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From: <alessandro romano
Subject: MSG 10 - 073 - Messina - Celebrazioni Borboniche
Date: 11/03/2010 23.14
Stemma Due Sicilie Rete di Informazione
delle Due Sicilie


MESSINA - L’ASSEDIO DEL 1861
CELEBRAZIONI BORBONICHE 2010



ASSEDIO DEL 1861 MESSINA

UN PO’ DI STORIA

Il 13 marzo del 1861 la Real Cittadella di Messina si arrendeva a discrezione alle truppe piemontesi (italiane solo dal 17 marzo con la proclamazione del Regno d’Italia) del Generale Enrico Cialdini.

Inutilmente le Reali Milizie Borboniche della 13° Direzione Artiglieria, del 2° Battaglione del Genio, del 3°, 5° e 6° Reggimento di Linea con ben 455 vetusti cannoni cercarono di controbattere il micidiale fuoco di 43 nuovissimi cannoni rigati e 12 mortai delle truppe piemontesi di assedio. La guarnigione della Real Cittadella (più di 4.000 uomini) non subì un trattamento migliore di quello del suo Comandante il Generale Gennaro Fergola: venne infatti internata sotto buona scorta nei fortilizi di Scilla, Reggio Calabria e Milazzo. Alcuni suoi ufficiali come il Col. Guillamat, il Ten. Gaeta ed il Ten. Brath vennero addirittura imprigionati a Messina e quindi processati sotto la stupida accusa di aver fomentato la resistenza nella Cittadella, cioè di aver fatto il loro dovere di ufficiali fedeli alla Patria e al Re Francesco II di Borbone. Accusa dalla quale, naturalmente, con gran vergogna per i piemontesi, vennero assolti con formula piena. Da allora ad oggi si sono sempre onorati i garibaldini conquistatori della Sicilia e gli oltre 10.000 piemontesi che espugnarono la Cittadella di Messina; mentre i poveri soldati meridionali che la difesero eroicamente, sacrificando in 47 la loro vita in difesa della Patria, furono vilipesi da tutti come soldati della “tirannide borbonica”.

Il 27 luglio del 1820 circa 2.500 garibaldini con alla testa Medici e Fabrizi entravano a Messina, mentre il Generale Clary, al comando di più di 15.000 uomini, obbedendo agli ordini del Generale Pianell, Ministro della Guerra delle Due Sicilie, ordinava alle sue truppe di ritirarsi nella Cittadella, da dove, sempre per ordine del Pianell, ne faceva imbarcare per la Calabria circa 11.000, trattenendone poco più di 4.000 per la difesa della Cittadella stessa, contravvenendo con ciò agli ordini perentori ricevuti. Questa fu la sua testimonianza diretta: “…il 21 luglio un ordine formale del ministro Pianell m’ingiungeva di ritirare le mie truppe in Calabria, e di cedere armati i due forti di Castellaccio e Gonzaga a Garibaldi; non bastando ciò, io dovevo cedere a questo capo Siracusa, Augusta e la stessa Cittadella di Messina, attendendosi diceva l’ordine del ministro, che a questo prezzo le potenze dell’Europa consentissero a garantirci la pace nel continente…sugli ordini reiterati del ministro Pianell (che servì poi con i gradi di generale l’esercito di Vittorio Emanuele II)…io consentii di entrare in rapporti con il signor Garibaldi, e per conseguenza con il maggior generale Medici, al fine di convenire con loro il modo d’evacuazione della città di Messina dalle truppe reali…La Storia…renderà, io spero, un conto esatto della condotta del ministro Pianell in tutti i suoi affari disastrosi, essa dirà come egli ha impedito che noi soccorressimo Milazzo; come per i suoi ordini io fui costantemente forzato a rinunciare a tutti i piani di aggressione, per tenermi in ontosa e letargica aspettativa. Come e per quali combinazioni perfide, mi fa mancare tutte le risorse di cui un generale ha bisogno in faccia al nemico che egli deve combattere, quella era la volontà del ministro, e ciò che lo prova, è che egli aveva incaricato il colonnello di stato maggiore Anzani di capitolare con Garibaldi; e di comprendere in questa capitolazione le truppe che il generale Clary aveva sotto i suoi ordini”.

Lo stesso giorno, intanto, alle 3 p.m. giunse Garibaldi da Milazzo. Il 28 luglio giunse anche a Messina, proveniente da Catania, Cosenz con altri 5.000 garibaldini e il generale Clary firmò una convenzione per la cessione della Città di Messina. Qualche giorno dopo, non avendo voluto cedere la Cittadella a Garibaldi, come gli era stato intimato da Pianell, il Clary fu sollevato dall’incarico di comandante della Cittadella e il 9 agosto s’imbarcò per Napoli. Partito Clary dalla Cittadella e rimasto investito del supremo comando il generale Fergola, la convenzione precedentemente firmata dal Clary e dal Medici regolò i rapporti fra la Cittadella e la città di Messina, in mano ai garibaldini, fino alla caduta di Gaeta.

A Messina si trovava dal 19 dicembre la Brigata piemontese “Pistoia”, per un totale di 109 ufficiali e 3.867 soldati agli ordini del generale Chiabrera, che si era avvicendata con i garibaldini. Il Chiabrera, che in due mesi non aveva preso alcuna iniziativa militare, il 14 febbraio avertì il generale Fergola della resa di Gaeta e lo invitò a sua volta ad arrendesi, alle stesse condizioni di Gaeta. Fergola respinse l’invito. Dopo quest’ultimo rifiuto, il 27 febbraio giunse a Messina il generale Cialdini con quattro battaglioni bersaglieri del IV Corpo, 6 Compagnie del Genio, un Reggimento di Fanteria e con l’Artiglieria forte di 43 nuovissimi cannoni rigati e 12 mortai. L’arrivo inaspettato di queste truppe provocò l’indignazione del generale Fergola che vide la convenzione non rispettata, ma al risentimento di Fergola il Cialdini rispose: “…io non vi considero più come un militare, ma come un vile assassino…”. Il primo marzo, alle cinque del pomeriggio, l’armistizio che durava da più di sette mesi cessò e iniziarono le ostilità. I piemontesi per prima cosa sistemarono sei batterie: ai Gemelli, al Cimitero, al Bastione Segreto, al Noviziato, a S. Cecilia e a S. Elia. Nello stesso giorno dal porto di Messina si allontanò una fregata francese, mentre erano ancora in sosta navi americane e inglesi. Il 5 marzo iniziò il blocco totale della Cittadella. Il 6 marzo si allontanarono dal porto di Messina anche le navi inglesi e l’8 marzo Fergola iniziò a sparare contro le opere d’assedio piemontesi. Il 10 marzo giunse da Roma una lettera del Re Francesco II al generale Fergola che lo autorizzava a desistere dalla resistenza, ma l’intrepido Fergola il giorno dopo fece cannoneggiare anche le batterie piemontesi poste al Noviziato, che era la parte più vicina alla città. Il giorno seguente, mentre tutti i cannoni borbonici sparavano contro i lavori d’assedio piemontesi, alle otto precise Fergola diede ordine di tentare una sortita dal Forte Don Blasco, ma l’azione fu arrestata sia dalla reazione dei bersaglieri piemontesi, sia dalla concentrazione di tutto il fuoco nemico sullo stesso forte Don Blasco che era il fortino avanzato della Cittadella. La potenza e la doppia gittata dei cannoni rigati piemontesi ridussero ad un cumulo di macerie in poco tempo l’antico bastione, che venne sgombrato dai soldati borbonici e subito occupato dai piemontesi. Il gran deposito Norimberga (pieno di polvere da sparo), centrato più volte, prese fuoco, rischiando di saltare in aria. Anche la zona della Cittadella, dove erano ricoverati anche oltre 1.000 civili (per lo più donne e bambini), subì un barbaro cannoneggiamento. Da parte borbonica si cercò di allungare il tiro dei vecchi cannoni interrandone una parte, ma perdendo così la facoltà di mirare.

Ma tutto fu inutile: la schiacciante superiorità dell’artiglieria nemica costrinse presto al silenzio i cannoni della cittadella. Il generale Fergola, nonostante la drammatica situazione, si astenne dal bombardare, per motivi umanitari, dal Forte SS. Salvatore e dalla Cittadella, la città di Messina dove si trovavano le truppe piemontesi e concentrò fino alla resa l’inutile fuoco dei suoi cannoni sulle irraggiungibili batterie piemontesi. Anche dal mare le navi piemontesi Vittorio Emanuele e Carlo Alberto spararono molte salve, ma senza arrecare alcun danno, perché l’ammiraglio Persano se ne stava prudentemente ben lontano. Alle 5 del pomeriggio del 12 marzo la cittadella, ormai ridotta al silenzio, alzò la bandiera bianca e alle 9 si arrese a discrezione.

Il 13 marzo, alle 7 del mattino Cialdini alla testa del 35° fanteria con musica e bandiera fece il suo ingresso nella Cittadella di Messina, dichiarando “prigioniera” la guarnigione borbonica. La resa fu firmata a bordo della nave Maria Adelaide. L’ottuso generale Cialdini non concesse neppure l’onore delle armi ai vinti che avevano fatto il loro dovere fino alla fine ed anzi al momento della resa respinse sdegnosamente la spada dell’anziano generale Fergola e gli disse in francese (lingua ufficiale del Regno di Sardegna): “Vous n’etes pas des italiens, Je vous cracherais sour le visage…! (Voi non siete italiani, vi sputerei in faccia)”. Frase che fece morire di crepacuore a Napoli qualche anno dopo il povero Fergola. La cavalleria d’altri tempi dimostrata dal Fergola fu così ripagata dal Cialdini, che nel resto aveva già dimostrato di essere lui un “buon italiano” bombardando vigliaccamente con i famigerati cannoni rigati il borgo di Gaeta già reso e mietendo la vita di migliaia di innocenti, “colpevoli” soltanto di essere rimasti fedeli alla Patria e al Re.

Francesco II di Borbone, dal suo esilio di Roma, ammirato dal coraggio e dalla fedeltà dimostrata dai suoi soldati a Messina, concesse loro una medaglia in argento, appositamente coniata a Roma, e un congruo premio in denaro. Questo fu l’addio inviato da Fergola alle sue truppe alle ore 11 di sera del 12 marzo:

“Ufficiali, sottoufficiali e soldati, è questo l’ultimo ordine che io vi rivolgo, e la mano mi trema nel vergarlo. Allorché presi il comando di questa Fortezza e di voi tutti, sacro giurammo di difendere fino agli estremi questo interessante sito fortificato che la Maestà del Re aveva affidato al nostro onore e alla nostra fedeltà. Avete ben veduto che tutti abbiamo mantenuto il giuramento, serbando fedeltà, attaccamento e devozione al nostro amatissimo sovrano Francesco II. Immensi sono stati gli sforzi che per lo spazio di cinque giorni si son fatti colle nostre artiglierie per distruggere i lavori di attacco che il nemico costruiva sulle alture della città di Messina ed in altri siti ancora, ma poco effetto à provocato il nostro fuoco, si perché altri trovansi mascherati da casamenti ed oggetti occasionali.

Quindi l’inimico profittando di tali suoi vantaggi à compiuto inosservato la maggior parte dei suoi lavori. Poco dopo il mezzo di giorno di oggi e precisamente quando estenuati di forze prendevate un po’ di ristoro, à aperto simultaneamente un fuoco formidabile contro questa Real Cittadella, che l’à ridotta in poche ore nello stato in cui si ravvisa, ad onta di quella resistenza che si è potuta fare colle nostre artiglierie di una portata molto inferiore a quella delle sue. Veduto dunque che inutile si rendeva qualunque altro nostro mezzo di difesa, e che eravamo a causa dello incendio sviluppatosi minacciati da una sicura esplosione della grande polveriera Norimberga e suo magazzino attiguo anche pieno di polvere, se non vi si apportava un pronto rimedio, è chiesta per ben due volte per mezzo di parlamentari una tregua al nemico per la durata di 24 ore. Ma vedendo egli di quanto aveva col suo fuoco prodotto di danno e della trista posizione in cui eravamo, à rigettato la mia domanda, e mi ha fatto sentire che dovevamo renderci a discrezione, e che se a tanto non divenivamo e non gli si dava risposta decisiva per le ore 9 di sera, avrebbe riaperto il fuoco con l’aggiunta di altre batterie che ancora non erano punto a vista della fortezza. In tale stato di cose, riunito il consiglio di difesa e sentitone anche il parere, è stato forza sottoporci a quanto il nemico imponeva. Quindi mio malgrado e vostro, domani la Piazza sarà resa. Così non avrai giammai ceduto, ma gli incendi che seco noi minacciano 1.000 e più tra donne e fanciulli mal ricoverati, e che vi si appartengono, e la nostra eccezionale posizione, perché le potenze europee àn permesso una aggressione non mai letta nelle istorie, e noi da chicchessia sperar non potevamo soccorso di sorte, mi ànno obbligato a cedere. Cediamo alla forza perché sopraffatti dalla superiorità dei mezzi e non dal valore dei vincitori. Certo la nostra resistenza non avrebbe salvata la Monarchia, sacrificata con la resa di Gaeta; non ci restava che salvar solo l’onore militare e nazionale: e mi lusingo che lo stesso nemico ci farà giustizia di concedercene l’orgoglio, come spero che voi me la farete: nel convenire d’aver visto con voi fino all’ultimo i disagi, le privazioni, ed i pericoli. Un dovere però mi resta a compiere ed è quello di esternare a voi tutti i miei sentiti e distinti ringraziamenti per aver saputo ognuno così bene secondare le mie vedute nel difendere questa Real Cittadella, ove rinchiusi per circa 8 mesi abbiamo dato le più grandi prove di abnegazione e di fedeltà al nostro Augusto Sovrano Francesco II. Se l’abbiamo particolarmente però i signori generali De Martino, Combianchi ed Anguissola, Ten. Col.. Recco, Capitani Laconica, Di Gennaro e Lauria; e fra tutti il mio capo di stato maggiore ed ufficiali dello stesso signor Ten. Col. Guillamat, Capitano Cavalieri e Subalterni Gaeta e Brath.

Io vi ringrazio tutti di cuore, poiché tutti avete gareggiato nella difesa della rocca. Accettate tutti vi prego tali miei ringraziamenti che partono da un cuore leale e riconoscente. Miei bravi compagni d’armi, nella mia lunga carriera militare di 47 anni ò veduto diverse peripezie non dissimili alla presente, però la provvidenza o presto o tardi ha fatto sempre rilucere la sua giustizia quando meno si attendeva, per cui non ci perdiamo d’animo, e confidando in essa auguriamoci giorni più felici, i quali compenseranno i tristi e dolorosi che abbiamo sofferti. Mi avevo prefisso di porre ai piedi del Real Trono le mie umili suppliche per chiedere alla munificenza Sovrana un compenso speciale al vostro attaccamento, alla vostra sperimentata fedeltà, ma la sorte avversa delle armi me lo à impedito e con dolore mi divido da voi tutti, ma porterò scolpito profondamente nell’anima mia la rimembranza di voi, della vostra fede. Della vostra lealtà, del vostro militare coraggio. Non so quale sarà il mio destino ed il vostro in avvenire, ma se la mia età mi permetterà in seguito potervi rivedere, sarà sempre una vera gioia per me poter stringere la mano a qualcuno dei difensori di questa Real Fortezza, ai quali né le minacce, né i pericoli, né le lusinghe, né i pravi esempi, né men la morte seppe far declinare da quella via d’onore che solo è sprone e ricompensa al prode che pel suo Re Combatte per vincere o morire. Addio miei bravi camerati! Addio! La sventura ci divide, fede e lealtà fu la nostra divisa. E questa non si spogli giammai da noi, ciascuni di voi porti scolpita in core la nobile parola, che l’univa con nodo indissolubile al nostro sventurato, ma eroico Sovrano. Fergola 12 marzo 1861”.

Il 14 marzo, essendo state richieste più volte da Torino le bandiere della Real Cittadella di Messina, il generale Fergola rilasciò una dichiarazione nella quale affermava che avrebbero dovuto essere sei, ma che di esse non restavano che le aste essendo stati strappati i drappi dalle truppe quale ultimo gesto di fedeltà al Re Francesco II.


 









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