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LA CIVILTÀ CATTOLICA

ANNO DUODECIMO

VOL. X.

DELLA SERIE QUARTA

ROMA

COI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA

1861

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Luglio 2016

LA CONFEDERAZIONE ITALIANA 

E L'UNITÀ PIEMONTESE

Haec conquiri, tradique in rem fuerit.

Tacit. Ann. IV. 35.

Quattordici anni addietro, allorché da tanti salutavasi la Tiara di Roma quale stella d'Italia, e con enfatici plausi acclamatisi il Pontefice Pio IX per angiolo della Patria; chi avesse prenunziato, che tempo verrebbe, nel quale molti di codesti salutanti ed acclamanti avrebbero fatto segno di oltraggi e di rapine quella Tiara medesima e quel medesimo Pontefice; o non avrebbe trovalo ascolto, o solo per esserne deriso. E pure questo è il caso che già è succeduto una volta, e che da un pezzo si viene rinnovellando sotto gli occhi nostri, a gran dolore della cristianità e ad obbrobrio dogi1 Italiani. L'impeto anzi della guerra va tant'oltre, che, dopo veduto l'augusto Gerarca spogliato a lembo a lembo del suo Regno e oppresso d’affronti, si minaccia di farci rivedere il sacrilegio d1 Anagni,

E nel Vicario suo Cristo esser catto:

e 'l nuovo Pilato sì crudele,

Che ciò noi sazia, ma senza decreto

Porta nel tempio le cupide vele ().

Né ciò basta. Per mettere il colmo alla misura, si procede più avanti, e si giustifica un tal rovescio di cose, versandone tutta quanta la colpa sopra il Pontefice, che si calunnia di nemico il più atro della Penisola; e sopra la sua Tiara, a cui imprecasi comete fosse la peste ed il flagello.

Cotali bestemmie in effetto sonarono alto, non è guari, dentro l'Assemblea di Torino: donde, proferite a pena, furono divulgate per l’Europa dalle cento bocche della fama. E siam di credere che non sia stata al mondo un'anima. proba, la quale non abbia orridito, in sentire gridarsi traditore un Papa Pio IX, che è la più dolce imagine dell'onestà di Dio che viva in terra; e tassarsi di barbaro e di crudele il suo scettro paterno.

Perfidia inaudita, che non ha degno paragone se non con quella de’ Farisei quando, per sedare il popolo che non contrastasse al supplizio del Salvatore d’Israello, il trasfigurarono turpemente in perditore degl’Israeliti! E cosi le sessioni del Parlamento subalpino, tenutesi in su lo scorcio dell'andato marzo, e nei giorni appunto commemorativi di quella massima delle perfidie, resteranno monumento sempiterno della strettissima parentela che corse, tra i Farisei della Giudea sotto Ponzio Pilato, l'anno XIX dell’impero di Tiberio Cesare, e i facitori dell’Italia sotto i nuovi Pilati e i nuovi Tiberii: ed insieme della similitudine stupenda che si ammirò tra il Figliuolo di Dio, vittima sacrificata in una croce dagli uni; e Pio suo Vicario, vittima designata ad un'altra croco dagli altri.

— Ma alfine, potrà chiedere qualcuno, perché dunque da costoro e dai loro aderenti si accumula, in nome dell’Italia, un sì flore nembo di procella contro il Papato? Qual è l'arcano vero di queste lotta?

— La dimanda merita risposta: e noi la daremo non a parole, sì bene a fatti; ed a fatti che caveremo dalla natura stessa delle accuse che or si avventano, con empietà così procace, alla Tiara ed all’inclito Pontefice che n'ha fregialo le tempie.

Il sommario di queste accuse fu compilato là nell’italianissimo sinedrio del Piemonte:. e chi esamini alla riposataci velenoso processo dell’Audinot, suddito spergiuro di Pio IX e costituitosi ivi suo fiscale; ne dedurrà che tutte si compendiano in questa coppia: cioè che il S. Padre negli anni 1848 e 49 ha tradito la causa nazionale che negli anni 1859 e 60 ha fatto ancor peggio, dacché ha respinto la confederazione, deploralo le vittorie degl’Italiani e via via una filza di delitti che s'intrecciano a quel primo, e che noi arrossiamo di trascrivere (). Di queste due colpe la conclusione poi fu, che il Governo del Papa resta incompatibile collo spirito dì nazionalità. E perciò, dello il suo: Quid vobis videtur? n'ebbe la sentenza unanime: Deus est mortis! applauditissima da una turba di scribi giudei, che ripeterono a gola roca il loro: Tolle, tolle crucifìge.

Quindi è piano a discernere che l'imputazione capitalissima, di cui fu accagionato il Pontefice, si riepiloga propriamente in questa sola, dell'avere tradita un paio di volte la causa nazionale, ossia l'Italia.

Or noi prenderemo in mano quest'aggravio, o col lume d’irrefragabili documenti lo discuteremo sino al fondo: non già per difendere l’onore offeso del comun Padre nostro, che la sua più bella difesa è nel nome che porla; ma per disingannare coloro degl’italiani, che stanno tuttavia ondeggiando fra il Pontefice calunniato o i calunniatori del Pontefice.

Eglino, se ci leggeranno, sieno i giudici: con palio però che si svestano d’ogni sinistra anticipazione, affinché possano scorgere con equità a cui in questo piato si spettino le parli del lupo, da cui quelle dell'agnello.

Che si deve intendere per causa nazionale? Questo è il punto che innanzi tutto convien definire. E noi definiremo noi: ma, poiché si; tratta dell’Italia, faremo che il definiscano que' cotali che furono sempre in voce di ardenti campioni dell’italico risorgimento.

Vincenzo Gioberti dettò due grossi volumi, per mettere in isfavillantissima luce, che la causa nazionale dell’Italia è, e non può essere in altro, se non che in una Confederazione da stabilirsi fra gli Stati che la com pongono, con a capo il Sovrano Pontefice di Roma.

Ecco, fra le cento, alcune delle cose che scriveva.

«Gli uomini più liberi, più indipendenti, più benigni ai deboli e terribili ai dominanti, più benemeriti d’Italia, di Europa e della specie umana in ogni tempo, furono i Papi; alle eroiche intenzioni dei quali mancò solo 1 esser capi civili della nazione italiana, come son principi di Roma e capi religiosi del mondo... Che il Papa sia naturalmente e debba essere effettivamente il capo civile d'Italia, è una verità provata dalla natura delle cose, confermata dalla storia di molli secoli, riconosciuta altre vol te dai popoli e dai principi nostrali, e solo messa in dubbio da che gli uni e gli altri bevvero ad esterne fonti, e ne derivarono il veleno nella loro patria... Indicibili sono i beni che l’Italia riceverebbe da una Confederazione politica, sotto l'autorità moderatrice del Pontefice. Imperocché tal colleganza accrescerebbe la forza e la potenza dei vari principi, senza nuocere alla indipendenza loro, e accomunerebbe a tutti i beni di ciascuno (). »

Cosi egli allora, quando il dire la verità gli metteva conto. Epperò in quel che esaltava l’unione di lega, fulminava l’unita assoluta, quale al presente si cerca di fondare dalla fazione dell'Italia piemontese.

Questa unità, secondo lui, sarebbe stata nel suo concetto intrinsecamente viziosa, perché non muove da un idea patria, non corrisponde alle specialità italiane, non ha una base nazionale ed è un castello in aria, o frutto di dottrine e imitazione di esempi forestieri. Che più? Il supporne possibile la esecuzione pacificamente, è demenza: il desiderarla per vie violente, è delitto, e non può cadere se non nell’animo di coloro che guastano la politica anteponendola alla morale, e disonorano la patria, separandone gl’interessi e i diritti dalla mansuetudine e dalla giustizia. E andando più innanzi, affermava che: l’unità centrale d’Italia essendo combattuta dal fatto, cioè da tutta la storia, non è conforme alla sua natura ().

Cesare Balbo, cuore di lealtà inconcussa, non ripose mai altro ve la causa nazionale, che nella Unione mentovala. Impugnò sempre l'idea del Regno uno siccome un'utopia, impossibile, una puerilità, un sogno tutt'al più da scolaruzzi di rettorica, da poeti dozzinali, da politici di bottega per molte e limpide ragioni, do po le quali soggiugne la seguente.

«Che diventerebbe il Papa in un Regno d'Italia? Re esso? Ma ciò non è possibile, non si sogna da nessuno. Suddito?

Ma allora si, che ei sarebbe dipendente; e non solo come al peggior tempo del medio evo, suddito dubbioso del monarca universale, ma suddito certo d'un re particolare.

Ciò non sarebbe tollerato dalle nazioni cattoliche; non sarebbe dalle stesse acattoliche; ciò andrebbe contro a tutti gl'interessi, a tutti i destini della Cristianità; ciò non sarebbe tollerato da una parte della nazione stessa italiana, che noi tollerò nel medio evo (). »

Ed in un altro luogo, tornando a sconfiggere la stoltizia medesima dell’unico Regno, soggiunge:

«Quando il Papa non fosse a Roma, ei vi sarebbero molte altre ragioni di non isperar il Regno Italico; quando non vi fossero altre ragioni, basterebbe ad impedirlo la inevitabilità del Papa a Roma.

Continuisi, se si voglia, a dir sommo bene imaginabile il Regno Italico; ma in nome della verità non dicasi sommo bene possibile; si desideri, se vogliasi, ma non si speri; e non isperandolo si pensi ad altro ()...

Se non siete di quelli matti, principi o popoli ambiziosi, che non serberebbon nulla, e pur vogliate conservare alcun che di patrio ed antico, sopra ogni cosa da conservare, conservate il Papa indipendente e Sovrano, che è ben altro preludio di Roma e d’Italia in Vaticano, mollo meglio che Minerva in Atene, o la Lupa di Campidoglio (). »

In quella vece l’accorto filosofo perorò caldamente a vantaggio della Lega, la quale per lui era l'ordinamento più conforme alla natura ed alla storia d’Italia. E provatolo con illustri esempii ed argomenti, conchiudeva:

«E quindi non parrà strano ormai ciò che ridico: che la proposizione d'una nuova e continua confederazione italiana, la proposizione di fare compiutamente e durevolmente colla civiltà adulta, ciò che la fanciulla non seppe se non incompiutamente e temporariamente, è più che un evento letterario, è un fatto nazionale (). »

Non ci diffonderemo in testimonianze di autori men rinomati, parendo a noi che non debba essere nella Penisola verun uomo d’esperienza, il quale, su questo proposito dell’Unità di Regno assurda, e della Confederazione di Stati sol possibile e sol desiderabile, non abbia inteso e letto più assai che non potremmo in poche pagine allegargli.

Ond’è che chi ha pensato finora a collocare la causa veracemente nazionale dell’Italia, non in una chimera e in una fantasia, ma in un ordine ragionevole ed eseguibile, si è mai sempre fermato nel ricordato disegno della unione federativa; né si è curalo punto d'altra unità, che saria per ogni verso funesta. E noi che più volle abbiam chiarito questo assunto, non vi ci rifaremo sopra con soverchio lusso di ripetizioni ().

Ciò premesso, non istaremo a indagare 'la vetustà o la modernità di questo concetto, e se alcuno mai, innanzi l'età nostra, abbia efficacemente posto mano a colorirlo.

I nostri annali ci porgono alquanti casi di alleanze fra Stati e Stati, segnatamente promosse dai Pontefici. Furono però alleanze di armi più che d'altro, temporanee, non universali, e patteggiate con l'intento di respingere iniqui usurpatori che minacciavano l'Italia, or dalle Alpi e ora dai lidi d'ostro e di levante.

Le due di Gregorio VII e di Alessandro III sono le più celebrale. Lorenzo Medici il Magnifico volse ancor egli l'animo a rannodarne una fra Napoli, Toscana e Lombardia, la qual fosse durevole e non meramente militare. Ma non gli sortì. Quindi è che dopo lui non è menzione certa di verun simile divisamento, eccetto quello di Errico IV di Francia, che il Sullv ha registrato nelle sue Memorie, e che per essere stato il più esplicito, merita una speciale ricordanza.

Cotesto Re, nell'assetto non meno ardito che nuovo da lui imaginato di dare all’Europa, desiderava di ricostituire l’Italia in questa maniera.

Il Papa, oltre le terre dello Stato Ecclesiastico, avesse anche il Regno di Napoli antico feudo della Chiesa Romana, ed accomodato, per la vicinanza, a renderne maggiore il Dominio temporale. Il Gran Duca di Toscana, la Repubblica di Genova e i Principi di Lucca, Mantova, Parma, Modena, Monaco ed altri formassero una colleganza, per modo che dentro gli Stati loro fossero liberi padroni e, nell'assemblea o Dieta che sarebbe ad omaggio del Papa, fossero quasi altrettanti Senatori.

Venezia conseguisse dalla Santa Sede l'investitura dell'isola di Sicilia, e si riconoscesse tributaria ancor essa del Pupa.

Finalmente il Duca di Savoia s'ingrandisse, erigendo il suo Ducato in Reame con l'acquisto di Milano, e per decreto del Santo Padre, fosse Re di Lombardia. Donde apparisce che, nella mente di Errico, l'Italia doveva essere una Confederazione, franca da qualsiasi forestiera signoria, col sommo Pontefice Re di mezza Penisola per capo, e tolta da esso Pontefice in alcuna guisa dipendente. Splendido concetto, ma che non fu, pur comincialo mai a dargli un corpo.

Adunque da che: l'Italia è, questa sua causa nazionale restò sempre nel giro dagli affari speculativi, senza che niuno procacciasse di recarla operosamente in vita concreta, sino all’avvenimento del Papa Pio IX, che fu il. primo primissimo il quale, per molo spontaneo di cuore benigno, si accingesse a tentare di darle un qualche effetto. Cotalché il suo Cardinale Segretario di Stato potè affermare in una pubblica scrittura, che:

«Sua Santità fin dal principio del suo Pontificato osservando la con dizione dello Stato Pontificio, non che quella degli altri Stati d Italia, come padre comune dei Principi e dei popoli, alieno egualmente dalle guerre esteriori che dalle discordie intestine; per procurare la vera felicità dell'Italia, aveva imaginato. ed intrapreso le negoziazioni di una Lega tra i Principi della Penisola; essendo questo l'unico mezzo atto ad appagare le brame de’ suoi abitanti, senza punto ledere i diritti dei Principi, ne contrariare le tendenze dei popoli ad una ben intesa libertà ()».

Di fatto ad agevolare la consecuzione di questo scopo, il Santo Padre avvio pratiche acciocché si stabilisse intanto una Lega Doganale, che fosse quasi germe di una futura politica: ed ai 3 novembre del 1847 l'oratore suo, e quelli del Gran Duca Leopoldo e del Re Carlo Alberto ne sottoscrisscro in Torino i. preliminari, con una dichiarazione che esordiva cosi:

«Il Sommo Pontefice, il Re di Sardegna ed il Granduca di Toscana, costantemente animali dal desiderio di contribuire, mediante la reciproca loro unione, all’incremento della dignità e della prosperità italiana; persuasi che la vera e sostanziale base di un'unione italiana

sia la fusione degl’interessi materiali delle popolazioni che formano i loro Stati; convinti d'altra parte che l'unione medesima sarà efficacissima ad ampliare in progresso di tempo le industrie ed il traffico nazionale; confermali in questi sentimenti dalla speranza della adesione degli altri Sovrani d’Italia, erano venuti nella determinazione di formare fra i loro rispettivi do mimi una lega doganale (). »

Carlo Luigi Farini, che nessuno taccerà sicuramente di parziale verso il Triregno, rende buon testimonio della schietta generosità con cui il S. Padre accalorava l’eseguimento di questo pensiero, ch'esso chiama sagace e nazionale; certificando che in quello il Pontefice era e fu perseverante quanto e più che altri mai, e che non era volontà di lui rimanersi a mezzo; e che avvisava potere, con l'autorità sua, piegare gli altri Principi, a cui la sorte aveva posto in mano il freno di genti italiane ().

Or che non si fosse avvisato male, il mostrò l'adunarsi che fecero in Roma, entrante la primavera del 1848, gl'inviati di Toscana e delle Due Sicilie, spediti dal Granduca Leopoldo e dal Re Ferdinando, per istringere i primi accordi della bramata Confederazione. Il che Re Ferdinando di Napoli fece nolo ai suoi sudditi con questi termini:

«Noi consideriamo com'esistente di fatto la Lega Italiana, dacché l'universale consenso de’ Principi e de’ popoli della Penisola ce la fa riguardare come già conchiusa, essendo prossimo a riunirsi in Roma il Congresso che Nui fummo i primi a proporre: e siamo per essere i primi a mandarvi i Rappresentanti di questa parte della gran famiglia italiana (). »

Sul principio anzi d’aprile fu sollecitalo anche il Re Carlo Alberto che avesse mandati pur egli suoi rappresentanti: ma la guerra di Lombardia occupavate tulio, e si contentò di rispondere: che non era tempo di trattare o di conchiudere Leghe, bensì di combattere ().

Antonio Zobi, detrattore acerrimo del S. Padre e ligio al Piemonte, ha scritto che: alla Corte di Torino non prendevano le cose troppo buona piega, perché invece d'acconsentire al Papa la supremazia nella lega, come sembrava esser richiesto dalla sua qualità e grado, amavasi piuttosto far da sé (), Che che sia di ciò, questo niego inaspettatissinio, accoppialo coi maneggi che aperta mente si guidavano per compire la fusione (undici anni dopo si dovea appellare annessione) di Lombardia e dei Ducati di Modena e di Parma alla Corona di Savoia, fu un primo lampo sinistro che rivelò un1 idea piemontese, e che raffreddò sommamente gli animi di qualche Governo d’Italia verso gli accordi intavolali per la Con federazione.

Qui cade acconcio raddrizzare un torto, per fermo casuale, di Cesare Balbo che nelle giunte al suo Sommario della storia d’Italia, incaricò il Pontefice Pio IX di avere, con la sua Allocuzione dei 89 aprile 1848, respinta da sé la presidenza della Confederazione o Lega, ch’egli chiamava «una cotal nuova repubblica degli uni versi popoli d’Italia ()».

Ciò che siam per narrare più sotto, farà palese che il chiaro uomo s'ingannò a partito. Staremo paghi di no tare presentemente che l’equivoco è tra Lega e Lega; e le parole medesime dell’Atto pontificio lo pongono in evidenza. Che ivi il S. Padre annunzia di avere ripudiati i subdoli consigli di chi gli esibiva di capitanare una vera Repubblica, che si comporrebbe di tutti i popoli d’Italia; i quali, come si rileva dal contesto, si sarebbero dovuti staccare dai loro Sovrani. La qual cosa diviene in dubitala, se si avverta che fra le cagioni del rifiuto, il Pontefice addusse pur quella di non ambire ut fines dilulentur Civilis Principatus.

Il che riconfermò poi nell'Allocuzione del Concistoro dei 20 Apri le, tenutosi in Gaeta l'anno seguente. Non respinse adunque la presidenza della Lega o Confederazione, ch’egli aveva promossa e che attualmente favoriva; ma di un'altra Lega fellonesca, empia, fatale all'Italia, che non si conciliava né co’ suoi doveri di Papa, né con le regole più ovvie della probità.

Insomma il venerabile e santo Vicario di Cristo ributtò da sé con orrore, la profferta dell’haec omnia tibi dabo si cadens adoraveris me; e antipose ogni danno, ogni patimento, l'esiglio e persino la morte alla proposta di diventate Galantuomo, giusta il nuovo senso modernissimo.

Perciò egli, che non simulava trattali di Lega per Spogliare altrui, bensì li manteneva accesi unicamente per l’amore svisceralo che aveva all'Italia, la cui causa veracemente nazionale bramava di vantaggiare; nella congiuntura del dotto nobilissimo rifiuto, promulgò queste auree sentenze che andrebbero eternatela cifre di diamante.

«In questa occasione ammoniamo ed esortiamo gli stessi popoli del l’Italia, per la carità che loro portiamo, che si guardino diligentissima mente dagli astuti consigli di questa fatta, che sono alla medesima Italia perniciosi, e che fermamente aderiscano ai loro Principi, la cui benevolenza hanno già sperimentata, e che non tollerino di essere mai strappa ti dall’ossequio che debbono a loro. Imperocché se operassero altrimenti, non solo fallirebbero all’obbligo proprio, ma di, più correrebbero il rischio di far lacerare l'Italia da discordie ognidì maggiori, e da intesti ne fazioni (). »

Torniamo a noi. Vincenzo Gioberti dalla Lombardia, ov'era stato ad infervorare la fusione col Piemonte, e dalle tende del campo di Carlo Alberto, al quale era ito far visita graziosa, incamminossi alla volta di Roma, e vi giunse cadente il maggio.

Venivaci predicatore manifesto di Confederazione, e ambasciatore secreto di alito, che presto sapremo. Laonde come predicatore diresse ai Romani un'arringa, che abbiamo stampala innanzi agli occhi, e dalla quale staglieremo pochi periodi, per edificarne chi ci legge.

«Due atti solenni di unione si apparecchiano in Italia, sotto i divini auspici di Roma e del suo Pontefice. L’uno è la congiunzione dei Veneto-lombardi coi Liguri-subalpini e l’ordinamento di un Regno italico. che abbracci la gran valle eridanica e siringa insieme tutte le parti settentrionali della Penisola. L'altro è la lega politica dei vari dominii italiani, rogata e rappresentata stabilmente da una Dieta. Roma dee intervenire in questi due atti ed esserne suprema consacratrice... L’imperio francese, pretessendo un falso amore di religione a una cupidità senza limiti, fu un atto insigne d’ipocrisia e d'impostura civile; onde il nuovo Carlomagno, invece di porgere al Papa benefattore il patrocinio che gli prometteva, ne fu il persecutore implacabile... La lega politica sarà il giumento dell’unione, rannodando insieme i vari Stati italiani con vincoli indissolubili, e formando quasi uno Stato unico... Dove sono coloro che volevano scorporare da Roma le Legazioni, come se l'unione romana non fosse italiana, e altro scettro di umanità soprastesse al regno mitissimo del vivente Pontefice? Il Regno italico e la Lega politica assicureranno alla Santa Sede quel temporale dominio, che tanto giova-a tutelare l'indipendenza del suo reggimento nel giro della religione... 0 forse vi è alcuno che ingelosisca del medesimo Regno italico, quasi che, prevalendoci forza agli altri Stati, possa minacciare l'autonomia romana?... Quid sarebbe ora il principe che oserebbe violar menomamente i temporali diritti della Santa Sede?... Finalmente la Lega italica sarà in ogni caso una guardia efficace dei particolari diritti di ogni principe italiano... onde verrà preclusa ogni via alle stolte ed empie ambizioni, ancorché la ragion dei tempi e l’avanzala coltura permettesse loro di nascere (). »

Come ambasciatore di occulti misteri, favellò con parecchi e fra gli altri col IV Giovacchino Ventura, il quale ci ha conservalo il colloquio avuto con lui, e mossolo, non è molto, in luce nel suo libro francese del Potere pubblico. Noi ne volteremo i passi più notevoli con fedeltà accurata. Dello come il Gioberti arrivò in Roma invialo straordinario della Corte di Torino, e dato un cenno delle onorificenze che riscosse, continua.

«Si degnò idi venire egli stesso a vederci; e dopo scambiate alcune parole di cortesia, ebbe luogo fra noi il dialogo seguente in presenza ili una dozzina di membri della Camera elettiva di Roma. Domandiamo ai lettori la permissione di riprodurre qui codesto dialogo, il quale per cagione della sua importanza, stendemmo in carta incontanente che fu terminalo; e che servirà a far capire (alti in altro modo incomprensibili, e spanderà gran lume sopra uno dei successi più lacrimevoli dell'istoria contemporanea.

Ab. Gìob. Padre, voi dovete essere molto contento della piega che hanno pigliale le cose, nella nostra bella Italia.

P. Veni. Niente affatto, signor abate; ne sono anzi altamente contristato.

Ab. Giob. Come! non vi rallegrate voi a vedere lo stabilimento dell'unità italiana, scopo di tante fatiche e di tanti voti, sul punto di adempirsi? Noi abbiamo formato un regno forte, al settentrione d'Italia, con erà del quale si romperanno tutti gli sforzi dell'Austria. L’Italia centrale, che ho leste attraversala, è già moralmente nostra; tutti i suoi popoli -smaniano di collocarsi sotto la bandiera e sotto lo scettro della casa di Savoia. Rimanderemo all’Austria la famiglia regnante in Toscana; occuperemo gli Stati Pontificii, e lascieremo a Pio IX la città di Roma rito sua naturale durante (sic). Il regno delle Due Sicilie ci aspetta a braccia quadre (sic), e l'ora in cui il glorioso nostro esercito si avvicinerà a quel la contrada, sarà segnale per lui di spacciarsi de’ suoi Borboni.

Veni. Mi piace credere che non parliate da senno: giacché non posso capacitarmi che una mente così sublime, qual siete voi, abbia potuto albergare stranezze di questo conio. Voi ci discorrete di un «regno forte» da voi creato; ma forseché malia non sa a quest'ora ciò che pensar deve di cotesta creazione, di cui menate sì gran vanto? Nessuno ignora che solo per via di spauracchi, di corruttele e d’imbrogli siete giunti a cattivarvi i suffragi di Milano, ili Parma e di Modena... Dunque l'unità del vostro preteso regno non è che sulla carta, e dopo il primo rovescio tocco alle armi vostre, sparirà senza che ne resti orma nel mondo.

Non vedete ragunati ora in Roma i rappresentanti diplomatici di Milano, di Parma e di Venezia? Ciò è prova manifesta che quei paesi non hanno in capitale di solida, la loro annessione alla corona di Savoia. E come avviene egli che voi siate gli unici a non addarvi che in quelle contrade, che voi tenete in conto di conquistate diffinitivamente, oltre l’essere odiali siete disprezzati Ecco per quanto spelta al vostro «forte regno. »

Confesserete anche voi, che è difficile trovare cosa più fiacca ed aerea. Io ordine poi al Granduca di Toscana, passi. Che sopra un ordine della cancelleria di Torino si accommodi, senza fiatare, a riprendere la strada di Germania, è possibile. Ma il Papa accetterà egli, potrà giammai accettare la sorte che gli apparecchiate. Vero è che per eccesso di generosità, gli lasciate la città di Roma vita sua durante; e sarà forse per guiderdonarlo del suo zelo ed affetto ai veri interessi dell’Italia. Ma la Francia, in grazia d'esempio, la quale reputa sempre che le donazioni di Carlomagno e di Pipino abbiano conferito un poco a formare lo stato ecclesiastico, consentirà poi che il Piemonte s'insignorisca di tale Stato, ella che non lo ha svelto dalle mani dei Longobardi se non per restituirlo alla Chiesa, e che a costo di grandi sacrifizi'! ha sempre voluto alla Chiesa guarentirlo?... E il regno delle Due Sicilie avvezzo da secoli ad avere un re, una corte, un esercito, un naviglio che ne fanno la più valida e la maggiore delle potenze di second’ordine; questo regno che ha una storia e tradizioni immemorabili d'indipendenza; questo regno tre volte più popoloso che quel di Piemonte, e che ha spiccato con lustra fra i reami dell’Europa moderna, vorrà egli, senza il menomo contrasto, barattare tutte queste utilità coll'onore (assai rilevato certamente) di tra mutarsi in provincia d'un principe, che i lazzaroni napolitani titolano dì «Re delle marmotte?» Non fa mestieri di aver detto addio ad ogni ragione e ad ogni buon senso naturale, per credere possibile ad avverarsi' una tale utopia, a cui quadrerebbe meglio il nome di scherzo buffonesco?

Ab. Giob. Ah! ecco il gretto spirito di provincia, pronto sempre ad immolare i sommi interessi dell'unità nazionale, agl'interessuzzi del municipio; e che ha mai sempre alimentate nelle diverse parli dell’Italia le deplorabili divisioni che l'hanno renduta sì debole, e tanto spesso gittata fra le branche del forastiero.

P. Vent. Appunto! sta proprio bene a voi, rinfacciarci il nostro amore al municipio, in quel che voi non vi brigate più d'altro, che della vanità di innalzare il vostro municipio, che appellate regno di Sardegna, a capo d'Italia, e che posponete i veri interessi nazionali, ai vostri casalinghi!

Abbiate per costante che non appena i Principi d’Italia avranno sentore dei disegni di fusione, i quali voi testà mi avete sciorinati, che si recheranno a coscienza di cooperare al trionfo di una causa, il cui esito finale sarà di cacciarli dai loro troni...

Ed ancora dovete trarre le partite coi differenti popoli d'Italia, i quali, come avreste a sapere, sono tanto gelosi di restare ciò che sono e di serbare la loro autonomia, quanto dell’indipendenza comune dagli stranieri.

Non sì tosto adunque saranno entrati in sospetto che, sotto il nome ingannevole di causa italiana, voi non cercate altro che di vantaggiare la causa piemontese, vi volteranno le spalle…

Insomma la politica piemontese con la sua monarchia uni versale, e la politica della giovane Italia con la sua repubblica universale, vorrebbero introdurre nell'Italia una dominazione ed una servitù uni versale, che l'Italia ne vuole né può volere. Onde queste due politiche la costringeranno a torsi giù dalla lotta: e come le due politiche si personificano in un paio d'uomini, così la storia allogherà un giorno i loro nomi l'uno accanto dell'altro, e insegnerà ai posteri che questa coppia ha perduta l’Italia.

«Il messo delle Alpi, non essendo stato sopra di sé nelle conversazioni, aveva bisbigliato il secreto delle mire ambiziose di sua Corte ai membri di. tutti i clubs, e agli oziosi di tutti i caffè di Roma: e d’indi il ragguaglio delle sue trame pervenne all'orecchio di coloro, a cui ciò premeva al più allo segno ()».

L'autorità del ch. P. Ventura basta a far fede che questo dialogo è sincero. Ma, se fosso bisogno, noi potremmo testificare ai lettori nostri, che altre fonti non meno autentiche ce ne hanno confermala la puntualissima veracità.

Or l'apostolo della Lega, dopo corse le Marche, le Romagne e l'Etruria, e sussurratovi per tutto il grandi arcano, e seminatovi però nerissime sospicioni, reduce in Torino fece il dì 28 luglio questo discarico del suo viaggio ai Deputati.

«Il risultato fu soddisfacentissimo; l'idea della unione domina, se non in tutti, nella maggior parte degl'Italiani; e gli sforzi dei tristi per impedirne la effettuazione torneranno inutili. Vi ha una sola Provincia, nella quale quest'idea e questo affetto fu intorbidato da alcune false preoccupazioni; questa è la Provincia più gentile d’Italia, cioè la Toscana. Ci trovai regnante nei più un'idea che Carlo Alberto aspirasse al dominio di tutta la Penisola, e che il nome di lega altro non fo?se che il mantello della sua ambizione.

Vedendo che un'opinione di questa fatta poteva compromettere l’eseguimento dei nostri desiderii, mi fermai alcuni giorni in Firenze e feci quindi una gita per le provincie toscane, onde combattere colla voce e cogli scritti la polente preoccupazione. Posso assicurarvi, che, se le dicerie dei malevoli non sono affatto spente, sono tuttavia per venuto ad impedire che gli uomini leali ed onesti fossero illusi. L'idea è dunque universale in tutte le Provincie della Penisola ()».

Ciascun vede che il Gioberti in questa passeggiata aveva preluso alla famigerata politica, da alcuni chiamata ipocrita, da altri devota a Giano bifronte, da altri appresa nel vangelo da Giuda Iscariote, e che noi qualificheremo soltanto di doppia, la quale era poi destinata a condurre il Piemonte nel 1859-60 a quell'apice di glorie, mercé delle quali si è trasformato in Regno, che il suo Parlamento ha detto doversi dire dell'Italia.

Il dottore e poi dittatore Farini che ha scritto:

La storia deve attestare, che il Gioberti non fece in Roma veruna pratica che fosse indegna del suo onorato nome e della sua robusta religione (); vegga egli se, dopo eretto il Regno dell'Italia, non siano da farsi mutare un poco le attestazioni della storia.

E assai però che egli riferisca i sospetti nati negli animi delle Corti di Roma, Napoli e Toscana, e ci informi: che in mezzo alle molte e pur giuste lamentarne, che s'udirono poi sullo scoglio di Gaeta, primeggiava l'ingiusta credenza, che Carlo Alberto mirasse ad usurpare per sé e pe' i suoi tutti i troni italiani; e ne davano per prova irrefragabile il viaggio di Gioberti (). Sarà lecito dubitare che queste mire si appropriassero direttamente a Carlo Alberto: ma che si attribuissero a coloro che abusavano del nome e della potenza di lui per soqquadrare l'Italia, dopo i precitati argomenti, non è meraviglia.

E in vero: Giuseppe Montanelli, penna democratica di quel candore che tutti sanno, discorrendo della fusione d'un terzo della Penisola con Savoia, cosi a modo suo ne giudicò gli effetti in ordine agli altri Principi italiani:

«Con fare un grosso reame di Piemonte, Liguria, Lombardia, Venezia e Ducati, non si radunava tutta Italia sotto unico re, e creavasi invece un accenno minaccioso d'unità regia, una specie di pretendente a ingoiare gli altri principati, che li portava a restringersi non con lui, ma contro di lui, e a sperare più sul forastiero, che non a temerlo; il che ribadiva e accresceva le divisioni e servitù italiane, anziché levar le via al tulio, o almeno scemarle ()».

Quanto maggiormente adunque non erano per addensarsi le ombre, dove all'opera della fusione si aggiungessero gl'indizii di una meditata invasione generale, che il Gioberti diplomatico andò spargendo da Roma a Firenze e a Bologna? Tanto più che il Re di Napoli ave va spedito Pier Francesco Leopardi presso il Re di Sardegna, affidandogli la precisa cura d'esplorare le intenzioni del Governo sardo, sul particolare delle nuove combinazioni territoriali che probabilmente sorgerebbero, se la guerra dell'alta Italia era fortunata, e renderne esatto e sollecito conto ().

Ora qual conto poteva mandare che, essendo esatto, non fosse nocivo ai trattati di Lega? E quando alcuni mesi appresso il Governo di Napoli asserì: di avere in mano le prove che il Piemonte velava, in tutte le sue profferte, il disegno d'impadronirsi di gran parte dello Stato della Chiesa (); che altro fece, se non mostrare che i conti ricevuti erano esatti? Ecco però il concetto dell'unità piemontese che sopraffa, nel meglio dell'orditura sua, il concetto della Confederazione; ed i fautori di quella che rompono il tessuto di questa nel pugno di chi già ne governava le fila maestre.

Tuttavolta il S. Padre, non che troncarne subilo ogni negoziazione, ne affrettò più presto con virtuosa costanza l'adempimento. Con ciò sia che, non solo ebbe accette le pratiche che il Pareto Ministro di Piemonte, nel Luglio, e pochi giorni prima che cedesse il posto al Casati, sembrò inclinato a rappiccare per l'avviamento degli accordi; ma procacciò che subito fosse convenuto:

«Che gli Stati di Roma, di Sardegna e di Toscana, i quali erano uniti in Lega doganale, proclamassero in faccia all’Italia ed all'Europa, ch'esisteva fra loro una Lega politica, avente a suo mediatore ed iniziatore l'augusto ed immortale Pontefice Papa Pio IX ()».

Se non che sul declinare dello stesso mese accadde in Torino m mutamento di Ministri, i quali inviarono legato a Roma il Rosmini, che si ebbe cortesi accoglienze, e trovò ottime disposizioni all’intento di stringere la Confederazione (); contuttoché le condizioni che portava non fossero conformi ai desiderii del Governo Pontificio ().

Ma rimutatisi in questo mezzo i Ministri del Piemonte, e i novelli non avendo graditi i disegni di Confederazione spiegati dal legato loro in Roma, non ne proposero più altri. Anzi ricisi corto i negoziati d'ogni Lega, presentarono, per un altro messo, una offerta di alleanza prettamente offensiva e difensiva ();

con l’animo di trascinare il Pontefice a servire con l'oro, e col sangue de’ suoi sudditi, e con la possanza della sua autorità, ai soliti ingrandimenti piemontesi. Il che guastava tutte le precedenti trattazioni, e isteriliva le cure amore voli e pazienti finora usale dal S. Padre.

Delle quali sia prova lo schema di Convenzione che il Farini ci dà, assicurandoci che fu studialo e compilato con pieno consenti mento del Papa dal suo Ministro conte Pellegrino Rossi. Lo ricopiamo.

(Titoli delle alte parti contraenti). Avendo maturamente considerate le presenti condizioni dell'Italia, e la naturale comunanza d'interessi che esiste fra gli Stati indipendenti della Penisola; volendo quindi per comuni accordi provvedere alla tutela della loro libertà e indipendenza; raffermare ad un tempo l'ordine pubblico, e dare opera al progresso gradua le e regolare della prosperità e civiltà, della quale è parte principalissima la religione cattolica; hanno fermato i seguenti patti, come legge fondamentale pe' loro Stati.

Art. 1. Ve Lega fra ecc. ed ecc.

2. Ogni altro Sovrano o Stato indipendente Italiano potrà nello spazio di... aderire alla Lega e farne parte integrale.

3. Gli affari della Lega saranno proposti e trattali in un Congresso di Plenipotenziari delegali da ciascuna parte contraente. Ognuna di esse potrà sceglierli giusta le regole che giudicasse opportune di stabili re per sé.

4. Il numero dei Plenipotenziari non potrà eccedere per caduno Stato quello di... Qualunque ne sia il numero, i Plenipotenziari di un Sovrano rappresentano collettivamente lo Stato che gli ha inviati, esprimono nelle deliberazioni il pensiero del loro Committente, e non hanno che on voto.

5. Il Congresso è presieduto dal Papa, e per esso da uno dei Plenipotenziari;da Lui prescelto fra i Plenipotenziari Pontificii.

6. In un Congresso preliminare che si aprirà a Roma al più tardi il... sarà deliberato, e quindi ratificato dalle alle Parti contraenti II Regola mento organico del Congresso della Lega.

7. Le alte parti contraenti promettono di non conchiudere con altri Stati e Governi, trattati, convenzioni od accordi particolari, che siano in compatibili coi patti e risoluzioni della Lega Italiana, e coi diritti ed obbligazioni che ne derivano: salva la piena libertà al Papa di concludere trattati e convenzioni che riguardino direttamente o indirettamente affari religiosi ().»

Ma queste proposizioni non andarono a' versi dei Ministri piemontesi; e intanto colà si dava voce e si stampava (è il Farini che scrive) che Roma era restia ad italiani accordi, ed i giornali ed i circoli nostrani ne facevano argomento di colpa, ed inferivano ingiuria al romano governo ().

Di che li 4 Novembre al Ministro di Sia Santità fu mestieri levare forti richiami, e dimostrare i pessimi artifizi del Piemonte, in un lungo discorso pubblicato nella Gazzetta ili Roma, dove si legge a chiare note: che le umane passioni e i privati interessi contrastavano all’opera santa, e rendevano rana la pura carità di patria che aveva ispiralo Pio IX spontaneo iniziatori ed assiduo promotore della Lega. E seguitava

«Ma è pur forza dirlo; gl'intoppi incontratisi appunto là, dove ogni ragion volea, che si trovasse facile consenso, e cooperazione sincera. Ed è pur là, (tanto sono i tempi nostri infelici!) che odonsi acerbe parole accusanti il Pontefice, quasi più non volesse la Lega, che egli primo imaginava e proponeva. E perché queste accuse? La risposta è semplice: ed è che il Pontefice iniziatore della Lega, non ha ciecamente aderito alla proposta piemontese.»

Terminava poi:

«Conchiudiamo: Pio IX non si rimuove dall'alto suo pensiero, desideroso quale sempre fu di provvedere efficacemente, per la Lega politici italiana, alla sicurtà, alla dignità, alla prosperità dell'Italia...

Pio IX non è mosso né da interessi particolari, né da antiveggenze ambiziose; nulla chiedo, nulla desidera, se non la felicità dell’Italia... Ma non iscorderà mai ad un tempo quel che ei debbe alla dignità della Santa Sede ed alla gloria di Roma.

Qualsiasi proposta che fosse incompatibile con questo sacro debito, tornerebbe vana presso il Sovrano di Roma e il Capo della Chiesa. Il Pontificato è la sola vita grandezza che resta all’Italia, e che le fa riverenti ed ossequiosi l’Europa e l’intero Orbe cattolico, Pio IX non fia mai per dimenticarlo, né come supremo Gerarca, ne' come Italiano.»

Questo contegno saldo e invariabile del magnanimo Pontefice r sempre uguale a se stesso fino all'ultimo termine, sarà un testimonio perenne di gloria a lui ed al Papato sì benemerito della Penisola; e di onta indelebile per quella fazione, che rivolse contra la Tiara i medesimi benefizii suoi più segnalati. Di fatto mentre il Governo piemontese intralciava artatamente le negoziazioni di Roma vogliosa di quella Unione federativa, nella quale si era già tanto ripetuto che assommavasi tutta la vera causa dell’Italia; in Torino s'instituiva sino dal mese di Settembre una Società Nazionale, presieduta dal Gioberti, sotto colore di compire questa Unione: ma in so stanza per isconciarne tutta la tela, e bandire invece una Costituente Italiana che favoreggiasse l’unità ().

I processi formati sopra l'uccisione del conte Rossi, chiariscono più che poco che lo stile confìttogli nelle vene, fu aguzzato nei congressi di quella Società, e che l'assalto del Quirinale e lo scoronamento del S. Padre, furono in quelle sue medesime congreghe risoluti. Il Farini può celebrare a po sta sua l’arcadica innocenza di quelle assemblee: ma il sangue che contaminò Roma e l'esiglio del Pontefice che addolorò il mondo, provano che là dentro non fu se non satanica protervia.

A quale Unità poi si aspirasse, fatto palese il cozzo delle due parti che indi si dilaniarono crudelmente sino alla sconfina di Novara.

Torino agitava il vessillo di una unità monarchica; ed ora l'unità del Gioberti, la presente unità piemontese ammantellata d'italiana.

Roma, tornata la città dei Bruti e affratellatasi con Firenze, sollevava il berretto frigio, e pretendeva ad una unità, forse per a tempo federale, ma di Repubblica popolaresca.

Dall’una banda e dall'altra si accaneggiavano, e tiravano a soppiantarsi. Ma ben è fuori d'ogni dubbiezza che nessuno dei due partiti voleva ciò in cui solo era la causa nazionale: e che entrambi agognavano invece a quell'intendimento che era la demenza, il delitto, l’assurdo ricantatoci dal Gioberti ne' suoi libri del Primato; e l’utopia, la puerilità, il sogno, l’impossibile detestato in mille forme da Cesare Balbo.

Non ci allargheremo quindi a raccontare per minuto la serie dei trattali, che l'astuzia torinese conduceva in Roma coi ribelli del Papa a cagion di gabbarli, e in Gaeta col Papa esulante a cagion di cir convenirlo.

Dai documenti che ha raccolti il Farini, che dettò la sua storia vivendo al soldo del Piemonte, e dalle sue non disinteressate narrazioni, caveremo non più che alcuni tocchi, i quali finiranno di lumeggiare il nostro assunto.

Al Pareto legato sardo, che per ordine del suo Governo supplica va il Pontefice di cercare ospitalità appiè delle Alpi;

«Il S. Padre non tacque che la memoria delle pratiche iniziale o con sentite da lui per una Confederazione fra gli Stati italiani, poi troncate e smesse per colpa non sua, gli slava dolorosa nell'animo; che gl'incresceva avesse il Governo di Piemonte, secondo che i giornali riferivano, deputati oratori a Firenze ed a Roma per negoziare accordi per la Costituente italiana; dubitare perciò che il Governo Sardo fosse inchinevole ad accordi con coloro, i quali in Roma usurpavano i diritti del Pontefice e della Chiesa ().»

Ito giù il ministro Perrone e salilo Gioberti nel suo scanno, fu man dato il conte Martini presso Sua Santità, e incaricato di avere relazioni ufficiose coi ribelli di Roma, ed ufficiali col S. Padre ().

E perché non rimanesse incerto che a Torino si giocava doppia caria, Gioberti inviò di soppiatto il deputato Berghini, prima in Firenze a chiedere che si lasciasse occupare la Toscana da milizie piemontesi: il che negato e concesso un transito solo di esse milizie, il Berghini passò in Roma, ed ai 18 Gennaio 1849 stipulò con quel Governo fazioso un contratto, in virtù del quale il Piemonte carpiva la sospirata licenza di mettere soldatesche in Ferrara e Bologna allo scoppiare della guerra; e la promessa di 15,000 sudditi pontificii per aiuto; col patto nell'articolo 5.° espresso di mantenere il più scrupoloso secreto di questo concordato, statuito senza saputa del Papa legittimo Sovrano, a cui si facevano soltanto inchini ed ossequi ufficiali ().

E così Gioberti scriveva subito dopo al Berghini:

«Tenete la cosa (del contratto) secretissima costì e da per tutto — Partite presto da Roma ed andate a Gaeta; se colà le vostre relazioni coi governanti romani (i ribelli) son conosciute, dite pure che le furono prettamente ufficiose, e quali (ma non le secrete)... Assicurate il Santo Padre che quanto si disse contro di noi è mera calunnia, e che i fatti lo proveranno finché il Mamiani fu al potere (in Roma) credemmo possibile un'amichevole conciliazione ().»

Ora costui ingeriva tali sospetti di sé ai democratici, che Giuseppe Montanelli Ministro in Firenze scriveva al legato toscano di Roma: Dubito che il Mamiani abbia un secondo pensiero, e sia quello di proclamare Carlo Alberto Re di Roma. Gli mancherà il coraggio, ma è per quella via (). Quest'accenno può per avventura far capire sa che si fondassero le speranze del Gioberti in Mamiani, per l'amichevole conciliazione.

Finalmente, senza parlare dei maneggi attivissimi del Piemonte con Madrid e con Parigi, affine d’impedire ogni soccorso che dalle Potenze cattoliche dimandasse il Pontefice sbandeggiato (), chiuderemo questa esposizione di fatti avvisando che, siccome il Principe di Cariati ambasciatore del Re di Napoli asseverava che tutte le profferte del Piemonte al S. Padre, velavano il disegno di impadronirsi di gran parte dello Stato della Chiesa, e i Ministri napolitani (secondochè dicemmo) affermavano averne le prove; ed il prenominato Principe ne spargeva la notizia e ne faceva testimonianza non pure in Napoli ed in Gaeta, ma in Francia; così il Governo Piemontese se ne sdegnò siffattamente che volle richiamalo da Napoli il senatore Plezza, inviato non riconosciuto dal Re Ferdinando; e proprio col pugno del Gioberti vergò queste righe, le quali mettono la corona al ritratto di quella insigne lealtà piemontese, che ci è sinora venuto sotto la penna.

«Questa nostra deliberazione (di richiamare il Plezza) fu cagionata non solo dal rifiuto ecc.; ma più ancora dall’indegna calunnia spacciata in Francia dal Principe di Cariati, colla quale ci attribuiva l'offerta di togliere al Papa le Legazioni. Spero che il sospetto di tanta infamia non anniderà per un solo istante nell'animo del Pontefice ()».

E perché questa incredibile discolpa fu avuta nel capitale che le si affaceva, e quindi il Piemonte, che stringea disoneste convegne coi ribelli di Roma, fu posto fuori del novero delle Potenze cattoliche, dalle quali l'esule Pontefice sollecitò assistenza; il medesimo Gioberti ebbe mano di riscrivere al Legato sardo in Gaeta, che: la Corte Pontificale non conosceva i suoi veri amici; che te li conoscesse non anteporrebbe nessun potentato al Piemonte; o che ella ripudiava le massime di Cristo e preferiva ad tue quelle di Maometto (). Il qual complimento essendo riuscito inefficace, narra Farini che Gioberti ebbe consigliato il Re d'entrare senza più nelle terre della Chiesa, di mettere presidio in Ancona, e di prendersi con la forza quella parte d'amico, che al suo Governo era dinegata (). La rotta di Novara disperse il malvagio consiglio, ributtato da quel Carlo Alberto il quale spirò benedicendo alle sue sciagure, che lo avevano preservalo dai pericoli d’un sacrilegio.

Non ci sembra che accada far qui una prolissa ricapitolazione dello cose addotte. Il lettore dev'eglidasè trarne le consegnerò, e proferire il giudizio sopra chi sia stato che, negli anni 1848 e 49, ha tradito la causa nazionale. L’Audinot il quale si assise nei banchi della Costituente repubblicana di Roma, come ora siede in quelli del Parlamento monarchico di Torino, potrebbe aver letto in fronte a più d’uno de’ suoi colleghi, e nell’intimo stesso del cuor suo, la inappellabile sentenza. E forse perciò avrà stimato di tergere la sozza macchia dal viso degli amici e di addormentarsi la coscienza, buttandone la colpa sopra la Tiara del Vaticano. Ma chi insulta di tradimento una vittima intemerata, ch'egli ha aiutalo a tradire, sempre a sé cresce il vitupero e spesso il rimorso. Causa conclamata est.

Quello piuttosto di che ci abbiamo a rallegrare noi cattolici e figliuoli amorosi del nostro S. Padre Pio IX, si è Che egli con l'ampiezza delle sue carità illibate verso l’Italia, abbia renduta perpetuamento menzognera al cospetto dei cieli e della terra la turba dei nemici della Sede di Pietro, che la denigrano d’irreconciliabile ed vero spirito di nazionalità. Già lutti i fasti del Pontificalo romano sventavano oltre a bastanza la vile accusa. Ma gli alti del sovrano Pontefice, che la misericordia di Dio ha donalo alla Chiesa in questi calamitosissimi tempi, nonchè sventarla, la ritorcono a vergogna degli accusatori. I meno avveduti poi che, con zelo indiscreto, censurarono d’improvvido condiscendenze le benignità del Santo Padre, imparino dalle incomparabili vittorie che ora, per esse, riporta in tutto l’orbe cristiano la Cattedra apostolica e la Chiesa di Cristo, che i consigli del Valicano sono sempre mai scorti da un lume superno, e che mal si riprende ciò che solo imperfettamente si comprende. Sopra che molto a proposito il Magno Gregorio: non numquam etiam qui bene praeest, dum subiectorum populorum confusione concutitur, ad dispensationis condescensionem ex sola dilectione permovetur. Sed in hoc quod dispensatone agitur, inclinatio ipsa fortitudini, casus imputatur imperitis ().

Veniamo agli anni 1839 e &0, intorno ai quali saremo più spediti. Ognuno sa che la questione italiana fu anche questa volta fatta nascere con in mano la rosa della Confederazione. Il Visconte de la Guéronnière nel primo de’ suoi tre celeberrimi opuscoli, che fu intitolato Napolèon III et l'Italie, niente magnificò tanto, come il concetto di questa Lega dei Principi d’Italia che avrebbe schiuso un fiume di pace alla Penisola, un oceano di grandezza al Papato e un evo di quiete all’Europa (). E in verità che la instituzione di questa Lega fosse nell'animo di chi aveva creala la questione, parve che si potesse inferire dalle stesse proposte di Congresso dello cinque Potenze, che precedettero la guerra, e che per quarto articolo da ventilarsi nell'areopago, avevano la Confederazione. Ma più assai parve manifesto negli accordi di Villafranca.

Circa i quali il barone di Bazancourt nella sua Campagna d'Italia del 1859, scritta per commissione del Governo di Francia, fornisco alcuni particolari, cui è pregio dell’opera dare un po' di risalto.

Perocché narralo come dopo l'abboccamento dei due Imperatori, il Principe Girolamo Bonaparte recò in Verona a S. M. Francesco Giuseppe il foglio in cui erano registrati i punti pattoviti, acciocché di suo pugno li rogasse; si fa a notare i discorsi che l'imo ebbe con l'altro sopra ciascuno dei punti: e, in quanto si attiene al tema no stro, ha ciò che segue.

«Il primo paragrafo risguardante lo stabilimento d'una Confederazione Italiana, non fé luogo ad alcun disparere... Rispetto al secondo paragrafo espresso così: Questa Confederazione sarà sotto la Prendenti onoraria del Papa, l'Imperatore d'Austria dimandò che la parola onora rio, apposta alla presidenza del S. Padre, fosse cassata. Il Principe credette allora di dovere spiegare un poco la mente dell’imperatore Napoleone. Collocando il S. Padre a capo della Confederazione Italiana, Sua Maestà avea inteso dare al Sommo Pontefice un pegno di alto ossequio; ma non intendeva, creandolo presidente reale, di suscitare impacci maggiori a una condizione già troppo aggravala, e accrescere le difficoltà senza numero che sussistevano in ordine al potere temporale del Papa... La presidenza reale non dovea forse appartenere al Sovrano dello Stato più considerevole, com'è in tutte le confederazioni, e segnatamente in Germania ()?»

Dal medesimo Autore impariamo che, nello schema, il sesto para grafo proponeva la separazione amministrativa delle Legazioni, id rimanente degli Stati della Chiesa.

L'inciso però fu tolto, né egli ce ne dà altra cagione, salvo che il trattare di ciò toccava poi a' Plenipotenziari adunali nel Congresso (). E questo non abbiam voluto passare in silenzio, anche per mostrare come sbaglino certi cotali che ragguagliano l'idea della Confederazione abbozzala in Villafranca, con quella che aveva concepita Errico IV.

Nella prima il S. Padre era designato come capo d'onore, nell’altra come capo di effetto: nella prima non era ben sicuro ch’egli restasse interamente padrone di lutto il suo Regno: nella seconda questo Regno dovevaglisi addoppiare. Gran divario!

Ultimamente il Congresso di Zurigo pose il suggello al disegno di questa Lega, e il Piemonte ne giurò in nome della SS. Trinità la fede le esecuzione. Se non che è egli bisogno di provare che esso, l'unico  Governo d'Italia che l'avesse giurata, fu l'unico altresì che la impugnasse a battaglia finita?

Non è forse notorio che avanti persino ch’ei la giurasse, i suoi diarii più domestici la maledicevano alla dirotta?

Che con l'Unione raccomandavano a tutti i giornali d'insistere affinché la confederazione non avesse vita: che con la Senti nella delle Alpi la gridavano sventura dell’Italia, e la schernivano di circolo vizioso: che con l’Opinione la esecravano, quale portalo di prepotenza straniera ()?

Sarebbe inutile dispendio di tempo, rimembrare com'egli alla Confederazione italiana sostituisse la sua unità, e come la causa nazionale convertisse in causa piemontese.

L’usurpazione fatta a prezzo o di fellonie o di stragi di quasi tutta la Penisola; quattro Principi detronati, il Pontefice poco meno che senza corona; cinque Stati liberi e indipendenti catenati dietro il cocchio trionfale della Rivoluzione scettrata in Torino, sono le imprese dell’odio feroce con che il Piemonte ha recata al nulla ogni pratica di Lega; ne sono le spoglie e ne sono i trofei che lo attestano, non diremo traditore no, ma gloriosamente vincitore della causa nazionale.

E l'Audinot rampognatore sì acerbo di chiunque tradisce una tal causa, tradito egli veramente da un impeto di gioia, ha intonato l’Io triumphe, e ringrazialo Iddio, che il senno politico di questa Italia, che è pur sempre la patria di Machiavello, abbia suscitalo quella corrente irresistibile, unificatrice, che, spazzando via ogni idea di federalismo, ha resa impossibile la federazione ()!

Si è ingegnato ben egli di appaiare col senno politico di questa sua Italia di Machiavello, gli errori degli avversari, tra' quali fa primeggiare il Papa. Ma quanto al S. Padre, se egli abbia respinta la Confederazione, secondo che lo ha calunniato egli da par suo, lo sa tutta Europa.

Il Card. Antonelli suo Segretario di Stato, nel dispaccio dei 26 Febbraio dell'anno corrente, ha asserito che Sua Santità si mostrò anzi disposta ad accettarla, appena ne fossero, com'era ragionevole, definite le basi. E chi è che abbia potuto smentire autorevolmente questa sì franca asserzione?

Nessuno, eccettoché egli, l'Audinot del l’Italia di Machiavello; e in quel Parlamento degnissimo di così fatta Italia, nel quale si son date mentite ad ogni verità, ad ogni giustizia, e perfino (chi lo crederebbe?) al Dio di Pio IX, che si è negalo colà, essere il Dio di Vittorio Emanuele ()! Al qual termine, la gran de anima italiana di Dante non si saria frenata dall’esclamare:

O Signor mio, quando sarò io lieto

A veder la vendetta che, nascosa,

Fa dolce l'ira tua nel tuo segreto?

L'arcano dunque delle tempeste furibonde che la fazione mascherata da Italia viene eccitando contro il Papa e il suo diadema, è facile ornai a penetrarsi. Questa fazione temeraria, perché schermita dal trono che ne sfrutta le audacie, anela a padroneggiare la Penisola, e a surrogare sé e le stemperate sue voglie a tutto ciò, d'onde risulta la vita stessa della nazione. Di qui l'appropriarsene i titoli, il sangue, l'oro, i beni, lo spirito e insin l'onore; e l'infierire con ispiètata baldanza, sopra quanto le tien testa o ne minaccia le iniquità fortunate.

Or tutto quasi in Italia ha ceduto ai colpi micidiali del suo braccio, avvaloralo da mano straniera; né le re sta più a crollare se non che la rocca ultima d'ogni genuina italianità, che è la Corona di S. Retro e il Pontefice ohe l'ha nella fronte.

Fino a tanto che brilla in Roma quel sacro simbolo di salute, e alita quel petto augusto che è il nido inespugnabile dell’amore di Dio per gl'italiani; troppo chiaramente scorge la rea fazione che pieni di pericoli sono i suoi trionfi, e che tosto o lardi quinci badi muovere l'impulso della forza che le strapperà dalle serre la vidima riscattata. E per ciò ad infrangere quella Corona e ad umiliarne o anco a spegnerne il Coronato, si rivolgono le sue armi supreme.

Per il che la lotta che si è ingaggiata, è lotta di vita o di morte all'Italia; battagliandosi non già per un fumo o per un'albagia, ma per serbare o distruggere in lei quel sovrano principio, nel quale da quattordici secoli è radicata ogni sua eccellenza, ogni sua cultura, ogni sua prerogativa e, se così è lecito parlare, la medesima personalità sua nazionale.

Che tanto è per essa il Papato, a cui di tutto va debitrice, insino del linguaggio; e che solo ne epiloga in sé tutte le glorie, tutti i destini, e che ne è contro, forma, scudo, sostegno e, nella multiplicità di sue discrepanze, vincolo impareggiabile d’unione. E che tal sia, non si addimostra forse nel caso pure del presente duello? Veggalo chi non è cieco. Da una parte sta un1 ambizione conquistatrice, la quale emulando le ingordigie profane degli Odoacri, dei Teodorici e degli Astolfi agogna sotto mendaci pretesti ad insignorirsi di tutta la terra ove il sì suona, a cancellarne con la spada le ingenite differenze, a violarne le tradizioni più care, a scompigliarne i più delicati interessi; trasmigrandola in uno strumento servile di cupidigie privale: e questa è l'ambizione di chi calpesta gl'italiani, per poter dire di sé: Io sono l'Italia. Dall’altra parte sta un formidabile diritto, corroboralo dalla coscienza, santificalo dalla religione, veneralo dai popoli che solo solissimo, quantunque inerme, si oppone gagliardamente al latrocinio e ne sfolgora gli autori: e questo è il diritto che riempie di sua maestà il Vaticano. Ond’è manifesto che ancor oggi, e oggi meglio che mai, l’Italia vera, l’Italia civile, l’Italia dell'era cristiana, l’Italia prediletta sovra ogni contrada dell’orbe dal Dio della fede e della grazia, è tutta nel Papato; e che se la tirannia sacrilega giugnesse per qualche tempo a schiantarlo dal suo mezzo, ella sarebbe una nazione decapitala.

Ecco perché il grido: A Roma! a Roma! echeggia testò, qual grido di guerra dal Po al Faro, su, le labbra immonde dei barbari redivivi. Sentono essi che unicamente in questa Roma spira il capo e batte il cuore dell’Italia: e che però finché non sia mozzo l’uno e spaccato l’altro, l'olocausto d Italia all’idolo loro non si consuma. Ma voi altresì, o italiani, che, sebbene sotto i piedi di questi barbari, nudrite nondimanco affetti nobili e speranze cristiane per la patria vostra, voi altresì dovete ripetere il grido: A Roma! a Roma! e sia in bocca a voi grido di felice augurio d’una redenzione infallibile dal giogo che vi opprime. La Tiara che affrancò gli avi nostri dal ferro degli Unni e dei Longobardi, affrancherà ancora noi dal le catene de’ lor successori. Mercecché Dio eleggendo questa Roma a seggio del suo trono visibile fra gli uomini, ha privilegialo l’Italia d’un pegno di libertà immortale che non ha pregio: e così la nazione che conta l’eterna Roma fra le sue città, non mai cade nel servaggio, o sempre in grazia di lei ne risorge.





















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