DOCUMENTI SULLA RIVOLUZIONE DI NAPOLI 1860-1862 PER AURELIO ROMANO-MANEBRINI NAPOLI STABILIMENTO TIPOGRAFICO DEL CAV. GAETANO NOBILI Via Salata ai Ventaglieri. 1864 |
INTRODUZIONE I. Se il fumo delle passioni non offuscasse la mente, se fosse possibile in questi giorni di emozioni continue e violenti, meditare sulle vicende della storia contemporanea; non esiteremmo, quantunque deboli ed oscuri, a tracciarne il quadro; per imporci un dovere, per ambire anche noi la gloria di essere annoverati, ultimi fra gli operai del pensiero. Ci siamo pur nonostante arrischiati ad un lavoro utile pei talenti che l'epoca prepara all'avvenire, affinché potessero, quando torné la calma ai lettori, la riflessione agli scrittori, quando ai tempi di lotte successero quelli di riposo, di analisi profonda, di libertà intera, e di tranquillo sviluppo intellettuale; agevolarsi nelle ricerche, e nella ponderazione dei fatti ai quali assistemmo. |
Diremo solo poche parole, non come napoletani ma come Italiani, imperocchè fu vezzo di alcuni stranieri, lanciare senza saperle motivare, accuse e calunnie ripugnanti, contro un popolo generoso che à fatto sacrifizio di tutto sull'altare della gran patria Italiana.
Con un cinismo che attrista dissero che l'Italia finisce al Garigliano, vollero escluderci da questa patria prediletta alla quale demmo il nome Italia fu dapprima nominata la penisola
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formata dai golfi di
Squillace e Lamelico o di S. Eufemia che oggi è Calabria ulteriore —
poi fu fino al fiume Laus, e a Metaponto — Nel l’secolo di Roma dal
Tevere a mezzodì, e solo dopo quest'epoca abbracciò le provincie
centrali e del nord rimanendo così, fin quando caduta Roma, il nome
d'Italia limitossi alla parte settentrionale, alla quale fu pure dato
nel principio del nostro secolo a un' ombra di Regno cui erano esclusi
la Toscana, Roma, e i paesi ove tal nome nacque (1).
L'Italia meridionale fu in quanto al linguaggio pel rimanente della penisola, ciò che la Provenza alla Francia — Essa a purificato, la lingua Italiana nel secolo in cui Federico II, protesse e coltivò nella sua corte di Palermo le arti, la poesia, e la letteratura nazionale. Abbiamo quindi iniziato se non compita la prima condizione nazionale l'unificazione della lingua, essendo la parola umana, o per esprimerci metafisicamente il Verbo il solo legame dei popoli i quali vedono dei fratelli in tutti coloro che parlano la propria favella. L'unità politica la tentammo dall'epoche più remote. Con Federico II di Svevia nel mille combattendo contro i papi, e con Roberto di Angiò che può a buon dritto chiamarsi il Luigi XIV dell'Italia.
La libertà fu il primo godimento dei popoli meridionali, e già molto prima che si diffondesse nel rimanente di Europa, fioriva nelle nostre repubbliche, e Amalfi, Napoli, Gaeta, preludevano alla potenza marittima degl'Italiani, erano l'avanguardia di Venezia, di Genova, e di Pisa.
Non àvvi passo dato dalla civiltà europea senza che vivamente non lo risentisca l'Italia del sud e non lo secondasse con forza. Nella lolla ardente dello spirito umano contro la tirannide clericale che si dà il dritto di comandare al pensiero e di dirigere le anime, quanti e sventurati campioni non à dato la nostra patria? — La protesta dell'umanità oppressa dalla Teocrazia qui si produsse sotto tutte le forme e quando sulle piazze della bella Napoli il nero fantasma di un prete volle accendere i roghi dell'Inquisizione; un grido terribile, potente, inesorabile, si levò contro l'audace, eia nostra terra restò incontaminata da delitti, che avevano in ogni altra parte di Europa desolata la società.
(1)Cantù Storia universale.
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E
mentre alla superficie il popolo protestava colle armi, nell'ombra,
uomini mai più dimenticati, meditavano la libertà tutta intera, pronti
a comparire sul campo, novella legione di martiri o di eroi. Cosi si
avanzavano sulle orme di Galileo, di Descortes, e di Bacone, Giordano
Bruno, Telesi, Leone, Porzio, Vannini, e Antonio Serra il creatore
della scienza economica — Tommaso Campanella fa di più, solleva
quistioni sociali, che oggi ancora appariscono sotto altra forma,
vaghe, oscure, in un posto secondario, e precede di tre secoli gli
Owen, i Pourier e i Sain. Simon.
La Spagna gravitava su mezza Europa quando Napoli sola dopo l'Olanda, ne scuoteva incessantemente il giogo, ma meno fortunata degli altri cadde combattendo nell'antico servaggio. La lealtà rozza, franca, espansiva, ingenua del popolo rappresentato da Masaniello, poteva resistere alla ipocrisia, all'astuzia feudale, ai tradimenti meditati nella corte dei Vicerè? —Le armi dei popoli possono vincere nella santità dell'entusiasmo quelle dei despoti, ma la perfidia dei vinti disarmerà i vincitori, se al trionfo del patriottismo non si aggiunge la guida dell'intelligenza.
Il movimento intellettuale del secolo XVIII à nell'Italia del sud un eco immenso. Una schiera d'illustri uomini appariva, votata alla morte pleide luminosa su quell'orizzonte già carco di nubi.
In nessun paese dice Gualterio —aveva la rivoluzione pacifica prodotto frutti più maturi, in nessun paese le sue traceie furono più belle, in nessun paese i veri della nuova civiltà furono difesi e consacrati col martirio di tanti e sì generosi campioni — Mentre a Parigi la rivoluzione, cioè l'era nuova, tuffava le mani nel sangue di quella che distruggeva; a Napoli la reazione, cioè l'era antica; nuotava egualmente nel sangue di coloro che alle nuove dottrine erano devoti — Coi Pagano, coi Cirillo, coi Conforti, vendicava il vecchio assolutismo le vittime immolate a Parigi dalla giovane Libertà. I quaranta mila periti nelle carneficine napoletane attestano chiaramente che i partiti estremi non ànno nulla da invidiarsi, nulla da rimproverarsi vicendevolmente. Attestano soggiungiamo noi che la civiltà, la libertà, il dritto, fu disperatamente difeso, sanzionato col sagrifizio della vita. L'ingrata posterità à dimenticato le vittime, e neanco una croce sorge là dove Antonio Toscano
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periva novello
Pietro Micca, e sulle sponde di quel Sebeto «Quanto povero d'onde tanto
ricco d'onore» ove il vecchio e cieco Turris facevasi uccidere coi suoi
parenti combattendo da eroe. Quale segno ci addita la casa dove
nacquero, il luogo dove perirono, i Pagano, i Velasco, i Carafa, i
Manthoné, i Cirillo, la Pimentel, la San Felice? Nulla, perfettamente
nulla. L'oblio covre questo splendido passato. Picerno, la città
perduta nei monti che combatté fondendo le canne degli organi, i piombi
delle finestre, gli utensili domestici, Altamura che in mancanza di
mitraglia vi supplì le monete; queste due Missolungi Italiane sono
appena ricordate come paesi barbari. Quando preparavasi la riscossa
nelle società segrete la più vasta associazione si organizza qui, e si
dirama col nome di carbonarismo nella rimanente Italia, in Francia, e
in Germania dove assume forme e nome diverso. Durante i cento giorni
quarantamila soldati di Murat intrapresero una guerra d'indipendenza
Italica. Vinsero gli Austriaci ovunque, ad Occhiobello, al Ronco, al
Reno, a Spilimberto, a Pesaro, a Sinigaglia, al Panaro, a Reggio, a
Cesena, a Tolenlino, a Macerata, ma sventurati, mal diretti, insidiati
dal tradimento, poco o nulla aiutati, dovettero abbandonare la
vittoria. Senza tema di esagerare affermiamo che la più grande
battaglia di indipendenza combattuta ai tempi nostri da Italiani contro
Austriaci; è quella di Macerata (1).
La lotta durò due intere giornate ed era a noi assicurata la vittoria se le notizie delle insorgenze degli Abruzzi non avessero turbato l'animo di Murat, e mandato in iscompiglio ogni cosa. Allorché lutto fu perduto sui campi, le piazze forti resistettero onorevolmente e Ancona come Gaeta, si arresero dopo un assedio. Dopo la battaglia di Waterloo, dice Colletta, eia prigionia di Bonaparte la bandiera dei tre colori (testè si altera) sventolava, solitaria nel mondo, sopra i nudi sassi di Torre Orlando.
Poco dopo Murat fu fucilato. Si levarono rimproveri contro i napoletani, ma con ingiustizia. Una triste fatalità sovrastava allora al destino dei Napoleonidi, lo stesso Imperatore sarebbe perito come Murat se in luogo di sbarcare a Cannes fosse approdato nelle vicinanze di Marsiglia.
(1)Sulla
descrizione di questa battaglia, oltre il Colletta, e Pepe, veggasi il
bettissimo articolo dell'Enciclopedia popolare italiana—edizione
Torinese.
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Qui essendosi saputo il suo sbarco, più di 5000 Guardie Nazionali si
erano armate e avevano chiesto marciare contro di lui.
La restaurazione si trovò a Napoli come in Francia vinta dalla civiltà e mentre in Piemonte volevasi rimettere la società al medio evo, e a Roma qual'era prima dell'invasione francese, a Napoli le leggi della rivoluzione venivano rispettate e mantenute. Poi non bastandole si solleva e protesta, la prima in Europa dopo la Spagna, contro il sistema della Santa Alleanza, e si dà una costruzione.
Anche al 1830 sarebbe insorta, e avrebbe risposto ai moti della Francia, ma quando tutto era pronto, quando il Generale Guglielmo Pepe doveva arrivare da Marsiglia con un pugno di bravi, il governo Francese cambiava la sua politica ed ogni speranza svaniva.
Nel 1847 i primi che veramente ruppero a guerra di popolo contro il despotismo furono gl'Italiani della estrema Calabria. La rivoluzione si propagò più determinata quando ai 12 gennaio 1848 Palermo insorgeva e vinceva. La costituzione data a Napoli fu la prima che si fosse allora elargita in ogni altro stato della penisola. Con un governo che aveva tutte le forze del paese nelle mani, che manteneva tuttavia in ogni luogo i suoi uffìziali, i suoi giudici, senza il menomo cambiamento, che contava per partigiani centomila preti, burocratici, nobili di corte, sgherri e spie, potevamo essere di aiuto efficace alla guerra d'indipendenza? — Pure una legione di prodi sostenne sui campi Lombardi, fra le lagune di Venezia, , e sugli spaldi di Roma l'onore dei meridionali. Le vite preziose di Cesare Rossaroll e di Alessandro Poerio basterebbero esse sole ad esser ricco tributo pagato da Napoli alla causa comune.
Durante la fiera reazione, mentre che il governo borboniano voleva del nostro paese fare come della Russia un regno del silenzio, l'emigrazione in Europa e in America lo ricordava, con atti splendidi di virtù cittadina e di valor militare. Nel 1859 al primo grido di guerra essa si trovò tutta presente, sia sotto le armi, sia nei consessi che preparavano l'indipendenza. Da Napoli non potette partire gran numero di volontari. Napoli era in uno stato eccezionale, lontano dal teatro della guerra, e in totale balia dei borbonici. Se allora un'armata Francese, si fosse presentata lunghesso il Tronto e il Garigliano i Borboni
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sarebbero fin da quell'epoca partiti e avremmo avuto l'agio di
partecipare con più efficacia alla guerra.
Ma quando l'Italia centrale vota l'unione, Napoli, si solleva ad un tratto, e aiutata poscia da Garibaldi completa l'opera unificatrice.
Il 21 ottobre 1860 gl'Italiani del mezzodì realizzarono il più gran fatto dell'età moderna, l'unità nazionale d'Italia.
Ai giorni di gloria e di esultanza successero quelli delle ire e dei dolori. È questa la immediata conseguenza di tutte le rivoluzioni, le quali non si fanno pei contemporanei ma per le generazioni future. Non bisogna dimenticare ciò che un grande storico francese à detto:
»Devono essere distinte le rivoluzioni che scoppiano presso vi popoli lungamente sommessi, da quelli che sopravvengono vi fra popoli liberi cioè in possesso di una certa attività politica, a Roma, in Atene, ed altrove si vedevano le nazioni ed i loro capi disputarsi più o meno l'autorità. Presso i moderni popoli, interamente spogli, il cammino e differente. vi Completamente sottomessi dormono per lunga pezza, lo svegliarsi à luogo nella classe più illuminata la quale insorge e ricupera una porzione del potere. L'ambizione è successiva come il risveglio, e vince fino alle ultime classi sicchè la massa intera trovasi in movimento. Presto soddisfatte di quanto ànno ottenuto, le classi intelligenti vogliono vi fermarsi, ma non lo possono più e sono senza posa incalzate da quelle che le seguono. Quelle che si arrestano, fossero anche le penultime, sono per le ultime un'aristocrazia, e in questa lotta di classi che si urtano l'una contro l'altra, la semplice borghesia finisce coll'essere chiamata, dagli operai aristocrazia, e come tale termina i suoi giorni (1).
D'altra parte gli errori, le ingiustizie, le ingratitudini non mancarono, ma il popolo fu costante nel sentimento nazionale, e in quelli che lo bistrattavano, più che i propri vide i nemici d'Italia.
A due cause principalmente bisogna attribuire i nostri mali. Alla malignità burocratica, all'incuria, alla incapacità municipale.
Qual direzione poteva dare alla cosa pubblica, una burocrazia, la quale se venne accresciuta da una frazione, intelligente e
(1)Thiers Rivoluzione Francese.
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patriottica
delle provincie meridionali e centrali, restò in fondo sempre qual era
stata nel vecchio Piemonte, gretta, gesuitica, retriva? Essa mise da
parte, dimenticò, sprezzò anche, e gettò nell'abbandono, tutti i
talenti che avrebbero potuto allearvisi e metterla cosi all'altezza dei
nuovi destini della patria. Per colmo di sventura vennero ad
inframettersi ed ottenerne la guida uomini che furono fra i più celebri
agenti dei caduti governi. Costoro educati da lunghi anni al regime
despotico non potevano non perpetuare nelle forme se non nei fatti i
sistemi che si resero tanto insoffribili al popolo, e tanto odiosi. I
ministri stessi ànno dovuto subire la loro influenza, e forse senza
saperlo vedere fraintese, sviate, male applicate le loro intenzioni.
Cosa sperare da un municipio, il quale, spende milioni in feste pubbliche, e lascia nell'abbandono una città dove lutto deve crearsi, e un popolo che per due terzi, vive in un inferno sociale, ottenebrato dall'ignoranza, abrutito dalla fame? Pure esso chiede sviluppo intellettuale e morale, vuole miglioramenti materiali, reclama lumi. II municipio è nel sacro dovere di secondarlo, iniziarlo, essendo per dir cosi, il governo familiare del popolo, come è dei poteri politici quello della nazione.
L'irritazione generale che in questi ultimi tempi si è manifestata sotto forme diverse, deriva dalle cause sopraccenna. te. Dov'è la tristezza, la desolazione dei miserabili senza speranza, ostentare il lusso, la prosperità, la ricchezza, e lo stesso che creare odii, far credere all'egoismo, inacerbire gli animi, aggravare i patimenti.
II.
Vi sono stati degli scrittori stranieri che ànno accusato gli Italiani del mezzogiorno d'indolenza, di mollezza, sinanco di viltà — altri ànno loro negato qualsiasi tradizione, e ogni virtù militare. Risponderemo agli uni e agli altri servendoci di autori pure stranieri che ebbero il campo di conoscerci da vicino, valutarci meglio, con animo imparziale, ed intelligente.
Ai primi diciamo che non possono mancar di vigore popoli che ànno additato agli Spagnuoli come si resiste alle invasioni straniere, che se trascesero in ignobile brigantaggio fu in conseguenza dello stato morale in cui si trovavano per opera di preti, e tiranni di ogni specie.
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D'altra parte bisogna tener poco
conto della opinione di taluni che pretendono il brigantaggio una piaga
indigena dell'Italia meridionale. Presso tutti i popoli e in tutte le
epoche, il fanatismo religioso, l'accecamento delle masse, la miseria
sopratutto, à prodotto simili crisi sociali. Vogliamo darne un solo
esempio che prendiamo nell'istoria della Rivoluzione di G. Michelet.
Parlando della reazione del mezzogiorno della Francia, e
particolarmente di quella di Avignone dice a Avignone fu il punto ove i
due principii il vecchio ed il nuovo si trovarono l'uno a fronte
dell'altro e violentemente contrastati, mostrarono, in origine l'orrore
di una lotta furiosa. Essa produsse anticipatamente, in piccolo, come
in uno specchio magico, l'immagine delle scene sanguinose che la
Francia era per presentare. Settembre in questo specchio figurava la
Vandea e il terrore. E non solo Avignone, sul suo stretto teatro mostrò
e predisse questi orrori, ma ciò che è orribile a dire, è d'essa che li
autorizzò in qualche modo, li consigliò col suo esempio, diede con gran
numero di atti barbari un modello che il delitto inetto imitò
servilmente In nessuna parte più che nelle città dei preti si apprende
a bene odiare I preti cominciarono a raccontare o fare dei miracoli —
Dapprima narrarono questo: un patriotta, portando via da una chiesa un
angelo di argento, gli ruppe il braccio sua moglie poco dopo partorì un
bimbo senza braccio. La Vergine, dopo l’89 si mostrava molto
aristocratica. Dal 90 erasi messa a piangere in una chiesa della via
Bac. Verso la fine del l cominciò ad apparire dietro una vecchia
quercia al fondo del Bocage vandeano. Perfettamente alla stessa epoca
spaventò il popolo d'Avignone con un segno terribile: la sua immagine
nella chiesa dei Francescani, si arrossì, gli occhi si accesero di
porpora sanguinosa parve andare in furore. Le donne accorrono in folla,
paurose e curiose, per vedere, e non osavano guardare. Gli uomini meno
superstiziosi, avrebbero forse lasciata arrossire la Vergine come
voleva. Ma un rumore si sparse che li commosse dippiù. Una gran cesta
di argenterie di chiesa era passata per la città. Si disse, si
ripetette, e non fu più una cesta, furono diciotto sacchi pieni che la
notte erano stati trasportati fuori della città.
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Cosa
contenevano? Gli oggetti del monte di pietà, che il partito
francese—dicevano— portava seco lui. L'effetto fu straordinario. Le
genti povere, che in una miseria così grande, avevano impegnato lutto
ciò che avevano, piccoli gioielli, mobili, abiti, si credettero
rovinati. «Non avvi altro a fare, si disse loro, che impadronirsi delle
porte della città e dei cannoni che vi si trovano, fermare se vogliono
sortirne; Lesciiycr, Duprat, Melvìlle (capi del partito nazionale), e
lutti i nostri ladri. Era la domenica 16 ottobre, una folla di
contadini era venuta ad Avignone, tutta armata, non si camminava
altrimenti in quelle campagne. La cosa fu fatta all'istante, le porte
occupate; e i realisti costituzionali, presero le chiavi della città e
corsero a Sorgues presso l'abate Mulol, credendo apparentemente che
darebbe loro delle truppe.
La folla affluiva, ai francescani, donne e nomini, artigiani e confraternite, facchini e contadini, i bianchi e i rossi, lutti gridavano che non se ne andrebbero se prima, il municipio e il suo secretario Lescuyer, non avesse dato loro ogni soddisfazione.
Lescuyer fu incontrato per istrada mentre andava a rifugiarsi alla municipalità, e fu condotto al popolo. Salì in cattedra, fermo e freddo dapprima: «fratelli miei, disse con coraggio, ò creduta la Rivoluzione necessaria, ò agito con tutte le mie forze...» Era per confessare la sua fede, forse la sua attitudine dignitosa, la sua probità visibile sul viso, nelle parole, avrebbe racchetato gli animi. Ma fu strappato dalla cattedra, e d'allora era perduto. Gettato alla muta latrante, fu tirato verso la Vergine, verso l'altare, perché cadesse come un bue ammazzato ai piedi dell'idolo. Il grido omicida di Avignone il fatale zou! zou! fischiava da tutta la chiesa sull'infelice. Arrivò vivente al coro e là si liberò un momento; si assise, pallido, in uno stallo; qualcheduno che voleva salvarlo gli diede di che scrivere Un uomo compassionevole gli mostrò alle spalle una porta donde fuggire. Ma in quel momento un operaio gli assesta un colpo cosi forte che il bastone si piegò in due. Egli cadde appunto ove volevasi, ai gradini dell'altare... La folla enorme, stretta sopra un punto, era come sospesa sul corpo giacente; gli uomini li crepavano il ventre coi piedi, e a colpi di pietre, le donne con le forbici, perché espiasse le sue bestemmie, tagliarono con una rabbia atroce le labbra che le avevano pronunziate.
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Questo accadeva
in Francia nel paese d'onde venne il più grande impulso alla civiltà
moderna. Qual meraviglia se nelle nostre campagne, da popolazioni che
si trovarono presso a poco nelle medesime condizioni, vengano commesse
atrocità dello stesso genere? Del resto crediamo che il terrore non
sgomenta la ferocia. La inumanità di Manhès non ànno nulla da invidiare
alla crudeltà di Mammone. Il Colonnello francese che faceva a Lagonegro
impalare degli uomini come usasi in Turchia è al di sotto di Fra
Diavolo.
Educazione, lavoro, istruzione, opificii, scuole, sono i soli mezzi atti a combattere ciò che dicesi brigantaggio; ma ciò che in sostanza non è che una protesta dell'olocrazia.
III.
Quando ci dissero che non avevamo tradizioni militari, ne dovettero sorridere di sdegno i vecchi soldati che serbano tuttavia le cicatrici delle battaglie napoleoniche. Già in tutte le guerre del XVII e XVIII secolo gl'Italiani meridionali vi contribuirono potentemente. In quella del 1631 combatterono al comando del Principe di Belmonte, del maestro di Campo Torrecuso, di Toraldo e Tozio, ausiliarii del maresciallo di Brisac. Nelle guerre di Fiandra e di Catalogna, di Germania e del Milanese nel 1632, e nelle consecutive del l635, campeggiarono sempre con valore straordinario. Non bisogna dimenticare la parte presa nelle lotte fra Carlo V. e Francesco I. Questi fu fatto prigioniero dalla cavalleria napoletana e volle cedere la sua spada al Duca d'Avalos che la comandava. La vittoria di Cerisele fu sanzionata dai nostri. Gli Austriaci in una scguela di combattimenti che terminano alla Battaglia di Velletri non potettero mai resistere al valore degl'Italiani meridionali, come non resistettero mai a quello dei settentrionali.
Intanto, cosa strana, vi sono degli autori francesi che assisi placidamente sopra una seggiola a bracciuoli, chiusi nel silenzio dei loro gabinetti, in qualche via elegante di Parigi, con una leggerezza poco seria, ànno credulo apportare dei giudizi tanto erronei per quanto erano loro ignoti il popolo e i soldati dei quali àn voluto parlare. Da un altro lato dei Generali francesi che ànno comandato le nostre milizie che ànno con essi diviso i pericoli sui campi di battaglia,
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i
disagi nelle marcie penose, non possono astenersi di consacrare nelle
memorie che lasciarono alla posterità, delle parole che bastano esse
sole a smentire qualsiasi calunnia.
Nelle guerre dell'Impero gl'Italiani del Sud come quelli delle altre provincie profusero largamente il loro sangue a prò di Napoleone I, e massime in Ispagna, in Russia, e in Germania. Souchct ad ogni pagina della sua storia sulla guerra di Spagna ne ricorda il valore, e Saint Cyre dice a proposito degli attacchi intorno Girona «I napoletani si covrirono di gloria, resistendo a diversi assalti e rovesciando i nemici con una carica alla bajonetta una delle più audaci che mai sieno state eseguite».
Nella campagna di Russia il contingente meridionale giunse tardi e non gli restò che chiudersi in Danzica e partecipare alla difesa memorabile di quella piazza. Pure la cavalleria scortò l'Imperatore e Vilna respingendo valorosamente gli assalti dei Cosacchi. Era comandata dai Principi di Campana e di Roccaromana, e poiché il cocchiere di Napoleone fu assiderato dal freddo un uffiziale napoletano, Ottavio Piccolelis, si assumette l'incarico di guidar la vettura.
Due Reggimenti combattettero a Lautzen, e Bautzen, quelli che rimasero in Danzica si covrirono di gloria.
Il generale Rapp comandante la piazza dice «i napoletani fecero perfettamente il servizio dei posti avanzati, emulando di bravura e coraggio con le truppe le più vecchie ed agguerrite». Egli poi raccomandò caldamente a Re Ferdinando IV gli avanzi dei prodi difensori di Danzica che facevano ritorno in Italia.
Non siamo quindi i figli degeneri della madre Italia la quale trovò in noi, nelle nostre arti, nelle nostre tradizioni, e sin nel nostro ciclo la sua più splendida forma. Fondiamole queste doti a quelle non meno grandi degli altri Italiani, e sotto l'egida della libertà, siano il patrimonio comune che le generazioni le quali passano trasmettono arricchito a quelle che arrivano.
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