Patrick Keyes O’Clery, irlandese, aveva 18 anni quando nel 1867 si arruolò tra gli Zuavi per difendere il Papa: partecipò alla battaglia di Mentana dall’altra parte, ossia contro i garibaldini. A 21 anni, nel 1870, è nel selvaggio West americano a caccia di bisonti. Ma, appreso che l’esercito italiano si prepara a invadere lo Stato Pontificio, torna a precipizio: il 17 settembre ‘70 è a Roma di nuovo. E’ filtrato tra le linee italiane con due compagni, un nobile inglese e un certo Tracy, futuro deputato del Congresso Usa. In tempo per partecipare, contro i Bersaglieri, ai fatti di Porta Pia.
Tornato in Inghilterra ed eletto parlamentare, si batterà per
l’autonomia dell’lrlanda. Nel 1880 abbandona la politica
per dedicarsi
all’avvocatura. Morirà nel 1913, avendo lasciato due
volumi
sulla storia dell’unificazione italiana. L’opera, che le
edizioni Ares
di Milano manderanno in libreria alla fine di agosto (Patrick K.
O’Clery, La Rivoluzione Italiana. Come fu fatta
l’unità della
nazione, 780 pagine, 48 mila lire), sarà presentata al prossimo
Meeting di Rimini giovedì 24 agosto. Opera stupefacente degna
del suo avventuroso autore, dovrebbe essere letta nelle scuole
italiane: e non solo come esempio di revisionismo storico precoce e
antidoto alla mitologia del Risorgimento. Vedere l’Italia con
l’occhio
di uno straniero di cultura anglosassone - allora il centro culturale e
politico del mondo - risulterà salutare.
Esempio. A proposito del brigantaggio del Sud, stroncato In anni
spietati dal Regno d’Italia, O’Clery riporta voci di
dibattiti
parlamentari a Torino. Il deputato Ferrari, liberale, che nel novembre
1862 grida in aula: "Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la
loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei
briganti hanno riportato due volte i Borboni sul trono di Napoli.
E’
possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati
da due o tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120 mila
uomini? Ho visto una città di 5 mila abitanti completamente
distrutta e non dai briganti" (Ferrari allude a Pontelandolfo, paese
raso al suolo dal regio esercito il 13 agosto 1861). O’Clery
riferisce
i dubbi di Massimo D’Azeglio (non certo un reazionario) che nel
1861 si
domanda come mai "al sud del Tronto" sono necessari "sessanta
battaglioni e sembra non bastino": "Deve esserci stato qualche errore;
e bisogna cangiare atti e principii e sapere dai Napoletani, una volta
per tutte, se ci vogliono o no… agli Italiani che, rimanendo
italiani,
non volessero unirsi a noi, credo non abbiamo diritto di dare delle
archibugiate". Persino Nino Bixio, autore dell’eccidio di Bronte,
nel
‘63 proclamò in Parlamento: "Un sistema di sangue è
stato
stabilito nel Mezzogiorno. C’è l’Italia là,
signori, e se
volete che l’Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e
non
con l’effusione di sangue". O’Clery non manca di registrare
giudizi
internazionali sulla repressione. Disraeli, alla Camera dei Comuni, nel
1863: "Desidero sapere in base a quale principio discutiamo sulle
condizioni della Polonia e non ci è permesso discutere su quelle
dei Meridione italiano. E’ vero che in un Paese gl’insorti
sono
chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma non ho appreso in
questo
dibattito alcun’altra differenza tra i due movimenti".
O’Clery fornisce alcune cifre. Tra il maggio 1861 e il febbraio
1863,
l’esercito italiano ha catturato "con le armi" e perciò
fucilato
1038 rivoltosi; ne ha uccisi in combattimento 2.413; presi prigionieri
2.768. Inoltre; "Secondo Bonham, console inglese a Napoli,
sistematicamente favorevole ai piemontesi, c’erano almeno 20 mila
prigionieri politici nelle carceri napoletane", ma secondo altre stime
80 mila. I più - indovinate - in attesa di giudizio, o
addirittura del primo interrogatorio, "senza sapere di cosa fossero
accusati", in celle sovraffollate: testimonianza di Lord Henry Lennox,
un turista di rango che nel 1863 visitò appunto le prigioni di
Napoli.
Altro esempio: la politica finanziaria del neonato Regno
d’Italia. Non
vi stupirà sapere che l’Italia anche allora covava un
deficit
mostruoso. O’Clery fornisce dati precisi di bilancio. Ma
basterà
un suo dato: il deficit del Regno nel 1866 fu di 800 milioni di lire,
"Cifra pari alla metà delle entrate della Gran Bretagna e
lrlanda", ossia del Paese allora più ricco d’Europa.
Deficit
coperto da "prestiti e ipoteche sui beni nazionali, vendita di beni
demaniali e istituzione di monopoli", ovviamente coperti da stranieri,
prodromo e causa della durevole dipendenza italiana da interessi
finanziari estranei. "Altra grande risorsa fu la rapina ai danni della
Chiesa", la confisca dei beni e degli ordini religiosi, "che nel solo
1867 fruttò 600 milioni". La condizione della Chiesa nel Regno
viene così riassunta dal nostro irlandese: "Esilio e arresto di
vescovi; proibizione di pubblicare le encicliche papali; detenzione di
preti e sorveglianza della loro predicazione; soppressione di capitoli
e benefici e incameramento dei beni; chiusura di seminari; leva
obbligatoria per i seminaristi; rimozione delle immagini religiose
sulle vie e divieto di processioni".
Se il lettore d’oggi troverà in questo riassunto qualche
tratto
anacronisticamente sovietico, non è tutto. Leggendo
O’Clery,
finirà per chiedersi se i cronici mali italiani che siamo
abituati a considerare "retaggi borbonici" (ottusità
amministrativa, inefficienza e improvvisazione, centralismo
autoritario) o persino "fascisti" (tracotanza guerrafondaia) non
sarebbero invece da ribattezzare savoiardi o piemontesi. L’enorme
deficit del regno, scrive O’Clery, è dovuto alle spese per
mantenere "il più grande esercito d’Europa" e formare "una
marina imponente per numero e qualità", nel tentativo di
"recitare il ruolo di grande potenza". Quel costoso esercito fu come
noto sconfitto dagli austriaci a Custoza, per l’insipienza
dell’"eroe"
Lamarmora (ma anche Garibaldi, che proclamò di prendere Monaco
"in quindici giorni", fu bloccato in Trentino da pochi jaeger).
L’enorme flotta corazzata subì a Lissa la nota umiliante
sconfitta, contro navi di legno.
Poteva mancare il ricorso all’iniqua pressione fiscale? Non
mancò. "Nel Regno delle Due Sicilie la tassazione era, nel 1859,
di 14 franchi a testa. Nel 1866, sotto il nuovo regime, le tasse erano
salite fino a 28 franchi a testa, il doppio di quanto pagava
l"’oppresso" popolo napoletano prima che Garibaldi venisse a
liberarlo".
La tassa sul macinato, bersaglio polemico dei patrioti mazziniani
quando l’applicava il governo pontificio, "fu più che
raddoppiata ed estesa a tutte le granaglie, perfino alle castagne".
Causa la fiscalità, vi stupirà sapere che fu necessario
organizzare "la lotta all’evasione"? Fu organizzata, e manu
militari. I
contribuenti in arretrato subivano "perquisizioni domiciliari" e
durante queste "visite", che evidentemente duravano giorni e notti,
avevano l’obbligo di cedere ai soldati "i letti migliori" nelle
loro
case. Ciò non impedì che il Regno restasse sempre in
pericolo d’insolvenza. Tanto che i titoli del debito pubblico
italiano
"si vendono a 33 punti sotto il loro valore nominale", al contrario del
debito napoletano; che "fino al 1866 era così solido, che i suoi
titoli si ponevano al disopra del nominale". Si dirà il prezzo
fu alto, ma almeno il Sud fu raggiunto dalla modernità, i
piemontesi portarono un’amministrazione più razionale;
saranno
stati ottusi, ma erano incorruttibili No. "La contabilità
pubblica si trovava in condizione spaventosa, ordini di pagamento non
autorizzati apparivano continuamente nei registri della Corte dei
Conti", e il caos favoriva "malversazioni di ogni genere".
O’Clery cita: "Nel 1865 il ricevitore generale delle imposte a
Palermo
fuggi con 70 mila franchi; a Torino fu scoperta una stamperia di
tagliandi del debito pubblico e un impiegato delle Finanze, processato
per ciò fu assolto ...L’anno 1866 portò alla luce
le
frodi degli impiegati incaricati della vendita dei beni ecclesiastici;
a Napoli un alto ufficiale di polizia fu arrestato per essersi
appropriato di fondi destinati ai pubblici servizi. Casi simili se ne
possono citare all’infinito", conclude O’Clery: e
chissà
perché, noi spettatori di Tangentopoli 1992, siamo inclini a
credergli sulla parola. Ma almeno, uno stato militaresco, mise ordine
nel disordine pubblico del Meridione? Stroncò la mafia?
Serafico, O’Clery dà la parola alla Guida della Sicilia
una
guida turistica per inglesi, scritta da un certo Murray, che metteva in
guardia: "Le strade siciliane non sono più sicure come al tempo
del governo borbonico, il quale. Pur con tutti i suoi errori ebbe il
merito di rendere le sue strade sicure come quelle del Nord Europa".
Piacerebbe non crederci. Attribuire questi racconti all’animo
papalino
e "reazionario dello storico. Purtroppo, qualcosa lo impedisce.
L’Italia vista dagli occhi di O’Clery ci appare
sinistramente
familiare. Per noi lettori del Duemila, l’effetto è un
déjà vu.
Ai sensi della legge n.62
del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e
del web@master.