Eleaml


RIVISTA CONTEMPORANEA
POLITICA — FILOSOFIA — SCIENZE STORIA
LETTERATURA — POESIA — ROMANZI VIAGGI — CRITICA
BIBLIOGRAFIA — BELLE ARTI
VOLUME VIGESIMOSECONDO
ANNO OTTAVO

TORINO
DALL'UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE

1860

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RASSEGNA POLITICA

La questione dell'Italia meridionale anziché perdere quella importanza politica che aveva raggiunta il mese scorso ne ha acqui­stata una maggiore. Viviamo davvero in tempi ne' quali gli eventi procedano e si svolgono con una rapidità che vince il desiderio e che trionfa della pii ardente immaginazione. Jeri ancora si discutevano le maggiori o minori probabilità dell'attuazione dell'annessione del­l'Italia centrale; oggi quell'annessione è già diventata un fatto sto­rico ed irrevocabile, su cui non si disserta più da nessuno, perché nessuno può supporre che sia per essere distrutto da fatti ulteriori, Dall'Italia centrale siam già passati all'Italia meridionale. L'anno seorao di questi giorni taceva appena il rombo glorioso del cannone di Solferino e di San Martino, e già apparivano sull'orizzonte politico gli indizii precursori della pausa di Villafranca, ed oggi —è passato ap­pena un anno— siamo già a domandarci come, fra quanti mesi, forse fra quante settimane altre nobili e carissime provincia d'Italia ver­ranno a prendere il posto che ad esse spetta nella comune famiglia. Nel 1848 si diceva Dio lo vuole: nel 1860, commossi dalla evidenza di tanti fatti lietissimi e che non osavamo sperare, dobbiamo escla­mare compresi da gratitudine profonda verso la Provvidenza e da ammirazione verso le popolazioni italiane: Iddio l'ha voluto.

Dopo lo sbarco del generale Giuseppe Garibaldi a Marsala, dopo il suo ingresso a Patendo, la successione degli eventi non è stata interrotta da nessun incidente che la potesse sviare dal suo progressivo svolgi­mento. Il vessillo tricolore sventola là dove pochi giorni or sono sven­tolava, simbolo esecrato di eccidii e di oppressione, la bandiera borbonica; le truppe regie sono concentrate a Messina, ed occupano  Siracusa e Milazzo: ma tutto il rimanente dell'isola è libero. Il governo napolitano è finito in Sicilia in moda degno si sé, vale a dire ignominiosamente.


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 Dopo avere ingannato — o per dir meglio, dopo aver tentato tante volte, poiché il tentativo non è riuscito — l'Europa sulle proporzioni della sollevazione siciliana, dopo avere denunciato al mondo come filibustieri e pirati i prodi che accorrevano a liberar la Sicilia è stato costretto a confessare col fatto di aver mentito, giacché la sollevazione dei pochi faziosi oggi è vittoriosa, ed i gene­rali borbonici hanno accettato i patti di una capitolazione dettati dal Garibaldi, proprio da quel medesimo Garibaldi che il Governo na­politano chiamava dapprima capo dei filibustieri e che ora intitola Sua Eccellenza il Generale Garibaldi: Né si dica che anche esultando per la vittoria noi dovremmo lamentare la vergogna, di cui in questa occasione si è coperto un Governo italiano. No: invece di lamentarcene ce ne rallegriamo, poiché il Governo napolitano non ha altra ragione di essere denominato italiano, se non quella di reggere, per la disgra­zia dei suoi abitanti, una provincia d'Italia: e quanto al resto non è né italiano, né cristiano, né civile. Ad esso ben si addiceva la ver­gognosa fine che ha fatta in Sicilia, e presto speriamo che di qua dal Faro sia per succedere la stessa cosa. L'ora della giustizia è suonata: visse il Governo napolitano di oppressione, di menzogna, d'iniquità: morirà qual visse: più la sua fine sarà obbrobriosa, e meglio i di­ritti della giustizia saranno solennemente vendicati, e più sarà chia­rita l'impossibilità ch'esso torni a rivivere.  L'Italia e l'Europa ri­suonano oggidì delle brevi ed energiche parole, che nella tornata della nostra Camera dei Deputati pronunziava il barone Carlo Poerio: in quelle parole è la sentenza inappellabile del Governo napolitano: avrà un bel fare per sottrarsi al fato, che i presaghi accenti del martire illustre gli hanno annunziato: quel fato gli sovrasta ineso­rabile ed inevitabile: si compirà. Gli stessi passi che quel Governo ha fatti e va facendo per cansare la sorte estrema la rendono più certa e più ingloriosa.   Chi mai avrebbe creduto, che dopo i modi usati verso la Francia e l'Inghilterra, dopo tanti altieri rifiuti, dopo tante sprezzanti e superbe risposte date ai Governi delle due potenti nazioni, il Governo napolitano ne' momenti del pericolo si sarebbe rivolto a supplicare aiuto, consiglio e protezione proprio a que' due Governi? non si sarebbe potuto credere, ed oggi l'incredibile è realità. Il Governo napolitano a mani giunte ha invocata la protezione di Napoleone III e di lord Palmerston. Questi ha risposto con le me­morande parole dette poche sere or sono nella Camera dei Comuni; quegli ha risposto ricordando ad un inviato borbonico andato a bella


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posta a Fontainebleau: «Avete sbagliato strada, dovevate andare a Torino!» Ciò rispetto alla Francia ed all'Inghilterra: ma il Go­verno napolitano non si è limitato a fare appello a quelle potenze: ha voluto percorrere fino all'ultimo la via della bassezza e della ipo­crisia, ed ha invocato l'aiuto perfino di quel 'governo, che ieri an­cora calunniava ed oltraggiava, che odiò sempre, e di cui è nemico peggiore che l'Austria medesima, intendiamo dire del nostro Go­verno nazionale. Il marchese di Villamarina, che finora era trattato a Napoli come se fosse travagliato da morbo contagioso, è oggi acca­rezzato come se fosse il rappresentante della potenza più amica che mai il Governo napolitano abbia avuta. Confida il Governo napo­litano sulla magnanimità del Governo del re Vittorio Emanuele, ed il calcolo non fallirebbe, se si trattasse soltanto di offese parziali, poiché i forti e generosi facilmente perdonano; ma il Governo del re Vittorio Emanuele è immedesimato con i dolori e con le spe­ranze dell'Italia, esercita i diritti e adempie i doveri della nazione italiana, e perciò non potrà, né vorrà di certo, perdonare al delin­quente partenopeo che oggi per paura implora pietà e che domani sarebbe pronto a far peggio di prima, qualora riacquistasse una parte soltanto delle forze perdute. Nel 1858 il Governo di Napoli, costretto a restituire il Cagliari, dopo tenace resistenza volle, anche cedendo, dare segno di mal animo verso il Piemonte consegnando la nave all'inviato inglese: nel 1860 è bastata una semplice protesta del rappresentante del nostro Governo, perché due navi catturate come il Cagliari fossero immediatamente rese e liberati coloro che erano a bordo. Prepotente ed insolente, quando era o si credeva forte, il Governo napolitano è umilissimo oggi, perché sa e sente di essere debolissimo.

Noi dunque, lo diciamo in brevi parole e senza restrizioni di sorta, non ravvisiamo nella costituzione recentemente annunziata, se non uno dei soliti ripieghi a cui la dinastia borbonica è usa ri­correre quando si trova a mal partito. Nel 1820, nel 1848 fu la commedia, e pur troppo sortì l'intento che se ne aspettavano attori: oggi si tenta di rinnovarla; riescirà forse anche questa volta? noi portiamo ferma fede ohe no, e confidiamo che il buon genio dell'Italia che da Villafranca in poi ci ha salvati da tanti pe­ricoli e da tante difficoltà, ed ha resi bugiardi tanti tetri pronostici ci salverà pure questa volta: farà si che l'inganno torni a danno dell'ingannatore. Ci si dice che i nuovi ministri di Francesco II


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sieno uomini probi ed onorandi: e noi ciò crediamo assai volentieri, è parecchi tra essi sappiamo esser meritevoli davvero di questa lode. Ma che perciò? essi corrono rischio di cadere nell'abisso in cui altri caddero nel 1848, oppure di essere le vittime della propria buona fede, ma certo non riusciranno ai salvare una dinastia che per la pro­pria colpa è già esautorata. L'autonomia napolitani, come tutte le Altre autonomie parziali, è inconciliabile con i sacri ed inalienabili diritti della nazionalità italiana: doveva perire in ogni caso, i Borboni ne hanno affrettata la morte: non ci sarà forza umana che possa aver facoltà di restituirle la vitalità perduta. Napoli e Sicilia come sono in diritto, così debbono esserlo in fatto non regni indi­pendenti ed autonomi, ma provincie dell'Italia. Ciò che era possi­bile qualche anno fa oggi non lo è più. Finché il Regno Italico non avesse valicato gli Appennini si poteva credere all'ordinamento di due o tre Regni in Italia: ma oggi l'ombra del Vessillo tricolore dalle falde del Cenisio si estende di là da Orbetello e fino ad Acqua­pendente, e i dualismi e le triadi non possono più reggere: grazie all'invitta ostinazione di Bettino Ricasoli e dei Toscani l'Italia corre gloriosamente verso la meta; l'Italia dev'essere, sarà presto una. Le cose stanno cosi anche prescindendo dal nostro desiderio: l'uni­ficazione, le annessioni: ecco il solo scioglimento pratico è durevole di tutte le difficoltà italiane.

Mentre nell'Italia meridionale succedono eventi di tanta entità 6 si maturano i fati della prossima unificazione della nostra penisola, nell'Italia libera Governo e Parlamento proseguono nella loro via con quella invitta assennatezza, con quella instancabile devozione alla patria, che hanno già sortite tante conseguenze benefichi e che han fruttato al nostro paese la stima del mondo incivilito. Qui davvero Re e Nazione, governanti e governati son tutt'uno, e si confondono nella stessa unità di pensieri, di desiderii, di aspirazioni, di opere. Il Senato del regno ha approvato la proposta di legge relativa alla ces­sione di Savoia e di Nizza. Imponente e solenne fu la discussione, pressoché unanime il voto: fecero udire nobili ed elevati accenti il conte Galliano, il conte Sciopis, il professor Matteucci, il conte Gio­vanni Arrivabene: il trattato fu vigorosamente difeso dal presidente del consiglio dei ministri: il generale Fanti, ministro della guerra, rese tributo di meritato omaggio ai valorosi soldati, che ora si sepa­rano da noi. Perorò per Nizza con patetiche parole e con profondo convincimento il senatore Deforesta, il quale nel recinto del palazzo


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Madama riscosse la stessa simpatia e gli stessi applausi meritati, che si ebbe nel recintò del palazzo Casigliano il deputato Bottero. Quando si parla come parlarono il Deforesta in Senato, il Bottero nella Ca­mera elettiva, si conquista la simpatia di tutti, s'ispira a chi vi ascolta il dolore di non potere dividere il vostro parere: quegli applausi furono omaggio di pretta giustizia ad una convinzione gin-cera espressa con visibile commozione e con quella temperanza che contrassegna le persuasioni schiette e non affettate. Il Deforesta ed il Bottero non obbedivano che agli impulsi del loro cuore, e non propugnavano un assunto di opposizione. E perché poi niente man­casse alla solennità dell'atto memorabile, compariva in Senato a ren­dere il partito favorevole al trattato, quella insigne gloria d'Italia, che si nomina e non si loda, Alessandro Manzoni. Si era tanto gridato contro il traffico di Savoia e di Nizza: e Manzoni venne a bella posta da Milano per mostrare in qual conto tenesse quell'accusa, e quanto gli fosse caro di partecipare a quell'atto solenne della politica del governo, che con orgoglio e con cresciuta speranza noi chiamiamo nostro ed italiano.

La Camera dei deputati dal canto suo dopo essersi occupata di molte proposte di leggi che giovano al regolare andamento del ser­vizio pubblico, ha conceduto al governo con 215 voti favorevoli su 218 votanti, l'autorizzazione di contrarre, un prestito per 150 milioni di franchi. L'opposizione parlò per bocca di parecchi oratori e se­gnatamente dell'avvocato Cesare Cabella, il quale con forbito ed eloquente discorso fece bensì degli appunti alla politica del governo, ma dichiarò che egli con i suoi amici politici avrebbe deposta una palla bianca nell'urna. La relazione dell'avvocato Galeotti poneva in luce le  ragioni  finanziarie e politiche della proposta di legge, la quale si aveva vigorosi ed eloquenti difensori nel ministri Vegezzi e Farmi, in Marco Minghetti ed in Pietro Bastogi, che seppe essere attraente ed  ameno discorrendo di bilanci e di cifre. Procuriamo, esclamava l'egregio relatore Galeotti, una nuova vittoria sui nemici d'Italia, e la Camera alla unanimità, meno tre voti, rispose affermativamente alla nobile e patriottica esortazione. La discussione fu conchiusa dalla parola autorevole di Carlo Poerio, che tutti com­mosse, e che noi abbiamo più sopra ricordata. Il conte di Cavour tacque. Quanta eloquenza in quel silenzio! Quei dibattimenti tornano a sommo onore del nostro Parlamento italiano.  In questa guisa l'Italia prosegue a buon diritto a primeggiare nell'attenzione dell'Europa.


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Lo stesso convegno di Baden dove il principe reggente di Prussia e tutti gli altri sovrani d'Alemagna, eccetto, beninteso, l'im­peratore d'Austria, si sono abboccati con Napoleone III, quantunque evento rilevantissimo ed indizio significante dell'avvenire che si pre­para, non ha fatto dimenticare l'Italia. Tutti comprendono oggidì che nella nostra penisola si sta per isciogliere un grande problema di civiltà: tutti veggono che gl'Italiani danno opera a questa impresa con senno inconcusso, con non mutata fermezza, e perciò tutti gli augurii sono per noi. L'Italia non defrauderà l'aspettazione dell'Eu­ropa. L'Europa non avrà di certo a pentirsi di avere incoraggiato con la sua benevolenza il nostro odierno movimento nazionale così puro, cosi giusto, così santo.

Torino, 1° luglio 1860.

Giuseppe Massari











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