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Fonte:
https://www.ilgiornale.it/

Calabria, 40 anni fa

di Felice Manti

15 Luglio 2010

C’è una pagina di storia italiana scritta con il sangue e cancellata dalla memoria. Il 14 luglio di 40 anni fa Reggio Calabria alzava le barricate contro la decisione del governo di spostare il capoluogo di Regione a Catanzaro. Cinque morti, 2mila feriti, 800 arresti, danni per miliardi di lire, armerie depredate e un assalto alla Questura che non si trasformò in tragedia grazie alla tempra del questore Emilio Santillo. Che davanti ai rivoltosi armati di molotov disse ai suoi uomini: «Possono bruciarci vivi ma noi non spareremo un colpo».

Per la prima volta nel Dopoguerra in Occidente i carri armati entrarono in un pezzo d’Europa che ancora oggi fatica a dirsi Italia. La decisione del governo di allora, guidato dal senatore a vita Emilio Colombo, soffocò mortalmente il primo (e unico) afflato «federalista» del Sud e diede un colpo forse mortale al tentativo di accorciare le distanze con il Nord. Colombo spedì a Reggio 2mila soldati a luglio, altri 6mila a settembre e 3mila a ottobre, a bordo di cingolati e mezzi di artiglieria leggera. Barricate per le strade, negozi chiusi, ferrovie e autostrade interrotte, serrande abbassate nelle scuole e nelle banche.

Altro che Sud indolente e cialtrone: la rivolta di Reggio che per mesi mise a ferro e fuoco la città era ispirata da una pervicace volontà di autodeterminazione. In ballo non c’era solo il pennacchio del capoluogo né la rincorsa al treno del boom economico, ma il nodo irrisolto della questione meridionale: quello della politica. I reggini si sentivano traditi dai loro amministratori a Roma. E poco importa se l’Msi di Ciccio Franco provò a mettere un cappello nero sulla rivolta.

Il rimedio si dimostrò peggiore del male, e fu la fine dei sogni. Pentapartito, sindacati e sinistra prontamente bollarono come «fascista» la Rivolta. E la decisione di usare il pugno di ferro fu forse inevitabile. Il racconto di quei giorni è racchiuso nel libro fotografico Fuori dalle barricate di Fabio Cuzzola (Città del Sole editore) e in un film (Liberarsi, figli di una rivoluzione minore).

Ma i misteri della Rivolta sono ancora irrisolti. Sagrestie piene di armi, sequestrate dall’Arcivescovo monsignor Giovanni Ferro per evitare il peggio, giornalisti strappati alla folla inferocita, la solita manina dell’eversione nera (il principe Junio Valerio Borghese sbarcò a Reggio l’8 agosto 1970), il ruolo della ‘ndrangheta nell’attentato al treno Palermo-Torino a Gioia Tauro il 22 luglio (sei morti e decine di feriti), lo strano incidente che portò alla morte di cinque anarchici in possesso di un dossier sulla strage ferroviaria.

Lo slogan dannunziano «Boia chi molla è il grido di battaglia» riecheggiava intanto per le strade. Sui muri dei quartieri più popolosi comparvero le prime scritte «autonomiste», su una barricata ubicata nel quartiere di Sbarre sventola una bandiera azzurra con la scritta «Repubblica di Sbarre».

Quando la rivolta è sedata, Colombo promette 70 miliardi di investimenti, la nascita del Quinto polo siderurgico a Gioia Tauro, una fabbrica a Saline Joniche e lo sdoppiamento della Regione (la giunta a Catanzaro, la sede del consiglio a Reggio). Un accordo, si disse, messo nero su bianco in una famigerata cena del gotha politico calabrese. Ma la liturgia assistenzialista della Prima repubblica partorì le solite cattedrali nel deserto e uno spreco di denaro pubblico. Il guanto di velluto e il pugno di ferro. Non è un caso che ancora oggi questo pezzo d’Italia sia ostaggio della potentissima ‘ndrangheta e non creda più alle lusinghe romane.

L’autostrada Salerno-Reggio è il vergognoso simbolo dell’eterna incompiuta, il Ponte sullo Stretto rischia drammaticamente di restare un sogno. L’unico nero che sopravvive ha a che fare con l’economia sommersa e controllata dalle ‘ndrine e da commercianti compiacenti, come ha rivelato un’inchiesta della Procura. Ma la voglia di ribellarsi non è ancora sopita.

A parlare di federalismo si rischia il linciaggio, anche se a microfoni spenti più d’uno confessa: «Se fossi al Nord voterei Lega». Tra la Padania e la Repubblica di Sbarre non c’è poi tanta differenza.

 










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