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La “questione settentrionale”

di Alfredo Canavero

Quello che segue è il testo dell'intervento di Alfredo Canevaro al secondo convegno del ciclo L’italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta che si è svolto il 22 e 23 novembre all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana di Roma.


Il successo elettorale delle “leghe” nelle elezioni della prima metà degli anni Novanta ha reso manifesto agli occhi dell’opinione pubblica italiana l’esistenza di una “questione settentrionale”, prendendo di sorpresa non pochi osservatori. Le prime leghe erano state fondate alla fine del 1979 e avevano vissuto nei primi tempi una vita stentata, irrise da molti che ne vedevano solo il lato folcloristico.


Neppure l’elezione di un deputato e di un senatore della Liga Veneta nel 1983 e di un deputato e di un senatore della Lega Lombarda nel 1987 modificarono un tale atteggiamento di sufficienza. La classe politica restò indifferente anche al clamoroso risultato delle elezioni amministrative del 1990, quando la Lega, con quasi il 19% dei voti, divenne il secondo partito della Lombardia.


Fu solo con i risultati delle elezioni politiche del 1992 che il fenomeno non poté più essere ignorato e si cominciò a parlare comunemente della “questione settentrionale”. In realtà una “questione settentrionale” -si può dire- è esistita almeno fin dalla proclamazione del Regno d’Italia.


Dall’articolo di Cesare Correnti Finis Longobardiae su “La Perseveranza” del gennaio 1860, allo “Stato di Milano” opposto al centralismo di Francesco Crispi alla fine del XIX secolo, al concetto comune, nell’Ottocento non meno che nel Novecento, di un Settentrione attivo, progredito ed operoso contrapposto a Roma capitale e ad un meridione parassitario, arretrato e indolente, il Nord ha sempre rivendicato una propria peculiarità (e una propria superiorità) rispetto al Sud.


Uno dei dati caratteristici della questione pare essere lo scarso desiderio dei ceti dirigenti settentrionali, ma in particolare lombardi, di occuparsi direttamente degli affari politici nazionali, preferendo dedicarsi agli affari economici propri o, al più, alla gestione della cosa pubblica locale.


Nel dopoguerra, se si escludono il trentino De Gasperi, proveniente d’altra parte da un’area periferica e dall’esperienza austro-ungarica, il biellese Pella (per poco più di tre mesi) e il veneto Rumor (per poco più di tre anni), non vi fu nessun presidente del Consiglio dell’Italia settentrionale fino a Craxi.


E ciò nonostante le grandi famiglie politiche prevalenti nel dopoguerra, la cattolica e la socialista, avessero avuto nell’Italia settentrionale origine, sviluppo e radicamento profondo. Ma è anche nell’Italia settentrionale che si individuarono i primi segni di cedimento delle grandi aggregazioni politiche di massa nella fase di crisi degli anni Settanta. Il processo di secolarizzazione fu senz’altro più rapido al Nord e proprio in quelle “aree bianche” che erano state feudo incontrastato della DC.


Il “dissenso” cattolico seguito al Sessantotto si trasformò assai spesso nell’abbandono della pratica religiosa e della religione stessa. Lo sviluppo economico portava benessere, ma anche l’irrompere di nuovi valori e di un nuovo stile di vita. Il Veneto, il Trentino e il Friuli rurale, dove i parroci e le istituzioni cattoliche avevano mantenuto un potere di guida e di condizionamento, si trasformarono e cercarono altri punti di riferimento.


Nel referendum sull’abrogazione della legge sul divorzio del 1974 in Veneto e Trentino prevalsero i sì col 51,1% e col 50,6% dei voti, ma nel 1981 quando si trattò di abrogare la legge sull’aborto, i sì nelle stesse regioni scesero al 43,4% e al 50,3%. Contemporaneamente si ebbero anche i primi cedimenti nelle zone rosse dell’Italia settentrionale.


Dopo il grande successo elettorale del PCI nel 1975, verso la fine del decennio si ebbe una inversione di tendenza. Soprattutto al Nord il PCI soffriva la concorrenza dei gruppi “extraparlamentari” e si trovava in grave imbarazzo di fronte al fenomeno del terrorismo.


Analogamente avvenne nel settore sindacale. Dopo i successi della fine degli anni Sessanta, il movimento sindacale fu costretto sempre più sulla difensiva. Le condizioni dell’economia internazionale (fine del sistema di Bretton Woods, crisi petrolifere del 1973 e del 1979/80), le decisioni prese a livello nazionale per contenere l’inflazione, il decentramento delle attività produttive, l’uso sempre più massiccio dell’automazione per risparmiare lavoro, lo sviluppo del lavoro “sommerso”: sono tutti elementi che concorrono a spiegare la grande trasformazione economica, sociale e politica di quegli anni.


Cominciarono a svilupparsi nel Nord Est piccole e medie imprese industriali, mentre le grandi industrie del Nord Ovest entrarono in un periodo di grande difficoltà, da cui non tutte riuscirono ad emergere. Nel Settentrione al declino della grande industria si affiancò lo sviluppo del terziario avanzato, con tutte le modificazioni sociali e culturali del caso.


 La crisi dei grandi movimenti di massa, la trasformazione del sistema produttivo, l’emergere di nuovi modelli di comportamento derivati dalla “rivoluzione” del Sessantotto (basti pensare al movimento femminista), aprì una fase politica in cui i governi centrali (ma anche le forze politiche tradizionali di opposizione) non seppero dare risposte adeguate.


La crisi degli anni Settanta aveva mostrato la debolezza dello Stato italiano e la sua incapacità ad essere più vicino ai bisogni dei cittadini. Neppure l’introduzione delle Regioni a statuto ordinario nel 1970, munite peraltro di poteri non particolarmente estesi, modificò la situazione.


Al termine di un difficile decennio si apriva così lo spazio per movimenti che si presentassero come alternativi al sistema politico tradizionale, ma non eversivi del sistema sociale.


Proprio nelle regioni che erano state alla guida del processo unitario alla metà dell’Ottocento, nelle aree più sviluppate e ricche del paese, cominciò a sentirsi il bisogno di riprendere in mano quella direzione politica che era stata fino ad allora in qualche modo “delegata” alla classe politica centro-meridionale. E si cominciò a discutere della “questione settentrionale”.







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