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DE CHRISTEN THEODULE EMILE

Journal de ma captivite suivi du recit d'une campagne dans les Abruzzes

Diario di un soldato borbonico nelle carceri italiane

Queste pagine sono state scritte in prigione, e in galera. Non si tratta qui di politica, e non vengo ad avvocare la mia causa dinanzi alla pubblica opinione per chiederle, se ve ne fosse bisogno, di rivedere il giudizio che mi ha colpito.

Come soldato, condussi alla pugna e qualche volta alla vittoria de' bravi contadini degli Abruzzi; come prigioniero passai lunghe ore nelle segrete. Ciò che mi fu dato di operare, ciò che mi è stato giuocoforza soffrire, non era mio compito di ripetere; ma alcuni de' miei amici hanno domandato queste confidenze, e per corrispondere alle loro preghiere le feci di pubblica ragione.

Vinto oggi, non avrò pe' miei vincitori amare parole; ma un giorno noi ci ritroveremo faccia a faccia; poiché, conservando in fondo all'anima tutte le mie convinzioni, attendo con fede invincibile l'ora della giustizia.

Appena fu esso arrivato, io gli esibii il mio passaporto, e siccome era in piena regola, il console esigette con fermezza che io fossi reso in un sul momento a libertà. Il Questore fu largo di scuse ma non volendo dichiararsi né vinto né convinto, supplicò il console di per¬mettere che io rimanessi due giorni alla Questura, circondato da tutti i riguardi, nel mentre che si verificherebbe la mia identità.

Il 16 Giugno 1861 io entrava nella rada di Napoli a bordo del piro­scafo il Blidah. lo mi recava in questa città, da viaggiatore, per met­tere in esecuzione un progetto concepito l'anno innanzi, allorquan­do, dalle mura di Gaeta, scuopriva da lungi il comignolo delle mon­tagne che circondano il suo golfo.

Posto al sicuro, mi pareva, da ogni inquisizione, in seguito all'accordo pattuito il 12 o 13 marzo 1861, dopo la resa di Gaeta, accordo di cui mi cadrà in acconcio di parlare, io mi credeva perfet­tamente libero. Per maggior guarentigia avea tolto in prestito il pas­saporto d'uno de' miei amici, inglese stabilito in Francia, e viaggiava sotto il nome di William Lumley-Woodyear.

Messo piede a terra, mi feci condurre alla Locanda di Ginevra diretta dal sig. Marco Monnier corrispondente politico del Journal des Debats, e partigiano conosciutissimo del movimento piemontese. Fissandomi in un luogo pubblico e frequentato io non cercava il mistero, e se avea nascosto il mio nome ciò era solo perché conosciu­to a Napoli per le mie corse precedenti negli Abruzzi, potea risve­gliare sospetti, e, in conseguenza, delle noie che voleva evitare.

Passava il mio tempo a visitare i musei della città e le circostanze, Ischia, Sorrento ec. Nell'Agosto lasciai la locanda di Ginevra. Parecchi motivi mi vi determinarono. Io pranzava qualche volta alla tavola rotonda in cui, a causa del colore politico del padrone dell'albergo, convenivano spesso persone ardentissime pel novello ordine di cose. Ordinariamente la conversazione aggiravasi sulla politica, e allora tutto ciò che io amava e rispettava veniva insultato e coperto di sprezzo. Il mio nome stesso era pronunciato; quanto mi era venuto fatto di operare per Sua Maestà il re delle Due Sicilie aveva riscosso un severo biasimo, e, nullaostante, per non tradirmi, era sempre obbligato al silenzio. Questo silenzio m'era insopportabile, mentre per tacermi, come era necessario nella mia posizione, era d'uopo, il confesso, un certo sangue freddo. Bramoso di non prolungare questa situazione, considerando d'altronde nulla essere avvenuto di temibile dopo il mio arrivo in Napoli, volli cangiar società e mi recai ad abitare la locanda di Roma la cui posizione, sulla riva del mare, mi rapiva.

Continuai il mio sistema ordinario di passeggiate e d'osservazioni sino ai primi giorni di Settembre, epoca in cui m'apparecchiava a tor­nare in Francia. Contava anzi di partire il 6 di quel mese sopra un battello a vapore, ma esitava un poco, perché i battelli toccavano Civitavecchia, e siccome qualche mese prima era stato espulso da Quella città, non desiderava rivederla. Ma, nel mentre che, incerto storno a ciò che fare, ritornava alla locanda, un napolitano mio amico, pel quale io non era il sig. Lumley ma il Conte de Christen, mi aspettava sulla porta. Mi prese pel braccio e mi condusse sulla spiaggia dicendomi con voce rimessa avere cose importantissime a comunicarmi. La polizia, mi disse egli, doveva nella prossima notte accedere alla locanda di Roma, per operarvi una minuta perquisizio­ne; e la più semplice prudenza voleva ch'io mi ritirassi di là al più presto, in luogo sicuro, per sfuggire a qualunque ricerca.

Innanzi tutto non potea credere ch'io fossi quegli ch'era cercato; poscia, riflettendo ancora circa i sospetti che potea destare una par­tenza precipitata, non accettai il consiglio dell'amico e restai.

Stava in letto, quando in sulle due della mattina fui risvegliate improvvisamente, sentendo battere alla porta della mia camera. Une strepito confuso di passi o di voci mi fece avvisato esservi là molte persone: aprii. Erano gli agenti di polizia venuti per fare la indicate perquisizione.

Visitarono essi la mia camera e il mio bagaglio senza che cose alcuna colpisse la loro attenzione, ed erano in sul partire, quando tutto a un tratto, uno di essi mi fissò attentamente, quasi fosse colpi to da una improvvisa associazione d'idee tra il mio volto e le sui memorie; quindi volgendosi ai suoi compagni:

«Questi è un cospiratore, disse loro; è il conte de Christen.»

Io riconobbi subito in quell'uomo un antico servitore, chiamati Noli che io aveva visto alla villa Frisa a Posillipo, ove era stato dui volte a visitare uno dei miei amici, il conte di Coataudon.

Uno degli agenti andò subito a cercare il Direttore di polizia, chia mato a Napoli Questore, e questo magistrato accorse senza indugi. La perquisizione ricominciò immediatamente, più minuziosa della prima volta, senza ottenere un differente risultato, ciò che io feci constatare nel processo verbale, redatto a mia richiesta e sottoscritto d tutti i perquisitori.

Venuto a Napoli col nome di sir Lumley, giudicai dover conteste re il nome che mi si dava; e mostrando il mio passaporto inglese dichiarai che volea vedere sul momento il console d'Inghilterra pe fargli i miei reclami. Ciò valse a nulla, e malgrado le mie proteste fi condotto alla Questura.

In sulle quattro della mattina, il Questore entrò nella mia camer. e mi fé' subire un interrogatorio dettagliatissimo a fine di strapparli la confessione che io era il conte de Christen. Io restai fermo nel! mie dichiarazioni, e l'aria di sicurezza con cui parlava avendo scosso un poco il mio interlocutore, questi si decise finalmente ad accondiscendere ai miei desiderii e a far chiamare il console inglese.

Appena fu esso arrivato, io gli esibii il mio passaporto, e siccome era in piena regola, il console esigette con fermezza che io fossi reso in un sul momento a libertà. Il Questore fu largo di scuse ma non volendo dichiararsi né vinto né convinto, supplicò il console di per¬mettere che io rimanessi due giorni alla Questura, circondato da tutti i riguardi, nel mentre che si verificherebbe la mia identità.

L'indomani e il giorno appresso furono consumati in confronti interminabili. Fu fatta difilare una folla di persone nella camera in cui era detenuto, domandando ad ognuno se avesse memoria d'avermi veduto o se mi conoscesse. Tutte le risposte furono negative.

Finalmente, il quarto giorno dapoi il mio ingresso alla Questura mi fu condotto davanti, accompagnato da Noli, Mr C.......ch'io rico­nobbi, e che avea abitato in altri tempi la villa Frisa, dove l'avea incontrato in una delle mie escursioni.

Già da due mesi (18 Luglio) Mr C.......per denuncia di Noli era stato arrestato come colpevole di cospirazione, e il disgraziato, agli occhi del quale s'era fatto balenare l'impunità e la libertà, s'era impe­gnato a rivelare i nomi de' suoi compiici. Io figurava sì poco nella cospirazione detta della villa Frisa che il mio nome non era sulla lista. Non si era adunque pensato a lui per rischiarare il mistero che seguitava a circondarmi; e fu Noli che concepì l'idea di condurmi dinanzi costui. Egli ne parlò al Direttore di Polizia che mandò a cer­carlo senza por tempo in mezzo: Mr C.......fu fedele a' suoi impegni.

Non m'ebbe appena scorto che s'affrettò a dire : «Non lo lasciate, non lo lasciate, sig. Questore, rendereste la libertà al sig. de Christen in persona; lo conosco e vi giuro che è lui.» Non mi restava altro par­tito che rassegnarmi e tacqui.

Trovandosi la mia posizione completamente cambiata e aggravata da questo triste incidente, domandai al Console inglese un secondo abboccamento, nel quale gli detti parte di quello era accaduto, pre­gandolo a perdonarmi l'errore in cui l'aveva indotto rapporto alla mia persona e alla mia nazionalità; lo ringraziai vivamente de' suoi buoni e generosi officii, egli domandai, nel caso che ciò non fosse contrario alle sue istruzioni e ai doveri della sua carica, di continuar­mi la protezione del governo inglese, perché mi fosse fatto un pro­cesso regolare e non fossi fucilato sommariamente, come tanti altri, nel cortile di una caserma.

Mi rispose con molta buona maniera ch'io l'aveva messo diffatti in un grande imbarazzo, atteso il mio passaporto inglese preso in prestito; che subito dopo il mio arresto e la sua visita aveva telegra­fato a Torino per prendere le istruzioni del suo ambasciatore, e che avea ricevuto allora allora l'ordine di farmi uscire di prigione senza ritardo. Aggiunse che i suoi servigii m'erano assicurati nel limite de' suoi poteri, e che non lascierebbe di sorvegliare il modo con cui sarei trattato.

Due ore dopo era condotto e chiuso nella prigione di Santa Maria-Apparente. Santa-Maria-Apparente è fabbricata al di sotto del forte Sant'Elmo, sulla collina che s'innalza nel centro stesso di Napoli. Col suo ampio prospetto nudo di ornamenti, imbiancato dalla calce e traforato da piccole finestre, potrebbe assomigliarsi a un convento, a una caserma, ovvero a ciò che essa è finalmente, a una prigione. Essa ha d'altronde avuto queste tre destinazioni. Le celle de' prigionieri son collocate all'ultimo piano dell'edificio, immediatamente sotto il tetto, ed é agevole immaginare il calore che dee regnarvi allorquando un sole d'estate projetta su Napoli gli ardenti suoi raggi.

Fui introdotto in una di queste celle, circoscritta fra quattro mura bianche rilegate in alto da una volta, al basso da un pavimento in asfalto. Della paglia per coricarvisi, una tavola, una sedia, questo fu il solo mobilio che mi fu permesso d'avere, e anche col pagamento di un franco il giorno da me sborsato, non assegnando il governo che il luogo affatto nudo.

Fu in siffatto luogo ch'io trascorsi lunghi giorni immerso nella noia e nella tristezza, col cuore e lo spirito agitati, e non di rado oppresso da sinistre idee.

Ecco come dividevasi per l'ordinario il mio tempo. Mi levava irre­golarmente secondo mi sentiva più o meno stanco. Mi cibava entro la mìa cella, la mattina in sulle dieci, la sera a cinque ore; a mezza notte soltanto andava a riposare. Nel giorno leggeva e scriveva, oppure passeggiava nel cortile della mia prigione, poiché, come tutti i prigionieri, poteva a mio talento uscire dalla mia cella e rientrarvi. Questo cortile quadrangolare, tagliato nella montagna, era circonda­to da mura sormontate da merli, dietro i quali girava una elevata galleria in cui si vedevano passare e ripassare le sentinelle.

Nulla di più singolare dell'aspetto interno del cortile nelle ore di riunione di tutti gli ospiti di Santa-Maria-Apparente, perché questa prigione era allora una prigione preventiva, riservata esclusivamente agli incolpati politici. Le persone riunite a Santa-Maria-Apparente erano tutti partigiani di Garibaldi o de' Borboni, tutti nemici del nuovo regime e accusati d'aver cospirato alla sua fine. Vi s'incontra­vano membri dell'aristocrazia napolitana, magistrati, avvocati, medici, giornalisti, e così pure operai e contadini più o meno preve­nuti di cospirazione.

Io passeggiava in questa corte circa due ore per giorno, e siccome in un comune infortunio v'ha non so qual legame che riunisce, for­mai in breve alcune relazioni, poco numerose ma fide, coi miei com­pagni di prigionia. Dì questi ultimi, quegli che accostai più volentie­ri fu il duca di Caianello, come me implicato, e sopra apparenze altrettanto leggiere, in qualche vasta cospirazione in favore de' Borboni.

La sola cosa che mi allontanava un poco dal cortile della prigione, era il miscuglio fatto di prigionieri falsi ai veri. Non erano quelli se non altrettanti spioni della polizia piemontese che m'inspiravano disgusto. Io li vedeva affaticarsi a stringere amicizia con ciascuno, frammettersi in tutte le conversazioni, circolare a traverso tutti i gruppi, spiando e registrando i minimi motti, i quali si trovavano poi diligentemente trascritti all'udienza nello stracciafoglio de' giudici.

E però, il tempo migliore della mia giornata era quello ch'io tra­scorreva lungi dalla folla, fra le quattro mura della mia cella, solo coi miei pensieri, i miei libri, le mie carte. Sopratutto al sopravvenir della sera, io m'inclinava con gioia sulla mia tavola e, la penna alla mano, lasciava la mia anima espandersi, a suo piacere in dolci medi­tazioni - a venticinque anni si può meditare - e in ardenti invettive, secondo che il mio cuore era in preda alla tristezza o sentivasi invaso da turbini d'odio e di disprezzo.

Con quale energia prorompevano allora le mie parole, le quali mi parevano imprimessero sulla fronte de' miei avversari un marchio di vergogna! Ripeteva io allora a me stesso ciò che soffriva, ciò di cui provava rammarico, ciò che amava, e al tempo stesso ciò che m'indignava e che odiava; dopo avere così scritto, mi sentiva meno infelice e più tranquillo.

La mia cella, che portava il Num. 3 del corridoio meridionale, avea una finestra che dava sul mare. Quello spettacolo, una volta per me sì piacevole, era addivenuto il mio tormento, poiché non v'ha supplicio più sensibile di quello che vedere dalle sbarre d'una pri­gione la mobilità di quelle onde, immagine la più viva di libertà che ci sia al mondo. Quello era, malgrado ciò, l'oggetto abituale delle mie contemplazioni, e in quello spettacolo, in cui si pare con tanta luce la presenza di Dio, io attingeva qualche sollievo alle mie pene; e quando mi rifaceva di nuovo nella mia cella, le sue mura non mi pareano più sì meste, e meno tetro ancora mi parea si facesse l'inter­no dell'anima mia. In tal modo, passai, isolato, senza speranze, i primi sedici mesi della mia prigionia a Santa-Maria-Apparente.

Mi faccio ora a narrare alcuni incidenti che ne ruppero il monoto­no corso.


Gennaio 1862

Nei primi mesi del mio imprigionamento ricevetti una visita sin­golare. Si avea l'abitudine, tutte le volte che qualcuno domandava di vedermi, d'interrogarmi minutamente intorno le relazioni di paren­tela, d'amicizia o d'affari ch'io poteva avere con quello, e sui presun­ti motivi della sua venuta a Santa-Maria. Pur tuttavia un giorno, la porta della mia cella s'aprì per dar passaggio ad un signore propria­mente abbigliato, di bella figura, di prevenenti maniere, ma che io non conosceva. Mi nacque subito qualche sospetto; vista la facilità con la quale eragli riuscito di giungere sino a me senza i preliminari di cui ho fatto parola. Mi salutò, lo salutai e lo lasciai parlare.

Dicea egli di venire a informarsi sul mio conto, da parte di molti de' miei amici di Napoli e di Roma, e ad offrirmi i suoi buoni officii; quindi, per concludere, aggiunse aver la missione d'incaricarsi di lettere, biglietti, pacchi e altre cose compromettenti ch'io potessi avere. La mia diffidenza s'accrebbe; una specie di turbamento e d'indecisione, frammischiata qualche volta alla sua aria disinvolta, terminò di con­vincermi: non era più dubbio ch'io avessi alla mia presenza un dela­tore, e per alcuni istanti mi piacque trastullarmi alle sue spalle.

Allora, adoperando nelle mie risposte le stesse forme che egli, gli manifestai che la sua graziosa visita, la sua affabilità e le sue genero­se proposizioni m'arrivavano al cuore, ch'io ne lo ringraziava dal fondo dell'anima, ma che era desolato di non poter far uso di una mediazione sì cortesemente offerta, a motivo che appunto il giorno innanzi avea fatto pervenire ai miei amici per sicurissimo mezzo alcune carte di altissima importanza, e dichiarandogli che d'allora in poi non volea più avere relazioni di sorta al di fuori.

Questo signore, evidentemente contrariato, insistette; lo vidi allora mettere il pollice e l'indice della sinistra mano alla bocca per accennare così a un segno d'intelligenza adoperato fra qualche borbonico, ma da lungo tempo abbandonato. Era un abusar troppo della mia sofferenza e glielo feci chiaramente intendere; egli balbettò qualche parola, si accostò alla porta, e senza dubbio andò a raccontare a coloro che l'aveano spedito il successo della sua missione.

Io non era meno sol­lecito d'istruirneli, e, senza un minuto di ritardo, scrissi al Questore e al Direttore della prigione per dolermi che si dasse in tal modo libero accesso ad infami delatori, mentre si chiudevano poi tutti i passaggi e si suscitavano mille difficoltà a gente onorata o a miei veri amici. Queste scene non si rinnuovarono più.

Debbo qui collocare il racconto del mio primo tentativo d'evasio-ne, perché, lo confesso, il mio carattere non è paziente: abituato all'azione, nel vigore della giovinezza, non sapeva rassegnarmi alla mia sorte, e volea cambiarla.

Per farsi un'idea di questo tentativo e figurarsene bene i dettagli, sono necessarie alcune indicazioni topografiche.

La prigione di Santa-Maria, come dissi, era costruita in forma di rettangolo sul versante della collina coronata dal forte Sant-Elmo. La facciata principale e le due ali racchiudevano le celle de' prigionieri e le camere de' custodi. Queste due ali erano riunite al forte da un robu­sto muro, parallelo alla facciata grande.

La cappella dello stabilimento potea dirsi incassata in questo muro, e a fianco della porta sulla sini­stra stava un camerone in cui si trovavano ventidue prigionieri. Una sagristia sempre chiusa, perché non serviva più, era collocata al fondo dalla cappella. Vicino alla porta di questa sagristia innalzavasi, sopra un enorme piedistallo vuoto, una statua in gesso della Santa Vergine.

Fra i nostri compagni di prigionia trovavansi quattro preti napoli­tani rinchiusi sotto prevenzione di simpatie borboniche. Avendo loro concesso il Direttore della prigione la facoltà di celebrare tutti i gior­ni la Santa Messa, essi la diceano successivamente tra le otto e il mezzodì: i prigionieri vi assistevano se loro piaceva. Anche la sera un gran numero di prigionieri si riuniva nella cappella per recitarvi o cantarvi insieme qualche preghiera.

Fin dal mio ingresso a Santa-Maria, una delle mie prime cure era stata quella d'imprimermi bene in mente il piano della prigione, e posso dire che il mio pensiero, cercando mezzi d'evasione, si fermò subito sulla cappella di Santa-Maria, e nella cappella su quella oscu­ra cameretta che figurava una sagristia. In fatto questo lato della cap­pella era il solo libero, riusciva fuor della città e trovavasi quasi a livello del terreno. Presi immediatamente il mio partito e posi mano alla esecuzione della mia intrapresa.

Sapeva di poter disporre di alcuni uomini robusti, intelligenti, e soprattutto fedeli; vecchi soldati dell'esercito napolitano, mi aveva­no conosciuto al fuoco e mi erano tutti affezionati. Adoperandomi a tempo opportuno, indirizzandomi ora all'uno ora all'altro, secondo le occorrenze, feci palese ad essi il mio disegno e in breve ne furon fatti conscii tutti. Come è facile immaginarlo, trattavasi di forare il muro della sagristia, al di là del quale noi sboccavamo nella campa­gna.

Questo muro non avea certamente la spessezza della grande muraglia di cinta, e in questo solo luogo poteasi, senza tema di esse­re scoperti, eseguire una operazione così lunga o romorosa. Ecco come fu regolata la cosa. Tutte le mattine un uomo di mia scelta s'introduceva nella cappella al momento in cui si apriva, cioè a dire un'ora innanzi che cominciasse la prima messa.

La cappella allora era vuota. Per mezzo di una chiave falsa che ci eravamo procurata, quest'uomo introducevasi nella sagrestia e vi lavorava sopratutto nell'intervallo delle messe, quando la cappella restava vuota, e vi rimaneva infino al mezzogiorno; cercava poi abilmente un momento, nella mezza ora che trascorreva fra la fine dell'ultima messa e la chiusura delle porte, per interrompere l'opera e togliersi di là. Un altro, scelto sempre da me, profittava dello stesso momento per entrare e ripigliare l'opera interrotta.

Questi non ne usciva che alle sei, dopo la preghiera della sera. Alcuni rari incidenti costringevano di tempo in tempo a cambiare quest'ordine regolare, ed anche a sospendere per molti giorni ogni lavoro; ma la monotonia della vita di prigione la vinceva ben presto e ci faceva rimettere all'opera.

Una parte delle macerie provenienti dal lavoro di perforamento, depositavasi nel piedistallo vuoto della statua della Santa Vergine di cui ho parlato più sopra. Questo piedistallo racchiudeva ancora quattordici pugnali, i quali, al decisivo momento, poteano esserci utili, finalmente la barra di ferro che serviva a forare il muro. E curiosissimo il modo con cui ce la procurammo.

Un contadino, prigioniere a Santa-Maria, la cui famiglia dimorava nelle vicinanze della Capitale, aveva ottenuto di scambiare il pane regolamentare della prigione con dell'eccellente pane di segala che gli portavano i suoi parenti. Questo pane, di forma molto allungata, possedeva una larghezza conveniente e pareva fatto apposta per servir d'astuccio al nostro istromento, perché il destinatario riceveva questo pane di mano in mano senza alcuna ispezione preliminare. Facemmo adun­que cuocere la barra nel suo fodero singolare da un fornaio del cir­condario, ed essa ci giunse senza accidenti.

Una volta in possesso dello strumento, si mise mano all'opera. Questa fu lenta e faticosa; tuttavia ogni giorno si progrediva; ma si fu tutto ad un tratto obbligati a sospenderla: la barra di ferro era troppo corta! Scoraggiati per un momento ripigliammo ben presto il nostro progetto in seguito a una luminosa idea venuta a uno di noi. Eccola: nell'interno di Santa Maria non esisteva una sola fonte d'acqua potabile; non v'era che una cisterna, vuota ordinariamente nella state, e nell'inverno riempiuta a metà d'una cattiva acqua buona sola per lavare.

Era pertanto necessario fare nella stessa Napoli le provvigioni d'acqua. Tutti i giorni una lunga fila di muli la trasportavano fino a noi chiusa in barili di legno leggermente depressi nel mezzo. Questi barili erano quindi consegnati ai prigio­nieri e divisi per camerate o per corridoi.

Lo stesso aquaiuolo che li avea recati li ripigliava l'indomani scambiandoli con barili pieni. Uno di questi uomini fu subbornato, ed acconsentì a trasportare in un vaso ciò di cui avevamo bisogno, Fuvvi introdotta una barra di ferro più lunga e più forte dell'antica, fissandone le due estremità ai due coperchi che chiudeano ermetica­mente. Lo strumento era immobile.

Accomodato così e pieno d'acqua, il barile fece il suo ingresso nelle mura di Santa-Maria. Siccome era stato preventivamente contrassegnato e che tutti i barili si distribuivano a scelta de' prigionieri, i miei uomini s'erano appo­stati a tempo sul suo passaggio: lo riconobbero e lo portarono seco loro, Fu sfondato, vuotato, raggiustato e l'indomani rinviato senza che nulla ne trasparisse. I lavori furono ripresi, e dopo sei mesi di angoscie e d'inquietudini la breccia era aperta.

L'ora della fuga era stata fissata verso la sera, nel momento dell'officio religioso. Non eravi allora nella cappella che un solo custode. Dato il segnale, noi dovevamo impadronirci di lui, chiuder­gli la bocca, assicurarlo bene con funi; poscia far ricadere all'ingresso della cappella la pesante inferriata, e uscire infine dal foro, mentre il capo fila portando seco i pugnali li avrebbe distribuiti ai più corag­giosi.

Ci figuravamo che la oscurità d'una notte d'inverno avrebbe favorito tutte le nostre evoluzioni, e, per coronare questo assieme di misure, la banda reazionaria del Vesuvio con la quale avevamo potuto annodare intelligenze, s'era avvicinata a Napoli e, pronta a scor­tarci, ci aspettava ai Camaldoli, presso il lago d'Agnano, con una riserva di fucili e di munizioni.

Quella giornata trascorreva ben lenta a seconda delle nostre brame, e ogni ora ci pareva più lunga che all'ordinario. Il cuore ci batteva per timore o per isperanza. Entrammo finalmente nella cap­pella al momento delle preghiere, e già ci pareva godere della vicina felicità, allorquando un centinaio di bersaglieri, col fucile alla mano, invase la cappella. Eravamo stati traditi. Fummo arrestati e ricondot­ti in prigione.

Un ungherese, disertore prima dell'esercito austriaco, poi antico maggiore di Garibaldi, avea tutto scoperto. Egli non apparteneva al complotto, e ho sempre ignorato come fosse riuscito a informarsene; per buona ventura, conoscendone la esistenza, ne ignorava gli orga­nizzatori. Fu fatta immediatamente una lunga e minuziosa ricerca, ma tutti si tacquero: non ne traspirò cosa alcuna. I prigionieri resta­rono sotto chiave per molti giorni e la cappella da quel giorno non s'aprì se non la domenica e gli altri giorni di festa.

Debbo aggiungere al racconto che precede, quello di un nuovo tentativo di evasione. Esso non ebbe luogo che dopo la mia sentenza, alla metà del mese d'ottobre dello stesso anno 1862; ma si collega troppo col primo perché possa esserne separato.

L'opera di riparazione e di chiusura della breccia che avevamo aperta era stata confidata a muratori venuti da fuori. Un giorno, mentre passeggiava nel cortile, accompagnato dal duca di Caianello, osservai che uno di questi uomini nell'atto di accudire a un suo lavo­ro, mi facea di tempo in tempo dei segni. M'avvidi che volea parlar­mi sicché, camminando sempre, m'accostai insensibilmente a lui sino ad essere alla portata di sentirlo e di rispondergli.

Non potendo arrestarmi per non risvegliare i sospetti dei guardiani, continuai a passeggiare, ed ogni volta che io gli passava d'appresso esso mi get­tava a volo qualche parola. Le prime che ascoltai furono: «Baucol Bauco\» e mi spiegò che avea difeso sotto i miei ordini la piccola piaz­za di questo nome. Mi disse ancora: sono un vecchio borbonico pronto a raggiungervi ovunque andrete, e a rendervi servigio.

In questi brani di conversazione appresi ch'era stato incaricato di chiudere il foro della sagristia, e che si proponeva, per facilitare un'altra evasione, di lasciar nel muro all'altezza d'un uomo, un intervallo vuoto, celato appena da un mattone in taglio, intonacato di calce e facile ad essere abbattuto.

Accolsi la notizia, e vi pensava sopra ogni giorno. Sei mesi dopo tentai infatti una nuova evasione.

M'era più d'una volta abboccato nel cortile della prigione con un antico sotto-ufficiale dell'esercito napolitano, la cui riconosciuta fedeltà, la molta naturale intelligenza e una certa riserva di carattere m'aveano fatto distinguere fra gli altri. Costui era dotato di grande abilità come meccanico, abilità che un prigioniero, più di ogni altro, sa mettere a profitto.

Siccome il ferro è l'argomento il più indispensabile, ei fece propo­nimento di trovarne e concepì la seguente idea. Una porta di legno, smagliata d'enormi punte di chiodi in ferro separava nell'interno il pian terreno dal primo piano della prigione, e, aperta tutto il giorno, non serravasi che in sulle nove della sera.

Oltre i chiavistelli e le catene che servivano a chiuderla, si vedea sospesa al muro una barra di ferro destinata a meglio assicurare la porta. Ma trovando inutile questo lusso di precauzioni, i secondini contentavansi ai chiavistelli e alle catene, lasciando pendere inattiva dal muro la barra in questione. Ed era questa barra che il mio uomo considerava da parecchi giorni. Ma come strapparla di là, e nascon­derne la mancanza? Ecco il modo meraviglioso con cui vi si adoperò.

Con del cartone fabbricò una barra intieramente simile di forma, di dimensione, di colore. Per dargli tutta l'apparenza del ferro, ne riempì l'interno di sabbia, rivestendone la superficie di ruggine tolta alla barra metallica. Preparata in tal modo con infinite cure la nuova barra, bisognava staccar l'altra limando l'anello che la riteneva. Non fu diffi­cile procurarsi una lima: fu comperata da un soldato napolitano che montava la fazione a Santa-Maria, e poscia fu messo mano all'opera.

I passaggi vicini alla porta erano perfettamente liberi: i prigionieri li attraversavano o vi si trattenevano a loro piacere; non vi compari­vano i custodi se non a rari intervalli. Si lavorava pertanto quando essi erano lontani e, durante l'operazione, i prigionieri che conosce­vano il segreto stavano in sull'avviso.

Se il custode o qualche prigio­niero sospetto s'accostava, gli uomini che stavano in vedetta faceva­no un segno o alzavano la voce servendosi, ora del nome di qualcu­no di essi: Giovanni, Pietro, Angelo ecc; ora di qualche frase indiffe­rente, come sarebbe: Che fate? - Che c'è di nuovo? e altre simili. Allora cessava il lavoro, lo strumento scompariva, e per allontanare ogni sospetto, si assumeva un contegno, o si cominciava un ragionamento indifferente.

La barra di ferro finalmente fu staccata, posta a suo luogo quella di cartone, la quale vi restò tre settimane senza essere riconosciuta da nessun custode.

Le tre settimane furono impiegate nel modo seguente. Appena staccata la barra di ferro fu trasportata in una camerata di quattro prigionieri, tutti a parte del complotto, i quali s'occuparono a sgros­sarne e ad affilarne uno dei capi. Essi non poteano accudire a questo lavoro che in certe ore del giorno, quando la prigione era piena di strepito; e mentre la lima passava sul ferro, cantavano ad alta voce per nascondere ogni indizio rivelatore. Per maggiore precauzione, la lima era di tempo in tempo inzuppata nell'oglio, affinchè scivolasse più chetamente sulla barra.

Non sarà stato posto senza dubbio in dimenticanza il camerone appoggiato al muro stesso della cappella, il quale serviva di reclusio­ne a ventidue prigionieri. Fu a costoro che venne affidato il nuovo strumento di nostra salute.

Nelle loro robuste mani la barra di ferro cominciò a sconnettere il muro della cappella. Ogni colpo facea salta­re grandi pietre. In pochi istanti si penetrò nella cappella. Restava ad abbattere la porta della sagristia, quindi a far cadere il muro in taglio che nascondeva la nostra antica breccia.

Tutti i congiurati, fra cui io mi trovava, erano in quel momento riuniti nella cappella, la porta della sagrestia avea ceduto sanza alcu­no sforzo, e già quattro uomini armati della barra s'apprestavano a rovesciare l'ultimo e il più debole ostacolo, quando a traverso l'aper­tura del camerone scorgemmo alcuni bersaglieri che avevano diretto verso di noi le canne delle loro carabine, e in un attimo la cappella fu piena di soldati.

Fummo obbligati immediatamente ad uscire e, colla testa bassa, riprendemmo la via delle nostre prigioni. Vi fummo consegnati per quarantotto ore.

Questi due giorni furono impiegati ad aprire un processo circa quest'ultimo tentativo, che non ebbe, siccome il primo, alcun successo. Si sarebbe desiderato di procedere con rigore, ma come scoprire i col­pevoli?

Eravamo stati sorpresi nella cappella in numero di cinquanta; quali erano fra questa folla gli iniziatori del tentato colpo? I nostri custodi non vennero a capo di nulla, poiché tutti ricusarono di parlare.

Dirò la causa che avea sventati i nostri progetti. Qualche giorno prima un custode avea commesso una grave infrazione ai regola­menti delle prigioni, ed era stato chiuso coi detenuti. Era un vecchio pratico che conosceva l'arte sua.

Con il tatto delle genti del suo mestiere, s'avvide subito che si tramava qualche cosa, e raddoppiò di vigilanza e d'astuzia per carpire il nostro segreto. L'ebbe, e sua prima cura fu di darne parte al maggiore garibaldino che sapeva a noi ostile, per dividere con esso lui il profitto della denuncia.

Furono essi i quali, d'accordo, ne avvisarono il Direttore della prigione. I detenuti ne ebbero cognizione, e quest'atto rischiò di costar la vita ai denunziatori, già in sì cattiva vista.

Il primo giorno in cui, dopo la consegna delle quarantotto ore, fu permesso di uscire, il custode trovavasi nel cortile; con un medesimo impulso, e quasi spinti da una stessa molla, i detenuti s'armarono di sassi, di sedie, di tutto ciò che lor cadde sotto le mani, gridando: a morte! a morte! e si precipitarono sul custode. Costui tremando, riu­scì a fuggire dalla corte e a penetrare nell'interno della prigione.

Traversò il corridoio meridionale sul quale aprivasi la mia cella, ma era seguito dalla folla dei prigionieri che l'opprimevano di maledi­zioni, e alle parole aggiugnevano i gesti più espressivi.

Lo sgraziato corse verso il cancello di uscita ma era chiuso, perocché il suo custo­de, veggendo da lungi venire tutta questa gente furiosa, avea dubita­to d'una sommossa ed era fuggito portandone seco le chiavi. Allora il custode, bianco per lo spavento, s'arrampicò alle barre della infer­riata e cercò di salire in alto per sottrarsi alla vendetta. Ma già la folla era ai suoi piedi: esso fu afferrato per una gamba, e tirato violente-mente, mezzo svenuto, lasciò i ferri e cadde.

Questa scena occupò minor tempo di quello che io non ho impiegato a raccontarla, e non fu se non nel momento in cui il custode soffocava steso a terra, livido di colpi, che, attirato dal tumulto fuori della mia cella, arrivai vicino al cancello. Mi spinsi immediatamente fra la vittima e la folla, e colla mia autorità, che era grande fra quei detenuti, riuscii a salvar la vita di quell'infelice.

In quello stesso momento una trentina di bersaglieri invadeano il corridoio incrociando le baionette per dissipare il tumulto; riaccen­dendosi la loro rabbia, i prigionieri ebbero per un istante l'idea di gettarsi sui soldati, ma siccome il sotto ufficiale che li comandava era ancor esso napolitano, poche buone parole bastarono per aque-tare quella effervescenza e impedire ogni collisione.

Finalmente, tutto rientrò nell'ordine; e il custode ne uscì con tre mesi di malat­tia. Quanto al maggiore garibaldino, il Direttore della prigione fu obbligato per parecchi mesi tenerlo in segreta per sottrarlo ai catti­vi trattamenti apparecchiatigli dai detenuti, due volte da lui denunziati.

Marzo 1862

Nei primi giorni di questo mese, ricevetti la visita dell'ambascia­tore di Francia a Torino, sig. Benedetti, allora di passaggio a Napoli, ove accompagnava, credo io, il nuovo re d'Italia. Il signor Benedetti m'indirizzò la parola, s'informò del modo con cui era trattato, delle doglianze ch'io potessi avere in animo di fargli.

Le mie risposte furono, nella sostanza, le seguenti: «Sono sei mesi, o signore, ch'io languo sotto i ferri dal governo italiano, e oggi, come al primo giorno, domando a me stesso quali ragioni possano giustifi­care la mia cattura. Io non domando che un favore, quello di essere condotto dinanzi a un tribunale qualch'esso si sia. Sono oggimai sei mesi ch'io domando, non di essere graziato, ma di essere giudicato; non di dovere la mia libertà alla reale clemenza, ma veder cadere i miei ferri in seguito a un giudizio pubblico d'un tribunale legale. Questo è il mio diritto e lo reclamo.

«D'altronde, signor Ministro, non sono io la sola vittima di questo arbitrio. Ho alla mano una lunga lista di prigionieri politici i quali, come me, aspettano giustizia e l'aspettano invano; essi son detenuti e non possono essere giudicati; oppure, dopo essere arrestati, sono stati messi al largo senza ombra di processo (1).

«Quanto al modo con cui sono stati trattati, ecco de' nomi e de' fatti. Il signor Blasio, capitano nell'amico esercito napolitano, è stato, nel momento del suo arresto, oppresso da' colpi; un inglese, il signor Bishop, arrestato a Gaeta è stato ugualmente battuto e s'è veduto sputare sul volto da alcune guardie nazionali. Il signor Vincenzo Carullo, imprigionato da quindici mesi, è divenuto quasi idiota a motivo delle percosse ricevute dai carcerieri.

Il signor Achille Caracciolo, antico officiale, appartenente a una delle più illustri famiglie di Napoli, arrestato nelle Calabrie, subì ogni sorta d'insulti, e fu tenuto per sei mesi in segreta, disteso sulla paglia rosa dai ver­mini, e ricevendo il suo stesso pezzo di pane nero ogni giorno con accompagno d'insulti e di minaccie. Nella camera Num. 7 di questa prigione di Santa-Maria languono quattro individui coperti ancora delle traccie de' patimenti sofferti.

Il 27 Giugno al posto di polizia di S. Giuseppe questi sventurati si videro spogliati de' loro abiti, e bat­tuti a grandi colpi di nerbi di bue, mentre si tenevano sospesi loro sul capo de' pugnali per istrappargli dalle labbra la confessione di un preteso delitto politico.

Questi quattro individui si chiamano: Giuseppe Sebastiani, Giuseppe Crimino, Luigi Crimino, Domenico Fucile. Un popolano, M....(ne taccio il nome per un senso di riserva che facilmente si comprenderà), imprigionato preventivamente per delitto politico, aveva una moglie molto avvenente. Il giudice, incari­cato della istruzione del processo, colla idea di attentare alla virtù di questa donna, gli fece sperare a fin di subbornarla la prossima libera­zione di suo marito. Ma costei avendo resistito alle sue infami propo­sizioni, il giudice, sperando di conseguire col tempo i suoi fini, sospese la procedura, e la prigionia del marito s'allungò indefinita­mente.

1) Fra i nomi che citai erano quelli del duca di Popoli, del principe di Ottajano; del duca di Caianello, del conte Ricciardi dei Camaldoli, del principe di Presiccio, del marchese Salvi, del marchese Lancellotti, del barone Cosenza, del commendatore Mirabella, del consiglie­re Colombo; etc. etc; dei vescovi d'Avellino, Foggia, Bovino, Aversa, Amalfi, Isernia, Aquila, Sorrento, Castellammare, Brindisi, Rossano, Matera, Sessa, Noia, Caiazzo, Caserta, Salerno etc. etc. molti generali e colonnelli. - Intorno a questo soggetto può anche consul­tarsi una nota pubblicata nel Morning-Herald del 4 febbraio 1863, riprodotta nella Gazette de France del 17 febbraio.

«Ecco alcuni fatti, signor Ministro; potrei citarne degli altri, di cui sarebbe agevole verificare l'autenticità» .

Il signor Benedetti, prima di lasciarmi, assicurommi che il mio processo sarebbe sollecitamente fatto, ma mi avvertì al tempo istesso di non nudrire alcuna speranza sulla sua riuscita, poiché questa sarebbe stata inevitabilmente una condanna, e severa condanna; ch'esso avea de' motivi per non dubitarne, ma che una volta condan­nato, potrei contare sulla protezione del governo francese e sui suoi sforzi personali per attenuare e anche distruggerne gli effetti.

Luglio 1862

Ero stato arrestato il 7 settembre 1861, e il mio processo si apriva il 18 luglio 1862, avanti la Corte di Assise di Napoli, presieduta dal sig. Consigliere d'Andrea. La detenzione preventiva avea durato oltre i dieci mesi.

La ragione di tanta lungaggine era evidente. Mancava il corpo del delitto su cui appoggiare il giudizio e basare la condanna, mentre occorreva presentare un processo che avesse almeno l'apparenza del verosimile. Inoltre, all'epoca del mio arresto molti degli antichi magistrati napolitani erano tuttavia al loro posto ed esercitavano il loro ufficio, e senza dubbio si ebbe paura che mi usassero qualche riguardo. Perciò la mia causa fu procrastinata fino a dopo il generale traslocamento della magistratura dei paesi conquistati avvenuto verso il giugno del 1862.

Sarò sobrio nei particolari dell'andamento di questo processo e mi contenterò di riprodurre una lettera che il 18 giugno 1863 scrissi al sig. Drouin de Lhuys ministro degli affari esteri.

«Sei settimane dopo il mio arresto, il presidente Longo venne a Santa-Maria ad interrogarmi, sotto il pretesto che io aveva congiu­rato contro il nuovo regime italiano. Il Magistrato però ebbe pre­mura di aggiungere che non pesava sopra di me alcuna grave accusa, e che il mio solo accusatore era la stessa spia chiamata Noli che avevami fatto arrestare all'Hotel de Rome. Il mio primo interro­gatorio che sta nell'incarto del processo fa fede di quanto rendo intesa la Eccellenza Vostra.

Credo poi utile far conoscere a V. E. che lo stesso agente di polizia avendo avanzato contro centinaia di persone accuse molto più gravi di quelle imputate a me, le une, dopo qualche mese di detenzione preventiva, vennero poste in libertà senza compierne il processo, le altre non furono nemmeno sottoposte a procedura di sorta. Ma rispetto a me le deposizioni di costui aumentavano di valore ed erano prese in seria considerazio­ne, sebbene lo stesso Noli confessi di non avermi visto che due volte.

«Quattro settimane dopo il Presidente Longo ritornò a Santa-Maria accompagnato dal signor Pinelli vice-procuratore regio e da tre altre persone. Fui chiamato nel Gabinetto del Direttore ove trovai otto detenuti. Il vice-procuratore mi invitò a prender posto accanto ad essi. Quindi venne introdotto certo Pasquale Scuotto cocchiere di piazza, e che inoltre qualificavasi per spia, assicurando nei costituti di essere stato posto a servizio della polizia sotto gli ordini del signor Ferrara Maggiore della Guardia Nazionale.

Affermò che in sul prin­cipio del Luglio 1861, uno straniero di 26 o 27 anni alloggiato all'Albergo di Roma avevagli dato diciassette piastre onde arruolare reazionarii per la comitiva del Vesuvio. Richiesto dal Presidente se un tale individuo trovavasi lì presente ed in tal caso d'indicarlo, Scuotto guardò attorno per un poco e dopo una certa esitazione mi fissò gli occhi addosso e mi accennò.

«Il secondo cocchiere fu chiamato subito dopo; e tutta la di lui deposizione consistè nell'affermare che Scuotto aveagli detto di aver ricevuto da un forastiere di circa quarant'anni una dozzina di piastre per arruolare briganti o dirigerli alla banda di Somma.

Interrogato dal Presidente se il di lui amico avessegli mai fatto vedere il detto forestiero, ed in tal caso, qualora si trovasse nella sala, chiestogli d'indicarlo, Tavernese chinò la testa in atto affermativo e dopo aver girato gli occhi un pezzo sulle faccie dei prevenuti, fece un passo avanti e toccò il signor Corbyon, officiale dell'armata italiana dete­nuto come me a Santa Maria. Il Presidente vedendo questo errore dissegli subito - No, no! tocca il vicino - il vicino era io, e Tavernese mi accennò infallibilmente.

«Il terzo testimone dichiarò di non saper nulla altro se non che Pasquale Scuotto avevagli detto che all'Hotel de Rome era alloggiato un generale svizzero borbonico; per giunta costui dovea più tardi rifiutarsi a riprodurre all'udienza pubblica la sua deposizione.

«Feci allora molte osservazioni al Presidente sulla differenza di tali deposizioni ed il pregai a farne menzione nel verbale. Ma esso unitamente al Vicepresidente Pinelli vi si rifiutarono, dimodoché fui costretto a protestare contro sì strano procedere. Fondai i miei richia­mi:

1. sulla impossibilità di spiegare l'abbaglio preso dal testimone Tavernese, attesa la molta differenza di età, di fisonomia, di figura fra me e il mio vicino, il signor Corbyon avendo i capelli di un rosso pronunciatissimo era ben facile ad esser riconosciuto;

2. sul rifiuto di prender nota delle osservazioni colle quali stabilì che nel mese di Luglio io era alloggiato, non già all'Hotel de Rome, ma all'Hotel de Géneve;

3. sul non avermi permesso di domandare a Scuotto, che pretendeva esser venuto molte volte durante il mese di luglio nella mia camera dell'Hotel de Rome, come questa camera fosse disposta, come fosse mobiliata, quale fosse il numero, e finalmente con qual nome mi avesse designato ai domestici dell'albergo;

4. sulla diffe­renza evidente delle due deposizioni del Scuotto e del Tavernese, tanto sulla mia età quanto sulla somma di denaro che dicevano aver io data ad uno di essi.

«Occorremi adesso raccogliere alcune rimembranze dell'udien­za pubblica. Chiesi all'agente di polizia Noli che dicesse al tribuna­le se avesse ricevuto da me, o avesse udito che avessi dati ad altri, ordini concernenti la cospirazione nella quale accusavami di aver parte, ma esso rispose negativamente.

Poi gli domandai su che cosa si basasse per designarmi come uno dei membri del Comitato, ed esso rispose che a Frisa mi aveva di dietro a una porta udito parlare di politica con due miei amici francesi. - È egli possibile, soggiunsi, che Noli abbia potuto capire il nostro conversare quan­do per forza dovevo parlare in francese, mentre i miei due amici non capivano una sillaba d'italiano? Ma Noli chinò la testa e non rispose.

«Scuotto fu nuovamente interrogato dal Presidente: rispose esser­si ingannato nella prima deposizione, e che le 17 piastre le aveva ricevute non ai primi ma agl'ultimi di luglio. Osservai che nemmeno a quell'epoca dimoravo in quell'albergo, ma ero sempre all'Hotel de Géneve invocando la testimonianza del signor Marco Monnier padro­ne dell'albergo.

Scuotto si corresse un'altra volta e assicurò aver rice­vuto il denaro ai primi d'Agosto. Provai al Tribunale che nei primi di agosto io non era più nel Regno d'Italia, avendo intrapreso un viag­gio, e il Presidente permise a Scuotto di rettificare per la quarta volta la sua deposizione e dichiarò avere effettivamente sbagliato, poiché ripensandoci meglio, rammentava di aver ricevuto le 17 piastre verso la fine di agosto, la vigilia del mio arresto.

«Notai, che il testimone non era nella sua quarta deposizione più felice che nelle tre precedenti. Di fatto ero stato arrestato la notte del 7 settembre e non già alla fine di Agosto. Inoltre ammessa pure la testimonianza di un uomo, che da se stesso si era smentito per quattro volte, non poteva esservi alcun legame fra questo fatto ed il complotto della casina di Frisa, cui volevasi che io fossi asso­ciato, dappoiché le persone del comitato che venivano accusate di averlo organizzato erano state arrestate il 18 luglio. Contuttociò il signor Procurator Generale Clausi accettò le deposizioni del coc­chiere Scuotto.

«Il tribunale fece anche peggio.

«Il principal documento che stava a mio carico era un biglietto scrittomi il 26 Decembre 1860 dal cav. Caracciolo officiale napolitano, che in allora militava sotto di me, mentre a Forappio, negli Stati Pontificii, era guardato a vista da un distaccamento francese del 40mo di Linea. Questo biglietto trova vasi nella mia valigia che avevo lasciata nel convento di Casamari, e che mi fu presa quando nel Gennaio 1861 le truppe piemontesi saccheggiarono quel Convento. Era una lettera tutta militare e non potevasi collegare colla cospira­zione detta di Frisa, poiché Caracciolo sapendo esser io prigioniero dei Francesi auguravamene sollecita la liberazione.

Se, come preten­deva la polizia, tal lettera fosse stata rinvenuta il Luglio 1861 nella perquisizione fatta alla Casina di Frisa l'indomani dell'arresto del sedicente Comitato, il Caracciolo non avrebbe potuto augurarmi la libertà, mentre il mio arresto avvenne in Settembre, cioè due mesi dopo!

Infatti nella traduzione italiana di questo biglietto che era scritto in francese se ne cambiò il senso, intercalandovi otto righe, ma ciò era fatto con sì poca destrezza che appena se ne cominciò la lettura protestai con tutta l'energia, essendo sicuro di non aver mai ricevuto una lettera consimile.

La mia protesta fu sostenuta dall'apprendista del Consolato di Francia signor De Bellègue che volle se ne facesse seduta stante una nuova traduzione conforme all'originale. Avendovi consentito, i presenti poterono dall'esattez­za della seconda traduzione misurare l'indelicatezza di questo modo d'agire.

Tuttavia il Regio Procuratore Clausi fondò la requisi­toria sulla falsa traduzione del biglietto, sulla falsa testimonianza del cocchiere Scuotto e sulla falsa deposizione dell'agente di polizia Noli. La Corte si dichiarò convinta e fui condannato a dieci anni di galera.»

Tal'era la mia lettera al sig. Drouyn de Lhuys. Non vi aggiungo nulla, se non che il sig. Benedetti avevami, per così dire, predetto questa condanna.

Dicembre 1862

Questo mese fu segnalato da un incidente curioso e a più d'un titolo istruttivo. L'apprendista del Consolato a Napoli signor de Bellègue era venuto a visitarmi a Santa-Maria-Apparente per sapere se l'ordine del mio trasferimento nell'alta Italia, conforme a quanto erasi detto dopo la mia condanna, era giunto, onde prendere alcune disposizioni in vista di siffatto trasferimento.

Fino all'ultima porta fu lasciato entrare senza opporgli la minima difficoltà, ma pervenuto a questa il carceriere che vi era di guardia si rifiutò di aprirgli. Io era presente il sig. de Bellègue annunciò il suo nome e la sua qualifica, credendo con ciò togliere ogni difficoltà.

Ma il carceriere persiste nel diniego, dicendogli: vi riconosciamo benissimo per l'apprendista console di Francia, ma non entrerete. Il sig. de Bellègue gli soggiunse che come apprendista del consolato aveva diritto di visitare i suoi connazionali.- «Sarà forse vero, soggiunse il carceriere, reclamate se vi pare, ma non vi permetteremo né di entrare, né di vedere il sig. de Christen».

Il capo custode sopravvenne in questo mentre, e, non togliendosi di capo il berretto, disse recisamente al sig. de Bellègue: «Non voglio lasciarvi entrare ed è superfluo l'insistere». - II Sig. Bellègue avendolo allora minacciato di fare il suo rapporto: «Me la rido di tutti i vostri rapporti», replicò il custode. Il sig. de Bellègue non volendo compromettersi più lungamente con inutili parole, fu obbligato a ritirarsi.

Gennaio 1863

Le condizioni interne del nuovo regno d'Italia, e sopratutto quelle delle sue prigioni, erano stato obbietto di vive discussioni e di dibat­timenti interessanti nella stampa e alla tribuna inglese. I due partiti che si dividono l'Inghilterra, avendo scelto molte volte questo terre­no per affrontarsi e misurarsi le proprie forze, aveano spedito in Italia, e particolarmente nel regno di Napoli, alcuni commissari per esaminare la situazione.

Avevam già ricevuto parecchie visite ne' precedenti mesi; in sui primi di Gennaio ricevemmo quella di lord Enrico Gordon Lennox, membro della camera de' Communi. Lord Lennox fu a nostro riguardo pieno di cortesia e di delicatezza, con­dotta ben differente da quella tenuta da diversi commissari, i quali aveano spesso mancato ai più semplici doveri di educazione a fronte de' prigionieri.

Quando lord Lennox fu entrato nella mia cella, io feci chiamare tanto i più antichi prigionieri, quanto quelli i quali, essendo state vittime di cattivi trattamenti, ne conservavano ancora i segni, e dissi loro di fare al nobile Lord il racconto delle proprie sventure.

Lo stesso Direttore della prigione l'informò trovarsi alcuni uomini nel suo stabilimento i quali, dopo diciotto mesi di reclusione non erano stati giudicati; e, se non mi fosse stato negato, gli avrei fatto condurre innanzi alcuni che, fin dalla resa di Gaeta erano stati internati a Santa-Maria senza che alcun giudice li avesse ancora interrogati.

Lord Lennox si ritirò, per continuare il suo viaggio a traverso le provincie meridionali. Quindici giorni dopo ritornò a Napoli e mi seppe in galera. Vi era stato infatti condotto il 15 Gennaio 1863, ed è qui che comincia, per vero dire, il giornale della mia prigionia. Lo scrissi giorno per giorno e lo copio.

Giovedì 15 gennaio

II Capo Custode della prigione di Santa-Maria ci risvegliò e ci ordinò di alzarci avvertendoci che alcuni gendarmi ci aspettavano per condurci alla galera. Chiesi di vedere il console di Francia, ma mi fu negato; e avendo io fatto osservare che il sig. de Bellègue avea doman­dato di essere avvisato in caso di nostra partenza, mi si rispose che il console francese e la Francia non aveano a veder nulla in questo affare.

I sigg. Caracciolo, De Luca e me scendemmo nella sala di aspetto dove un maresciallo d'alloggio di gendarmeria venne per istringer-ci i polsi nelle manette. E queste ci furono strette con tanta violenza da farne spicciare il sangue dai pugni.

Fummo condotti sulla strada di Pozzuoli, a piedi, tutti e tre lega­ti. Il maresciallo d'alloggio ci consentì di prendere una vettura a nostre spese, e ci fé' accompagnare da gendarmi a Cavallo. Nel mentre attraversavamo il villaggio di Fuor-di-Grotta, la popolazio­ne si fece sul nostro passaggio e ci dimostrò francamente la più viva simpatia. La scorta ebbe il rinforzo di due gendarmi nell'uscire dal villaggio; vedette a cavallo perlustravano la via a brevi distanze, ma ciò non impediva ai contadini di correrci incontro e salutarci.

Arrivati a Pozzuoli, fummo condotti nel cortile del bagno. Un forza­to portò tre catene del peso ciascuna di cinquanta libre, dicendomi che bisognava che ci facessimo mettere i ferri. Il primo fu Caracciolo, venne quindi la mia volta, per ultimo fu De Luca. Le catene ci furono ribadite ai piedi. Durante l'operazione un colpo di martello caduto in falso pestò il piede di de Luca. Fummo poscia spogliati di tutti i nostri abiti e ci si perquisì in modo ributtante (regolamentare del resto), e finalmente fummo collocati entro celle poste all'ultimo piano della galera.

Venerdì 16 gennaio

Abbiam passato una notte spaventosa; nella mattina, l'officiale contabile del bagno ci fece discendere a turno per fare la nostra tolet­ta. Io scesi per primo; mi furon tagliati i capelli, i baffi, e fui rivestito del costume di forzato, abito e beretto rosso, pantalone e cappotto color cioccolatte. Lo stesso fu fatto a Caracciolo e De Luca.

In quel momento arrivò il padre di Caracciolo: la sua vista ci cagionò una profonda impressione. Il povero vecchio non potè ratte-nere le lagrime, e noi ci sforzammo di nascondergli la nostra emozio­ne per non aumentare la sua. Dopo essersi trattenuto un'ora il signor Caracciolo fu obbligato ad abbandonarci, e noi fummo ricondotti nelle nostre celle.

Sabato 17 gennaio

Alle cinque del mattino, i custodi vennero a prenderci, annun-ziandoci che dovevamo essere trasportati al bagno di Nisida. Mi furono tolti i ferri per rimettermeli subito dopo, e fui attaccato alla stessa catena di Caracciolo. Durante questa operazione che fu fatta al fioco lume d'una lampada mancò poco non mi fosse spezzata una gamba. De Luca è ugualmente attaccato alla nostra catena, locché tri­plica il peso de' nostri ferri. Domandammo di prendere una vettura: ci fu ricusata e ne fu giocoforza fare a piedi la strada e incatenati. L'anello ribadito alle nostre gambe ci ferì crudelmente. A Bagnoli c'imbarcammo alla volta dell'Isola.

Arrivati a terra, incontrammo una banda di forzati che andava al lavoro: ci chiamarono «fratelli, amici, etc...» Queste parole fecero profonda impressione su Caracciolo.

Dopo aver lungo tempo aspet­tato nel cortile fummo condotti in una sala dove, grazie alla bontà de' sott'ufficiali del bagno, ci trovammo separati dai ladri e dagli assassini.

Questi contrassegni di simpatia ci furono prodigati dagli impiegati, ma a loro rischio e pericolo, perché le autorità avevano ingiunto molta severità a nostro riguardo.

Restammo incatenati due a due, Caracciolo e me, a una catena del peso di cinquanta libre; a un'altra De Luca e un calabrese chiamato Tallarico.

Domenica 18 gennaio

Alle sette antimeridiane, scendemmo nel cortile, ove è la cappella, e sentimmo la messa in compagnia di tutti i pensionarii dello stabili­mento che sono in numero di novecento.

Abbiam saputo che dopo il nostro arrivo, il comandante avea dato ordine di raddoppiare i posti.

Furono matricolati i nostri nomi. Io ricevetti il num. 16.658, Caracciolo il num. 16.657, De Luca il num. 16.659. V'hanno dunque presso a diecisette mila forzati nelle provincie napolitane?

I sott'uffi­ciali custodi, di cui parecchi hanno in altri tempi servito ne' nostri ranghi ci fecero sapere che a Pozzuoli, ov'è la direzione generale delle galere, si era ricevuto l'ordine di tenersi pronti a vestire altri quindici mila condannati per reazione.

Lunedì 19 gennaio

Tutti i forzati vennero a vederci nella nostra camera, gli uni dopo gli altri, ma non ci diressero alcun insulto; al contrario dimostrarono molto rispetto e molta compassione della nostra posizione.

La sera, in sulle quattro, avemmo la visita di lord Enrico Gordon Lennox che era venuto a visitare il bagno di Nisida. Scorgendo lo stato in cui siamo ridotti, arretrò quasi spaventato. Dopo qualche momento d'esitazione, ci si accostò, c'indirizzò alcune parole conso­lanti e mi addimostrò la sua sorpresa che il console francese avesse permesso ch'io fossi così trattato.

Lord Lennox mi disse allora che il signor Bishop, il quale era nelle identiche mie condizioni, non sarebbe mai trattato nello stesso modo, perche l'Inghilterra non lo sopporterebbe in pace. Siccome lord Lennox parea molto commosso, l'agente che lo accompagnava s'affrettò a dir­gli che si faceva tardi e che era tempo d'andarsene.

Martedì 20 gennaio

Alle dieci, Caracciolo fu chiamato al parlatoio. Siccome io sono suo compagno di catena, scesi con lui. Vi trovammo le sue due giovani sorelle e suo padre, che, in veggendolo, si sciolsero in lagrime. Abbiam procurato di consolarle, e quantunque ci sfiorasse in sulle labbra un sorriso, avevamo la morte in cuore.

Seppi dal padre del sig. Caracciolo che molti napoletani influenti erano andati al consolato di Francia per prevenire il sig. Soulange Bodin della mia traslazione al bagno, e pre­garlo d'impedirla, ma che questi signori non avevano potuto giungere sino a lui, essendo loro stato interdetto l'ingresso al consolato. In sulla sera soltanto, il colonnello Presti ottenne una udienza, e quantunque il console non celasse la sua indignazione circa la condotta tenuta a mio riguardo, non ne potè ottener nulla.

Dopo una mezz'ora, il Sig. Caracciolo padre e le sue due figlie si ritirarono, e noi fummo trasferiti in un ambiente più arieggiato, che dava sul mare: nuova testimonianza del buon volere e delle caritate­voli intenzioni degli impiegati al bagno.

Alle tre, ci fu annunciato l'arrivo de' due attaccati al consolato di Francia. Scendemmo, il mio compagno di catena ed io, e trovai nel cortile l'allievo console di Francia, sig. de Bellègue, che m'ha sempre dimostrato una grande simpatia; era accompagnato da un'altra perso­na ch'io non conosceva. Il sig. de Bellègue parve commosso della nostra triste posizione. Lo pregai di dire al Sig. Soulange Bodin quanto io mi sentissi umiliato nel mio amor proprio nazionale pensando che, a causa dal suo silenzio, era stato condotto al bagno.

Gli feci difatti osservare che a Santa-Maria-Apparente si trovava un'inglese, Giacomo Bishop, recluso per le stesse cause e condannato alla stessa mia pena, e che, malgrado un'ardente inimicizia personale fra lui e il suo console, quest'ultimo s'era interposto, per cui, in grazia a' suoi buoni ufficii, era stato dato ordine di arredare convenevolmente la sua camera e trattarlo con tutta la possibile considerazione.

E però si era sospeso insino allora l'esecuzione della sentenza che lo avea colpito. Conclusi dicendo che il signor Soulange Bodin avrebbe potuto esigere almeno ch'io fossi trattato come il signor Bishop. Era da sua parte qui-stione d'umanità e di convenienza.

Il Sig. de Bellègue m'assicurò farebbe quanto da lui dipendesse per aiutarmi ad uscire da quella dolorosa posizione quanto più presto

fosse possibile. Il suo compagno ci offrì de' libri e dei giornali, ma fummo costretti a ricusarli, perocché i regolamenti del bagno ci proibi­vano d'accettare. Questi signori ci lasciarono visibilmente commossi.

Mercoledì 21 gennaio

È arrivata una banda di diecisette garibaldini presi ad Aspromonte, che vengono dal bagno di San Stefano. Due calabresi domandarono di vederci: sono due antichi sotto-ufficiali dell'esercito napolitano, l'uno de' quali, ex sergente della guardia, era stato a Gaeta: brava e onesta gente condannata a dieci anni di lavori forzati per delitto di reazione.

Giovedì 22 gennaio

Si è dato l'ordine di mettere tutti i reazionarii ai ferri, due a due. Alle quattro della sera arrivò il tenente colonnello Zaccari, coman­dante bagni. Entrò nella nostra camera, e, dopo averci visti, dette ordine ci fossero tolti i ferri, lasciandoci soltanto un anello del peso di quattro libre. De Luca fu messo alla piccola catena e Tallarico, suo compagno, collocato in un'altra camera.

Venerdì 23 gennaio

Fu diminuito nuovamente il peso de' nostri ferri e non ci furono lasciati attaccati ai piedi se non dei piccioli anelli del peso di una libra.

Un vecchio forzato, morto ieri, fu sotterratto alle dieci. Forse ancor noi dovremo morir qui.

A mezzo giorno, De Luca ebbe la consolazione di abbracciare alcuni parenti di sua moglie.

Sabato 24 gennaio

Sono le tre pomeridiane, sentiamo delle salve di artiglieria, e veg-giamo due fregate colla bandiera piemontese issata sull'albero mae­stro. Si dice, l'una di esse abbia a bordo la duchessa di Genova.

Alle sei, avemmo nella nostra camera la visita del medico della città di Civitella-Roveto, signor Luigi Rabusi, condannato a venti anni di galera per avere somministrato del pane ai reazionarii; c'intrattenne lungamente del deplorevole stato degli Abruzzi.

Domenica 25 gennaio

Abbiam passato una triste nottata, perché tutti e tre, Caracciolo, De Luca e me, siamo stati indisposti; scendemmo nel cortile per ascoltare la messa, dopo cui riguadagnammo la nostra camera. Il comandante del bagno, signor Testa, mi recò una lettera della fami­glia S..., che è diventata quasi la mia famiglia d'adozione. È inutile dire qual piacere essa mi cagionasse. Il sig. Testa ci autorizzò al tempo stesso di corrispondere coi nostri parenti ed amici, e ci permi­se d'avere dei libri. Una mezz'ora dopo ritornò e dette ordine di porre in migliore assetto la camera che occupiamo.

A un'ora, tornò nuovamente per farci sapere di aver ricevuto ordine dal generai Lamarmora di toglierci completamente i ferri e spogliarci dell'abito di forzati. Aggiunse che eravamo in sul punto d'essere trasferiti in un forte della capitale, nel quale avremmo potu­to far uso d'abiti borghesi. Siccome il nostro equipaggio era stato depositato in casa del sig. Caracciolo padre, il comandante mandò là un custode a prender ciò di cui avevamo bisogno.

Lunedì 26 gennaio

Allo otto della mattina, un sotto ufficiale ci avvisò essere giunti i gendarmi, che dovevano servirci di scorta. Scendemmo, e trovammo lo stesso maresciallo d'alloggio e gli stessi gendarmi che ci avevano accompagnato a Pozzuoli. Il maresciallo d'alloggio ci dette parte che l'autorità avea messo a nostra disposizione un furgone d'ambulanza per trasportarci a Napoli. Ricevette il nostro denaro, giusto l'ordine dato dal General Lamarmora, e c'imbarcammo con un mare grosso. Sbarcando a Bagnoli, montammo coi gendarmi sul furgone che ci aspettava.

Arrivati a Napoli, vicino a Santa-Maria-Apparente, fummo fatti discendere, e dopo averci attaccati e solidamente strette le mani, ci si condusse al forte San-Elmo dove fummo collocati in una orribile cella, ignobilmente sporca e fredda comme una ghiacciaia.

Dopo molte ore d'aspetto, il comandante del forte ci fece dare tre sedie, una tavola e tre letti. Noi ci coricammo immediatamente per timore di essere assiderati di freddo. Ci fu severamente proibito di uscire dalla nostra prigione per respirare un'aria migliore.

La nostra cella é disposta in modo da toglierci qualunque vista esteriore.

Martedì 27 gennaio

Ci siam levati con un freddo mortale: sono le undici e nessuno è venuto per dar aria alla nostra cella. Manchiamo d'acqua e di tutti gli utensili necessari alla vita.

Alle undici e mezzo si aprì finalmente la nostra porta. Ci lamentam­mo dello stato d'abbandono nel quale ci si lascia. Ci venne risposto non essere stati ricevuti ordini a nostro riguardo, e che se ne attendevano; si aggiunse che se avevamo avuto dei letti, era il capitano comandante del forte che aveva assunta la responsabilità di somministrarceli.

Qualche minuto dopo il capitano venne a ripeterci la stessa cosa, facen­doci intendere ch'egli era nella impossibilità di fare cosa alcuna per noi, in vista di una lettera confidenziale ricevuta, che gl'ingiungeva d'aspet­tare, relativamente a noi, ordini espressi; tuttavolta osò di pigliarsi l'arbitrio di accordarci... un vaso da notte!

Dopo il nostro pranzo, alle due e mezzo, il freddo ci obbligò a rifugiarci sul nostro miserabile pagliericcio. A tre ore si aprì la nostra cella, e vedemmo entrare il Sig. Bellègue, accompagnato dalla stessa persona che, già un'altra volta era stata a visitarci in. sua compagnia al bagno di Nisida: era, cred'io, un antico corrispondente del Journal des Debats.

Questi signori ci dimostrarono molto interesse, e veniva­no ad assicurarsi del trattamento che ricevevamo nella nostra nuova prigione. Rispondemmo che, fisicamente, ci trovavamo molto peggio che non al bagno, perciocché ci si proibiva di respirar l'aria, di legge­re, di scrivere, in una parola tutto ciò che poteva distrarci e alleggeri­re un poco la nostra sorte.

A Nisida avevamo almeno una eccellente aria di mare, e negli ultimi giorni vi possedevamo libri, penne, carta e facoltà di servircene; la nostra nuova prigione, all'incontro, essen­do priva come d'aria così di luce, la sua umidità ci avrebbe certa­mente resi malati.

Questi signori ci consigliarono ad aver pazienza, e il sig. de Bellègue mi fece leggere un dispaccio telegrafico del sig. De Sartiges, così concepito: «S. M. commuta la pena di dieci anni di galera del sig. De Christen in dieci anni di detenzione in un forte del regno».

Quale generosità! pensammo noi, dappoiché stiam qui peggio che non al bagno; quale commutazione di pena! Non potemmo astenerci dal sorriderne, e pregai questi signori di dire al sig. Ambasciatore di Francia a Torino, che s'astenesse, per l'interesse nostro, di sollecitare altre grazie in nostro favore.

Questi signori ci ripeterono che potevamo contare sui loro buoni uffici, e che li obbligheremmo usandone spesso; voleano inviarci dei libri e dei giornali, ma ricusammo di nuovo atteso le proibizioni che ci erano state fatte. «Compiacetevi, dissi allora al sig. de Bellègue, narrare al Console di Francia lo stato nel quale m'avete trovato, e pregarlo di ottenerci, se possibil fosse, il per­messo di respirare l'aria esterna, fosse pure per una mezz'ora, per un quarto d'ora il giorno.» Questi signori uscirono promettendoci di ritornare.

Al loro arrivo, un tenente piemontese era venuto a nome del suo superiore, per invitarli a parlare italiano, e, per tutto il tempo che durò la visita, un altro tenente aveva assistito alla nostra conversazione.

Mecoledì 28 gennaio

Nulla di nuovo sino a tre ore. A questo punto, mentre stavamo per coricarci affine di guarentirci dal freddo, si aprì la nostra camera e ci fu detto che potevamo passeggiare all'aria per un'ora.

Uscimmo e vedemmo nel cortile una linea di sentinella a una distanza di circa ottanta passi; è fra questi soldati, e per la lunghezza di questo spazio, che ci era concesso d'andare e venire.

Dopo un'ora fummo fatti rientrare, e abbiamo pregato il sotto­tenente che fungeva da capo carceriere, ed era venuto a chiudere i chiavistelli delle nostre prigioni, d'informarsi e saperci dire se il comandante aveva ricevuto ordini che ci concernessero. Andò ad informarsene e tornò subito per farci sapere che il capitano era sem­pre senza ordini, che se noi avevamo passeggiato ciò era sempre in grazia del suo buon volere, che se avevamo dei letti noi ne avevamo anche di questo obbligo alla sua umanità che ce li avea procurati sotto la sua propria responsabilità.

Incaricammo questo officiale di ringraziare il capitano di tutti questi cortesi offici, perocché siamo ancora a domandarci dove avremmo riposato senza di lui. Certamente sull'umido suolo della nostra orribile prigione.

Appena rientrati ci coricammo colla speranza in fondo del cuore che l'indomani arriverebbe qualche istruzione.

Giovedì 29 gennaio

Alle undici il carceriere venne a nettare la nostra prigione, cosa che non l'occupò oltre cinque minuti. Gli domandai sei fogli di carta nella intenzione di scrivere al ministro degli Affari Esteri, all'Ambasciatore e al Console di Francia. Dopo aver apportato al capitano la mia domanda, tornò annunciandomi che non aveva potuto essere esaudita, e che ci era proibito di scrivere a chicchessia.

Si ricusò ugualmente di corrispondere alle mie premure perché mi fosse procurata la visita del Console di Francia, signor Soulange Bodin.

Eccoci pertanto completamente sequestrati, privi di ogni relazio­ne, mancanti delle cose più necessarie della vita, condannati a marci­re in una prigione la cui fetida atmosfera ha già fortemente intaccato la salute dei miei due compagni.

Sono le due dopo mezzodì; andiamo a letto per guarentirci da un freddo intenso, e pigliamo la risoluzione di chiamare domani il capitano del forte, per domandargli di tornare al bagno, non poten­do sopportare più oltre il trattamento che ci è qui inflitto. Siamo al punto di rimpiangere le galere!

Venerdì 30 gennaio

Ci siamo alzati alle otto dopo una notte di atroci sofferenze. Il fred­do era talmente vivo che ci siam posti a correre l'uno dietro l'altro nella speranza di riscaldarci un poco. Domandammo ben due volte di vedere il capitano, ma non venne. A forza di denaro (denaro che ci era riuscito di nascondere entrando nel forte, perché mi era stata confisca­ta una somma di circa quattrocento franchi che teneva riposta nel mio sacco da notte) riuscì a far giungere un biglietto al sig. de Bèllegue per pregarlo di venire al forte Sant'Elmo. Lo riceverà egli?

Il console gli permetterà di venire? Il mio compagno Caracciolo è stato costretto a non levarsi di letto per tutto il giorno, perché la sua malattia ha fatto rapidi progressi sotto l'influsso dell'umidità della prigione. Esso ha domandato un medico.

Alle sette della sera il tenente carceriere venne per ascoltare i nostri reclami, e ci rispose che se gli officiali del forte ci lasciavano in quello stato, ciò avveniva loro malgrado; che essendo soldati, era loro giuocoforza adempiere alla lettera gli ordini del generai Lamarmora comandante la divisione territoriale. E però io non m'ingannava pensando essere in forza delle istruzioni date, che noi eravamo trattati in quel modo!

Sabato 31 gennaio

II medico arrivò alle 8, e dopo aver veduto il sig. Caracciolo, ordinò delle medicine. Ci fu permesso, giusta le sue prescrizioni, un po' di fuoco nell'interno della prigione per asciugar l'umidità delle mura che trasudava per tutto.

Alle undici il custode ci venne a dire di avere indirizzato parecchie domande al comandante della piazza, perché si fosse un poco mitiga­to il nostro regime, ma che il generale avea ricusato tutto, e «sventura­tamente la mia consegna dee vincerla sulla pietà cha m'ispirate.» Il signor Caracciolo un po' irritato e non potendo più contenersi gli mosse amari rimproveri; l'officiale si scusò colle lagrime agli occhi.

Alle cinque lo stesso ufficiale ci venne a dire che, a causa dei reclami del medico, il comandante la piazza si era degnato accordar­ci di prender aria per tre ore nell'indomani. Quest'uomo era accom­pagnato da un sergente-maggiore lombardo del quarto reggimento (granatieri) di guarnigione nel forte, il quale c'informò esser quel reggimento uno di quelli che avevamo battuto a Bauco.

Domenica 1 febbraio

Fummo risvegliati alle otto dalle sorelle di Caracciolo ch'erano riuscite a penetrare sino a noi, in grazia all'amicizia d'un officiale di nostra conoscenza. Sapemmo che il sig. Caracciolo padre avea fatto molte volte domandare al generai Lamarmora il permesso di vedere suo figlio, ma tutto era stato vano, essendo il generale rimasto ineso­rabile col pretesto che non avea ordini. Scorsi cinque minuti le sorelle di Caracciolo si ritirarono per non compromettere l'officiale.

Levandoci ci siamo accorti che nella notte era stata collocata una fazione al finestrino della nostra segreta, misura tanto inutile, quanto ridicola, visto il lusso di precauzioni già prese contro di noi i prece­denti giorni.

Le signorine Caracciolo ci hanno fatto sapere ancora che nella nostra antica prigione di Santa-Maria-Apparente, era scoppiato il tifo, di cui erano morti parecchi detenuti nello spazio di pochi giorni. Non dovea forse essere causa principale di questa epidemia il modo con cui vi erano trattati certi prigionieri?

Alle due e mezzo, il capitano della guardia smontante è venuto col capitano dei bersaglieri della guardia montante per dare in con­segna a quest'ultimo tutti gli utensili e il mobilio del forte. Il coman­dante la guardia smontante è un avvocato del Piano dei Greci in Sicilia, creato capitano da Garibaldi ed entrato nell'armata regolare con questo grado. Ci è parso di buone maniere e di lieto umore.

Nella giornata non ci è stato concesso di passeggiare se non un'ora e mezzo in onta alle prescrizioni del medico.

Lunedì 2 febbraio

Alle undici ci si è permesso di uscire per prendere un poco d'aria. Il nuovo comandante ha ristretto lo spazio della nostra passeggiata e ha scelto a questo effetto un luogo più solitario, trovando senza fallo che le mura di Sant'Elmo non sono per esse stesse abbastanza sicure o invalicabili. Durante la passeggiata ci ha fatto guardare a vista da tre sentinelle.

Non ci è stato permesso d'avere dei libri.

Alle 2 e mezzo arrivò il sig. de Bellègue che conduceva un signore dalla fisonomia la più simpatica, il quale s'annunziò declinando il nome di generale L... mio compatriota e vecchio amico della mia famiglia. Più felice di me che rimasi orfano, dissemi aver conosciuto mia madre ed essere stato compagno a parecchi de' miei zii. Fui con­tentissimo di vederlo, perché da lungo tempo era il solo volto amico, salvo quello del sig. de Bellègue, che fosse comparso nella mia pri­gione.

Il sig. L.... assicurommi che farebbe quanto da lui dipendesse per ottenermi un più umano trattamento, ma previde e dubitò che ciò non fosse per riuscire opera lunga e difficile. Gli risposi che mi pareva dovesse il governo francese esigere la mia liberazione, non come una grazia; ma come un diritto, dopo l'iniquo processo a segui­to del quale era stato condannato; che intorno a questo soggetto né il Ministro degli Affari Esteri a Parigi, né l'Ambasciatore di Francia a Torino poteano protestare ignoranza, poiché il Console generale a Napoli ed io stesso avevamo loro scritto molte lettere per renderneli pienamente informati.

«La mia sorpresa è grande, aggiunsi, nel vedere il governo francese non aver fatto fin qui alcun passo in que­sto senso, e se, a mia insaputa esso ne avesse fatti, se il governo di Torino non mi ha in conseguenza reso giustizia, la mia sorpresa aumenta...»

Il generale L... si ritirò dopo aver cercato d'infonderci coraggio. Il sig. de Bellègue domandò al capitano comandante il forte, sopravve­nuto in questo mentre, di autorizzarci a leggere, a scrivere, e a corri­spondere colla nostra famiglia. Questo officiale vi si ricusò, sempre col pretesto che non aveva ordini.

Martedì 3 febbraio

A mezzodì meno un quarto, ci fu aperto per farci prender dell'aria, secondo l'ordine del medico. Ma invece di lasciarci passeggiare per un'ora e mezza, fummo obbligati a rientrare dopo mezza ora. Un ser­gente di guardia venne a intimarci quest'ordine da parte del capitano comandante il forte, e di più c'informò avere quest'ultimo risoluto di sopprimere del tutto la passeggiata quotidiana ordinata dal medico.

Sono riuscito a scrivere una lettera al Console di Francia, nella quale, dopo aver raccontato i fatti, aggiungeva: «Vi pregherò, signor Console, di voler far conoscere al signor de Sartiges il risultato delle sue premure, e pregarlo in mio nome di ricusare la grazia che S. M. Vittorio Emanuele ha creduto farmi commutando la mia pena. Preferisco mille volte tornare all'ergastolo, piuttostochè rimanere in mezzo ad officiali che disconoscono a tal punto ogni dovere d'uma­nità.

L'abito di galeotto non disonora se non quegli che ha commesso una cattiva azione. Nelle circostanze in cui mi trovo e che voi, o signore, conoscete, se v'ha disonore esso certo me non ricuopre od infama.»

Il capitano che avea ordinato di abolire la passeggiata proibì ugualmente di arieggiare la nostra segreta. Interdisse eziandio la net­tezza quotidiana della cella, e de Luca si vide ogni giorno obbligato di fare esso stesso questo servigio; ma le immondezze rimanevano in un canto senza che ci fosse accordato il favore di farle torre di là!

Gli officiali del forte conducono qua tutti i giorni i loro amici e i loro camerati; essi ci guardano attraverso le finestrelle della cella, senza risparmiare un contegno che sa dell'offesa; gl'insulti non bastano ancora?

Alle tre sentimmo il grido: All'armi! Ne chiesi il motivo alla fazio­ne di servizio, che era napolitana, e seppi che la Duchessa di Genova visitava il forte Sant-Elmo. M'accostai allora all'inferriata e scorsi il comandante del forte che segnava a dito a parecchie signore la fenestrella della nostra segreta; disgraziatamente degli scoppi di risi giunsero in quel punto sino alle mie orrecchia: un momento dopo, vidi quelle stesse persone scendere nel cortile passando vicino alla nostra cella; ma avendo noi chiusa la fenestra, non poterono vedere l'interno della segreta!

Alle cinque e mezzo, nel momento in cui stavamo per gettarci sul nostro pagliariccio, il capitano ci fece dire dal sergente di guardia che ci accordava una mezz'ora di passeggio. Ricusammo il favore peroc­ché a quell'ora, nel mese di Febbraio, è troppo tardi per uscire.

Mercoledì 4 febbraio

Alle undici il capitano ci ha autorizzato ad uscire per un'ora. Non sappiamo a che cosa attribuire questa grazia. Il sergente di guardia fece nettare la nostra cella e portarne via le immondezze: la porta rimasta aperta durante la passeggiata ha permesso all'aria di rinno­varsi. Rimarcammo un'altra volta quanto fossero più umani de' loro superiori i sotto-ufficiali della compagnia preposti alla nostra custo­dia. Nella sera uscimmo di nuovo: ci venne finalmente permessa la passeggiata regolamentare.

Giovedì 5 febbraio

Nella notte, siccome il sonno non ci soccorreva, cosa ben naturale, quando dalle ventiquattr'ore se ne passano diciotto a letto, il signor Caracciolo, per ingannare la veglia, incominciò a narrarci le sue pas­sate sventure.

Ci disse che arrestato vicino a Cosenza, nel settembre del 1861, dalla guardia nazionale del paese, si videro in sulle prime, esso e i suoi compagni, spogliati di tutto ciò che possedevano, sia in moneta, sia in oggetti di valore. Gli furono poscia legate le mani con delle corde, e, in mezzo alla truppa, fece il suo ingresso a Cosenza. Condotto all'intendenza, si vide esposto ai più vili insulti, mentre che coi pugni legati, giaceva sulla terra.

Tra coloro che l'insultavano trovavansi alcuni antichi officiali dell'esercito napolitano, passati al soldo del Piemonte, e ne riconobbe molti i quali, era di pubblica notorietà, aveano disertato in faccia all'inimico. Venuta la sera sem­pre legato fu condotto alla prigione di Cosenza, dove fu messo al Carcere duro, e senza avere un filo di paglia fu costretto a stendersi sulla terra coperta d'insetti.

L'indomani, col pretesto che avea tentato di evadere durante la notte, il carceriere che avea avuto cura di lasciargli le mani legate, cuoprendolo d'ingiurie, lo gettò in una segreta ancora più schifosa: esso vi rimase trenta giorni, vivendo di pane ed acqua, coricato su paglia imputridita e guardato a vista da una fazione la cui consegna era di far fuoco sopra di lui se la lampana collocata a fianco del suo canile si fosse estinta. Nei primi giorni della sua prigionia, i carcerie­ri si alternavano per fargli sapere, quasi d'ora in ora, di apparec­chiarsi a morire, perché nella giornata, dicevano essi, lo si sarebbe fucilato.

Il trentesimo giorno i gendarmi piemontesi lo tolsero da quella pri­gione, e, ammanettato, fu condotto a piedi sino a Paola, senza che nel tragitto, che avea luogo con un calore soffocante, gli fosse concesso di dissetarsi alle sorgenti che sgorgavano da tutte parti sui lati della via.

Arrivato a Paola, il Commissario di polizia accorse alla prigione per raccomandare di trattare Caracciolo come un borbonico.

A Napoli solo si conosce il valore di questa parola! Per buona ventura, questo carce­riere era napolitano e conservava qualche umano sentimento. Commosso dalle sofferenze del suo prigioniero, fece, per sollevamelo, tutto quello che fu in suo potere e volle eziandio dividere con lui il pranzo frugale della sua famiglia.

L'indomani, Caracciolo, già malato - tante privazioni e tanti cattivi trattamenti l'aveano sfinito - fu imbar­cato sopra un battello che andava a Napoli; durante la traversata domandò di esser posto sotto coperta ma ne ebbe un rifiuto.

A Napoli fu chiuso nella prigione di Santa-Maria-Apparente, dove lo incontrai e dove gli feci sapere che ci si voleva implicati ambedue in una cospirazione borbonica. Questo fu in riassunto il discorso della notte.

Ci eravamo allora alzati, quando alle dieci la porta della prigione si dischiuse e comparvero le signorine Caracciolo. Le accompagnava un officiale: correndo la più grave responsabilità avea egli nonostan­te voluto procurar loro il piacere di abbracciare il loro fratello. Siccome l'abboccamento dovea esser breve, esse ebbero appena il tempo di narrare come il padre loro avesse molte volte tentato di penetrare le porte del forte Sant-Elmo, e come il generai Lamarmora era sempre rimasto impassibile dinanzi alle sue suppliche.

Alle undici e mezzo ci si lasciò passeggiare all'aria aperta: i rigo­ri sembrano un poco diminuiti; ma noi ne ignoriamo la causa.

Alle due l'officiale custode ci prevenne che, per ordine ministe­riale, dovevamo essere imbarcati nella sera sopra un vascello da guerra italiano e condotti in Piemonte. Infatti, un quarto d'ora dopo, un delegato di polizia arrivò con cinque Gendarmi. Facemmo sollecitamente le nostre valigie e abbandonammo il forte, colla scor­ta dei soldati.

Arrivati al porto montammo a bordo del Rosolino-Pilo, in cui gli officiali s'affrettarono di mettere a nostra disposizione una elegante cabina. Un quarto d'ora dopo un altro commissario di Polizia con­dusse altri prigionieri di Santa-Maria-Apparente, i signori Bishop e Tortora che aveano la nostra stessa destinazione. I gendarmi che sono venuti a prenderci a Sant'Elmo hanno la missione di condurci a Genova, sotto la sorveglianza particolare d'un impiegato della Questura di Napoli, chiamato Emmanuele Leanza.

Alle dieci e mezzo della sera, il sig. de Bellègue venne a bordo, per informarsi s'io desiderava nulla. Lo ringraziai e lo pregai d'avvisare il Console di Genova del mio arrivo nell'Alta Italia. Cercai di testificargli la mia profonda gratitudine per le sue corte­sie; egli solo era stato buono per me, e lo vidi partire con dispiacere.

Levammo l'ancora alle undici e ci ponemmo in via. V'hanno a bordo alcuni officiali piemontesi colle loro famiglie.

Venerdì 6 febbraio

Alle sei del mattino abbiamo fatto sosta a Gaeta, ove il bastimento s'è arrestato per prendere un convoglio di reclute.

Cinque minuti dopo arrivò una barca sulla quale trovavasi un maggiore che teneva in mano un frustino, e tre o quattro capitani piemontesi: montando a bordo domandarono con grandi grida vedere il sig. Bishop.

Perché? Voglio ignorarlo ancora; ma dopo aver fatto qualche passo, aver lisciato due o tre volte i baffi e averci guardati, il sig. Bishop e me, se ne andarono senza diriggerci una sola parola, perché noi, con la fronte calma, in presenza di questi vili procedimenti, noi non sapemmo dissimulare un sorriso di sprezzo.

Arrivarono trecento reclute e alle nove ripartimmo per Livorno. Non ci siamo allontanati dalla nostra cabina per non iscambiare alcu­na parola con gli officiali dell'esercito che sono a bordo.

Con tutto ciò la loro clamorosa conversazione giunse fino a noi — non si par­lava che di briganti uccisi, di villaggi saccheggiati e incendiati. Sentii un capitano vantarsi d'avere ucciso con un colpo di revolver un contadino nel momento che era arrestato dai soldati della sua compagnia.

Un altro raccontò l'esecuzione d'un brigante chiamato Bronti; e come era stato necessario tirar undici colpi di fucile per distenderlo a terra: allora uno bello spirito sclamò: «Quanta polve­re bruciata per nulla,» e un generale sorriso accolse questo scherzo di cattivo gusto.

Un tenente de' bersaglieri, imbarcato a Gaeta, meravigliò tutta l'Assemblea, raccontando, come un'azione di grido, ch'esso avea ucciso nelle Calabrie con molto minori ceremo-nie e spese uno spagnuolo, domestico di Borjes, che il generale era stato costretto a lasciare nel villaggio di Natili, mezzo morto dalla febbre e da una ferita alla gamba.

Il Commissario di polizia della questura napolitana che ci accompagnava era l'uomo importante della società. Egli ancora degnossi, alla sua volta, far qualche rac­conto, e il tema scelto da lui fu l'arresto della principessa Barberini-Sciarra. Raccontò che, travestito, era asceso a Napoli nello stesso scompartimento del vagone della Principessa per non perdere alcuna delle sue parole e de' suoi atti; che arrivando a Isoletta, dichiarò il suo nome e la sua qualità, e fece sapere alla Principessa essere egli incaricato di fare una perquisizione nel suo bagaglio - furono rinvenute tre lettere, una delle quali in cifra.

Munito d'un così bel corpo di delitto, di cui però esso ignorava il contenuto, l'arrestò immantinente e l'obbligò a tornare a Napoli -Tale fu il fondo del racconto, perché non voglio né posso trascrive­re qui l'abbietto linguaggio impiegato dal Commissario nella sua narrazione, e da suoi interlocutori ne' loro commenti.

Gli officiali di bordo si conducono meglio e ci sono quasi tutti sembrati bene educati. Essi posero a nostro servigio tutto quello di cui potevamo aver bisogno, e mostrano visibilmente di avere a cuore la nostra triste posizione. I marinai, che sono stati d'altronde per la maggior parte difensori di Gaeta, sono ugualmente per noi pieni di riguardi.

Sabato 7 febbraio

Alle ore 5 della sera giungemmo nella rada di Livorno; il commis­sario Leanza ci chiuse nella cabina, guardati a vista da gendarmi. I marinai, facendo ritorno da terra, ci porsero alcuni giornali, nei quali trovammo pubblicata, fra i dispacci telegrafici, la nostra pretesa com­mutazione di pena.

Domenica 8 febbraio

Entrammo alle 9 pomeridiane nel porto di Genova.

Venerdì 19 febbraio

Necessitato a sospendere il mio giornale pel volgere di parecchi dì a motivo della mancanza assoluta di carta, e dei rigori del carcere, ne riprendo la continuazione oggi.

Non appena il nostro bastimento ebbe gettata l'ancora nel porto di Genova, un impiegato di polizia venne a constatare la nostra pre­senza a bordo. Il commissario Leanza aveva volontà di farci incate­nare pria di discendere, ma il capitano del bastimento e gli altri officiali vi si opposero.

Alla fine scendemmo a terra, e scortati dai gen­darmi, dal commissario di Napoli, e da un agente della questura di Genova, fummo condotti alla delegazione marittima e quindi alla questura, il cui direttore, dopo aver fatto iscrivere i nostri nomi su quei registri, ci mandò alla prigione della Torre.

Ne furono tolti i nostri effetti ed il denaro: ci si fecero percorrere corridoi e scale anguste facienti capo a una segreta posta al sommo della torre, e la cui porta era siffattamente bassa che faceva duopo curvarsi per entrarvi. Vi fui rinchiuso con Bishop e Caracciolo: in altra segreta vennero posti De Luca e Tortora, e per compassione ci si concessero un vecchio paglione e sudice coperte.

Venuto a nostra notizia che eravamo incamminati alla volta di Gavi, per esser chiusi non in una casa di detenzione ma di relegazio­ne, Bishop ed io chiedemmo di vedere i nostri consoli; ed il capo custode venne bentosto ad avvertirci che la nostra domanda andava a sottoporsi al questore. A sei ore ci ponemmo in letto, ma ne fu impossibile di poter chiudere un occhio durante l'intera notte, per­ché ci sentivamo divorati dagli insetti.

Siccome nella segreta si trovavano conficcati al muro due enormi anella di ferro, Bishop ne chiese all'impiegato, dal quale gli fu rispo­sto che esse servivano a legare per le braccia e per le gambe i prigio­nieri che avessero contravvenuto ai regolamenti del carcere. Al sorge­re del giorno seguente il capo custode ci rese avvisati, la nostra par­tenza per Gavi dover aver luogo la dimane.

Il giorno scorse senza incidenti; solamente, per andare meno soggetti agli effetti della umi­dità, ci convenne sempre tenerci avvolti nelle coperte, benché fossero ributtanti. I nostri consoli non credendo opportuno di rendersi alle nostre preghiere, si astennero dal venire a sentire i nostri lamenti.

Sulle quattro antimeridiane del 10 febbraio uscimmo dal letto e discendemmo nella camera del capo custode, ove passammo un'ora in aspettazione; dipoi un brigadiere di gendarmeria e quat­tro gendarmi ci menarono alla stazione della via ferrata, non senza aver in antecedenza presa la precauzione di porci le manette coppia a coppia, attaccandoci inoltre tutti e cinque con lunga catena.

La prima coppia era formata da me e da Caracciolo, la seconda dal De Luca e Tortora. (De Luca essendosi lamentato che le viti delle manette troppo compresse gli ammaccavano i polsi, il brigadiere gl'impose bruscamente silenzio). M. Bishop veniva da ultimo, e con ambe le mani avvinte, essendo solo.

Arrivammo in siffatta guisa alla stazione, e con tutta fretta fummo chiusi nelle vetture cellulari, che servivano al trasporto dei galeotti. Quella che a noi venne asse­gnata era per sconcezza e per fetore ributtante. I nostri bauli furono buttati nell'andito interno delle celle affine di accrescere la solidità delle porte.

Sulle nove arrivammo a Novi: nel discendere dalla vettura fummo legati insieme e posti nelle prigioni della città, dalla quale, lasciato ogni indugio volevamo partire per la nostra destinazione. Dopo molte difficoltà, il brigadiere di gendarmeria ci concesse un tal favore, pretendendo precedentemente 5 franchi per gendarme, a tito­lo di servizio straordinario, e 50 franchi per la vettura, che avea a riportare i gendarmi al loro alloggio.

Il capo custode della prigione di Novi, nell'aspettativa del partire, permise che ci fosse ammannito e servito il pranzo. Quest'uomo però, e tutti i custodi sotto i suoi ordini parevano buone persone. In questa prigione trovammo il gio­vane De Angelis, arrivato dalla casa di reclusione di Alessandria, ed egli pure era diretto alla volta di Gavi a ricevervi come noi il benefi­cio della commutazione della pena.

Accompagnati da un maresciallo d'alloggio e da quattro gen­darmi stavamo, era l'un'ora pomeridiana, per montare nell'omni­bus tolto a fitto, allorquando un sotto-tenente della gendarmeria di Novi accorse, e rivolgendosi al sotto-ufficiale che ne scortava gli chiese chi noi fossimo; ed essendogli stato risposto, che noi erava­mo prigionieri politici, il sotto-tenente comandò di incatenarci for­temente.

E di fatto fummo di nuovo avvinti alla lunga catena, e introdotti nella vettura con due gendarmi, mentre due altri avevano preso posto nel davanti tenendo in mezzo Bishop, che avea ambe le mani legate. A Gavi discendemmo alla caserma dei gendarmi, e poscia fummo condotti, a piedi e sempre incatenati, alla casa di relegazione posta sulla cima di alta collina.

Entrando venimmo presentati al Direttore, il quale ci disse che avrebbe fatto quanto stava in poter suo per rendere il soggiorno di Gavi un poco sopportabile, ma che non essendogli pervenute istru­zioni particolari, faceva mestieri che avessimo subito la severità dei regolamenti, passando cioè quindici giorni in segreta col solo nudri-mento della porzione di pane e di minestra distribuita ai prigionieri, senz'altro letto che il paglione del regolamento.

Ne si condusse separatamente in celle che torna assai difficile descrivere, avvegnacché fossero sia di giorno come di notte immerse in profonde tenebre, potendo una cattiva lucerna lumeggiarne appe­na le tristi pareti. La mia cella inoltre, siccome quella che confinava con tre condotti di cisterna, era corrosa dalla umidità. Mezz'ora dac­ché vi entrai vennemi portato un paglione e due coperte.

All'intendimento di conservare qualche po' di calore - eravamo al 10 di febbraio e nella montagna, - mi affrettai a coricarmi e ad invilup­parmi. Gli 11 febbraio col sorgere del dì mi si fece alzare acciocché mi uniformassi, diceasi, al regolamento: bisognava obbedire, e mi con­venne accoccollarmi in un angolo tutto tremante pel freddo, oppresso dalla febbre. Dissemi che il terzo giorno dal medico gli venne fatto mutare camera, ponendolo nell'officio dei condannati addetti alle scritture, e che ivi, avendo chiesto un nuovo e un poco di latte, vennegli risposto dal Direttore che come uovo sarebbe stato ben lieto di appagare la sua dimanda, ma che come direttore erane impos­sibilitato, essendoché un somigliante favore concesso in opposizione al prescritto dal regolamento poteva condurre alla di lui destituzione.

Caracciolo giunse in codesto momento: era egualmente diformato e dimagrato in maniera spaventevole. Ne disse che lunghesso il suo isolamento non eragli stato possibile mangiare la minestra del regola­mento, e perciò avere pregato il medico di volerla sostituire con una tazza di caffè; però siffatto favore gli era stato ostinatamente rifiutato.

Vedemmo poscia De Luca, de Angelis e Tortora, e questi signori, malgrado le privazioni, avevano mantenuto il medesimo sembiante. Tortora peraltro sembrava avesse maggiormente sofferto; egli aveva una gamba in parte paralizzata dall'umidità.

Durante il tempo da noi scorso in segreta, divorati dalla noia, né potendo scrivere per mancanza d'inchiostro e di penna, avea tentato proseguire il mio giornale traendo profitto dalla fuliggine che attac-cavasi al cappuccio della mia lucerna, mentre uno stecchetto della mia granata mi teneva le veci di penna.

Sabato 14 febbraio

Secondochè richiedea il regolamento, ci siamo alzati al sorgere del dì. I custodi si mostrarono indulgentissimi verso di noi, ed in ispe-zialità il capo custode, chiamato Boschi, vecchio gendarme piemon­tese, che sembrava il migliore degl'uomini. A mezzogiorno discen­demmo nel cortile, ove potemmo passeggiare tre quarti d'ora.

Alle due pomeridiane, mentre pranzavamo, un addetto all'amba­sciata inglese giunse da Torino per vedere Bishop, e pigliare informa­zioni circa il modo ond'era trattato. Bishop si lagnò vivamente dei cattivi procedimenti che aveva avuto a soffrire nei primi giorni.

Io pregai l'addetto d'indicarmi il giorno nel quale ebbe chiesto al Ministro il permesso di visitare Bishop a Gavi, ed essendomi rispo­sto: l'altr'ieri, gli dissi allora che non mi stupiva più d'essere usciti dal carcere duro e della mutazione conseguita da ieri. Nell'andarse-ne mi promise di dire all'Ambasciatore di Francia ch'io desiderava vivamente di vedere un addetto all'ambasciata per potergli fare, ancor io, i miei reclami.

Domenica 15 febbraio

Alle otto e mezzo andammo a messa in una cappella divisa in tre compartimenti, e noi entrammo nel primo. Durante l'uffizio divino, i condannati cantarono canzoni religiose con molta armonia; e molti fra essi hanno voci belle assai.

Lunedì 16 febbraio

In sulle otto e mezzo abbiamo ricevuto la visita di un ispettore delle prigioni nomato Vasia, il quale dopo aver osservato la nostra camera, ci fece chiamare individualmente per chiederci se avevamo doglianze a fare tanto rispetto alla nostra detenzione a Gavi, quanto intorno alla reclusione in Napoli. Io fui chiamato primo, e gli dissi che personal­mente non avea mai reclamato, ma che ebbi conoscenza e fui testimo­nio di molti fatti di una crudeltà inqualificabile.

Ed in appoggio delle mie asserzioni gli citai molti fatti, come quello del sergente Viscusi car­cerato a Napoli, ferito da quattro colpi di rivoltella, e lacerato da sciabo­late senza che ci facesse la minima resistenza. Codesto atto avea siffatta­mente esasperato il procuratore generale Trombetta, che questo magi­strato fece lo sfortunato Viscusi porre in libertà, motivando l'ordinanza di non farsi luogo al procedimento sugl'infami trattamenti della polizia.

L'ispettore parve stupito all'apprendere tali fatti, e mi disse che a Torino il governo italiano ne era stato sempre ignaro; ma io non man­cai di attestargliene la mia incredulità, stanteché il signor Spaventa, vecchio capo dei camorristi di Napoli, e promotore di pressoché tutti quegli abusi, apparteneva come Direttore al Ministero dell'Interno.

Tortora, chiamato dopo me, si dolse dei colpi e delle ferite a lui arre­cate dai carcerieri della Vicaria. Caracciolo si lamentò egualmente delle crudeltà subite, poscia della mancanza di riguardi in che era incorso il direttore del carcere di Santa-Maria verso la sua famiglia, e si diffuse infine sovra la maniera onde eravamo stati tratti sin qui. De Luca si lagnò esso pure dei colpi ricevuti.

Bishop s'intrattenne due ore e mezzo coli'Ispettore, dilungandosi dettagliatamente quanto agli abusi che eranglisi venuti rivelando nella prigione di Santa-Maria Apparente. Le tenebre in questo mezzo tempo erano sopraggiunte, e l'ispettore rimandò la continuazione della sua inchiesta al giorno seguente.

Martedì 17 febbraio

L'ispettore alle nove fece chiamare Bishop, muovendogli diverse dimande circa gli abusi nelle prigioni italiane. De Angelis fu nella stessa guisa interrogato. Prima di partire l'ispettore si presentò nuova­mente a noi per chiederci se avevamo altri richiami a fare; e da noi reclamossi contro il trasferimento in una casa di relegazione, dappoi­ché dietro alla commutazione della pena avrebbesi dovuto limitare a tenerci in detenzione pel volgere di dieci anni in una fortezza del regno.

Bishop e Caracciolo, che erano molestati da forti attacchi di petto, fecero entrambi osservare l'aria di Gavi essere troppo acuta e troppo fredda per fisici come i loro sfiniti. Il sig. Vasia ne promise di fare ogni suo potere per renderci la vita meno disagiata e meno sen­sibile la privazione della libertà. Codesto funzionario nel lasso di tempo che durò la sua inchiesta si addimostrò imparzialissimo, desi­deroso di conoscere la verità, sollecito a porgere ascolto ai nostri richiami, provocandoli altresì colle sue dimande.

Mercoledì 18 febbraio

Chiamati dal Direttore alle due, diede l'ordine di farci radere ogni sabato, perché il regolamento proibiva di portare la barba. Assegnò alcuni prigionieri per servirci, purché li avessimo rimune­rati di un franco e cinquanta centesimi al giorno.

Ne concesse pure la facoltà di scrivere una volta ogni settimana alle nostre famiglie, ma in italiano; e ci proibì di discorrere di qualsiasi cosa, eccetto che delle nostre private faccende. Egli lesse poscia a Tortora una lettera ministeriale, di risposta alla dimanda del medico della prigione che opinava prescrivergli di fumare una certa pianta come rime­dio: il ministro rifiutava di acconsentirvi perché, stante la proibi­zione del regolamento, non ravvisava punto la necessità di conce­dere la dimandata facoltà, ancora sotto la forma di prescrizione medica, aggiungendo dovervi essere altri rimedi per guarire il Tortora.

Il Direttore ci concesse un'ora di passeggio al giorno in un cortile attorniato da per tutto da vecchi fabbricati, i quali ne impedivano di penetrare collo sguardo al difuori, e vietavano eziandio ai raggi sola­ri di penetrare fino a noi.

Giovedì 19 febbraio

Alle due il Direttore venne a farci visita. Noi reclamammo di bel nuovo contro la nostra dimora in Gavi, dichiarando essere da noi preferito il bagno; imperocché egli era impossibile, avuto riguardo alla situazione stessa del luogo, tenere la menoma relazione esterna. Inoltre, essendo la temperatura di questa località asprissima, con­chiudevamo sempre che la nostra commutazione di pena altro non era in realtà che un'aggravazione.

Venerdì 20 febbraio

Nessuna novità; moriamo dal freddo e dalla noia; Caracciolo è sempre molto malato.

Sabato 22 febbraio

Alle undici, il direttore della prigione ci chiamò a sé, uno per volta, e, col pretesto di una discussione alquanto viva che aveva avuto luogo la vigilia tra Bishop e De Luca, minacciò tutti degli arti­coli 28, 29 e 30 del regolamento carcerario, vale a dire della segreta a pane ed acqua, coi ferri ai piedi e alle mani per un periodo di tempo dai dieci giorni a sei mesi.

Per l'avvenire ci venne vietato di visitarci reciprocamente nelle nostre camere sotto pena dei ferri e della segre­ta. Ci ritirammo nelle casematte, e dopo mezz'ora il capo custode venne ad affiggere un avviso del direttore, che era un riassunto del suo discorso e delle sue minacce.

Bishop cadde infermo; sorte eguale ebbero De Luca e Tortora, il che con Caracciolo porge già un contingente di quattro sovra sei. Il mio temperamento d'acciaio resiste.

Domenica 22 febbraio

Abbiamo ascoltata la messa alle otto, celebrata da un religioso che occupa l'officio di elemosiniere del carcere. Il direttore posto in seggio elevato era circondato dai suoi impiegati, occupanti sgabelli più bassi. In un recinto diviso dal nostro a mezzo di grosse sbarre di ferro si tro­vavano molte signore, le mogli per certo dei nostri carcerieri.

La malattia di Bishop peggiora, ed il direttore ha mandato pel medico che fa il servizio del carcere, e di quello del vicinato.

Al mezzodì ci si permise mezz'ora di passeggio, ed una seconda ne venne concessa per la sera.

Il console di Francia a Genova, che io sperava vedere, o in sua lontananza un addetto della legazione francese a Torino, non dando verun segno di vita, né essendo venuto a Gavi dacché io vi era giun­to, frattantochè la legazione britannica avea per l'opposto mandato un suo rappresentante alla prigione; mi determinai a indirizzare un reclamo al ministro degli affari esteri in Parigi, unendovi una lettera al sig. de Sartiges, ambasciatore di Francia in Torino.

Basai il mio richiamo sulla aggravazione della mia pena, mentre dicevasi di volerla mitigare. «Al bagno di Nisida, scriveva, il regolamento mi permetteva di respirare all'aperto otto ore sopra ventiquattro; di tenere corrispondenza come e quando io voleva colla mia famiglia e i miei amici; di accogliere le loro visite in tutte le ore del giorno; di procacciarmi una moltitudine di piccoli diletti, resi indispensabili dalla mia triste situazione: inoltre io dimorava vicino a Napoli, il cui clima é di grande dolcezza, dove avea numerosi amici: di presente sto rilegato in una prigione posta sovra uno scoglio elevato, in una regione che non offre verun vantaggio, lontano da qualunque importante centro di popolazione.

Sono sottomesso ad un regolamento, che concede soltanto due ore di passeggio al giorno in un cortile freddo ed umido, attorniato da alte mura. La camera ove scorro i miei giorni è una vecchia casamatta, la cui aria malsana ed agghiac­ciata può produrmi qualche grave malattia.

Per grazia speciale mi è stato permesso di scrivere una volta la settimana alla mia famiglia, ma convien farlo in italiano, acciocché il direttore sia in grado di pigliar notizia delle nostre lettere pria di apporvi la sua firma... Il regolamento consente dodici visite da farsi ai prigionieri in un anno, ma codesto numero è anche per me di soverchio, in seguito di questo trasporto in un paese nel quale niuno può stabilirsi. Laonde io chieg­go, diceva terminando, il benefizio della commutazione della pena, ovvero il mio ritorno al bagno di Nisida.»

Nella lettera al sig. de Sartiges lo pregava a mandare persona, che avesse potuto constatare la mia posizione, e a lui renderne conto.

Lunedì 23 febbraio

Alle due consegnai al direttore le lettere per il signor Drouyn de Lhuys e per il sig. de Sartiges; da lui vennemi annunziato, che nel dì appresso avrebbemi fatto cambiare camera. La giornata trascor­se senza verun nuovo incidente, continuando noi a seccarci mortal­mente.

Martedì 24 febbraio

Bishop non potendo sopportare il puzzo della lucerna, che il regolamento ne costringeva a tener accesa per tutta la notte, avea fatto comperar del cerino affine di illuminare la camera; ma il diret­tore avevagli ingiunto di non usare che la lucerna dal regolamento prescritta.

Il fetore da essa prodotto, accompagnato da quello delle latrine poste nella casamatta, rendeva l'atmosfera sì pesante e sì infetta, da farci alzare ogni mattino con terribile malore al capo. Perlocchè Bishop rivolse ulteriori reclami al direttore, il quale, man­date avanti difficoltà senza numero, accondiscese a che ci fossimo valsi di cerino.

Chiamato alle due nell'officio del Direttore, scorsi all'entrare un vecchio dall'aria piena di bonomia e colla faccia tutta dipinta. Si pre­sentò come incaricato da suo nepote - il nepote lo era dalla sig. Marchesa... - d'informarsi de' miei bisogni e aver notizie della mia salute.

Mi disse che la signora marchesa... era legata in amicizia con mia sorella, e che ella in riguardo delle istanze di questa si era con­dotta a codesto passo. Codesto uomo da me ringraziato ed incaricato della trasmissione delle mie azioni di grazie, mi replicò con una filastrocca, detta con voce un po' commossa, nella quale, dopo aver par­lato dell'eccessiva bontà d'animo e magnanimità di S. M. il re Vittorio Emanuele, concluse assicurandomi che, ove la mia condotta non avesse irritato di soverchio verso di me i signori ministri, avrei ricevuto a capo di pochi anni di detenzione la grazia. A siffatto discorso mi guardai bene dal rispondere; ed augurata la buona sera al mio oratore mi ritirai sollecitamente.

Alle tre il direttore ci fece mutar camera: Bishop rimase nella vec­chia; io e Caracciolo andammo ad occuparne un'altra tanto fredda ed oscura quanto quella abbandonata. Quando la porta ne è chiusa, vi è appena la luce indispensabile per essere in grado di leggere o di scri­vere. Questa giornata finì nella medesima triste guisa delle altre.

Mercoledì 25 febbraio

Oggi soltanto avrebbe avuto fine il nostro carcere duro, se l'amba­sciata inglese da Torino non avesse qui spedito uno dei suoi addetti ne' primi giorni dell'arrivo di Bishop.

Nel corso del dì interrogai il capo custode all'intendimento di sapere non solo il numero degli infermi nella prigione di Gavi, ma altresì il numero dei morti in ogni anno. «Oh! egli mi disse, non si può dire con certezza: nei buoni anni non ne muoiono che dieci o dodici sovra cento, e nei cattivi quindici o venti.» Siffatta risposta dava luogo a riflettere.

Giovedì 26 febbraio

Per seconda richiesta del medico, il Ministro permise a Tortora di fumare la pianta medicinale prescrittagli.

Venerdì 27 febbraio

II Direttore venne a visitarci, e si mostrò di una amabilità da noi finora non esperimentata. Da ciò deduco che tra non guari vedremo apparire un console o un addetto di legazione. Son più di quindici giorni che aspetto con impazienza notizie della mia famiglia e dei miei amici, né so a che attribuire questo silenzio.

Sabato 28 febbraio

Sulle dieci del mattino il direttore mi ha portato una lettera, la quale mi cagionò vivissimo piacere, malgrado che fosse rimasta per via dieci giorni passando da Torino onde venire a Gavi. Dileguossi il dì senz'altra novità.

Domenica 1 marzo

Fummo condotti nelle otto e mezzo ad assistere alla messa. Alle due il Direttore ci annunzio che l'ispettore generale del ministro dell'interno, il sig. Peri, era giunto a Gavi colla missione di condurre nella cittadella d'Alessandria Bishop, De Luca e me. Il direttore si fece ad osservare al cavalier Peri come l'ordine del ministro non facesse ricordo di Caracciolo, ma egli si addossò la responsabilità di condurlo via con noi. Poscia facemmo in tutta fretta i bauli, e ci ponemmo in cammino.

Giunti al villaggio di Gavi trovammo la popolazione affollata attor­no la carrozza destinataci. Quella buona gente ci si schierò d'intorno al nostro avvicinarsi e ci accolse con segni non dubbi di simpatia, e quasi dicea di rispetto. Salimmo in vettura accompagnati da tre gendarmi e procedemmo alla volta della stazione di Serravalle, ove, per cura del cavalier Peri che verso di noi diede prova di squisitissima cortesia fummo posti in un vagone di seconda classe.

In Alessandria fummo ricevuti dal Direttore dello Stabilimento peni­tenziario, il cavaliere Locatelli e da un maggiore di gendarmeria, i quali misero a nostra disposizione un legno coperto perché fossimo condotti alla cittadella. Non appena giunti, io ed i miei compagni venimmo pre­sentati al comandante del forte, che ci ricevette gentilmente.

La camera ove io fui collocato con Caracciolo e De Luca per ampiezza e ariosità ne appagava, e vi erano letti buoni e puliti; insom­ma, io, non che i miei compagni, dopo una prigionia di diciannove mesi, siamo stati trattati per la prima volta come detenuti politici.

Bishop venne posto in altra camera, de Angelis e Tortora sono rimasti a Gavi.

A noi si diede per carceriere un sotto custode del Penitenziario, con due suoi subalterni. Eglino hanno buon aspetto, e prevengono in loro favore.

Lunedì 2 marzo

Alle nove il cavaliere Peri e il direttore del Penitenziario vennero in camera nostra; ci richiesero di ogni minimo desiderio, e ci prega­rono di comunicar loro tutti i nostri reclami. Il cavalier Peri mi facol-tizzò di ricevere certi giornali, e ne disse che ci sarebbe consentito di passeggiare quattr'ore in ciascun giorno.

Nell'atto di partire, questi signori ebbero a ripetere come da noi si avesse in qualsiasi occasione a fare assegnamento sulle loro racco­mandazioni. Alle due siamo usciti per passeggiare, accompagnati dal sotto-custode, in una piccola corte tra una polveriera ed il bastio­ne Beato Amedeo.

Martedì 3 marzo

Alle nove e mezzo il sotto-custode mi portò una lettera della famiglia S...; arrecavami la triste novella della morte dell'abbate Godard, amico eccellente, il quale non avea cessato, fin dai primi istanti della mia prigionia, d'intercedere per la mia libertà. Alla vigi­lia della sua morte egli scriveva tuttavia ai suoi amici di Torino lusin­gandosi che gli venisse fatto di migliorare alquanto la mia posizione di prigioniero.

Durante la passeggiata serale, c'imbattemmo nel generale Pianelli napolitano, comandante la divisione d'Alessandria.

Mercoledì 4 marzo

II cavaliere Locateli] alle otto e mezzo mi portò alcune lettere e parecchi giornali: egli fé' vedere a Caracciolo un ordine del mini­stro pel quale veniva ingiunto di porre De Luca in una camera separata, e di lasciare solo con me Caracciolo.

Alle dieci l'ispettore sig. Lauro, uomo eccellente, mi diede alcuni libri francesi. In questa sera abbiamo mandato una lettera di ringra­ziamento al cavalier Peri, e per dirgli quanto il suo modo d'agire ci avesse commossi.

Giovedì 5 marzo

Mi è stato partecipato dal direttore essere arrivato alcune lettere a noi indirizzate, ma non averle potuto decifrare, e quindi essergli stato mestieri di mandarle a Torino.

Venerdì 6 e sabato 7 marzo

II giorno di ieri, venerdì, fu privo di novità. Oggi abbiamo avuto un'altra visita dell'ispettore signor Lauro, accompagnato dal maggiore comandante il forte. Percorrendo il giornale l'Italie, vi ho letto un perio­do tolto dal giornale la France del seguente tenore: «La Frutice crede sapere che il governo francese ha manifestato al gabinetto di Torino il desiderio che venga posto in libertà completa il conte de Christen.» Lo debbo credere e sperare? Non l'oso, tanto io pavento altri inganni.

Lunedì 9 marzo

La sera, alle tre, il direttore del penitenziario, sig. cav. Locatelli e l'ispettore Lauro, ci hanno visitato per informarsi dei nostri bisogni. Il direttore è l'uomo il più dolce, il più benevolo in cui ci siamo incontrati.

Giovedì 12 marzo

II cav. Locatelli mi ha recato alcune lettere ch'erano rimaste undici giorni negli offici del ministero, e al tempo stesso mi ha fatto leggere una nota del ministro che mi avvisava come, essendo state trovate le mie corrispondenze piene di frasi ostili alla nuova Italia, se ciò si rin­novasse egli vedrebbesi obbligato ad intercettarle.

Venerdì 13 marzo

Ho ricevuto un giornale, e la prima cosa che m'è caduta sott'occhio, nel resoconto dei dibattimenti del parlamento italiano, è stata l'interpellanza indirizzata al ministero dell'Interno dal signor Alfieri d'Evandro, rapporto alla mia prigionia. Questo deputato chiedeva le cause delle mitigazioni che l'aveano alleggerita, e si dole­va amaramente che fossi stato fatto uscire dal bagno. Soddisfatto dell'ambigua risposta del ministro, il sig. Alfieri d'Evandro racco­mandava con forza al governo di tener duro in somiglianti affari, perché non ne scapitasse, dicea egli, l'amor proprio nazionale.

Mercoledì 18 marzo

II direttore venne a portarci in sul mattino alcuni libri che il con­sole francese a Genova aveva ricevuto per me. Alle tre ricevetti la visita del sig. d'Arces che era di passaggio in Alessandria per recarsi a Grenoble. Siccome da gran tempo è la sola persona di conoscenza che abbia vista, questa visita mi ha fatto gran piacere.

Giovedì 19 marzo

Mi è stata recapitata una lettera della legazione francese a Torino, nella quale mi si accusava ricevuta del reclamo scritto a Gavi il 22 febbraio.

Caracciolo è gravemente malato. Son venuti oggi a visitarlo due medici, come ancora il cav. Locatelli e l'ispettore Lauro che ci usano tutti i riguardi. Caracciolo avea avuto nella notte un attacco di bile che avea poco mancato di torlo di vita, e non avea ripreso i sensi se non dopo due ore di cure e di angoscie.

Sabato 21 marzo

Lo stato del povero Caracciolo è sempre gravissimo. Né il buon cav. Locatelli, né i due medici tralasciano di visitarci continuamente nella nostra camera.

Domenica 22 marzo

Mi sono giunte due lettere, una della famiglia S... che m'è sì affezio­nata, l'altra della marchesa de Scey, mia zia, la quale mi dice aver rice­vuto dal conte di Sartiges una lettera, in cui questi le facea intravede­re come molto prossima la mia liberazione; ma questa illusione più non mi lusinga!

Lunedì 23 - Martedì 31 marzo

Caracciolo ha ottenuto un quasi impercettibile miglioramento; la nostra esistenza continua piena di monotonia; i giorni si seguono e si rassomigliano tutti.

Mercoledì 1 aprile

Mi è stata consegnata una lettera del Console generale francese a Genova. A motivo de' pressanti reclami de' miei amici che erano rimasti privi di mie notizie, mi scriveva egli in termini molto cortesi per pregarmi d'informarlo del modo con cui era trattato ad Alessandria. Sono state trovate all'officio di posta della città le lettere che avea scritto da un mese.

Domenica 5 aprile

A un'ora ricevetti la visita del conte Manfredo de Berton-Sambucy, antico ambasciatore del re di Piemonte presso il Papa. Il sig. de Berton compieva, disse egli, una promessa fatta a una delle sue cugine Mme de L... la quale era stata compiacente ad interessarsi per me pregatane dalla marchesa di Maligay, cugina de' miei buoni amici i Maligay di Marsiglia. Il sig. de Berton aggiunse contar egli ch'io avrei disposto di lui e avrei utilizzato la sua buona volontà; mi lasciò dopo una mezz'ora promettendomi di tornare; e sono lietissi­mo di pensare che di tempo in tempo godrò della società di questo uomo di spirito, di questo perfetto gentiluomo.

Lunedì 6 aprile

Tortora e de Angelis sono arrivati ad Alessandria da Gavi, e sono stati collocati in una camera separata dalla nostra.

Martedì 7 - Venerdì 24 aprile

Niente di nuovo. Se se ne eccettui che è venuta a farci visita la

superiore delle religiose, che hanno in cura i malati della casa di Alessandria.

Questa mattina 24, Caracciolo e De Luca sono stati chiamati alla presenza di un giudice d'istruzione per deporre come testimonii nel processo intentato al cav. Torrenteros, detenuto a Santa-Maria-Apparente a Napoli da quasi un anno! Questo magistrato comunicò loro una lettera proveniente da Roma e sequestrata alla posta di Napoli. La polizia pretendeva che questa lettera era destinata al sig. Torrenteros, quantunque l'indirizzo portasse altro nome, e perciò avea arrestato il sig. Torrenteros. In ogni modo questa lettera era così incon­cludente che i tribunali napolitani, avendo rinunciato a capirne il senso, l'aveano spedita ad Alessandria perché i sigg. Caracciolo e De Luca, amici del sig. Torrenteros, ne dessero la spiegazione. Questi signori dissero al giudice d'istruzione che la lettera era tanto indecifra­bile per essi, quanto lo era stata pel tribunale di Napoli e che si meravi­gliavano d'essere interrogati circa simile futilità.

Sabato 25 aprile

Lo stesso giudice che ieri avea interrogato Caracciolo é venuto oggi ad interrogar me, ma per un altro e più strano motivo. Il tribunale d'Ancona vuoi girarmi un processo a causa della mia antica spedizione degli Abruzzi, non facendo conto alcuno dell'accomodamento conclu­so a Roma con l'intermezzo del sig. de Grammont, fra il Re di Napoli e il governo di Vittorio Emanuele, pel quale io, i miei officiali e i miei sol­dati eravamo al coperto di qualunque molestia giudiziaria, pei fatti relativi a quella spedizione.

Mi sono pertanto rifiutato a rispondere a questo interrogatorio, ma, siccome avea a che fare con un uomo le cui cortesi maniere mi aveano guadagnato il cuore, gli dissi che non avrei avuto ritegno a spiegargli qualche dettaglio intorno la mia spedizione, non alla guisa di un detenuto che parla al suo giudice, ma come un uomo di mondo che parlò a un altro uomo di mondo. Egli accettò la mia proposizione e mi disse che sarebbe tornato il lunedì.

Tornato in camera, scrissi immediatamente all'Ambasciatore di Francia a Torino e al Ministro degli affari esteri a Parigi, per avvisarli di questa nuova persecuzione.

«Eccellenza, diceva al Ministro, sono obbli­gato di ricorrere a vostra Eccellenza e alla protezione della Francia per un secondo processo che mi è intentato pei fatti accaduti all'epoca della mia spedizione negli Abruzzi; processo tanto più strano in quanto che la colonna da me comandata fu, dopo la sua ritirata sul territorio roma­no, dieci giorni caduta Gaeta, guarentita da ogni persecuzione, da una convenzione conclusa tra il governo francese e l'italiano; convenzione che fu fatta in seguito al formale rifiuto d'un migliaio, tra officiali e sol­dati, di tornare alle loro case, se non erano guarentiti da ogni atto arbitrario da una estera potenza.

La cieca confidenza ispirata loro dalla francese lealtà e le reiterate assicurazioni del signor de Grammont e del generale de Goyon potè solo deciderli ad imbarcarsi sul battello italia­no La Costituzione inviato a Civitavecchia a questo effetto.

Questi uomi­ni, giusta la convenzione, doveano godere degli stessi vantaggi di quel­li che aveano capitolato a Gaeta. Vostra Eccellenza immaginerà pertan­to la mia sorpresa, essendomi veduto questa mane interrogato da un giudice d'istruzione siccome accusato di avere invaso con bande arma­te il territorio di S. M. Vittorio Emanuele, a fine di rovesciare il suo governo...

Pare che i dieci anni di galera che mi sono stati inflitti, non sieno stati se non a titolo di prova. Senza dubbio, in veggendo l'indifferenza del mio governo, le autorità di questo paese si sono finalmente strappata la maschera, e, a fronte scoperta, m'intentano un processo capitale...

A queste nuove accuse risponderei col più profondo disprezzo, se con me non si trovassero compromessi una massa di napoletani, che subiscono le conseguenze della cieca fidan­za cha hanno avuto nell'onore del vessillo francese e nella santità delle assicurazioni de' rappresentanti della Francia. In quanto a me, siccome il capo principale d'accusa verte sull'attacco di Collalto, mi sarà facile giustificare che alla presa di questa fortezza, io era a Roma ec.» Terminai pregando Sua Eccellenza a far porre termine a questa procedura.

Domenica 26 aprile

Abbiam ricevuto la visita del cav. Locatelli, e questo eccellente Direttore ci s'è mostrato vero amico.

Lunedì 27 aprile

II giudice d'istruzione m'ha fatto chiamare a dieci ore. Ho accon­sentito, come gli avea detto, a rispondere benevolmente alle sue domande, ed ho inviato una copia del processo-verbale dell'interro­gatorio all'Ambasciatore di Francia a Torino, aggiungendovi una let­tera: «Ciò che mi decide a questo passo, gli ho scritto, si è che io non considero le inquisizioni del tribunale di Ancona dirette contro la mia persona, poiché mi sarebbe troppo facile provare ch'io non assi­steva all'attacco di Collalto per temer il resultato; ma questo proces­so, ledendo l'onore del mio paese, perocché dal momento che si per­seguitano criminalmente degli uomini che sono sotto la salvaguardia della bandiera francese, e che non hanno acconsentito a rientrare nella loro patria se non sotto la sua protezione, io credo indispensa­bile che Vostra Eccellenza sia istruita dei più minuti dettagli di que­sto affare.»

Pregava, pertanto l'Ambasciatore, inviare ad Alessandria uno degli addetti alla Legazione, affinchè potessi dargli le più ampie spiegazioni.

Sabato 2 maggio

II direttore della prigione m'ha trasmesso un avviso del sig. mini­stro dell'Interno per prevenirmi che le mie lettere erano state recapi­tate all'ambasciatore

Domenica 3 e Domenica 31 maggio

Nessun nuovo incidente in tutto questo mese. Abbiamo letto nei giornali i resoconti delle sedute di parlamenti inglesi ed italiani. Abbiamo fra altri letto il discorso del sig. Peruzzi, in cui questo mini­stro annunciava alla Camera ch'esso affrettava con tutti i suoi voti il momento nel quale il Governo di S. M. il re Vittorio Emanuele potrebbe renderci a libertà, senza ferire, diceva egli, le suscettibilità nazionali - parole elastiche di cui non sappiamo capire il senso. Forse il momento favorevole aspettato dal ministro sarà la festa nazionale del 7 giugno. Una lettera del sig. Peruzzi al sig. Bishop ce lo farebbe quasi credere, ma questa speranza sarà essa realizzabile?

Domenica 7 giugno

Ricevo lettere da molte parti, le quali m'annunziano prossima la mia liberazione. Ma m'è oggimai ben difficile l'illudermi! Però il signor Nigra, ambasciatore a Parigi, ha dato a parecchie persone la sua parola d'onore che ciò succederebbe in breve. Una petizione diretta in mio favore al senato francese da uno de' miei parenti, il Visconte Carlo di Saint-Priest, non ha potuto essere l'oggetto d'un rapporto e in con­seguenza d'una discussione.

Non ho ancora ricevuta, e l'aspetto con impazienza, la risposta del signor de Sartiges a'miei reclami, fatti nel mese d'aprile, circa il nuovo processo che mi è intentato, a capo del quale sarebbe possibile ch'io mi vedessi riserbato all'ultimo supplicio. Se fossi impressionabile su questo rapporto chi può dire l'esistenza ch'io avrei passato sospeso così per molti mesi fra la vita e la morte!

Domenica 14 giugno

Come prevedeva, le assicurazioni date dal signor Peruzzi o dal signor Nigra sono rimaste vuote d'effetto. Noi siam sempre fra le quattro mura della cittadella d'Alessandria. Un pittore prussiano, il signor Franz Thelen venendo da Roma mi ha fatto una visita con sua moglie da parte della famiglia S... ed io ne sono felice.

Giovedì 18 giugno

Da cinque mesi che sono alle porte di Torino, nessuno dei rappre­sentanti della Francia, accreditati alla Corte italiana, è venuto a vedermi, fosse pure stato per un quarto d'ora, malgrado le ripetute mie istanze. Ho nuovamente scritto al signor Drouyn de Lhuys per parlargli del processo che ha avuto per conseguenza la mia condan­na, e di quello che attualmente mi si comincia: spero che il racconto dei fatti, nel mentre edificherà il Ministro circa la mia situazione, lo interesserà ancora sulla mia sorte.

Ho inviata questa lettera al sig. de Sartiges, ambasciatore a Torino, dandogli parte del mio timore che il Ministero non abbia dato corso alle mie tre ultime lettere, mentre tre settimane dopo quest'invio, il sig. Drouyn de Lhuys, cui era indiriz­zata una di queste lettere, assicurava uno de' miei parenti di non aver ricevuto nulla da mia parte.

M'è oggi giunta la dolorosa nuova della morte di mio cugino e cognato il conte Casimiro di Montrond, rapito all'età di ventinove anni da un attacco d'apoplessia: così giovane!

Venerdì 26 giugno

II Direttore è venuto ad annunziarmi per ordine del Ministero, che le mie ultime lettere al sig. Drouyn de Lhuys e al sig. de Sartiges non sarebbero recapitate. Il Ministro ordinava al tempo stesso d'esercitare la più rigorosa sorveglianza sulla nostra corri­spondenza, e non ci permetteva dare se non notizie della nostra salute.

Domenica 28 giugno

II Direttore ha distrutto una lettera del sig. Caracciolo col pretesto che vi parlava del suo giudizio.

Lunedì 29 giugno

Mi è stata respinta una lettera accompagnata da un biglietto d'avvi­so, nel quale erano sottolineate queste parole: «II governo vi permette di scrivere alla vostra famiglia circa lo stato di vostra salute, ma non oltre.»

Lunedì 6 luglio

II Direttore ha restituito a Caracciolo una delle sue lettere perché vi si leggeva una frase che non gli pareva chiara.

Martedì 7 — Lunedì 13 luglio

Sono inquieto, non ricevendo notizie né dalla Francia, né dalla famiglia S...

Martedì 14 luglio

II Direttore è venuto a visitarci; e siccome avea un qualche sospet­to che il ministro avesse fatto sparire le lettere che m'erano indirizza­te, pregai il sig. Locatelli di dirmi se gli era stato dato ordine di spe­dire la mia corrispondenza al ministero. Si ha, gli dissi, il diritto di distruggere le mie lettere, ma non certo quello di lasciarmi nel dub­bio circa le persone che mi sono care; non desidero altro, se non che sapere se queste persone vivono ancora e se mi hanno scritto.

Il sig. Locatelli m'ha risposto che nessuna lettera era giunta al mio indirizzo.

Ho scritto nuovamente al sig. de Sartiges per pregarlo, nei più pressanti termini, ad acconsentire finalmente che mi fosse inviato uno degli addetti della legazione alla cittadella d'Alessandria.

Mercoledì 15 luglio

Conoscendo la scrittura del sig. de Bonnières, primo segretario della legazione, gli ho chiesto di consegnare un biglietto scritto di suo pugno alla persona che sarebbe incaricata di visitarmi per impedire qualunque errore potesse provenire da una sostituzione di persone.

Domenica 19 luglio

II ministro m'ha respinto la lettera indirizzata al sig. De Bonnières, facendomi dire non essermi permesso di scrivere a un particolare con una sopraccarta sigillata.

Martedì 28 luglio

Ho ricevuto la visita del sig. Frank Mulins, irlandese, uno de' miei amici indirizzatomi dalla famiglia S... L'abboccamento si è pro­lungato per due ore. Era da lungo tempo che non avea provato gioia sì viva e passati momenti sì felici.

Martedì 5 agosto

Ho ricevuto la visita del sig. S... uno de' miei migliori amici. Mi ha dato novelle recentissime di Roma, donde viene e ove ordinariamente dimora. Dopo una conversazione di due ore, ci ha lasciati pro­mettendoci di ritornare l'indomani.

Mercoledì 6 agosto

II sig. S... è tornato a vederci prima di abbandonare Alessandria.

Giovedì 27 agosto

II visconte Cav. di Saint-Priest, mio cugino, è venuto ad Alessandria. Lo scopo del suo viaggio era Torino, ove intendeva chiedere ai Ministri italiani quali erano le loro intenzioni a mio riguardo. Io non lo so che troppo, grazie a una esperienza di due anni.

Giovedì 27 agosto

Mi è stata recapitata una lettera del visconte di Saint-Priest, nella quale lui fa sapere che la sua domanda a Torino non ha prodotto alcun resultato. Gli hanno solo risposto che mi sarebbe stata ridonata la libertà alla prima amnistia. Come è preciso!

Dal 27 Agosto al 1 Novembre 1863 nulla è avvenuto nella Cittadella d'Alessandria che riguardasse la nostra sorte. Fu a quest'ultima data che il re Vittorio Emanuele, andando a inaugurare la nuova ferrovia d'Ancona a Foggia, pubblicò a Napoli un'amnistia, nella quale furono compresi i signori Caracciolo, De Luca, Tortora, Bishop e me

Uscii dalla Cittadella d'Alessandria nei primi giorni di Dicembre e mi recai a Livorno accompagnato da un commissario di polizia e dai suoi agenti. Là però mi aspettavano nuovi imbarazzi, perché il Console di Francia si rifiutò a rilasciarmi un passaporto francese, senza il quale non poteva salire a bordo dei battelli a vapo­re diretti a Marsiglia. Per buona sorte avendo incontrato un inglese mio amico che fu contento di imprestarmi il suo passaporto, m'imbarcai nella notte di quel giorno, e quarantotto ore dopo era in Francia!

Un mese più tardi mi portai a Roma ove avea a regolare affari pri­vati e a rivedere alcuni amici. Mi ci trovava da quindici giorni, quan­do il gabinetto di Torino fece delle pratiche presso il governo france­se per farmi uscire dal territorio romano. E vi riuscì, perché fui obbli­gato a partire senza ritardo.








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