Bastano pochi dati per spiegare le logiche di ipersfruttamento su cui per anni si è basata la produzione nello stabilimento della Fiat-Sata di Melfi. A Mirafiori poco più di undicimila dipendenti producono 900 auto al giorno. A Melfi 5.100 dipendenti producono 1.200 vetture al giorno, una ogni 72 secondi. Nel 2002 ogni singolo operaio ha prodotto a Melfi ben 77 vetture facendo guadagnare allo stabilimento il dodicesimo posto nella classifica degli impianti più produttivi d’Europa.
A Mirafiori invece, in un anno,
un operaio produce “solo” 49 auto. A Melfi si lavora sei
giorni su sette, con diciotto turni a settimana. A causa della
famigerata “doppia battuta”, gli operai sono costretti a
fare per due settimane di seguito il turno di notte (cosa che a
Mirafiori è stata abolita negli anni settanta). In tal modo,
tutti, donne comprese, sono chiamati a fare ogni mese e mezzo dodici
turni di notte consecutivi (retribuiti meno che altrove), stravolgendo
completamente i propri orari di vita.
Considerando che la fabbrica
è situata a quindici chilometri dal paese più vicino, e
che i dipendenti sono stati raccolti da un ampio bacino tra Puglia e
Basilicata, una buona parte degli operai impiega tre quarti d’ora
per raggiungere il posto di lavoro in auto o in corriera. Come dice uno
dei tanti dipendenti della provincia di Foggia: “Quando ho il
primo turno, esco di casa alle quattro del mattino e ci ritorno alle
quattro di pomeriggio.”
Rispetto a Mirafiori, a Melfi l’incidenza in termini percentuali
del costo del personale sul totale del valore di produzione è
diminuita di quasi un terzo, dall’8,6% al 6,3%. In base a un
accordo del ’93, a Melfi un operaio guadagna in media 900 euro al
mese. In tutti gli altri stabilimenti Fiat (da Mirafiori a Termini a
Pomigliano) si guadagnano 200 euro in più. (Dati tratti da
Sandro Orlando, “Fabbrica record, il lavoro quasi gratis”,
“l’Unità”, 27 aprile 2004).
Negli anni novanta la multinazionale torinese ha deciso di spostare
gradualmente la produzione nelle fabbriche del Sud, non solo a Melfi ma
anche a Pratola Serra in Campania, fuggendo da Mirafiori e dai diritti
del lavoro che incidono sul profitto. Così oggi il cuore
dell’impero Fiat (nonostante la crisi, la prima impresa del
paese) è a Melfi, in uno stabilimento costruito appena dieci
anni fa in mezzo a chilometri e chilometri di campi di grano.
In una
zona che lambisce il Tavoliere delle lotte bracciantili del passato, in
cui il latifondo del grano si è ricostruito nell’era
dell’agricoltura meccanizzata intorno a pochi proprietari
terrieri. In cui la fuga dal sottosviluppo – che ieri era
affidata ai “treni del sole” che portavano proprio a
Mirafiori (e a Milano e in Svizzera e in Germania) – negli anni
novanta è stata affidata alla Fiat-Sata: tempio della fabbrica
post-fordista, la cui produzione si basa non sull’operaio-massa
ma sulle squadre Ute (Unità tecnologiche elementari, al cui
centro c’è un capo che controlla direttamente i
dipendenti), ed è regolata secondo i canoni del Tmc2 (Tempi
metodi collegati) che fa aumentare del 20% il carico di lavoro per ogni
singolo operaio.
Se nella vecchia fabbrica fordista c’era il
tempista a calcolare i tempi di lavorazione, le pause eccetera, e a
fissare sulle tabelle i tempi ottimali, nella fabbrica toyotista questo
lavoro lo fa il computer, non deducendolo dal lavoro dell’uomo,
ma imponendolo in base agli standard di produttività. Per cui le
pause sono ridotte all’osso, e il lavoro assume ritmi
insostenibili.
Chi non rispetta i tempi è soggetto a
provvedimento disciplinare, e a Melfi ne sono stati spiccati ottomila
negli ultimi cinque anni. Non c’è dipendente che non abbia
subìto provvedimenti disciplinari (cioè soldi in meno in
busta paga) per motivi futili: “il dipendente si è recato
in bagno per tre anziché due volte”; “ha impiegato
due minuti in più per montare un cofano”… sino
all’assurdo: “il dipendente ha sparso per lo stabilimento
briciole di pane”.
Ovviamente, nonostante la sconfitta operaia del 1980, era impossibile
applicare tutto questo a Mirafiori. Nelle fabbriche in cui i lavoratori
sono garantiti si chiudono i reparti, si mandano gli operai in cassa
integrazione, ma non è possibile ridurre i diritti garantiti.
Per cui, come intuì a suo tempo Cesare Romiti, la
competitività sul costo del lavoro e sui modi di produzione
sarebbe dovuta passare attraverso la costruzione di nuovi stabilimenti
ad hoc. In un “prato verde” come Melfi, appunto, dove
inesistente era la cultura di fabbrica e quindi scarse le forme di
sindacalizzazione.
Un “prato verde” di alta
produttività e bassi salari, pensato per meridionali che –
tanto – vogliono solo un posto di lavoro, non importa di
che tipo e in quali condizioni, fatto accettare ai sindacati e alla
politica con la minaccia che altrimenti sarebbe stato insediato in
Bulgaria.
Oggi il bubbone Melfi (la fabbrica-modello tanto esaltata dagli
economisti post-moderni; l’unico stabilimento che, in caso di
collasso della Fiat, sarebbe davvero interessato a General Motors)
è esploso. Ed è esploso in una delle più dure
lotte operaie che la Fiat abbia dovuto affrontare negli ultimi
quarant’anni. Sì, perché il caso-Melfi, che
è stato ampiamente distorto dai tg nazionali nei giorni di
aprile, non è stato semplicemente una vertenza di difficile
soluzione e dagli esiti incerti. È stata una vera e propria
rivolta, infiammatasi in pochi giorni e spostatasi su posizioni sempre
più radicali.
Quella di Melfi non è una protesta assimilabile a quella che si è verificata nell’altro stabilimento Fiat di Termini Imerese, o a quelle che costantemente attraversano da Nord a Sud l’Italia della deindustrializzazione. Ha poco in comune con gli scioperi a oltranza dell’80 sconfitti dalla marcia dei quarantamila colletti bianchi. Non è una protesta in difesa del posto di lavoro contro la chiusura o il ridimensionamento di insediamenti che i gruppi dirigenti considerano improduttivi.
Melfi
è uno stabilimento iperproduttivo. È ormai il cuore della
galassia Fiat e dalla sua produzione dipende anche quella degli altri
stabilimenti, compreso quello di Mirafiori. La rivolta in questo caso
è scoppiata contro i salari ridotti, contro i modi di
produzione, contro i turni massacranti, in generale contro il Tmc2.
Dopo dieci anni di compressione, la fabbrica disciplinare è
stata messa in discussione da cima a fondo.
I 5.100 dipendenti della Fiat-Sata (e gli oltre tremila
dell’indotto) hanno scoperto di essere una comunità
sfruttata. In silenzio per dieci anni, le frustrazioni e lo stress del
nuovo lavoro di fabbrica si sono tramutate in rabbia muta, in astio
crescente nei confronti dei capi-Ute e dei vertici Fiat. Il
“prato verde” è diventato un braciere, invisibile ai
più ma sul punto di attizzarsi, ed è bastato un piccolo
colpo per tramutarlo in fiamma. Quel braciere ha creato un nucleo di
classe operaia in un paese che si avvia alla deindustrializzazione. La
rivolta, poi, ha mostrato a tutti le sue rivendicazioni, le sue
richieste di giustizia e di dignità.
L’ipersfruttamento della Fiat ha ricreato ciò che storici
e sociologi davano per estinto: lo scontro di classe – che
può anche non essere il motore della storia, ma che è
impossibile non scoppi in situazioni tali, quando ancora oggi, in un
unico luogo (la fabbrica) l’assenza di dignità, le
punizioni, i bassi salari, l’esclusione dei lavoratori da ogni
forma di decisione sui modi di produzione che li riguardano
costituiscono il profitto degli eredi di Agnelli. Solo chi è
stato a Melfi ha potuto accorgersi di ciò che soffia alle spalle
della vertenza Fiat: una voglia di democrazia e di autorappresentazione
degli operai, una critica virulenta degli standard di
competitività, e dei ritmi di lavoro che questi impongono, che
tutti (capitalismo italiano, governo, sindacati confederali) non
possono più aggirare. […]
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