu più avventata che sagace, e, quel ch'è peggio, non ebbe la sanzione del fatto compiuto. D'altra parte il popolo greco, sostenuto con altrettanta fermezza che longanimità da Thouvenel, ministro di Francia, seppe conservare un'attitudine patriottica e sensata nel tempo stesso. Da un estremo all'altro del regno l'opinion pubblica si pronunciò in favore della politica del governo. I municipii, le camere di commercio, i negozianti mezzo rovinati dal sequestro posto ai loro navigli, inviarono atti d'adesione da ogni parte. Ricchi particolari si offersero di mettere le loro fortune e i loro beni a disposizione del governo; gli uffiziali della guarnigione d'Atene di rinunciare alla loro 'paga: per ultimo si praticò una sottoscrizione per tutto il paese sintantoché la camera dei deputati avesse preparato un progetto di legge per l'indennizzo dei bastimenti sequestrati.

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Si videro allora i generali Griziottis ed altri capi dell'ultima rivoluzione, che si erano rifuggiti in Turchia, a scrivere tosto al presidente del consiglio per istornare da sé qualunque sospetto di connivenza coll'Inghilterra. D'altra parte i Greci scansarono con molta saviezza tutte quelle dimostrazioni che avrebbero potuto sembrare provocatrici.

Il nomarca della Fteotide e il generale Manouri, comandante le truppe di questa provincia, avendo indirizzato alle popolazioni un proclama che poteva compromettere, furono tosto destituiti. E finché durò codesta crisi, l'attitudine della Grecia e del suo governo non si smentì mai, e quando infine si dovette cedere alla violenza ed alla frode, le camere elleniche consumarono con dignità il doloroso sacrifizio, e tutto il paese ne accolse la novella con decorosa rassegnazione. Di tal modo, il partito inglese, ben lungi dal guadagnare qualche influenza nel paese, come Palmerston l'aveva pensato, perdette anche quel poco di popolarità che pure aveva prima. Il re, appoggiato dal partito francese e russo, si vide circondato dall’universale simpatia, di cui raccolse le vive testimonianze in un viaggio che fece a Sira e ad Idra in compagnia della moglie. La discussione intorno alla legge sulla reggenza venne a dare al sovrano una prova novella dell'attaccamento devoto della camera. Il re, la cui salute era stata alterata dalle dure prove che aveva dovuto subire, aveva risoluto di fare un viaggio in Baviera. Egli desiderava che in sua assenza le redini del regno fossero affidate alla regina Amalia. Ma l'assemblea costituente, autrice della Carta del 1844, aveva già votato un decreto così concepito: «La regina Amalia, nel caso di vedovanza, è chiamata di diritto alla reggenza, se l'erede del trono è minorenne o assente.» Il decreto non aveva preveduto il caso dell’assenza del re; ma essendo molto men grave del primo, sarebbe stata un'assurda inconseguenza il negare alla regina per alcuni giorni un privilegio ch'ella in diritto avrebbe potuto esercitare per anni. Con tutto ciò il partito inglese non ebbe vergogna di sostenere, che la reggenza accordata alla regina avrebbe violata la costituzione.

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Ma la maggioranza della camera fece giustizia di codesta argomentazione capziosa.

La presentazione del progetto di legge fu l'occasione d'una modificazione ministeriale. Londos, ministro degli affari esteri, e Crvsogelos non avevano voluto assumersene la responsabilità. Diedero pertanto la loro dimissione, che fu accettata. E siccome il portafoglio delle finanze e dell’istruzion pubblica era disponibile da qualche tempo, così il ministero si trovò ridotto a soli tre membri: il contrammiraglio Krièsis, presidente del consiglio e ministro della marina, Notaras, ministro dell'interno, e il generale Staikas, ministro della guerra. Il re chiamò allora Delvanni al ministero degli affari esteri. A questo personaggio, che prima era stato incaricato d'affari a Costantinopoli, diede inoltre l'interim del dipartimento dell'istruzione pubblica e di quello dei culti e delle finanze. E Notaras fu alla sua volta incaricato dell’interim della giustizia.

La nomina di Delvanni al ministero degli esteri aveva un fine speciale. Durante la sua missione in Turchia era stato incariato di trattare col governo turco e col patriarca di Costantinopoli la questione dell’indipendenza del Sinodo d'Atene. Tale questione pendeva fin dal 1833, e la costituzione del 1844, quantunque avesse posto categoricamente il principio dell'indipendenza, non aveva tuttavia reciso il nodo. La soluzione non voleva effettuarsi, e nemmeno la Russia pareva favorevole. In fatto, il patriarca greco di Costantinopoli, sebbene nominato dal sultano, non poteva scansare l'influenza russa. Sovente anzi fu un docile strumento in mano della Russia. La convenzione poi del 1850, consacrando il legame dogmatico che unisce la Chiesa nazionale della Grecia a quella di Costantinopoli, ha garantito la sua indipendenza amministrativa. Se non che questa medesima indipendenza non pose la Chiesa greca al sicuro dalle seduzioni della Russia.

Ma intanto che il regno della Grecia versava al di fuori in una tremenda fase critica, che le potenze protettrici erano ben lontane dal mettersi d'accordo per assicurare il suo avvenire, al di dentro altre difficoltà contribuivano a porre inciampi allo sviluppo delle sue forze produttive.

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In conseguenza d’una cattiva situazione dell'imposta e d'una amministrazione poco curante dell'economia, la condizione finanziaria peggiorava ogni giorno. Egli è vero che i partiti, istrutti dai pericoli che il paese aveva corso nel 1850, tendevano ad un ravvicinamento che il patriottismo comandava come una condizione di salvezza, ma una questione della più alta importanza teneva tuttavia gli spiriti sospesi. Maritato fin dal 22 novembre 1836, il re Ottone era senza figli, e la successione al trono non era per anco stata regolata. La difficoltà non consisteva punto nel designare l'erede alla corona; il trattato di Londra aveva stabilito ch'ella dovesse appartenere, in mancanza di discendenti diretti del re Ottone, a suo fratello cadetto o a'  suoi eredi diretti per ordine di primogenitura. La costituzione del 1844, alle stipulazioni del trattato di Londra aggiunse una condizione novella che la rendeva più difficile. Ella pretese che l'erede del re Ottone dovesse appartenere alla religione del paese ed alla comunione greca. L'articolo della costituzione ha potuto cambiare le disposizioni fissate dalle potenze protettrici della Grecia? Il concorso di queste potenze non era forse necessario per modificare le convenzioni ch'esse avevano posto per fondamento del regno ellenico? Tale questione, che pur era tanto grave dal punto di vista del diritto statutario, non era del resto la principale delle dissensioni che si era sollevata a suo riguardo. Ché infatti, a tutto rigore, se le potenze non avevano espresso formalmente la loro adesione alle prescrizioni costituzionali relative alla religione del futuro sovrano, non avendole combattute, vi avevano tacitamente aderito. Di più, era noto che l'imperatore della Russia aveva più volte manifestato il desiderio che il re Ottone entrasse egli stesso nel seno della Chiesa greca, e l'Inghilterra non aveva alcuna ragione di preferire che il re della Grecia e i suoi eredi rimanessero fedeli al simbolo cattolico. Ma tutto l'ostacolo consisteva in ciò che la casa di Baviera è una delle più cattoliche in Europa. Il suo mezzo principale d'influenza stava in codesto carattere che la collocava in una condizione speciale al cospetto delle popolazioni della Germania. Il re Ottone non aveva dunque acconsentito a cangiare di comunione, e gli stessi scrupoli erano divisi da'  suoi fratelli.

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Il principe Luitpoldo, a cui ricadeva per diritto l'eredità del re Ottone, non pareva acconsentire ad accettarlo colle condizioni fatte dalla costituzione ellenica. Restava bensì un ultimo fratello del re, il principe Adalberto, non ancora maritato, al quale era devoluta la corona nel caso d'una rinuncia per parte di Luitpoldo; ma le difficoltà si presentavano ognora le stesse, e tutti i sacrifici che il giovine principe si mostrava disposto a fare si riducevano a promettere, che i suoi figli sarebbero stati allevati in Grecia nella religione del paese.

Il re Ottone, parte per motivo di salute e parte per poter discutere co' fratelli intorno a questi gravi interessi, aveva intrapreso, alla fine del 1850, un viaggio in Germania, che prolungò fino al maggio dell'anno seguente. Durante la sua assenza, la regina Amalia era stata investita del governo in virtù della legge votata sulla reggenza. Quando il re ritornò in Grecia, non si potè sapere s'egli vi abbia recato la speranza che il principe Adalberto avesse aderito alle condizioni annesse per l'avvenire relativo all'esercizio della sovranità in Grecia. Fu questo un fatto che non venne chiaramente conosciuto dalle opinioni controverse del pubblico; e se un partito per avventura fu preso, esso rimase sepolto nel mistero.,

A codesta questione s'aggiunse quella della religione. Dopo l'anno 1833 la Chiesa del regno, per ciò che spetta all'amministrazione, era di fatto indipendente dal patriarcato di Costantinopoli. La costituzione del 1844 aveva consacrato questo principio, ma il patriarca di Costantinopoli non aveva ancora officialmente riconosciuta codesta indipendenza. Fu soltanto nel giugno del 1850 che venne sottoscritto un trattato tra esso e i plenipotenziari della Grecia per regolare le differenze.

Questa convenzione consacrava l'unità dei dogmi e la separazione amministrativa delle due Chiese. Essa aveva, agli occhi d'alcuni teologi greci, l'inconveniente di far derivare codesta indipendenza dalla buona volontà del patriarca di Costantinopoli. Il loro patriottismo si trovò dunque offeso, ché avrebbero desiderato che l'autonomia della Chiesa nazionale fosse libera da qualunque condizione.

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Se si riflette alla situazione delle diverse Chiese della comunione greca, è facile riconoscere che codesta pretesa è meno strana di quella che sembra a tutta prima. Quella della Russia è affatto indipendente. E vi sono due punti gravissimi, intorno ai quali ella non osserva le medesime pratiche della Chiesa di Costantinopoli. La Chiesa russa non dà il battesimo per immersione, ma per aspersione, come la Chiesa cattolica; essa ammette inoltre come valevoli i matrimonii contratti tra gli ortodossi e quelli che appartengono ad un' altra comunione cristiana, a condizione che i figli vengano cresciuti' nel seno della Chiesa ortodossa. Al cospetto d’una tale situazione, che agli occhi di verun Greco non costituisce un'eresia, alcuni teologi pensavano che il governo d'Atene poteva pretendere più di quello che gli era stato accordato. La convenzione del 1850 non era dunque ai loro occhi che un sacrifìcio di dignità.

Essi accusavano la diplomazia ellenica d'essersi lasciata dirigere dall'influenza russa, che credevano interessata a mantenere sui cristiani d’Oriente la supremazia dogmatica del patriarcato di Costantinopoli, sempre devoto alla Russia. Il viaggio del re in Europa, e il desiderio altresì di attenuare l'opposizione che il governo temeva d'incontrar nelle camere, fecero aggiornare la discussione di codesta controversia fino alla sessione del 1852. Ciò ha servito di pretesto ad alcuni fanatici per suscitare con audacia, e dapprincipio con un certo successo, l'agitazione eia rivolta.

La sessione parlamentare del 1851 era stata abbastanza tranquilla. Tuttavia ella aveva cominciato sotto l'impressione d'una di quegli avvenimenti che in Grecia sogliono rinnovarsi di tempo in tempo. Un uomo distinto, dal quale i veri amici della Grecia parevano attendere grandi cose, il ministro dell’istruzione pubblica, Corphiotakis, era stato assassinato nel 1850. L'opinione attribuiva questo delitto alle passioni politiche, e la nuova controversia veniva ad accrescere i rancori che aveva destato la. morte di Corphiotakis.

Ad onta della saviezza e dell'energia che la regina aveva spiegato nell'esercizio del potere, ella non aveva potuto mantener l'unione nel seno del ministero durante l'assenza del re.

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Vive discordie erano insorte, ed occorreva un cangiamento nelle persone dei ministri.

Delvanni, ministro degli affari esteri, s'era ritirato, e con questo diede ansa alla crisi. Uno dei primi atti del re, appena fu ritornato dalla Germania, fu di nominare un nuovo ministero. Taluno però tra i membri del gabinetto conservò il proprio portafoglio. Così l'ammiraglio Kriezis restò ancora incaricato della marina e della presidenza del consiglio. Christides rimase ancora alle finanze, Spiro Milios alla guerra, e Paikos non fece che cambiare il portafoglio della giustizia in quello degli affari esteri, essendo Damiano succeduto a Paikos nella giustizia. Meletopoulos entrò a dirigere gl'interni, e Barboglou la pubblica istruzione e il culto. Il gabinetto e le camere non avevano ad occuparsi che d un piccol numero d’affari non senza importanza, ma ben lontani dal poter suscitare vivi dibattimenti. L'esercito, le pensioni militari, un trattato colla compagnia del Llovd austriaco pel servizio delle coste della Grecia, una convenzione commerciale conclusa colla Sardegna, furono gli argomenti principali che attirarono l'attenzione del potere e del parlamento. Il budget del 1851 aveva potuto essere votato nel 1830, conforme ai veri principii d'un governo costituzionale e d'una sapiente contabilità. Era questa la prima volta che l'amministrazione si trovava in perfetta regola; ma essa volle ricadere nei vecchi errori, e così il budget del 1852 non potè essere votato nel 1851.

Il fatto che aveva servito di pretesto alla politica violenta dell’Inghilterra nel 1850 non era ancora definitivamente terminato. L'Inghilterra si dichiarava soddisfatta in tutto fuorché in una cosa sola, ed era l'indennità da accordarsi a Michele Pacifico. Per una convenzione sottoscritta in Atene il 18 luglio 1850, fra il governo inglese e la Grecia, si decretò un' investigazione, per giudicare del valore del danno recato a questo personaggio per ismarrimento di carte importanti, avvenuto nel saccheggio che la di lui casa ebbe a soffrire. Queste carte consistevano in credenziali ch'egli pretendeva avere sul governo portoghese, cui aveva servito in qualità di console generale durante la guerra civile, prima d'esser passato al servizio dell'Inghilterra.

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L'investigazione s'era aperta in Lisbona nel febbraio del 1851: la commissione era composta di tre membri rappresentanti la Francia, l'Inghilterra e la Grecia. Ella scopri nell'archivio delle Cortes un documento che le porgeva il mezzo di togliere ogni difficoltà con perfetta cognizione di causa, e che nel tempo stesso spiegava il carattere di don Pacifico. Questa carta, ch'era una petizione diretta alle Cortes, conteneva precisamente gli originali dei documenti di cui don Pacifico deplorava la perdita.

Gli ultimi suoi riclami risalivano all'anno 1839, ed egli stesso aveva si poca fede nell'equità delle sue domande, che non le aveva mai più rinnovate da quel tempo in poi. I commissari non potevano dunque prendere le sue pretese in sul serio. Osservarono tuttavia che un piccol numero di documenti d'un'importanza mediocre avevano potuto smarrirsi nel saccheggio della casa di don Pacifico, e che era conveniente di tenergli conto delle spese fatte durante l'investigazione; stimarono così ogni danno franchi 3750 in luogo dei seicentocinquantamila che don Pacifico riclamava, e l'investigazione si chiuse col 5 maggio del 1851, dando termine a codesto affare, che di ridicolo aveva minacciato di diventar pericoloso, e che per un istante aveva messo in movimento la diplomazia europea.

La Grecia, tenendosi da qualche tempo lontana dall'Inghilterra per piegare verso Francia e Russia, aveva recato una profonda ferita al gabinetto whig. D'altra parte la Russia aveva ottenuto nell'Europa orientale dei successi poco costosi, ma considerevoli. Essa era intervenuta in Austria, essa occupava i due principati della riva sinistra del Danubio, e con minacce aveva impaurito la Turchia nell’affare dei rifuggiti ungheresi. Lord Palmerston si era ostinato di voler mostrare, che anche l'Inghilterra poteva prender piede in Oriente e far guerra agli alleati della Russia, come questa la faceva a quelli dell'Inghilterra. Le querele che il gabinetto inglese aveva messe innanzi non erano che pretesti volgari che dissimulavano un colpo audace per indebolire la Grecia, e mettere la Russia in sull'avviso.

Quantunque una tale politica non abbia cagionato alla Grecia tutto il male che l'Inghilterra sperava, ha però mostrato

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come sia precaria la situazione di questo paese in mezzo alle potenze che hanno concorso a fondarlo, e che si disputano oggidì il privilegio di esercitare su di esso la loro influenza. Lord Palmerston, nell'indirizzare una nota alla Francia ed alla Russia sul brigandaggio che aveva desolato la Grecia nel 1851, diede bastantemente a divedere ch'egli non abbandonava il pensiero di continuare ne' soliti suoi maneggi rispetto a questo paese. Ma ora dobbiamo toccare di due questioni, quella relativa alla religione, e l'altra intorno alla successione al trono, che tennero occupato il parlamento greco nel 1852.

Nel 1850 il governo greco aveva negoziato col patriarca di Costantinopoli la consacrazione legale dell’indipendenza della Chiesa nazionale, già indipendente di fatto dopo l'insurrezione greca. La negoziazione provocò un accomodamento ufficiale, che, sotto il titolo di Tàmos, accorda in effetto alla Chiesa greca l'autonomia ch'ella si era spontaneamente attribuita sotto l'impero della necessità durante la gran lotta nazionale, e ch'ella aveva introdotto nella costituzione del 1843. Comunque fossero le riserve fatte dal Tomos, egli consacrava la libertà della Chiesa greca, e perciò da quel momento il governo ellenico poteva procedere al riordinamento amministrativo della Chiesa. Tuttavia, allorché nel 1852 volle presentare alle camere un progetto di legge organico dei culti, incontrò per ogni parte difficoltà di tutte le sorta. I teologi greci biasimavano altamente la condiscendenza che si era mostrata al patriarca di Costantinopoli. Altri poi, e costituivano un partito fortissimo, criticavano il progetto di legge come tendente a sottomettere la Chiesa all’autorità temporale del re, e ciò che fa meraviglia si è, che un tal partito era quello precisamente che si credeva devoto alla Russia; e ognuno sa che la sommissione del potere spirituale al temporale è precisamente il principio su cui posa la Chiesa russa. Sotto l'influenza di queste due opinioni estreme, s'impegnò una fiera lotta nella stampa ellenica, e il fanatismo di alcuni amici del disordine seppe approfittarne per mettere un momento in pericolo la tranquillità interna del paese.

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Quelli che difendevano l'indipendenza della Chiesa nazionale contro le disposizioni del Tomos trovarono un rappresentante assai dotto e distinto, malgrado l'esagerazione stessa delle sue dottrine, nella persona di Farmakidis, antico segretario del Sinodo, e assai noto pe' suoi scritti in tutta la Chiesa d'Oriente. Esso pubblicò, nel più forte della discussione, un'opera col titolo di AntiTomos. Questo teologo non si limitò a rivelare le particolarità de'  negoziati che avevano provocata la conclusione del Tomos; egli tentò di mostrare, colla storia della Chiesa in generale, e di quella d'Oriente in particolare, che il diritto di estendere o di limitare!e giurisdizioni episcopali, e di decretare l'indipendenza delle Chiese, era un diritto che, secondo gli antichi concilii, apparteneva al poter temporale. A tal uopo cominciò a trattare dell'ordinamento originario della Chiesa, ordinamento essenzialmente democratico, fondato sulla perfetta eguaglianza dei vescovi, e sulla loro indipendenza reciproca. Egli potè provare senza difficoltà, riferendosi alla pratica costante degl'imperatori greci, che tutte le modificazioni recate nella giurisdizione ecclesiastica, uscivano dal fatto del poter temporale, e che un tal fatto era passato in diritto. Secondo Farmakidis, la nazione greca, conquistando la sua autonomia, si prese per sé tutti i diritti ond'erano investiti gl'imperatori d'Oriente sulle province che costituiscono il regno della Grecia. Conchiudeva pertanto che spettava a lei sola il proclamare l'individualità della sua Chiesa; per conseguenza ella non aveva bisogno d'affannarsi per essere riconosciuta a Costantinopoli, e il patriarca di Costantinopoli non aveva diritto alcuno a" intervenire in tal questione.

Il partito russo colse, come un'occasione di testimoniare le sue viste particolari, le stesse parole del progetto dei culti destinate a consacrare la sovranità del potere temporale sul potere ecclesiastico. Questo progetto portava di fatto, che l'autorità ecclesiastica risiedeva nella santa Sinodo, sotto la sovranità del re. Codesta disposizione scatenò una tempesta che fece gridare all'empietà dalla parte di coloro che avrebbero dovuto logicamente essere i primi a volere che la Chiesa d’Atene fosse costituita sulle basi istesse di Pietroburgo. Convien però dire, che a far ciò avevano un ragionevole pretesto.

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Il re Ottone non professava la religione del paese. Sebbene la costituzione abbia stipulato, «he il successore del re Ottone doveva appartenere alla religione orientale, e che per conseguenza il temuto inconveniente, non essendo che temporario, non poteva influire su d'una legge destinata ad essere definitiva, i nappisti pretendevano che la legge doveva essere fatta sotto gli occhi del sovrano temporale, e che però era empietà il collocare il potere spirituale sotto alla supremazia d'un re cattolico.

Un monaco, chiamato Cristoforo Papoulaki, volle approfittare,dello stato critico della questione religiosa per fermare l'attenzione generale. Egli tentò dunque di sollevare la popolazione contro l'autorità reale.

Il santo Sinodo, scandalizzato dalle sue prediche rivoluzionarie, credette bene di lanciare contro questo monaco un decreto di reclusione. Ma Cristoforo, avvertito che il governo pensava a far eseguire la decisione sinodale, erasi rifuggito nella provincia di Gizione. D'allora in poi raddoppiò di violenza nelle sue predicazioni, e provocò nuovi assembramenti, che la forza militare si trovò impotente a reprimere. Allora il governo si vide obbligato a prendere immediatamente le misure più energiche per prevenire le conseguenze di tali dimostrazioni. Il generale Giovanni Colocotroni, aiutante di campo del re, nominato comandante in capo della spedizione, si portò nel centro di questa insurrezione con tutte le forze della Laconia, dell'Arcadia e di Messenia. Nel medesimo tempo Ducas, prefetto d'Atene, fu inviato nella Laconia quale commissario straordinario del governo. Per sua parte il Sinodo mandò su diversi punti un governatore distinto, e mandò fuori una circolare energica per esortare gli ecclesiastici e le popolazioni a non dare alcun credito alle,declamazioni d'un monaco che il santo Sinodo non esitava a qualificare siccome ciarlatano e ipocrita. Il governo poi era tanto più disposto ad agire con vigore in questa circostanza, in quanto che da gran tempo egli era sulle tracce d'una società segreta, che pareva appunto aver relazioni cogl'interessi religiosi, e che, al pari del monaco Papoulaki, si proponeva di combattere ogni sorta d'innovazioni e di suscitare nel popolo la diffidenza contro il governo costituzionale e il re.

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E non fu senza difficoltà e pericoli che le autorità militari e amministrative giunsero a stornare le macchinazioni di Papoulaki. Si conobbe tuttavia ch'egli non avrebbe potuto conservare per lungo tempo sulle popolazioni più illuminate quell'influenza che aveva acquistato, prendendosi giuoco della loro buona fede. Dopo aver tentato di rifugiarsi in Messenia, ove non incontrò che disposizioni ostili, fu ristretto a ritirarsi nelle montagne, dove tentò di far perdere la propria traccia agli agenti che lo inseguivano, ma egli diede in un'imboscata che un sacerdote gli seppe tendere, e cadde cosi nelle mani del governo.

Compressa questa insurrezione politico-religiosa, fu presentato alla camera il progetto di legge relativo alle cose ecclesiastiche, e modificato a seconda delle vedute del partito nappista, rappresentato da Vlacos, ministro degli affari ecclesiastici. Esso venne approvato dai deputati e dai senatori senza discussione, onde fu sancito che la Chiesa ortodossa indipendente della Grecia, essendo parte d'una sola Chiesa universale ed apostolica della fede ortodossa, si componeva di tutti gli abitanti del regno credenti in Cristo, e che professavano tutto ciò che professa la santa Chiesa ortodossa orientale; che spiritualmente era governata da prelati canonici; che l'autorità superiore ecclesiastica del regnorisiedeva in un sinodo permanente, portante il nome di santa Sinodo della Chiesa (reca; che un commissario reale senza voto deliberativo doveva assistere alle sue sessioni; che, per le attribuzioni interne, il sinodo era affatto indipendente dal potere civile, ma che, per quanto si riferiva ai diritti ed agl'interessi pubblici dei cittadini, operava di conerva e col consenso del governo; che la scomunica dei laici doveva sempre essere preceduta dall'approvazione del governo; che la sentenza di divorzio doveva essere pronunciata dai tribunali civili, rimanendo al vescovo la sola azione conciliatrice. Questa fu la base fondamentale del nuovo ordinamento ecclesiastico, del quale crediamo inutile di riferire le parti conseguenti ed accessorie. Per esso parve dunque troncata qualunque causa d'interna agitazione,

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ma un altro argomento di spettanza affatto civile, ma che veniva ad avere un'immediata relazione colla religione, rimaneva ancora a sciogliersi, voglia ordire il fatto della successione, del quale abbiam toccato più sopra.

La Grecia voleva che il suo futuro sovrano professasse innanzi tutto la religione del paese, e già ella aveva fatto di questo principio un articolo della sua costituzione. Le tre potenze protettrici furono perciò invitate dal governo della Grecia a garantire le disposizioni contenute nell’articolo 40 della costituzione del 1843. A tale scopo si aperse nel 1852 una conferenza a Londra, alla quale necessariamente dovette prender parte anche la Baviera. Da tale conferenza usci un trattato, che venne sottoscritto il 20 novembre dai plenipotenziari della Grecia, della Baviera, della Russia, della Francia e dell’Inghilterra. In esso venne stabilito, che i principi della casa di Baviera, chiamati dalla convenzione del 1832, e dalla costituzione ellenica, a succedere al trono della Grecia, nel caso che il re Ottone venisse a morire senza posterità diretta e legittima, non potrebbero salire al trono che conformandosi all'articolo 40 della costituzione. Non essendo poi la casa di Baviera intieramente d'accordo col governo greco riguardo all'estensione degli obblighi portati dalle prescrizioni dell'articolo 40, si venne ad un accomodamento di famiglia, in forza del quale il principe Leopoldo, al quale toccava di diritto la corona, cedeva i suoi diritti eventuali al principe Adalberto, suo fratello cadetto, stabilendosi inoltre che l'obbligo d’abbracciare la religione greca non incumbeva al principe destinato al trono prima del suo avvenimento.

Con questo trattato si chiuse tranquillamente l'anno 1852; ma all'aprirsi dell'anno successivo è ancora lo stato deplorabile delle finanze che impedisce allo storico di poter considerare con compiacenza il quadro della Grecia. All'apertura delle camere Christides presentò un progetto di budget. Fu desso un lavoro coscienzioso e verace che offerse il quadro completo della condizione finanziaria della Grecia; richiamò all'assemblea, come una successione fatale di circostanze atmosferiche avesse, dopo il 1850, colpiti i principali prodotti del paese, gli ulivi e i vini di Corinto,

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per cui le rendite dello Stato se ne erano risentite in proporzione di quelle dei particolari. Christides propose pertanto di limitare a 19 milioni di dramme il budget del 1853 avendo valutato 21 milioni quello delle rendite. Ma, per verità, questa somma non poteva entrare nel tesoro, perché il conto relativo al prestito dei 60 milioni alterava le somme in modo, che bisognava levare 4 milioni di dramme tanto alle passività che alle attività dello Stato, e per conseguenza ridurre a 15 milioni le spese, e a 17 le rendite. Ma un'altra deduzione bisognava farsi a quest'ultime, ed era quella che risultava dal non incasso delle somme percepibili sugli oggetti sottoposti a tassa. Bisognava adunque ridurre i 17 milioni a 15, e tuttavia nel 1852 non ne erano entrati nel tesoro che 14. Del resto il progetto di Christides fu adottato nel suo complesso dalla camera, e non incontrò che qualche opposizione in seno al Senato. Altri due progetti furono poscia presentati dallo stesso Christides, l'uno sulla riscossione delle imposte, l'altro sull'appalto degli ulivi dello Stato. Abbiamo già parlato del sistema invalso in Grecia da antichissimo di appaltare le imposte. Ora è a sapere che nel 1853 gli appaltatori erano in debito verso lo Stato di 10 milioni di dramme, nientemeno che due terzi della rendita d'un anno, e che tenendo conto degl'interessi, venivan quasi a sommare il doppio. A voler esigere immediatamente quei crediti, si veniva a gettar nella miseria un gran numero di famiglie. Il ministro Christides si propose dunque di fare il bene dello Stato, senza tuttavia gettar la rovina nelle famiglie. Secondo il suo progetto veniva accordato ai debitori lo spazio di dieci anni per mettersi in regola collo Stato, il pagamento doveva farsi in dieci versamenti eguali, sempr'inteso che questo spazio non era accordato che alle somme di tremila dramme; per le minori si doveva pagare in cinque rate, per quelle inferiori a mille dramme, in tre sole. In quanto agl'interessi, venivano compiutamente condonati agli appaltatori. Le camere, dopo una discussione lunga e sapiente, adottarono questo progetto di legge, prolungando però di due anni la dilazione accordata ai debitori, e riducendo al quattro per cento l'interesse per quelle somme che non sarebbero state pagate all'epoca destinata. Al pari di questo progetto delle imposte fu adottato dalle camere anche quello relativo all'appalto degli ulivi.

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Ma vi erano a discutersi altre due leggi di grave importanza relative alle pensioni pei militari. Per molto tempo, a ricompensare i servigi resi allo Stato, si provvide con ordini speciali del re, ma il ministero e le camere pensarono a sostituire leggi fisse a quei decreti speciali che potevano essere arbitrarli. Si stabilì pertanto che, per l'esercito di terra, il diritto alla pensione s'acquistasse con trent'anni di servizio; che trentanni dessero diritto al minimo della pensione, cinquanta al massimo; che le ferite e le infermità, allorquando fossero gravi, dessero diritto alla pensione; che allorquando fossero leggieri, non si dovessero contare se non nei casi seguenti: per l'officiale, quando lo rendessero incapace al servizio attivo; pel soldato d'un grado inferiore, quando gli togliessero di poter servire ulteriormente e di provvedere alla propria sussistenza; che infine le ferite dessero diritto al massimo della pensione, quando avessero causato la cecità, l'amputazione o la perdita assoluta d'uno o di più membri.

Nè la legge si limitò ai militari, ma alle vedove eziandio ed agli orfani. In quanto poi ai soldati di marina, vennero dati per loro i medesimi provvedimenti che per quelli di terra, colla sola differenza che venne diminuito a loro riguardo il tempo del servizio. Nel 1853 si discusse inoltre e si adottò definitivamente il progetto di Paicos relativo ai consolati, ch'esso intitolò Riordinamento consolare; e diciamo definitivamente perché fin dal 1852 era stato discusso e adottato dalla camera dei deputati, ma il Senato l'aveva modificato in modo che fu necessario riproporlo alla discussione.

Per questa nuova legge i consoli furono classificati in tre categorie. Si stabilì che quelli della prima fossero pagati dal governo, a condizione che i diritti consolari si devolvessero allo Stato; che i secondi percepissero i diritti consolari ed anche una lieve retribuzione dal governo; che i terzi fossero compensati coi soli diritti consolari.

Si determinò che la Grecia tenesse consoli su tutti i punti importanti dell'Europa, e per l'America venne stabilito che i consoli potessero aver residenza in quattro luoghi, a Nova York, a Boston, a Rio Janeiro, alla Nuova Orleans.

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Si determinò che il corpo consolare si componesse di consoli generali, di consoli e di viceconsoli; che tutti gli agenti consolari della Turchia dovessero essere cittadini greci; che parimenti Greci dovessero essere i segretari dei consolati generali e dei consolati; ma che non v'era necessità di greca cittadinanza pei consoli di terza classe, che non ricevevano emolumenti dallo Stato. Che nessuno potrebbe occupare un viceconsolato in Turchia, od essere segretario, senza produrre un attestato degli studii fatti in un ginnasio greco, e del corso di diritto compiuto all'università d'Atene; che i gradi consolari fossero parificati ai diversi impieghi dipendenti dal ministero degli affari esteri; che gli agenti consolari fossero nominati dal ministero degli esteri sulla proposizione del console generale, del console o del viceconsole.

Provveduto a tutte queste cose, che non erano forse le più importanti della legislazione consolare, si credette poi di portare ad altro tempo la fissazione definitiva dei doveri e dei diritti del corpo consolare che costituivano la parte sostanziale della nuova legge, e che per conseguenza avrebbero dovuto essere determinati per i primi. Quando essa fu votata, le camere passarono all'approvazione del trattato di commercio tra la Grecia e la Svezia, il quale altro non era del resto che la continuazione del trattato conchiuso fin dall'anno 1836.

Fra questi lavori della camera l'anno toccava verso il suo fine, e grandi cose stavano per succedere; la Grecia, poco soddisfatta degli angusti confini in che era stata ristretta, anelava ad accrescere il suo territorio, e richiamando le avite glorie e la grandezza dell'impero di Bisanzio, fremeva armi e imprese inaudite.

Stavano per cominciare quegli avvenimenti che richiama rono sulla Grecia, nel corrente anno, l'attenzione europea. A proposito dei quali giova, per ispiegarli, risalire alle cause. Abbiamo a rammentarci che dal dì in cui la Grecia insorse per la propria indipendenza, il desiderio unico e costante degli Elleni fu di ritornarla alla vetusta grandezza; che anche dopo costituita in monarchia, e anche dopo aver ottenute le controllerie costituzionali, la sola idea generale che abbia occupato l'immaginazione ed eccitate le speranze degli Elleni si fu il pensiero di ampliare i confini del nuovo regno, di congiungere ad esso le province vicine dell'impero turco,

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di piantare la croce sui minareti di Santa Sofia, di ricostituire il panellenio e l'impero di Bisanzio; la religione, considerata come la causa principale della perpetuità della razza ellenica sotto il dominio turco, fu sempre pei Greci la speranza della loro grandezza futura. Questa speranza, in cui la politica e la religione si confondono insieme, venne designata dai Greci sotto il nome di Grande idea. Tanto al di dentro come al di fuori dello Stato i Greci sono da tempo trascinati verso di essa, al di fuori dai loro correligionarii, al di dentro dagli emigrati che hanno lasciato nelle province turche le famiglie e i loro beni per farsi cittadini indipendenti della Grecia. A sostegno di questa Grande idea gli eteristi del 1821 si sono ricostituiti in una vasta propaganda. Le operazioni di essa rimasero sempre segrete nei tempi ordinarli, ma si mostrarono all'aperto quando la Turchia venne minacciata dalla Russia in occasione dell'estradizione dei rifuggiti ungaresi. Si fecero allora passare per le mani della moltitudine viglietti con motti rivoluzionari. Quelli che accoglievano e davano ansa a questi disegni, dimenticavano che era per mantenere il diritto d'asilo che la Turchia sfidava nobilmente la guerra; ma la speranza d'una guerra imminente tra la Russia eia Turchia, veniva a realizzare tutti i sogni dei partigiani della Grande idea. Il re Ottone dapprincipio s'inquietò seriamente de'  suoi progressi, ed era naturale, perché le società segrete venivano radunate dai nappisti, quelli che si eran sempre mostrati ostili al re e favorevoli alla Russia. Però fin da principio non aveva mancato di far comprendere, che se la politica dell’Inghilterra si fosse mostrata più favorevole al suo governo, egli avrebbe ben saputo arrestare i movimenti della grande propaganda. Ma l'Inghilterra continuò nella sua via ostile, tanto che si deve dar colpa a lei, per la massima parte, di tutto ciò che il re Ottone fu costretto a fare in seguito, a dispetto della sua volontà. Quando comparvero i primi sintomi della rottura tra la Porta e la Russia, e il principe Menchikoff si recò a Costantinopoli, furono chiare le intenzioni dello czar relativamente alla Grecia, dal momento che fu mandato ad Atene l'ammiraglio Korlinoff.

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La storia ignora quel che è passato tra il re e l'inviato del principe Menchikoff, ma le misure prese improvvisamente dal governo greco mostrarono che la Russia non vi poteva essere straniera. Un corpo di mille e duecento uomini fu spedito al confine della Turchia, senza che i ministri di Francia e d'Inghilterra ne fossero informati, e vi fu spedito sotto pretesto di reprimere il brigandaggio. Ma i partigiani della Grande idea lo presero per il cominciamento d’un'altra guerra dell’indipendenza, che, secondo loro, doveva compirsi collo stabilimeuto dell’impero ellenico in Oriente. Il corpo d'infanteria raccolto sul confine turco fu presto portato a duemila uomini, misura eccessiva per reprimere il brigandaggio. Ma quel che provava come la repressione del brigandaggio fosse l'ultimo pensiero del governo greco, si fu che i briganti infestavano impunemente i villaggi, e nessuno si occupava di essi. Del resto, se i partigiani della Grande idea si pascevano di grandi speranze, i veri patriotti greci continuavano a far guerra al partito russo. Essi comprendevano, che i progressi della Russia non potevano che riuscire funesti all'indipendenza della Grecia. Sostenevano che il trionfo della Russia assorbirebbe la loro nazionalità nell’assolutismo panslavista, e sarebbe la rovina della libertà e della civiltà ellenica. Dopo le prime dimostrazioni militari fatte al confine, la Grecia stette sull'aspettazione, ché la guerra non era scoppiata, la differenza turcorussa doveva decidersi a Vienna, e le idee di guerra parevano allontanarsi. Intanto che la Grecia stava aspettando, tre partiti vi si svilupparono: l'uno voleva che la Grecia non uscisse dalla neutralità, l'altro sollecitava ad ogni costo il trionfo della Russia, il terzo voleva, a così dire, stare a cavallo del primo e del secondo, utilizzando per sé la guerra tra la Turchia e la Russia, ma senza mettersi in lizza colle potenze occidentali. E questo partito, pur troppo fu quello che inspirò la politica del governo greco; né stette aspettando come gli altri, ma si diede all'opera prima ancora che la guerra fosse dichiarata, ché il console greco a Trieste, verso la metà del 1853, aprì una sottoscrizione fra i Greci di quella città per somministrare danari ed armi ai loro correligionarii della Turchia;

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e che il governo non fosse straniero a questo fatto, lo provò l'aver esso conferito l'ordine di San Salvatore al suo console in Trieste. Contemporaneamente il ministro Zographos, residente a Pietroburgo, spediva ad Atene formali promesse di Nicolò, e un tal Mano, agente russo, fu spedito ad Atene per confermare al governo le promesse state fatte a Zographos. Tutti questi giri e rigiri comparvero all'aperto quando, nell'ottobre del 1853, la guerra fu dichiarata tra la Porta e la Russia. E il fatto più significativo della tendenza del governo greco fu l'aver innalzato al grado di generale di divisione il general Zavella, che era riguardato come il capo dei partigiani della Grande idea. Intanto i diversi comitati di quella fazione provvidero a preparar l'insurrezione sotto gli ordini degli stessi prefetti d'Atene e di polizia, Lapani e Tissaminos, del generale Hadgi Petro e del professor Pilarinos.

Il piano di guerra fu steso da essi, conducendo le cose in modo che vi fosse il consentimento e la partecipazione del governo, ma senza compromettere il re. Gli affigliati dell'Epiro e della Tessaglia avevano categoricamente dichiarato ch'essi non avrebbero agito senza soccorsi decisi; per la qual cosa si dovettero eccitare gli ufficiali e i soldati alla diserzione. Fu in quella circostanza che il poeta Panaghioti Soutzo, nel suo giornale II Secolo, stampò il suo famoso proclama:

«Si è alzata come insegna la tunica odiosa e lacera del falso profeta, e si marcia inebbriati contro i nostri fratelli russi. Alziamo anche noi, o Elleni, il labaro del grande Costantino, ed. accorriamo dove ci attende il nostro retaggio, e dove ci aspettano i nostri correligionarii, figli di Vladimiro e d’Olga. Guadagniamo i monti e marciamo anche noi su Costantinopoli, che sola vai più che dieci regni della Grecia, e che sola dà una rendita di trecentomila dramme. Facciamoci dunque i guardiani dell'Europa e dell'Asia, e teniamo le chiavi del mar Nero e dell'Arcipelago. Come un mortaio di bronzo acceso vomita mitraglia e materie combustibili, che sfondano le file nemiche e distruggono tutto quello che toccano; mostrati tu pure, o Grecia, come un gran mortaio vomitante sulla Tessaglia, sull'Epiro e sulla Macedonia soldati, combattenti, marinai, eroi, uomini eloquenti e politici;

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e dappertutto dove un Greco si mostra, ch'ei faccia un macello dell'esercito turco; dappertutto dove un Greco si mostra ch ei produca un incendio. Brandite di nuovo le vostre armi, o Greci, al primo rimbombo del annone dell'esercito ortodosso del gran Nicolò. Ripigliate quelle anni con cui avete preso Monemvasia, Tripolizza, Corinto, Atene, Nauplia, e avete sterminati cinquantamila Ottomani del Peloponneso, trentamila di Drama Ali, ventimila di Briones, ventimila altri di Bairam, centomila d'Ibrahim e del Kiutaio. Ripigliate le armi, io vi scongiuro per gli ottantamila fanciulli, vecchi, donne uccisi dai barbari alla presa di Salonicchio, per i centomila vecchi, donne e fanciulli uccisi alla presa di Costantinopoli, per i sessantamila Greci uccisi dopo la presa del Peloponneso, per i duecentomila Greci messi a fil di spada al tempo stesso nel Peloponneso, nella Tessaglia, nell'Epiro, per i centomila Greci uccisi nel Peloponneso nel 1769, e per i trecentomila Greci massacrati nel 1821 a Scio, a Creta, a Smirne, a Costantinopoli, ad Adrianopoli e altrove.

«Brandite le armi in nome del Crocifisso, di cui essi hanno preso i templi magnifici, scolpendovi sopra in lettere d'oro Osman, Mahomet, Ali, Abouker, e dalla sommità dei quali gridano: Iddio è uno, e Maometto è il solo suo profeta.

«D'onde partiremo noi? d'onde partirete voi? partite dalla Grecia orientale, dai luoghi dove Karaiscos ha ucciso gli Ottomani a Distomos, a Arachova, dove Androuzzo Odisseo disfece a Graira i soldati di Briones; attraversate Vasilica, dove Goura ha mietuti gli armati di Bairam; superate le Termopili, dove Atanasio Diaco spaventò e mise in fuga gli armati di KiosseMehmet.

«D'onde partiremo noi, d'onde partirete voi? Partite dalla Grecia occidentale, da Missolungi, dove Alessandro Maurocordato,

Marco Bozzari, Canallo Delvanni, Andrea Zaimi, Pietro Mauromicali, Macri, Grivas ed altri massacrarono gli armati di Briones. Superate Clissoir, dove Kitzo Zavella, accompagnato da cento eroi, fece annegare quattromila Albanesi e duemila Arabi. Superate Achelon, dove si sono affogati ottomila Ottomani. Ascendete finalmente il Sulione, dove Lambro e Mosco misero in fuga i ventimila uomini d'Ali pascià.

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«Sciagurati! movetevi: da Tebe a Missolungi la terra s'agita e trema. E perché ella trema? Perché i nostri avi la scuotono per di sotto, e ci vanno gridando: Svegliatevi, svegliatevi.

«Qui i diecimila uomini di Milziade, i vincitori di Dario e dei centomila Persiani, fanno muovere Maratona. Là i cinquantamila uomini di Aristide, vincitori di Mardonio e de'  suoi trecentomila guerrieri, fremono sotto il terreno di Platea.

«0 giovani, voi non avete fatto ancor nulla di grande; ecco dunque che vi si presenta una seconda lotta, per la fede, per la patria, per la salvezza di tutta la nazione. Accorrete, accorrete; fu in questo tempo medesimo di primavera che i vostri padri, che noi marciammo a Sculene in Moldavia, a Dragosana di Valacchia, al Libano di Siria, a Cidonia d'Asia, a Suli d'Epiro, al monte Athos della Macedonia, all’Olimpo di Tessaglia, a Macrinoros d'Acarnania, alle otto fortezze del Peloponneso, a Scio, a Mitilene. In questo stesso tempo di primavera noi facemmo guerra ai soldati di Babilonia e di Menati, alla flotta di Cartagine e di Bisanzio, e noi cantavamo, intanto che si moriva, il famoso canto: Allons, enfans de la patrie] e intanto che venivamo crocifissi e torturati, noi non siamo mai venuti a patti, né mai abbiam voltato il tergo.

«Fatevi dunque vedere figli nostri legittimi, e se voi non aspettate che il grido di guerra, che questo grido sia pari al suono della tromba dell'arcangelo, e faccia risuscitare i morti; che questo grido susciti una tempesta, che scuota e metta sossopra tutti i paesi pei quali ella passerà!»

L'inviato della Turchia in Atene protestò contro a tali eccessi, ma il governo non gli diede la chiesta soddisfazione, e i giornali ministeriali si limitarono a biasimare le audacie del Secolo, non per altro motivo che per la loro inopportunità; dimodochéquel giornale, continuando nel suo solito tenore, fece imprimere a caratteri d'oro il manifesto di Nicolò per diffonderlo nelle province.

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Alle insistenti rimostranze dei ministri di Francia ed'Inghilterra, per quanto la politica del governo rispondesse dissimulatamente, pure non potè a meno di lasciar trapelare attraverso le circonlocuzioni il vero stato delle cose. Ma, a metter tutto all'aperto, sorvenne un fatto, e fu il prestito di cinque milioni di dramme, che il governo fece votar dalla camera verso la fine di ottobre. Il governo non mancò di mettere innanzi dei pretesti, ma tutti si accorsero che quel prestito aveva per iscopo di preparare il paese a tener testa alle prime eventualità della guerra. Quel prestito, del resto, essendo ipotecato sulle rendite più sicure dello Stato, ad onta delle condizioni già stipulate per l'altro prestito di sessanta milioni, Francia e Inghilterra avrebbero avuto il diritto di opporvisi, ma non lo fecero a patto che la Grecia non lo adoperasse a danno altrui. Pure il ministro degli affari esteri, Paicos, non potè a meno di far comprendere ai rappresentanti delle due potenze che, perché la Grecia potesse davvero porsi in condizione di pagare gl'interessi de'  suoi debiti, era necessario che le s'incorporasse l'Epiro e la Tessaglia. Questo desiderio del ministro greco fu ripetuto a Monaco dal ministro bavarese all'inviato inglese, onde l'ampliamento del territorio greco era messo innanzi come una condizione indispensabile all'adempimento degl'impegni assunti dal governo del re Ottone; e quel che fu notevole, una tale necessità fu dimostrata con impetuosa eloquenza dalla regina Amalia, il cui vivace ingegno non poteva a meno di esercitare un'influenza irresistibile su quelli che appartenevano ai privati consigli del re. Bene dai ministri inglesi e francesi furono, in risposta ai desiderii di Paicos, della regina e del re, dimostrate blandamente le vere cagioni per cui la Grecia non aveva mai potuto insino allora adempire a'  suoi impegni, e additato il modo di adempirvi per l'avvenire anche senza l'ingrandimento del territorio; ma il re aveva preso il suo partito, e i ministri degli affari esteri e dell'istruzione pubblica lasciarono che il poeta Soutzo continuasse nelle sue entusiastiche esortazioni al popolo, e permisero ai consoli greci di patrocinare le sottoscrizioni che si facevano per la propaganda della Grande idea.

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Medesimamente il ministro della guerra prepose a comandar le fortezze de'  giovani ufficiali, per la sola ragione che erano ligi alla fazione russa.

L'incoraggiamento all'insurrezione venendo adunque dall'alto, non è a meravigliare se il popolo, agitato dai partigiani della Grande idea, abbia potuto portare in trionfo il ritratto di Nicolò, il giorno 19 dicembre, che corrispondeva al compleanno dello czar; se i sacerdoti abbiano alzate pubbliche preghiere per l'imperatore ortodosso; se, infine, siasi festeggiato pubblicamente il fatto di Sinope. Del resto, non solo il popolo veniva incoraggiato dal governo, ma era fermamente persuaso che in quel movimento fosse favorito anche dall'Inghilterra e dalla Francia, perché ciò gli si era fatto credere ingannandolo. Ma cièche fu più strano, è che la credenza del popolo si comunicò anche agli uomini più intelligenti del paese, ed anche ai redattori dei giornali non solo più cauti, ma più attaccati alla Francia ed all'Inghilterra.

Fu in tal modo che l'insurrezione, lontanamente preparata e mantenuta con tante fila, scoppiò finalmente in Epiro nel gennaio del 1854. Il famoso brigante Demetraki Scalzogiani, che già aveva servito la Turchia (perché il sistema di far la guerra al brigandaggio per appalto aveva indotto i capi turchi a servirsi degli stessi briganti più possenti), essendo stato licenziato dal dervend agà d'Arta (specie di capo appaltatore), sdegnato si mise a percorrere il distretto di Radovitzi. Alla sua si unirono altre bande, ed anche molti abitanti dei villaggi vicini, di modo che, accresciuti in numero straordinario, poterono scacciare gli esattori delle tasse, respingere un distaccamento del dervend e stabilirsi nella forte posizione di Peta.

Il primo movimento insurrezionale fu dunque tentato da un capo di briganti disgustato della Turchia, a cui già aveva prèstati i suoi servigi. Ma presto si unirono a lui degli uomini che portavano un nome fatto illustre nella guerra dell’indipendenza. Spiridione, figlio del generale Karaiskaki, morto presso Atene sul campo di battaglia, e il figlio di Teodoro Grivas, si congiunsero al brigante Scalzogiani.

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A tal fine Spiridione, che era ufficiale cell'esercito greco, avea data la sua dimissione, e tolte ottomila dramme dalla cassa militare del suo corpo, si trasse dietro un centinaio di soldati, e diede cosi all'insurrezione un carattere politico. Giunto ad Aria, diffuse un proclama, stato scritto ad Atene, e diretto, più che alla Grecia, a tutta quanta l'Europa e allo stesso popolo turco, che veniva eccitato ad unirsi alla causa greca. Dopo questo fatto, l'insurrezione scoppiò nella capitale, e le pubbliche dimostrazioni furono fatte in modo da indurre l'opinione che fossero incoraggiate dal re e dalla regina.

La sera della domenica 5 febbraio, che era la ricorrenza dell'arrivo del re Ottone in Grecia, il teatro, dove si rappresentavano i Lombardi alla prima crociata di Verdi, fu illuminato a giorno. Il re e la regina comparvero alla loro loggia, e i fatti avvenuti alla loro presenza provarono che essi non erano stranieri allo spettacolo politico che vi si doveva rappresentare. Gli attori, invece della croce rossa dei crociati Lombardi, si mostrarono al pubblico colla croce azzurra dei Greci; e quando calò il sipario, un attore, in costume di Belisario, comparve al proscenio e depose sulla cifra reale la corona imperiale di Bisanzio.

Ma quel ch'è strano a dirsi e a credersi, il direttore generale di tutte queste cerimonie rivoluzionarie era il prefetto di polizia Tissaminos. Non mai forse da che esistono governi al mondo toccò alla polizia l'assunto di farsi in buona fede l’agitatrice del popolo e di mettere sulle labbra del popolo i canti rivoluzionari; ché sotto alle stesse finestre del re fu fatta suonare dalla banda militare la marsigliese greca, il Aevrs xaidec; del celebre Riga. Ma intanto che si facevano queste dimostrazioni d'apparenza, si attendeva con ogni operosità a mettere insieme danari ed uomini perché quelle dimostrazioni si traducessero in fatti. Le sottoscrizioni fatte a Trieste sotto il patrocinio del console greco avevano già fruttate trecentomila dramme; ottantamila dramme si erano raccolte a Londra, per opera di Tipaldo, procuratore del re.

Ma né le sottoscrizioni particolari, né il prestito avrebbero bastato ai primi bisogni della Grecia, se la Russia non fosse venuta in soccorso del gabinetto con una sovvenzione mensile d'un milione di dramme.

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La Russia nella guerra contro la Turchia non avendo alleati, avea d'uopo d'una diversione in Grecia; onde manifestamente fece appello all'insurrezione che aveva preparata, come risulta dal seguente dispaccio che il conte di Nesselrode diresse agli agenti della Russia:

«Gli avvenimenti avendo oggi acquistato quella gravità che avevamo temuta, noi riputiamo di adempiere ad un dovere verso le corti che fino ad oggi hanno giudicati i nostri atti senza prevenzione e senza parzialità, continuando a fornir loro i dati in forza dei quali potranno giudicare colia medesima giustizia la situazione nella quale alcuna delle grandi potenze d'Europa vorrebbe posta la Russia ne' suoi rapporti futuri colla Turchia e le obbligazioni che dalla medesima s'impongono all’imperatore.

«Ve n'ha una segnatamente che interessa la coscenza della Russia intera e del suo sovrano, ed è quella che si riferisce alla posizione delle popolazioni cristiane sottomesse alla Turchia, e sulle quali il governo e il popolo turco, trasportati dal loro fanatismo, e confidando nella simpatia e nel soccorso che loro offrono le potenze cristiane, con una sollecitudine si poco giustificabile, si credono oggi autorizzati a esercitare le più crudeli vessazioni.

«Talune di queste popolazioni, e quelle segnatamente che son limitrofe alla Grecia indipendente, spinte all'estremo e senza speranza di poter migliorare la sorte loro, hanno prese le armi per iscuotere un giogo divenuto insoffribile.

«Questa insurrezione, quantunque preveduta ed annunciata da lungo tempo in tutt' Europa, preoccupa in questo momento gli spiriti e dà movimento alla stampa. Per una contraddizione che soltanto potrebb'essere spiegata da coloro che pretendono voler difendere contro noi il potere della mezzaluna e i diritti del sultano; queste medesime potenze che ci dichiarano la guerra per il solo motivo che noi abbiam voluto conservare le immunità religiose dei cristiani della Turchia, si professano disposte a ottenere in loro favore i medesimi diritti onde fruiscono i musulmani.

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Noi non vogliam fare sinistri pronostici, ma queste tarde promesse, cosi poco d'accordo cogli itti di coloro che le proclamano; non avranno, noi riteniamo, altro risultato che di esasperare sempre più gli oppressori contro gli oppressi, di provocare sanguinose rappresaglie, e di rendere d'ora innanzi impossibile la sommissione di queste popolazioni al dominio turco.

«Per nostra parte non abbiamo giammai domandato alla Porta a favore de'  suoi sudditi cristiani se non ciò che era giusto, praticabile e sancito dalla stessa volontà dei sultani; ma il giorno in cui altri viene a suscitare in questo paese complicazioni e calamità che pesano di tutta la loro forza sui nostri correligionari e li spingono ad una lotta ineguale, noi non possiamo esser certi di rifiutar loro il nostro interesse e la nostra assistenza.

«Se la sollevazione a cui accenniamo acquistasse d'altra parte una più grande estensione, se mai diventasse una guerra a morte e di lunga durata come quella dei Greci nel 1821, noi crediamo che nessuna potenza cristiana vorrebbe concorrere a ricondurre quelle popolazioni sotto al giogo ottomano senza offendere la propria coscenza. L'imperatore, in verun caso, non saprebbe prestarvisi. Durante la nostra guerra, come all'epoca in cui la pace sarà possibile, la sorte loro sarà l'oggetto delle cure dell'imperatore. Noi speriamo altresì che Iddio non vorrà permettere che per un'ingiusta animosità contro la Russia, alcuni sovrani cristiani lascino che i loro eserciti s'associno all'opera di sterminio che i rinnegati, riuniti il campo d'Omer pascià, meditano senza dubbio a quest'ora contro coloro che hanno prese le armi per la difesa dei loro focolari e della loro chiesa.

«Tale è il punto di vista sotto al quale noi abbiam dovuto considerare la sollevazione dell'Epiro, di cui lamentiamo le conseguenze possibili, ma che del resto noi abbiam la coscenza di non aver provocato, e possiamo affermare non essere dipenduto da noi il prevenire ad onta del nostro desiderio.»

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Spinta pertanto dalle esortazioni ed appoggiata ai soccorsi della Russia, la fazione insurrezionale ordinò quattro comitati per raccoglier gente e danaro. Intanto i generali Zavella, Papacosta, Hadgi Petro, Rango, Strato l'uno dopo l'altro partirono per unirsi al corpo insurrezionale, e a costoro si univano i soldati della frontiera e dell'esercito, che disertavano il loro posto. Nè bastò questo, ma a Calcide si aprirono le prigioni a duecentocinquanta condannati, che si recarono di volo ad unirsi all'esercito comandato dal figlio di Karaiskaki. Ben è vero che, ad onta di tutti questi fatti che parevano provare quanto il re aderisse alla rivoluzione, il prefetto di polizia era stato destituito, e il direttore dell'università, professore Costi, che era anche medico privato della regina, avea tentato di moderare l'impeto degli studenti. Ma fu vero altresì che Tissaminos, lasciata la prefettura, perché i ministri rappresentanti le potenze avevano così voluto, si era recato al confine in compagnia del procuratore del re e del noto avvocato Vellos, per istituire un governo provvisorio nell’Epiro; che il direttore dell'università era membro d'un comitato di guerra, e che, nel punto che il ministro Paicos tentava con ambigue assicurazioni di stornare i sospetti dei ministri inglese e francese, Ambrosiades, ministro degli affari interni, in una festa di corte aveva detto chiaramente che il guanto era gettato, e che oramai non si poteva dare indietro d'un passo.

Non potendosi adunque ingannar davvantaggio i ministri dell'Inghilterra e della Francia, i quali del resto avevano saputo misurare tutta la profondità dell'abisso anche prima che le cose paressero chiare all'universale, e non potendo d'altra parte restar spettatori indifferenti di un avvenimento che minacciava di compromettere tutt'Europa, e che certo avrebbe tratto con se la rovina del trono di Grecia, risolsero d'aprirsi col re stesso, che sapevano d'intenzioni rettissime e strascinato in quel vasto pericolo dalle irresistibili insinuazioni della Russia. Convinti per tanto di fare il bene della Grecia e l'interesse del re, i ministri Forth Rouen e Wvse chiesero officialmente un' udienza al re Ottone. Paicos cercò mille pretesti per impedire questo colloquio, ma l'udienza venne finalmente accordata.

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Il giorno 27 febbraio 1854 il re Ottone ricevette nel proprio gabinetto i ministri di Francia e d'Inghilterra., colla riserva però che quel colloquio fosse fatto in via privata e non potesse aver conseguenze ufficiali.

Il ministro inglese tenne allora un lungo discorso al re sulla condizione del regno della Grecia, sulle sue relazioni colle potenze occidentali, sui gravi pericoli a cui sarebbe andato incontro persistendo in quelle misure d'illegalità e di violenze internazionali. Le parole del ministro inglese fecero una forte impressione sull'animo del re, il quale tentò giustificarsi dicendoch'egli non poteva dimenticarsi d'essere il re della Grecia, e che, per conseguenza, doveva dividere le simpatie e i desideri! di tutta la nazione, e che, vinto da queste considerazioni, non aveva saputo avversare il movimento insurrezionale. Si sforzò inoltre di mostrare, che egli aveva adempito a tutti gli obblighi impostigli dai trattati colle potenze occidentali, a conferma di che richiamò loro la destituzione di Tissaminos prefetto di polizia e degli altri pubblici funzionarii, che si erano uniti al corpo insurrezionale. Fu allora che entrò a parlare la stessa regina, e mostrando come oramai non era più possibile indietreggiare d'un passo, e non sapendo trattenere gl'impeti dell'indole sua facilmente eccitabile: «Se ci spingerete agli estremi,» uscì a dire, «io abbandonerò Atene, e andrò a far la guerra nelle montagne; memore degli avi miei, affronterò i pericoli e la fatica, e proclamerò la crociata, gettandomi; se mi sforzerete, in balia della fortuna, ché punto non mi sgomenta il pensiero di poter perdere questa corona.»

Ma i ministri, pure ammirando lo slancio poetico e generoso della regina, non potevano recedere dai loro propositi; però dalle esortazioni furono costretti a passare alle minacce; officialmente poi i governi della Francia e dell'Inghilterra, per parte di Drouvn de Lhuvs e di lord Clarendon, fecero presente che non avebbero esitato a prendere le più severe misure, se il governo della Grecia non metteva un termine all'aggressione contro la Turchia. Anche gli altri governi appoggiarono le rimostranze di Francia e Inghilterra, e la stessa corte di Baviera scongiurò il re Ottone a desistere da un'impresa di cui le conseguenze potevano essere disastrose;

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persino alcuni tra i sovrani, e lo stesso imperatore dei Francesi, spedirono al re lettere amichevolmente sincere per indurlo a far quello a cui i ministri lo volevano persuadere.

Ma il re aveva preso il suo partito, e tutto fu inutile. Del resto, la convinzione in cui viveva il re, di operare a vantaggio della nazione greca, l'entusiasmo ond'era commosso nel proposito di difendere la razza ellenica contro l'oppressione turca, erano si forti e sinceri, che i ministri non poterono sdegnarsi della ostinazione in cui perdurava, perché appariva manifestamente quanto le sue intenzioni fossero generose. A prova di che basti il dire, che allorquando il ministro di Francia, per tentare un argomento estremo, mise in dubbio la nazionalità del movimento, dandone la colpa alle mire ambiziose della corte; il re e la regina, versando lagrime di dolore a quel linguaggio che sapevano di non meritare: «E che,» esclamarono, «non è questo un movimento nazionale? ora è manifesto che voi non ci sapete comprendere.»

Le rimostranze dei ministri stranieri non ottennero dunque nessun effetto, e il governo continuò nel suo proposito di giovarel'insurrezione e l'invasione nel territorio turco. I giovani, che avevano l'intenzione di partire come volontarii, venivano espressamente istruiti in Atene dai sott'ufficiali dell'esercito. Il fatto dell’avere aperte le prigioni di Calcide trovò imitatori, e i fuggitivi entravano in Tessaglia, e il governo lasciava fare, quantunque apparentemente il ministro dell'interno avesse dato l'ordine d'arrestarli. Gli ufficiali, che, per unirsi all'esercito insurrezionale, avevano domandato la loro dimissione, conservarono tuttavia il loro soldo come se fossero rimasti al servizio del re; e non bastò questo, ma molti di coloro che avevano abbracciata l'insurrezione furono minacciati di venir trattati come disertori se mai fossero tornati in Grecia. Allorquando poi, in un combattimento tra Albanesi e insorti, i primi riuscirono vittoriosi, il colonnello Skolodimos, comandante le truppe reali, passò sul territorio turco per soccorrere Karaiskaki. Per questo fatto essendo stato manifestamente violato il territorio turco, Nechet bei, inviato della Porta in Grecia, fu incaricato di domandarne spiegazione al governo del re Ottone.

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Però, in una nota spedita in data del 19 marzo, esso dimostrò tutto quello che nella condotta della Grecia vi era di contrario al diritto delle geriti, richiamò la storia di tutto quello che si era fatto in Grecia negli ultimi mesi, e rinnovò le rimostranze della Turchia non accettando il pretesto del sistema di difesa della Grecia.

I rappresentanti delle potenze si misero allora d'accordo per appoggiare i reclami di Nechet bei, al qual fine diressero al ministro Paicos una nota collettiva, dove esprimevano in termini precisi i sospetti che la condotta del suo governo doveva necessariamente provocare. Ma Paicos, senza dare a ciò l'importanza che meritava, tenne celata alle camere la condotta dei ministri stranieri, e rifiutò qualunque riparazione all'inviato della Porta, pretendendo che non erano stati i Greci a invadere il territorio turco, ma si attribuendo ai Turchi il primo atto d'aggressione, quantunque i fatti, scrupolosamente verificati, provassero il contrario. A tal rifiuto, Nechet bei rispose lasciando Atene. Di conseguenza fu richiamato anche l'inviato di Grecia a Costantinopoli, al quale il governo turco fece sapere, nel punto di consegnargli i passaporti, che da quel giorno era tolta ogni relazione politica e commerciale tra la Grecia e la Turchia; che tutti i consoli della Grecia, che tutti gl'impiegati di essa a Costantinopoli, che tutti gli Elleni dovevano abbandonar la Turchia entro quindici giorni»,e qualunque naviglio con bandiera greca non doveva più mostrarsi nei porti della Turchia. Allora Paicos si lamentò forte di queste risoluzioni del gabinetto turco, rimproverandogli di respingere i sudditi d'una potenza colla quale era in pace, mentre pure tollerava sul proprio territorio i sudditi della Russia colla quale durava in guerra da più mesi.

I ministri stranieri residenti in Atene riconsigliarono Paicos sa dare una soddisfazione ai riclami di Nechet bei. Ma siccome il ministero greco insisteva sul fatto, che non era stato invaso dai Greci il territorio ottomano, ma si lo era stato il greco dai Turchi, così i rappresentanti delle potenze incaricarono i loro agenti di verificare i fatti sui luoghi.

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Se non che, essendo risultato che le asserzioni del gabinetto greco erano contrarie al vero, i ministri d'Inghilterra e di Francia, il giorno 20 aprile, gli diressero la seguente nota:

«Noi ci siamo deliberatamente astenuti dal fare osservazioni sulla nota che voi avete indirizzata a Nechet bei il 2 ultimo marzo, e della quale nella nostra qualità di rappresentanti delle due potenze protettrici abbiamo ricevuto copia; dove voi pretendete che alcune truppe turche abbiano passata la frontiera ed invaso, commettendo atti di violenza e di sangue, il territorio ellenico, fino a tanto che un esame rigoroso dei fatti su cui il rapporto è fondato, ci permettesse di dichiararci definitivamente a proposito delle querele che vi sono articolate. E immediatamente si è proceduto a quest'esame con tutti quei mezzi che poteva fornire un'onesta e severa investigazione, e interrogando uomini, luoghi e circostanze. Noi siam dunque in obbligo di dire, tanto in vista dei doveri che noi dobbiamo adempire verso i nostri governi rispettivi, che nell'interesse generale della verità, che un gran numero di prove d'un'evidenza incontestabile ci hanno condotto a conchiudere, che l'accusa portata nella vostra nota, lungi dall'avere alcuna consistenza, riesce a un risultato diametralmente opposto e nel su.o assieme e ne' suoi particolari, come ne sono prova i fatti constatati.

«Da quest'indagine non risulta dunque che un corpo d'Albanesi composto di cinquecento uomini circa, come voi affermate, sia passato il 20 febbraio sul territorio ellenico, inseguendo de'  paesani cristiani presso Arta; né che il tenente colonnello Skilodimos, comandante un battaglione di truppe leggere, dopo una rimostranza fatta in termini moderati, abbia intimato al detto corpo di ritornare sul territorio turco; né che vi sia stato scontro alcuno sul territorio greco, né che infine il battaglione, secondo la vostra asserzione, siasi slanciato impetuosamente sugli invasori e li abbia respinti al di là della frontiera.

«Questo scontro, in cui voi riferite con esattezza essere stati feriti cinque soldati e un sergente e il cavallo del tenente colonnello Sklodiraos, ebbe luogo, innanzi agli occhi di testimoni tanto greci che turchi, non già sul territorio greco, ma sibbene a qualche miglio dal suo confine, presso le mura d’Arta,

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a qualche centinaio di passi dalla cittadella, dove il tenente colonnello Skilodimos, col suo battaglione di truppe reali, accorrendo in soccorso dì Karaiskaki, col quale si trovava in relazione, «in tempo di pace, per servirci delle vostre stesse espressioni, e in onta a tutte le regole del diritto delle genti,» ha inseguito le truppe ottomane.

«Per chi e perché un simile intreccio di fatti è stato ordito? quali le cagioni, quali gli autori di questa macchinazione? Noi crediamo ch'egli non sia necessario di dir la nostra opinione a questo riguardo; ma non possiamo trattenerci dal farvi notare che il primo dovere d'un accusatore è quello di provvedere ad assicurarsi da sé stesso dell'esattezza e del valore reale delle sue prove; e che, in una materia di tale gravità e in una congiuntura cosi critica, il fatto di mal comprendere, nella persona d'un ministro, è appena meno colpevole del fatto d'ingannare. Noi siamo tanto più penetrati di questa convinzione, in quanto si aveva il tempo sufficiente e tutte le opportunità per un' indagine e una riparazione ulteriore, quando il governo greco vi si fosse trovato disposto; ma noi sappiamo che sebbene Nechet bei continuasse per qualche tempo a fermarsi qui dopo aver ricevuto la vostra nota, nessuna spiegazione o riparazione gli fu offerta in proposito dell’errore o della calunnia di cui esso e il suo governo era stato l'oggetto dopo la sua partenza.

«Siccome, per ciò che spetta la gravità dell'offesa e le domande di riparazione che sono giustificate a riguardo del governo offeso, voi sembrate mostrarvi abbastanza sensibili allorquando si suppone che la Grecia entri in questione; cosi non possiamo credere che voi siate così «ingiusti per rifiutare ad un altro paese quello che voi riclamereste per il vostro. Per verità che la vostra nota su questi due punti è sì chiara, che non si saprebbe adottare altro linguaggio che il vostro, purché alla parola Grecia si sostituisca Turchia.

«In quanto a noi, come rappresentanti delle due potenzeprotettrici, interessate a mantener l’indipendenza del regno di Grecia, il quale non può aver base più solida che l'osservanza dei trattati che l'hanno creato;

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noi protestiamo nei termini più formali e più energici contro la violazione del territorio e dell'impero ottomano, aggravata, com'essa è stata in seguito, dal tentativo fatto in nome delle autorità greche di trasformarla in un'invasione del territorio greco per parte delle truppe ottomane.

«Se noi insistiamo con vigore su questa protesta, è a cagione del modo insussistente col quale voi, in una recente occasione, avete creduto bene di trattare le rimostranze che vi sono state dirette, di concerto coi nostri colleghi d'Austria e di Prussia. I nostri diversi governi apprendano con meraviglia, che una nota sottoscritta collettivamente dai rappresentanti delle diverse potenze, e destinata ad appoggiare i giusti lamenti e le giuste domande relative alle aggressioni denunciate nella nota di Nechet bei, la quale fu consegnata nelle vostre mani a tempo debito per essere comunicata alla legislatura, non solamente non venne presentata alle camere, ma, durante la discussione nel senato intorno a questa comunicazione così specialmente appoggiata, e nella replica a ciò ch'era più che una interpellanza da parte dei senatori, nessuna spiegazione fu da voi data, notizia nessuna ne fu esibita al pubblico, nessuna risposta è stata trasmessa ad alcuno dei ministri dai quali fu sottoscritta la nota; per cui l'effetto legittimo e salutare che avrebbe potuto esser prodotto nei consigli e sull'opinione pubblica del paese, è stato prevenuto e soffocato.»

Tali furono le rimostranze dei ministri stranieri, alle quali, per quanto paressero eccedere nella severità, il gabinetto greco non ebbe nulla a contrapporre.

Volendo ora tener conto delle varie imprese avvenute in questa guerra insurrezionale, esse non furono tali da offrire né molto né poco interesse alla storia. Le difficoltà e i pericoli della guerra sono sempre ardui anche allorquando la si combatte all'aperto, e non c'è dirimpetto che un nemico; ma necessariamente devono diventare insormontabili quando la guerra stessa dev'esser fatta per vie oblique e per sotterfugi, e quasi di contrabbando e dissimulata, per ingannare amici e nemici sotto le sembianze della pace.

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Il vero coraggio in questo caso e il vero ingegno militare non può segnalarsi. E di fatto, i soli risultati di questa guerra insurrezionale furono la devastazione dei distretti insorti e l'anarchia scatenata sulla Grecia. In quanto ai capi greci che si misero alla testa delle truppe, non poterono tener forte contro i Turchi, ad onta del molto coraggio e della lunga esperienza. Il movimento era falso nelle origini come impotente nei mezzi, e dalle lettere di Griva e di Zavella risultò chiaramente come ad essi mancasse ogni cosa per ottenere lo scopo desiderato. Le rimostranze di quei capi furono anzi cosi eloquenti, e tanto più in quanto ricevevano la riprova dai continui disastri degli insorti, che nel palazzo reale si radunò un consiglio sotto la stessa presidenza del re. I principali fautori e sostenitori della grande idea stavano intorno ad esso, e Metaxa fra gli altri gli sedeva a sinistra. Nella disperazione di trovar partiti facilmente accettabili, si propose persino che il re stesso dovesse entrare in campagna alla testa dell’esercito, consiglio che venne alacremente sostenuto dal generale Spiro Milio e da Scarlato Soutzo, ma che per buona ventura venne con prudente eloquenza avversato da Metaxa. Questi consigliò soltanto di dividere le forze degli insorti in bande diverse, e lasciando da parte le piazze forti, di spanderle nel nord della Tessaglia e della Macedonia. Questo piano venne approvato dal principe Soutzo, che giungeva allora da Pietroburgo, dov'era segretario d'ambasciata. Esso confortò gli spiriti dissidenti, affermando che un tal piano era approvato anche dall'imperatore Nicolò.

Affermava poi che l'insurrezione condotta in tal modo poteva mantenersi per due anni consecutivi, comunicarsi all'interno della Turchia, e sfidare l'avversione delle stesse potenze alleate. Ma questo piano, che certamente avrebbe prevalso, giunse troppo tardi, perché la Francia e l'Inghilterra pensarono d'intervenire armate per far ritornare la Grecia in sé stessa.

Già fin dal giorno che i ministri stranieri residenti in Atene diressero la nota severa che sopra riportammo, i legni di guerra della Francia e dell'Inghilterra si misero a dar la caccia ai trasporti greci, che pel mare Jonio e per l'Arcipelago tentavano di portarsi nell’Epiro e nella Tessaglia.

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Quando poi, dopo le perdite toccate a Karaiskaki, a Zavella, a Griva, il governo greco nominò altri tre generali al fine di ricominciare la lotta; Francia e Inghilterra, vedendo che la Russia sarebbe stata troppo giovata dalla diversione cui necessariamente doveva essere costretto l'esercito turco, tosto si misero d'accordo per occupare il territorio greco. Un ultimatum fu diretto al governo del re Ottone perché si risolvesse a dar soddisfazione al governo della Turchia; e ad appoggiare questo ultimatum partì una divisione francese comandata dal general Forev, per lasciare al Pireo un distaccamento di duemila uomini.

Questo fatto dell'occupazione del territorio elleno, che in Europa provocò disparati giudizii, a valutarlo riposatamente, è forza confessare che riusci più a vantaggio della Grecia che della Turchia, a favore della quale era stato operato; perché se il movimento insurrezionale aveva prodotti molti disastri all'esterno, nell’interno della Grecia aveva ricondotta la funesta anarchia d'un tempo. Il brigandaggio vi era ricomparso più terribile che mai. Le bande che percorrevano il paese, sotto pretesto d'andare a combattere i Turchi, levavano contribuzioni forzate, minacciando il saccheggio. Il partito della grande idea, a far tacere i moderati che cominciavano a biasimare le audaci risoluzioni del governo, ricorse alla intimidazione e alla violenza. Comparvero liste di proscrizione; prodi indigeni e distinti stranieri furono insultati e percossi in pubblico. E se in terra erasi ridestato il brigandaggio, sul mare eran ricomparsi i pirati, a spegnere i quali tanti sforzi erano stati necessarii; ché i marinai delle isole, ridotti alla miseria per essersi di colpo troncato il commercio tra la Turchia e la Grecia, si videro costretti a quel tristo mestiere. Senza dunque occuparsi delle intenzioni onde Francia e Inghilterra furon mosse nel costringere forzatamente la Grecia a deporre le armi, il fatto per sé fu un segnalato beneficio ché la Grecia diversamente sarebbe precipitata all'ultima sua rovina, e il re Ottone avrebbe finito per perdere il trono,

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vittima delle sue generose intenzioni, pel desiderio di assecondare i desideri della nazione o, diremo meglio, d'un partito il quale non aveva saputo conoscere che alla grandezza sterminata del fine, non corrispondeva l'insufficiente pochezza dei mezzi.

Ma con questo avvenimento di sì grave importanza termina la nostra storia, contenta che la Grecia sia uscita ancor salva dall'abisso in cui era caduta a mezzo, e nutrendo speranze e facendo voti per il suo più felice e glorioso avvenire.

Quantunque il quadro che oggi presenta questo stato non sia il più favorevole, perché una società che non si piega che lentamente al dominio delle leggi, e un'amministrazione finanziaria imperfetta accresce sempre le difficoltà naturali della sua posizione al cospetto dei gabinetti europei; pure colle doti preziose dello spirito e colla prodezza di cui i Greci sono forniti, essi possono, quando il vogliano, trionfare degli ostacoli che impacciano ancora lo sviluppo della loro prosperità e della loro indipendenza.

Nè mancano del resto gli aspetti sotto cui la Grecia si presenta vantaggiosamente. Tali sono le risorse del suo commercio marittimo, e gli sforzi ch'ella fa per risalire all'antica civiltà greca.

In quanto all'amministrazione, ciò che manca alla Grecia, non sono le istituzioni regolari. La costituzione politica ed amministrativa della Francia sotto Luigi Filippo le ha servito di modello. Al di sotto delle camere e del ministero funzionano un consiglio di Stato ed una corte dei conti. Il codice francese forma la base della legislazione e dell'ordinamento giudiziario della Grecia; essa ha una corte di cassazione in Atene, due corti d'appello in Atene ed a Nauplia, dieci tribunali di prima istanza in Atene, Kalki, Sira, Nauplia, Sparta, Kalamas, Tripoli, Patrasso, Missolungi e Lamia; tre tribunali di commercio, a Sira, Nauplia e Patrasso. La Grecia conta inoltre, come sappiamo, la corte delle assise e l'instituzione del giuri. Ella ha giudici di pace, la cui missione è la medesima che in Francia. L'istruzione pubblica è saviamente ordinata. L'università d'Atene è alla testa di tutto l'insegnamento.

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Vi sono più ginnasii, venticinque scuole secondarie e quasi cinquecento scuole primarie. La scuola normale, la politecnica e la scuola militare d'Atene, le scuole di marina di Sira e di Nauplia, compiono il novero degli stabilimenti d'educazione.

La principale risorsa della Grecia è nel suo commercio marittimo. La sua marina mercantile nelle scale di Levante e nei porti del mar Nero rappresenta una parte di tanta importanza, che è forse la causa per cui l'Inghilterra non vede la Grecia del miglior occhio. Gli avvenimenti del 1850 hanno però portato alla marina ellenica un colpo di cui si risente ancora, e ci vorrà del tempo per ripigliare lo slancio con cui ella s'era sviluppata cosi prontamente.

Ma in quanto al commercio interno è ben lungi dall’essere proporzionatamente florido come quello del di fuori.

Il regime parlamentare poi non ha potuto fortificare in Grecia gli elementi della forza politica che si era spiegata nella gran lotta in mezzo al fuoco dei combattenti, e sui quali gli uomini leali e sinceri, che si erano adoperati per la fondazione della Grecia, avevano fondato ogni loro calcolo. La pubblicità dei dibattimenti ha messo a nudo tutte le piaghe del paese. Sotto questo rapporto la libertà della stampa, introdotta dalla costituzione del 1844, ha aggravato sempre più il male. Lo stesso lord Bvron, lo abbiamo già detto al principio di questa storia, che non po teva essere sospetto in materia di libertà di pensiero e di parola, temeva gli effetti di codesta libertà formidabile, alla quale i Greci sono tanti proclivi. I giornali d'Atene infatti non hanno ottenùto fino ad oggi altro risultato, che di mostrare all'Europa in tutta la loro nudità i vizi di ciascun partito, e di esagerarli spesso. Fondati per sostenere uno dei tre partiti che si disputano il potere, sotto i nomi stranieri di nappisti o Russi, di Francesi e d'Inglesi, ciò che cercano innanzi tutto è d'assicurarsi una sovvenzione da parte dei tre governi. Essi attaccano i loro nemici colla più gran violenza, senza riguardi alla vita privata, e si gettano vicendevolmente gl'insulti più sanguinosi. I principali periodici d'Atene sono: la Speranza, giornale del partito inglese, il Secolo, giornale del partito russo, e l'Amico del popolo, che scrive sotto la dettatura del partito francese.

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Altri giornali sono la Minerva, il Corriere d'Atene, la Perseveranza, giornale radicale, e finalmente il Tracathrouca, che è una specie di charivarì greco. Onorevoli sforzi furono tentati per far uscire la stampa greca dalle torbide vie in cui si era gettata. Coletti si sforzò egli stesso di creare un giornale serio, il Monitore, del. quale aveva affidata la redazione ad uno scrittore francese; ma questo giornale, dopo avere assunta un'attitudine relativamente assai dignitosa, si vide alla sua volta trascinato per forza in quel vortice turbinoso di scandalose personalità, a cui è avvezza la stampa in Atene.

Tuttavia anche rappresentato in questo modo l'esistenza del giornalismo, accusa l'attività della vita. Prima del 1821 non esisteva in tutta la Grecia né un giornale, né una tipografia. Ora si pubblicano in Grecia più di venti giornali e alquante raccolte periodiche, e oltre a questa letteratura commerciale e rivendugliola, rimane alla Grecia un gran campo per gli studii serii. L'architettura e l'archeologia in ispecie si trovano su d'un terreno il più adatto. Gli scavi recenti del Partenone sono una prova dell’attitudine meravigliosa che hanno i Greci a questa maniera. Dopo un lavoro di due mesi e la demolizione di diverse costruzioni, turche, franche, bisantine, a trenta piedi di profondità su settanta di lunghezza e venticinque di larghezza, si trovò un muro pelasgico, appartenente all'epoca primitiva. Ma uno dei risultati più importanti di questi scavi fu la scoperta d'un muro che chiudeva l'ingresso dell'acropoli, alto ventun piedi, coronato da un cornicione della più bell'epoca dell’arte greca, con fregi e triglifi, con attico e grondatolo.

La porta d'ingresso dell'acropoli fu trovata corrispondere esattamente all'asse della gran porta de'  Propilei. Le altre scoperte hanno minore importanza, esse consistono in una piccola scala d'un'epoca molto posteriore, che serve a congiungere la soglia della porta collo scalone principale; e in una sala sotterranea, con arcate e vòlte appartenenti al medio evo. Ventuna iscrizioni, per la maggior parte incomplete, alcuni frammenti di sculture, una delle quali rappresenta una danza pirrica, compiono il risultato di cotesto scavo.

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Risuscitando l'amore per gli antichi, queste scoperte esercitano sul popolo greco un' influenza politica, e lo avvezzano anche nelle cose dello Stato e dell’amministrazione a interrogare il proprio genio.

L'erudizione e la bibliografia hanno altresì un campo vastissimo in Grecia. Gli studiosi si accorsero di ciò, e si sono slanciati, non senza successo, in mezzo alle dotte ricerche. Uno dei frutti più felici del movimento intellettuale della Grecia, è il progresso che ha fatto la lingua nazionale ravvicinata al greco antico. Per questo lavoro ingegnoso i Greci hanno reso un grande servigio alla filologia; nò soltanto fanno rivivere la più armoniosa e la più ricca delle lingue, ma nel tempo stesso risalgono alle sorgenti della nazionalità, riconquistando la letteratura dei loro antenati. La speranza che rimane agli uomini intelligenti e gravi della Grecia, si è di rianimare e di ravvivare il genio nazionale coll'assiduo contatto dell’antica civiltà greca. Codesto tentativo è assai più acconcio ed utile ai Greci di quello che sia l'imitazione servile della civiltà occidentale, alla quale piegarono un po' troppo nel dettare le loro leggi. Eglino si dilungano assai meno dal loro genio e da quello di tutto l'Oriente, risalendo alle antiche sorgenti, di quello che scimiottando i popoli moderni; però è a far voti che nessun ostacolo possa attraversare codest'opera ingegnosa d’erudizione che si sforza di corroborare la nazione greca, rannodando la catena delle tradizioni.

Ugo Foscolo, quantunque d'opere non abbia arricchita che l'Italia, pure lusingando il giusto orgoglio della nazione greca, vi ha promosso più che mai lo studio di quella letteratura che fu la madre della latina e l'ava della italiana.

Foscolo condusse all'ultima perfezione la prosa italiana, inducendole il numero del greco idoma e la poderosa sua snellezza e la velocità inarrivabile; meriti che, riconosciuti dai letterati greci, li consigliarono a rimeditare le virtù della loro lingua vetusta per corroborare la moderna. Ma se Foscolo giovò alla sua Grecia pur senza averne avuto il proposito deliberato, Mustoxidi, lasciata l'Italia,

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dove aveva vissuto molti anni in mezzo ai prodigi d'una letteratura completa, e ritornato nella sua Grecia, fu quegli che mise le basi di quella felice innovazione che sopra accennammo, e a'  di lui sforzi si unirono quelli di Constantas e di Tipaldo.

In quanto a Riga, il Tirteo moderno, coll'altezza dell'ingegno, coi generosi intenti, colla morte infelice diede a tutta la sua nazione l'esempio d'una poesia che s'era vivificata degli antichi esempi; a lui successe Solomos Corfioto, l'autore dell’inno alla libertà, il solo componimento lirico del secolo corrente che possa venire a paro colla lirica eroica e storica di Manzoni. Solomos basterebbe solo a dar lustro ad una letteratura, ond’è a sperare che per virtù sua la greca vada prosperando sempre più. Intorno a Solomos possono stare i poeti Romas e Soutzo d'indole affatto diversa.

Del primo si conoscono i Fiori e si conoscerà la Capanna, poema a cui sta lavorando da molto tempo; del secondo abbiam potuto conoscere lo stile nel surriferito proclama che diresse a'  suoi connazionali quale sostenitore entusiasta della grande idea. Per ciò che riguarda la forma e la lingua, è anch'esso devoto delle classiche tradizioni, ma per ciò che è essenza di poesia, è moderno quanto si può esserlo, e dei poeti viventi arieggia più che altri Vittor Hugo'per l'effervescenza della fantasia e per l'esagerazione dei modi. Ma se la poesia è rappresentata in Grecia con antica grandezza da questi valorosi, l'eloquenza non può mancar di cultori nella patria di Pericle, d'Aspasia e di Demostene. Alla tribuna parlamentare compaiono quotidianamente oratori di poderosa spontaneità anche allorquando non hanno l'aiuto d'una instituzione letteraria, e spesso dagli uomini versati negli studii si odono discorsi che potrebbero esser modello d'oratoria. Nelle parole che tenne Coletti all’assemblea per ottenere che si concedesse la cittadinanza del nuovo regno a tutti quanti i Greci, noi abbiam potuto ammirare in questa storia tutto il pregio e tutto il fascino d’un' orazione perfetta. E dall'arte della parola non possono andar disgiunte in Grecia le arti del disegno e dei suoni.

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Dove fiorisce l'archeologia necessariamente dee progredire l’architettura e con esse le arti ausiliarie; per il quale oggetto, se può nuocere altrove, è necessario su quel suolo il ritorno alle tradizioni della Grecia di Pericle.

E un simile ritorno alle sorgenti prime è a invocarsi anche nella musica, che è coltivata con successo da qualche giovane Greco, il quale fu per avventura troppo indulgente alle forme musicali dell'Europa occidentale. La Grecia in ogni cosa, per raggiungere la grandezza che sospira, non ha che a non uscir da sé stessa.






































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