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"Addio, Napoli" è un libretto, frutto di una discussione durata negli anni tra i collaboratori napoletani di “Lo straniero” e altri collaboratori meridionali. 

Ringraziamo il direttore della rivista, Goffredo Fofi, che ha gentilmente autorizzato la pubblicazione in formato html dei tre lavori contenuti nel libretto:

Chi è interessato ad averne copia integrale in formato pdf può collegarsi al sito della rivista “Lo straniero” e cercare nell'archivio - Numero 38/39 - agosto/settembre 2003.

Eventuali errori nella trasformazione del contenuto dell'opuscolo dal formato pdf al formato html è da addebitare esclusivamente allo scrivente.

Buona lettura!

Webm@ster - 28 agosto 2005

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Fonte:
LO STRANIERO - Numero 38/39 - agosto/settembre 2003

Dai margini

di Giovanni Zoppoli

La progressiva privatizzazione dello stato sociale portata avanti in questi anni dai governi nazionali ha ridisegnato analisi, progetti e pratiche cittadine. La delega al privato di interi pezzi dell’intervento pubblico ha spesso consentito di raggiungere sacche del disagio e qualità del servizio prima sconosciuti.

Negli anni Novanta le associazioni, le cooperative sociali e le altre aggregazioni sociali hanno preso a sobbarcarsi di un lavoro quantitativamente e qualitativamente molto grande, dove non era più possibile un impegno part-time.

In crisi sono stati messi soprattutto i gruppi storicamente improntati al modello volontaristico, associazioni cattoliche o centri sociali occupati che fossero. Il requisito principale per occuparsi di “sociale” è diventato sempre più l’essere ferrati nella burocrazia e nelle reti di potere, rendendo velleitario ogni tentativo di fare comunità.

Molte sono state le piccole associazioni (anche quelle radicate e antiche) che in questo decennio hanno dovuto scegliere tra lo snaturarsi o il morire.

Spesso sono state costrette ad affiliarsi ad altri enti meno attenti alla sostanza, ma che precedentemente erano stati più accorti nello scegliersi le relazioni “giuste”, nel maneggiare adeguatamente la burocrazia, nell’acquisire insomma maggiore dimestichezza con le leggi del mercato della miseria e dell’emarginazione.

C’è chi (in pochi) è riuscito a mantenersi integro trasformando il proprio impegno civico anche in attività lavorativa remunerata. E chi nella ricerca dichiarata della purezza ha finito per degenerare in una sfrenata schizofrenia.

Tutto questo a Napoli ha assunto connotati esasperatamente tribali, per la storica faziosità (di stampo familistico prima che aziendale) dei suoi gruppi. E quando ormai la simbiosi tra partiti e terzo settore aveva raggiunto livelli di asfissia irreversibile, le vicende si sono fatte ancora più intricate per la rappresentazione collettiva di “roccaforte della sinistra” che si è data del governo cittadino (in una città dove la destra riesce a essere addirittura più becera e criminale di quella nazionale).

Fatto sta che a Napoli a un certo punto è sembrato che l’unico modo di concepire il cambiamento fosse quello che passa per le associazioni e per il sistema che le tiene in vita,  quello dei finanziamenti pubblici, dei progetti formali, dei bandi. Quello del “servizio” e dell’“utenza”. Del resto con la scomparsa di industria e agricoltura per l’economia cittadina oltre a turismo e servizi non rimaneva molto altro.

Negli ultimi tempi i movimenti nati attorno ai temi della globalizzazione hanno contribuito a riportare al centro del dibattito cittadino approcci e questioni ormai accantonate, rendendo ancora più marcata la distanza tra le ricette internazionali e le pratiche locali di molti politici napoletani.

Per riprendere un filo a noi è stato utile cercare il collegamento tra chiacchierate fatte nell’ora di spacco con contrabbandieri nostalgici, maestre perseveranti, ribelli indomiti, abitanti corsari, coloni arricchiti…

Componendo ragionamenti e ripartenze attorno a quanto ancora determina esistenze individuali e collettive.

DISMISSIONI

Del contrabbando, dell’industria,

delle fabbriche

Contrabbando

Andata. Prendiamo la tangenziale. In macchina oltre a me e a un ex contrabbandiere c’è Lucia, una ragazza sui 40 anni dalla vocina stridula che viene dall’Ucraina. A mille metri dal casello di Pozzuoli l’ex contrabbandiere tira un sospiro, “Basta che arrivo qua e già comincio a respirare. Non senti com’è diverso?”.

Arriviamo in una villetta del litorale Domizio, dove l’ex contrabbandiere vive con la sua famiglia da oltre dieci anni. Lucia va al piano di sopra e noi scendiamo giù, in tavernetta.

Il racconto. Sono entrato nelle sigarette con un gruppo di persone con cui ero uscito di galera. Di stare sotto a un padrone non c’era voglia e così andammo da certa gente che conoscevamo a Posillipo.

Gli dicemmo: “nui vulimmo fà ’e sigarette”. Era l’83. Così entrammo nelle sigarette. Noi eravamo un gruppo che faceva politica. Altri contrabbandieri se li spendevano nei locali i soldi. Noi aiutavamo i compagni in carcere. Là c’erano i comitati di lotta. Lotta Continua, i Nap, Autonomia Operaia… Molti contrabbandieri ne facevano parte. Tu considera che in ogni quartiere a un certo punto c’erano almeno dieci realtà di base, tra Pci, Lotta Continua, Anarchici...

Chi ci viveva nei quartieri era in qualche modo orientato da questi centri e il contrabbando era il modo che molti avevano trovato per non stare né sotto al padrone né dentro alla Camorra. Insomma mettemmo un piccolo capitale e cominciammo a lavorare con le sigarette.

In Svizzera si facevano le contrattazioni tra le case produttrici come la Philip Morris e gente potente di Napoli che comprava le quote e le portava in Yugoslavia. Una volta che le casse di sigarette erano arrivate in Yugoslavia piccole strutture autonome, come la mia, compravano il proprio carico e lo sbarcavano in Puglia.

Sulle coste della Yugoslavia c’erano delle vere e proprie colonie di napoletani, molti erano latitanti. E che si fidavano di fare! Loro l’hanno inguaiata la Yugoslavia. Una volta che il carico lo avevi comprato era il tuo, nel bene e nel male. Quella del contrabbando era un’organizzazione molto complessa: c’era chi portava gli scafi, chi commerciava all’ingrosso, chi al dettaglio…

Chi vendeva, chi comprava, era proprio un mercato. Dalla Puglia a Napoli sull’autostrada succedeva di tutto. A volte la Finanza buttava il sale, a volte ti trovavi a scappare a 200 chilometri all’ora su una Fiesta modificata. Bisognava inventarsi di tutto, dal finto carro funebre alla falsa autoambulanza, alle altre mille scappatoie che trovavamo.

E proprio questo era il bello, una lotta continua dove l’arma più importante era l’ingegno. Attorno al contrabbando lavoravano un sacco di persone, c’era un indotto imponente. In primis le officine meccaniche, che si inventavano le modifiche più strabilianti.

I frutti del contrabbando andavano per lo più nell’economia del vicolo ed è su quel tipo di comunità che il contrabbando si reggeva. Prima che la Yugoslavia diventasse il punto di smercio, le sigarette arrivavano a Napoli con gli scafi. E se ti trovavi a Mergellina, anche che non c’entravi niente, davi una mano a scaricare.

Era qualcosa di grande, attorno a cui lavoravano almeno mille persone. Io mi sono levato da mezzo quando non mi stimolava più. È stato verso gli inizi del ’90. Vedevo che non c’erano nell’aria più i meccanismi giusti. Le sigarette iniziarono a scarseggiare. Arrivavano sigarette strane dalla Polonia, dalla Turchia.

Mancavano alcuni tipi come le Merit. Il flusso cominciava a scarseggiare, lo sentivi a naso. Si cominciarono a fare molte ipotesi. Fino ad arrivare al 2000, quando le sigarette non arrivavano proprio più e i prezzi di quelle poche che c’erano diventarono altissimi. Molti vendevano addirittura le sigarette comprate dal tabaccaio.

Quasi contemporaneamente i tabaccai misero le macchinette che permettevano di comprare le sigarette anche di notte e poi i contrabbandieri smisero di esistere. Perciò è finito il contrabbando. Perché le sigarette non arrivavano più.

Venivano bloccate già in Yugoslavia. Io penso che le cose là sono cambiate quando si è cominciato a ragionare in termini di guerra e non di politica. E quindi hai capito?

La fine del contrabbando non è stato un fatto traumatico, ma una cosa lenta durata quasi un decennio. Tu considera che con il contrabbando potevi arrivare a guadagnare pure 30 milioni al giorno. Molti avevano messo su una vera e propria fortuna e si erano già aperti un’altra attività parallela, legale o illegale.

Chi un negozio, chi un bar, chi una produzione di cd contraffatti. La gente ha avuto il tempo di abituarsi. Quei pochi che sono andati a istituzionalizzarsi (nei corsi degli Lsu o simili) sono quelli che già facevano oltre al contrabbando altre attività per lo più legali o a nero, ad esempio dipendenti pubblici o lavori in fabbrica.

Molti sono andati a lavorare al Nord. Altri si sono immessi nel flusso di danaro che è arrivato con il turismo, ad esempio vendendo noccioline e vino sulle bancarelle. Infine, un 20% su per giù, sono entrati a far parte della Camorra o hanno iniziato a spacciare droga. In ogni caso la povertà in questi ultimi anni è aumentata di molto, guardati in giro.

È una cosa di cui ci accorgeremo sempre di più. I contrabbandieri erano una forza enorme. Era una rete formata da mille piccole strutture autonome ma interdipendenti. Era un esercito senza testa. Avevano un senso dell’organizzazione di cui non erano nemmeno loro coscienti. E tutto si alimentava con il tabacco che scorreva dentro le vene.

Quando è venuto meno lui è crollato tutto. Un’intera generazione di contrabbandieri, di semiribelli, oggi non esiste più ed è rientrata nei meccanismi di passività, di annullamento della personalità.

Ritorno. Lasciamo la tavernetta. Salite le scale, c’è di nuovo Lucia, che in queste tre ore ha fatto le pulizie. L’ex contrabbandiere le dà 20 euro e dopo ci accompagna alla Cumana.

Bagnoli

Fino a due, tre anni fa a Bagnoli di immigrati non se ne vedevano quasi per niente.

Adesso invece durante l’estate, la domenica soprattutto, ucraini e altra gente dell’Est fanno quello che un tempo facevano i napoletani. Prendono la Cumana o la Metropolitana e vengono a Bagnoli a farsi il bagno. Sai i napoletani di 30, 40 anni fa?

Quelli col ruoto, la pasta al forno, l’ombrellone, un figlio da qua uno da là uno da sotto… Questi sono più sobri, in verità, rispetto ai napoletani. Meno pasta al forno, meno figli. In aggiunta ai napoletani che a Bagnoli sugli scogli continuano a farsi i bagni.

Paolo, abitante di Bagnoli

Io a Bagnoli ci sono arrivata nel ’76. Una delle cose che contribuì a cambiare la fisionomia del quartiere fu il bradisismo dell’84. Si sentiva il rumore della solfatara e poi la scossa e noi ogni volta scendevamo giù con tutta la classe e aspettavamo che finisse. Il bradisismo però andò a incidere su una situazione che già era di precarietà diffusa.

Perché in Italsider i licenziamenti erano già iniziati da qualche anno, molti erano in cassa integrazione e con il cambiamento della fabbrica mano mano cambiava attorno tutto il quartiere. Con il bradisismo le famiglie cominciarono ad andare via da Bagnoli, spesso verso il litorale Domizio spinte anche dalla fabbrica che là gli proponeva di andare.

Gabriella Giardina, maestra

Molte sono state le cose apparentemente inspiegabili accadute in questi dieci anni. Per esempio il sito dove un tempo c’erano gli stabilimenti dell’Eternit era un’area completamente inaccessibile, inquinata al punto da non potercisi avvicinare. Un anno e mezzo fa, nel giro di sei mesi, il Comune ha dichiarato che era stata bonificata e ci ha fatto il concerto di Pino Daniele.

Come si sdogana un’area che fino a qualche giorno prima tutta la città aveva immaginato come pericolosa? Facendo cantare Napule è a Pino Daniele. La memoria della gente si lega agli eventi: là un tempo ci sono stati gli operai morti. Oggi c’è Pino Daniele. Magari comincia un po’ a diminuire il terrore che la sola parola “Eternit” incute.

Al concerto è andato un sacco di gente e si è alzato un gran polverone. La Società di bonifica in realtà aveva rimosso i corpi grossi, i tubi e i manufatti in cemento amianto. Ma tu sai che la cosa più pericolosa dell’amianto sono le polveri, che sono volatili e che magari se le trovano sul tetto le signore del quartiere accanto, e nemmeno lo sanno. Nei programmi di Bassolino Bagnoli, da quartiere inquinato e periferico, doveva diventare l’area turistica della città.

Quando presentò il suo piano su Bagnoli, in cui si prevedevano innanzitutto lo smantellamento e la bonifica degli ex siti industriali, Bassolino dichiarò che sarebbero bastati i tempi previsti dal finanziamento. E cioè sette o otto anni. Ne sono passati quasi dieci e se lo smantellamento è in parte avvenuto, la bonifica invece si potrebbe dire che non è mai veramente iniziata.

Non si vedono segni tangibili di nessuno degli elementi riqualificanti dichiarati all’inizio. Il porto turistico, gli alberghi… Quello che era un muro attorno alla fabbrica è ancora un muro. La gente non sa niente di quanto sta succedendo. Sa che si sta facendo qualcosa, ma se gli vai a chiedere cosa, ormai non lo sa più.

Secondo me una delle occasioni che si è persa in questi anni è stata quella d’inventarsi la Fabbrica della Bonifica. La Bagnoli s.p.a., la società inizialmente incaricata per la bonifica, ereditò alcune centinaia di operai precedentemente impiegati nelle fabbriche dismesse. Dal primo piano di bonifica a quello attuale, che è passato sotto la gestione di una nuova società, la Bagnoli Futura, gli operai ereditati sono stati sempre considerati come un fardello scomodo.

Non si è mai pensato a un vero programma di formazione nel campo della bonifica dei siti inquinati, cosa che avrebbe consentito alla città di dotarsi di una forza lavoro preziosa. Così la vicepresidente della Bagnoli Futura pochi mesi fa dichiarava ancora con soddisfazione di essere riuscita a mandare a casa altri 70 di questi operai.

Alle previsioni iniziali che garantivano la creazione di un migliaio di nuovi posti di lavoro hanno finora corrisposto nuove casse integrazioni per centinaia dei vecchi operai.

La cosa che lascia maggiormente sconcertati è che opposizione sociale e controinformazione a Bagnoli sono praticamente inesistenti. Rifondazione Comunista, che occupa postazioni di potere (in Città della Scienza come nella Circoscrizione, di cui ha la presidenza) è in piena linea con la maggioranza che governa la città. Anche i pochi comitati di base che esistono si mobilitano più che altro su questioni specifiche, spesso molto private.

Sia nell’ultima giunta Bassolino che in quella Jervolino tutto il dibattito politico è stato così dirottato solo sulla questione dei nuovi fondi che dovevano arrivare, e che il Governo non voleva sbloccare… senza mai riuscire a parlare in maniera sostanziale del Piano Urbanistico Esecutivo, cioè di quello che forse un giorno si realizzerà.

Almeno oggi sarebbe importante riuscire a evitare quanto è successo fin ora: che il procedere della bonifica serva soprattutto ad attivare i meccanismi di speculazione immobiliare e gli appetiti della camorra. Quando per anni tutti i giorni leggi sui giornali del parco, del porto, degli alberghi… senti ai telegiornali del parco, del porto, degli alberghi… è naturale che le attenzioni del mercato immobiliare si concentrano su quest’area e che tutta la questione rischia di ridursi a qualche metro cubo di cemento in più.

Mauro Forte, Collettivo politico

Facoltà di Architettura di Napoli

Una casa a Bagnoli oggi costa anche quattro volte tanto rispetto a 8 anni fa. Sono le regole del mercato immobiliare che in questo momento stanno incidendo con forza sul ceto sociale di Bagnoli e molta è stata la gente “espulsa”.

Gente che fino a un decennio fa viveva in una delle zone più insalubri della città e pagava 200 mila lire al mese, ora dovrebbe sostenere un fitto di 2 milioni e non può permetterselo. Tieni conto che molte case popolari a Bagnoli danno sul mare. So’ case stupende. Bagnoli è comoda per i collegamenti della Cumana e della Metropolitana.

E poi c’è il mare. Molti erano riusciti a comprarsi la casa popolare di cui erano stati inquilini. Se oggi io immobiliare mi presento a un prepensionato dell’Italsider e per una casa che lui aveva comprato per quattro lire gli offro 300 milioni, il prepensionato secondo te che fa? Se ne va.

Con cento milioni si compra una casa a Villaricca, o a Castel Volturno o a Marano e gli altri 200 milioni gli servono a integrazione del reddito o per risolversi qualche problema, per esempio a sistemare i figli. Ma questo è un flusso cominciato oramai da anni. L’effetto annuncio ha cambiato l’intera economia del quartiere.

Tu partivi da un costo della vita bassissimo, proprio di uno dei quartieri più popolari di Napoli. Oggi il costo della vita a Bagnoli si è quasi allineato con il centro. Ovviamente, in questo modo, a quello che era prevalentemente un quartiere operaio stanno subentrando impiegati e professionisti.

Cioè un ceto medio che a Napoli aveva l’esigenza di restare, o di tornare. Un ceto medio magari anche con discrete possibilità economiche ma che probabilmente nelle zone bene, come Posillipo e via Dei Mille, non ci riesce a stare con comodo, agiatamente.

Un ceto insomma consistentemente più alto rispetto a quello storico del quartiere, ma non la Napoli “bene”. Quella sa i posti dove deve andare e Bagnoli non sarà mai concorrenziale con quelle zone là.

Paolo, abitante di Bagnoli

A oriente

Ersan si era imbarcato clandestinamente nel porto di Monravia, in Ghana.

Per mesi aveva progettato quella fuga lavorando intorno al porto. Aveva esaminato a lungo tutte le operazioni, i movimenti delle navi. Per il giorno della partenza aveva fatto la sua scorta di provviste. Acqua e biscotti che avrebbe nascosto nelle tasche larghe senza alcun altro bagaglio.

La partenza il 3 marzo 2002. Ersan prende posto sulla nave nascondendosi in un container, sulla prua dell’imbarcazione. Dopo 7 giorni di viaggio le provviste finiscono mentre la nave resta in avaria per un giorno intero nelle acque spagnole. Ersan non può uscire a prendere la sua quotidiana boccata d’aria a causa dei marinai.

“Quando poi la nave iniziò a muoversi feci il segno della croce”. È il 13 marzo 2002 e la nave attracca nel porto di Napoli. “Io guardo fuori dal container e vedo la grande montagna”.

A mezzanotte del 14 la nave attracca. Ersan sceglie il momento più opportuno per uscire dal container e scappa dalla nave. “Non vedendo nessuno scesi nel porto, ma qualcuno mi notò e iniziò a urlare ‘CLANDESTINO!!!’. Allora iniziai a correre nel porto, tra i containers.

Scavalcai un muro mentre c’era un altro uomo che mi stava per acchiappare. Dall’altra parte del muro trovai un piccolo fiumiciattolo, lo passai e mi nascosi per un paio d’ore sotto un ponte. Più tardi iniziai a camminare, trovai un altro muro, lo scavalcai ed ero finalmente uscito dal porto.

Trovai il percorso dei binari, lo seguii e vidi le intersezioni delle strade, le macchine che correvano, iniziai a sentire freddo. Comunque continuai la mia corsa e mi fermai alla fine fuori a una chiesa”.

La fuga di Ersan è avvenuta attraverso via Brecce, già via di fuga per i duemila soldati nolani che secoli fa scappavano da Palepoli per ripararsi nella loro città. L’attuale stato di via Brecce è quello di una strada fantasma. Perduto il rapporto naturale col fiume che la costeggiava è oggi disseminata dei vari impianti petroliferi in dismissione.

Una strada ombra frequentata da camion e prostitute. Costeggiata da depositi di containers. Gli immigrati vengono qua a occupare containers e siti industriali dismessi, più che le case.

Stanno quel poco che basta per trovare una sistemazione più decente da una qualsiasi altra parte.

Luisa Venruso, via Margine, tesi di laurea

Ponti, binari, sopraelevate, capannoni e residui industriali segnano l’altra area industriale della città, quella più antica, nella zona orientale di Napoli.

A differenza di Bagnoli in quest’area non c’è mai stata un’unica fabbrica, ma un insediamento più frammentato e stratificato, con le continue dismissioni e trasformazioni produttive che si sono succedute nel corso di due secoli. È da circa un ventennio che alle dismissioni non hanno più corrisposto nuovi insediamenti.

Quando si parla di zona orientale si parla comunque di quartieri molto diversi. Su quartieri come Ponticelli, più che la dismissione industriale ha inciso il fatto di aver potuto offrire in passato una grande quantità di suolo agricolo, quindi libero. Molti abitanti del centro e di altri quartieri sono venuti a viverci, tra disfunzioni amministrative e occupazioni abusive, dando vita alla più grande 167 di Napoli dopo Scampia.

Nei piani delle amministrazioni progressiste quest’area doveva in qualche modo conservare la sua natura industriale, puntando su nuovi insediamenti di quella che oggi si chiama industria pulita, cioè un’industria compatibile con un tessuto urbano abitato. Ma questo per il momento rimane solo un progetto.

Come il grande parco verde che dovrebbe sostituire il cuore del vecchio insediamento industriale e servire da collegamento con il resto della città.

Francesco Ceci, sociologo urbano

GLOSSARIO MINIMO

Solidarietà

A Napoli esistevano circa 8 insediamenti rom da oltre 20 anni. Alla prima giunta Bassolino questi insediamenti creavano essenzialmente due problemi. Duemila persone accampate senza acqua e luce, in baracche fatte d’immondizia, si trovavano in una zona troppo visibile di Scampia e l’opinione pubblica iniziava a farsi pressante.

Il piano di riqualificazione del quartiere non riusciva a partire e una delle colpe, si diceva, ce l’avevano i rom: l’asse mediano non apre perché sotto ci sono i rom, l’Università non viene perché sotto alla Metropolitana ci sta il campo nomadi…

Dopo 7 anni di inerzia, dopo gli incendi appiccati a uno degli accampamenti per mano di alcuni abitanti del quartiere, nel luglio 1999 l’amministrazione progressista non poté più stare a guardare.

Malgrado gli avvertimenti di molte associazioni, Bassolino accelerò la costruzione già iniziata da alcuni mesi, ma bloccatasi, di un megacampo stretto tra un carcere e una strada a scorrimento veloce, sormontato dai tralicci dell’alta tensione e lontano un chilometro dalla prima fermata d’autobus.

Un anno dopo circa 800 rom, i più vistosi, vi vennero trasferiti. Non potendo vantare molto altro rispetto al quartiere, in campagna elettorale Bassolino sfoggiò il “primo villaggio rom autorizzato della Campania”, grossa prova di Solidarietà dei cittadini di Scampia e dell’amministrazione comunale verso il popolo rom.

Autogestione

Una volta costruito, il campo viene completamente abbandonato a se stesso per oltre due anni, salvo dare qualche centinaio di milioni alle associazioni del terzo settore. Tra i motivi c’è anche quello dell’estrema litigiosità dei partiti di maggioranza che non riescono a mettersi d’accordo e lasciano l’assessorato alle Politiche sociali praticamente vacante per quel paio d’anni, il periodo di transizione da Bassolino a Jervolino.

Il Comune viene meno a tutti gli oneri di gestione del campo. Bastano pochi mesi perché la polveriera che si è creata esploda. Degenerano in breve tempo relazioni e strutture del villaggio. Quasi una metà dei rom, anche per il clima di panico diffuso dalla Bossi-Fini che incombe, va via dal campo e dalla città dove viveva da decenni.

Espulsioni in guanti bianchi, di questo alle giunte di sinistra bisogna dar merito (parliamo sempre delle giunte comunali ovviamente, che almeno il coraggio di fare delle scelte l’hanno avuto. Perché Regione e Provincia invece sulla questione rom non hanno saputo fare proprio niente di sostanziale).

Serve ancora una volta una tragedia perché il Comune ritorni al campo. Il 6 maggio 2002, durante la festa di S. Giorgio, al villaggio ci sono degli scontri dove due bambini e tre adulti rimangono feriti. La giunta progressista ancora una volta non può più stare solo a guardare. Anche se ora non sa proprio più che pesci prendere. Il responsabile delle Politiche sociali dichiarerà: “Abbiamo sbagliato ad affidarci all’‘autogestione’ come metodo di conduzione del villaggio”.

(“Corriere del Mezzogiorno”, mercoledì 8 maggio 2002).

Partecipazione

Ancora i rom

La giunta Bassolino accompagnò l’apertura del campo con una delibera chiamata “Patto di cittadinanza sociale”. In realtà di questa delibera ne sapeva qualcosa solo il Comune, un paio di associazioni e un paio di rom chiamati a fare le comparse. Non ne sapevano niente né il resto dei rom, né tanto meno i cittadini napoletani. In ogni caso, anche se ne fossero stati messi a conoscenza non avrebbero proprio saputo a cosa partecipare.

I primi erano stati nascosti in un posto desolato, i secondi non li vedevano più e il Comune si era volatilizzato. Prima della segregazione nel villaggio autorizzato, su questa questione c’erano stati momenti rari quanto preziosi di attivazione di una parte di rom e di alcune associazioni cittadine.

Si erano avviati dei percorsi dentro e fuori ai campi, si erano studiate soluzioni e avanzate proposte. Uno degli effetti più immediati dell’apertura del villaggio è stato il completo annientamento di questi processi di partecipazione.

Quel che ne rimaneva è presto degenerato attorno alla possibilità di lavorare nei progetti comunali. I rom più attivi, una famiglia che da mesi denunciava la situazione disastrosa del campo, dopo gli scontri di S. Giorgio fu costretta ad abbandonare villaggio e città. Nemmeno un mese prima questa famiglia

era riuscita a incontrare l’assessore alle Politiche sociali, Raffaele Tecce, a chiedergli aiuto perché sapeva di essere in pericolo. Quello stesso assessore, in un convegno pubblico organizzato nella Facoltà di Architettura (Le rose di giugno, 8 giugno 2002) incalzato dalle domande sul perché si fossero lasciate degenerare a quel modo le cose nel campo e perché nessuna tutela fosse stata garantita a questa famiglia, dichiarò: “Sono contraddizioni interne al popolo che vanno risolte dal popolo stesso”.

Racconti del Com.p.a.re      

Partecipazione 2

La guerra delle piazze

“Piazziamoci” è un coordinamento formato da una ventina tra associazioni di base, scuole, comitati, parchi privati, nato sull’onda di un convegno sulla sicurezza organizzato a Scampia dal Dun (Dipartimento di Urbanistica di Napoli).

In quel convegno ci dicemmo che oltre ai grandi piani di riqualificazione era possibile tentare delle operazioni più piccole ma più coinvolgenti, che potevano realizzarsi in tempi relativamente brevi, con spese non eccessive e la partecipazione della gente.

Con il Dun individuammo uno spazio e pensammo di cominciare da quello. Là c’era parecchio passeggio e l’idea era di progettare e costruire in quello spazio una piazza assieme alla gente. Scampia è strana perché ci sono delle forme di aggregazione, ma sono tutte chiuse. Ci sono scuole che magari lavorano fino alle 10.00 di sera, però dentro.

Le parrocchie che lavorano parecchio, attività frenetiche, ma dentro, sempre dentro. Noi avevamo bisogno di luoghi di aggregazione spontanea e i luoghi per l’aggregazione spontanea sono le piazze e le strade.

A Scampia le uniche piazze che esistono sono quelle dello spaccio di droga e le strade sono delle autostrade a cui manca la segnaletica. Ci sarebbe la villa Comunale, ma quella chiude alle 17.00 e poi non ci va nessuno. Così ci mettemmo a lavorare a quest’idea della piazza, che chiamammo “La piazza dei Giovani”. Facemmo un’assemblea a cui invitammo anche il Comune.

L’amministrazione non aveva capito bene quello che gli proponevamo e venne con tutte le carte del piano di riqualificazione, che voleva spiegarci tutte le cose che erano in cantiere. Noi ascoltammo e poi cambiammo il tiro, riuscendo in qualche modo a fargli accogliere il nostro progetto e a strappargli un impegno.

Da quel momento concentrammo tutte le nostre attività in quello spazio. Per oltre un anno lavorammo con scuole, associazioni, parchi e le altre realtà del territorio per far passare quest’idea della piazza. Parallelamente il Dun (a cui il Comune aveva commissionata una serie di cose a Scampia, tra cui questa) portava avanti nelle scuole la progettazione partecipata dello spazio, realizzando con i bambini disegni e plastici. I risultati di questo lavoro vennero presentati il 4 luglio.

Aldo Bifulco, Comunità di Base

del Cassano, circolo La Gru

Prima dell’estate scorsa, un anno fa ormai, avemmo l’incontro con l’architetto Martinelli, preposto dal Comune a seguire il piano di riqualificazione del nostro quartiere. Ci illustrò quello che si prevedeva che si sarebbe realizzato anche in tempi piuttosto brevi. Ci disse che loro stavano già intervenendo su un’altra area, tra la villa Comunale e la Metropolitana.

Là avevano intenzione di creare un’altra piazza, “La piazza della Socialità”. Avrebbero realizzato un lungo percorso, una sorta di passeggiata, con una serie di servizi e uno spiazzo appunto chiamato piazza della Socialità.

Nelle loro intenzioni su questa “passeggiata” sarebbero sorti anche negozi di un certo pregio, visto che a Scampia fino a ora ci sono quasi solo alimentari. Capii che nella piazza della Socialità volevano realizzarci anche una sala cinematografica.

Noi ne abbiamo già una comunale, all’interno del complesso che ospita anche la sede della Circoscrizione. Esiste da oltre dieci anni ma non sono mai riusciti a metterla in funzione. A ogni modo questa piazza se la stava costruendo il Comune, senza nessun dichiarato intento partecipativo. Poi Martinelli ci parlò di un’altra piazza ancora che si doveva realizzare, alla testa della villa Comunale.

Un paio d’anni fa su quello spiazzo c’era stata un’altra iniziativa, anche questa guidata dal Dun, coinvolgendo i bambini delle scuole nella realizzazione di plastici e disegni perché si orientasse l’amministrazione nella realizzazione di quella piazza.

Il lavoro didattico fu tutto realizzato e consegnato alle autorità, ma anche di quella piazza non se n’è fatto ancora niente. Ora sembra che gli abbiano dato una destinazione, ma totalmente sganciata dal progetto urbanistico che era venuto fuori con i bambini. La “piazza degli eventi” dovrebbe chiamarsi questa qua.

Noi stemmo ad ascoltare, poi ricominciammo a insistere per la nostra piazza, perché il Comune realizzasse quello che era uscito dalla progettazione partecipata.

Avevamo investito energie, sollecitato speranze, motivazioni. L’architetto alla fine ci disse che sì, questa cosa poteva partire anche di lì a pochi mesi, sempre che avessimo avuto da parte dell’amministrazione l’impegno a mettere in bilancio questa spesa. La possibilità c’era. Allora noi prendemmo contatti anche con la Circoscrizione, con l’assessore. Tanti sì, sì, sì... e poi invece il bilancio è passato senza la nostra voce di spesa. Se ne parla per il prossimo piano finanziario, ci dissero. Adesso abbiamo ricominciato a bussare di nuovo, ma risposte non ce ne stanno. Noi non abbiamo altri strumenti se non quello di cercare di far prendere impegni solenni alle amministrazioni nei momenti pubblici. Non abbiamo mollato la presa.

Ernesto Mostardi, “Fuoricentro Scampia”,

periodico on-line

SCAMPIA

È il quattro luglio 2002. Nella sede del Dun si presentano i risultati della progettazione partecipata fatta con il Coordinamento Piazziamoci. Il responsabile del Dun lamenta l’assenza del committente del progetto, il Comune di Napoli.

Tutto il lavoro viene sapientemente illustrato ma c’è un problema. Mancano i fondi per realizzarlo. Un signore sui sessant’anni si alza. Ha un gilè e un aspetto composto e morigerato.

Diventa rosso in volto e si sfoga: “Basta, sono vent’anni che ci studiate addosso. Vi ringraziamo, ma adesso basta, per favore basta!”.   

Una vela

Io credo veramente che a noi ci devono fare solo una puntata di Quark addosso e poi stiamo a posto! Veramente delle Vele hanno vivisezionato proprio tutto. Ti dico la verità. Io dei miglioramenti nel primo mandato Bassolino li avevo visti anche a Scampia.

È chiaro che c’è stata l’urgenza di fare il centro di Napoli, però di riflesso qualcosa si è vista pure qua. Tipo che sono aumentati i pullman, hanno finalmente finito la villa Comunale che andava avanti da vent’anni (che poi non ci va nessuno alla villa Comunale, ma questo è un altro discorso). In breve tempo quella cosa che era la Metropolitana e che tutti ormai dicevano che non esisteva veramente, l’hanno finita.

La Metropolitana che sta a Scampia quando venne aperta la gente diceva: “qua 3 giorni e salta tutto”. Invece guai a chi la tocca, ce la si difende quotidianamente e con i denti. Io abito nelle Vele dal maggio dell’80, quindi prima del terremoto. Poi è venuto il terremoto e di fronte al terremoto che ci vuoi fare? Però mò so’ passati vent’anni e stiamo ancora a quel livello là! La mia è una delle Vele che non hanno buttato giù e all’interno ancora non ci sono gli ascensori, non arriva la posta, non ci sono le luci. Il caso vuole che al 16° piano ci abitano per  lo più persone anziane che o se la fanno a piedi o rimangono reclusi a vita. Io la mattina scendo, vado a lavoro, torno a casa la sera. Siccome noi facciamo tutti quanti questo, a casa mia non ci sta mai nessuno e il postino non sa dove mettere la posta, perché non ci sono le cassette. Io mi sono dovuto fare la casella postale, perché i documenti dell’Università, i documenti del Cnr, i documenti della macchina… è un macello!

I miei rapporti con gli altri abitanti delle Vele sono buoni. Buon giorno e buona sera. “Chill’ è n’u bravo guaglione, s’ fà i cazzi suoi”, dicono. Si parla del Napoli, e quindi c’è poco da ridere. Spesso mi dicono; “tu sì strunz’!” Perché? gli chiedo io. “Perché vai a lavorare un mese intero e pigli 2 milioni. A me 800 mila lire me le danno in una settimana. Sì è vero che hai studiato, però…”

Che gli rispondi a uno così? Però sicuramente la stragrande maggioranza di quelli che stanno nelle Vele è gente che scende la mattina e si fa un mazzo tanto per lavorare onestamente. Nel mio palazzo ci saranno qualcosa come 1.200 famiglie. Io ne conosco sì e no un 5%.

Antonio, velista      

Penso che il mercato dell’eroina non poteva estendersi oltre un certo livello, per motivi sociali ed economici. Quel mercato ha un suo equilibrio, tra persone che consumano ogni giorno, altre che consumano saltuariamente, un certo numero che integra l’eroina o la cocaina col metadone preso nei servizi.

E come succede in ogni forma di mercato quando c’è un settore che si stabilizza, le forze economiche che vi sono collegate e hanno bisogno di ampliare il loro volume di affari provano a indurre nuovi bisogni, introducono nuove sostanze per nuovi target di clienti.

Il cobret ad esempio, che non è altro che eroina da fumare, ha rappresentato soprattutto all’inizio un modo per reclutare nuovi consumatori. Molti lo avevano confuso con il “fumo” in generale, con le droghe leggere che non portano assuefazione. Venivano ai servizi abbastanza disorientati dalla “rota” inattesa, perché non sapevano che era eroina.

Si trattava, e si tratta, di persone per lo più integrate, che vivono spesso con un senso di fastidio lo stato di dipendenza. Oltre al cobret c’è poi tutta l’area dei consumatori delle piazze, del consumo di droghe per così dire voluttuarie come l’ecstasi. Questi consumatori hanno una differenza che si nota rispetto ai tossici storici.

Non vengono ai nostri servizi, perché li vedono targati un po’ “eroinomani” ed hanno ragione. Loro si considerano diversi dagli altri e hanno spesso un pregiudizio forte rispetto ai tossicodipendenti. Non li accolgono nel loro gruppo, tendono a differenziarsi.

Gli anni Novanta sono stati così caratterizzati da una sperimentazione da parte delle persone, realizzata attraverso le logiche del consumo di merci, per di più vendute in un circuito di illegalità che peggiora il livello di informazione e rende particolarmente pericoloso il consumo.

C’è stato in definitiva un sostanzioso aumento del volume complessivo del consumo di sostanze stupefacenti illegali per la venuta di nuovi prodotti e nuovi consumatori.

Stefano Vecchio, psichiatra

dei servizi sociali del Comune di Napoli

In questi ultimi dieci anni le associazioni a Scampia sono venute fuori come i funghi. Trovi associazioni dappertutto. Con alcune io ci ho lavorato anche e ho capito che se uno ci vuole restare si deve mettere là, tranquillo, in fila e nun’adda rompere ’o cazzo a nisciuno. Perché si romp ’o cazzo, se vai a dare fastidio n’a vota ’e cchiù, il primo nemico diventa proprio quell’associazione.

Tra le tante sicuramente l’associazione più antica e più potente a Scampia resta quella propriamente chiamata Camorra. Le attività principali della Camorra, tra Scampia e Piscinola, restano la droga e l’edilizia. Non so quale di più. Le attività di spaccio in questi anni sono rimaste pressoché invariate. Anche se di drogati con le siringhe dentro al braccio se ne vedono un po’ di meno per le strade. Il cambio c’è stato nella manovalanza perché oggi vengono preferiti i minori per spacciare. Si cercano come il pane.

Nel mio rione, negli ultimi 2 anni, non si è più venduta la droga. Io ho cercato più ragioni. Una è sicuramente che gli ex, i veterani, i ragazzi di 26-27 anni che una volta spacciavano e si bucavano in questo rione, oggi se li vai a piglià a uno a uno, a parte magari qualcuno che è morto o si è affiliato, la stragrande maggioranza si è trovata una forma alternativa per sopravvivere. Nel mio caso è stata quella di andare a vendere la biancheria per dentro ai paesi.

Qualcun altro semplicemente ha pigliato un triciclo, s’e messo sopra e ha cominciato a vendere la frutta. Comunque sempre cose ai margini della legalità. Il perché non lo so. Io ne ho dato una giustificazione di presa di coscienza, nel caso mio. Però se poi voglio piglià a Gennarino, a Toppitop, a Ettoruccio, a Mimmo che probabilmente non hanno avuto questa presa di coscienza, non lo so qual è a molla. Sicuramente una cosa è certa, ognuno di noi si è fatto almeno 8-9 anni di carcere. Almeno.

Trovandosi poi con niente in mano. Cioè ti trovi che hai fatto tanti anni di carcere, sofferenza a tutta forza, sapere che tua moglie, tua madre viene sotto al carcere tutti i giorni, per anni, per che cosa poi? Per non trovarti neanche una lira e stare sempre tutto fatto. Nel momento in cui uno o due di noi ci siamo levati da mezzo, c’è stata una specie di effetto a catena.

Quando io sono uscito da carcerato, e mi ricordo che erano usciti pure Mimmo e Ettoruccio, i ragazzi del rione mi ricordo che ci aspettavano come fossimo dei miti, quelli che dovevano essere liberati per avviare le attività all’interno del rione.

Pure io quando ho cominciato cercavo qualcuno che l’aveva fatto prima di me come persona da seguire. Qualcuno che mi dava delle sicurezze, mi spiegava come si fa come non si fa… come ti devi stare accorto alle guardie. Per esempio mio nipote aspettava me e mio fratello per fare questa sorta di piccola organizzazione. Nel momento in cui sto mio nipote ha capito che noi non ne volevamo sapere più, c’è rimasto proprio male.

Non trovando più questo riferimento i ragazzi stessi si saranno fatti qualche domanda: “Questi per non farlo più…” Un ragazzo poi se le fa queste domande. Infatti poi alle volte che ci mettiamo a parlare qua giù, loro mi chiedono ancora: “Ma poi perché ti sei levato da mezzo? Io non ci posso pensà!”. E senti a me, e senti a Ettoruccio e a quell’altro e a quello ancora… e vedi che poi, per quanto possa essere preso dal sistema, uno dice aspetta un momento, famm’ verè buono.

È difficile da spiegare. Questo è un rione dove la gente non si vuole rassegnare a non tenere le 10 lire in tasca e siccome la via legale ha tutte le sue difficoltà, qua sembra che l’unica sia quella illegale. Ma pure il giovane che si avvicina all’illegalità ha bisogno di un punto di riferimento.

È come se questi ragazzi avessero trovato un vuoto avanti a loro. Un 3 anni fa ci stava un piccolo boss appena uscito da galera. Siccome lui in questo rione già c’aveva avuto una piazza di spaccio, chiamò a me e mi chiese di poter avviare di nuovo l’attività. Io non gli potevo dire di no, perché il no è un rifiuto e comunque ti può portare delle conseguenze.

Cercai di arginare la cosa, di trovare un modo di dirgli no senza dire no. Un giorno stavo con la busta piena di magliette e calzettoni per andarli a vendere e lo incontrai.

Che fai, che non fai…? E mi vede con questa busta in mano. Quando l’aprì subito s’accorse che era ’na cosa di sti guaglioni che vanno a vendere. “Ah questa è la fine che hai fatto? A vennere cazettini e magliette?!”. Mi disse. Io non risposi, dissi e ch’aggia fa? E ho continuato per la strada mia.    

 A quel punto lui si rivolse ad altri ragazzi del rione. Stranamente nessuno si mise. In questo rione qua siamo 160 famiglie e tra i figli di queste famiglie non ne trovò nemmeno uno. Tant’è vero che lui chiamò ragazzi da altri rioni per venire a spacciare qua. Roba di 5-6 giorni e furono arrestati tutti quanti.

Loro non tenevano nessun tipo di appoggio dentro al rione, non conoscevano a nessuno, dovevano stare per forza là in mezzo. Per cui bastava che entrasse una pattuglia e se li faceva subito. Mentre io che sono del rione appena ne vedevo una me ne fuggivo sopra, dalla signora del piano di sopra.

Questo riguarda una realtà molto piccola, che è quella del rione mio. Era stata una delle piazze più forti di tutta la 167, penso. In media qua si levavano tremila bustine al giorno solo di eroina.

Gaetano Di Vaio, abitante di Piscinola      

Stili di vita

I. Il consumo mensile di una famiglia media di Scampia, di quelle che conosco io, composta da madre padre e due figli, è intorno ai due milioni di lire.

Due milioni col debito però. Poi ci stanno le feste, i battesimi le comunioni i matrimoni. sette o otto milioni è in genere il costo di un battesimo o di una comunione. I matrimoni costano pure di più.

Per fare tutto questo la maggior parte ricorre ai debiti. Se sei un dipendente comunale fai un debito sulla busta paga. Se non sei protestato fai una cambiale. Se no ti rivolgi agli usurai, che ti fanno un tasso d’interesse che è praticamente del 120% annuo.

L’usura qua è diffusa e accettata nell’immaginario collettivo. È come il Banco di Napoli. Può essere la signora del piano di sopra.

Un disoccupato che non ha altra strada può rivolgersi solo a lui. Per fare questo mestiere però bisogna essere gente avida, tirata, perché non ci vuole molto a passare da usuraio a usurato. Questa è gente che se vai a casa e la trovi col piatto a tavola manco ti chiedono se vuoi favorire.

II. Come campano qua a Scampia? Va bè, ci sono molti che fanno gli impiegati e pure qualche professionista. Quelli stanno però dentro ai parchi chiusi. La parte di persone che potrebbero fare i manovali quasi tutti emigrano. Partono la domenica sera e tornano il venerdì.

Vanno a lavorare nel nord Italia, ma anche in Abruzzo, in Umbria. Questa cosa non è più vista drammaticamente come una volta.

Si mettono da parte i sentimenti. Io so che quando una persona parte (siccome molti del rione la domenica sera mi vengono pure a salutare) lo so che stanno male, lo so benissimo. Solo che queste cose sono diventate talmente diffuse che non se ne parla più. E poi questi non è che vanno e si sistemano. Per lo più partono con ditte napoletane e spesso lavorano comunque a nero.

Un’altra parte si arrangia con mestieri da ambulante. L’annientamento del contrabbando qua ha portato effetti disastrosi. Fino a 5 anni fa da qua alla piazza di Piscinola ci stavano due fruttivendoli. Oggi ce ne stanno 5 e 3 di loro prima vendevano le sigarette. Molti degli ex contrabbandieri che conosco vivono così.

Altri o sono andati nella camorra o vanno a rubà. Perché, per esempio, per fare il fruttivendolo non è come mettere la bancarella con le sigarette.

Quando vai al mercato se non sei una persona scetata tu compri male e poi non riesci a vendere come si deve. Non è come con le sigarette che tu prendi 10 stecche le metti sopra alla bancarella e vendi. Poi ci sono quei giovani che non fanno proprio niente. Cioè si alzano la mattina verso le 11.00, scendono un poco in mezzo alla via a fare una chiacchierata, se ne vanno fuori al biliardo e così passano le giornate intere. Nell’ozio, come si dice. Solo che questo poi si ripercuote sulle famiglie, perché sti guaglioni pretendono comunque.

Ci sta per esempio mio cugino che passa la vita a chiedere il giubbino della Nike, ’e scarpe che costano tanto… La madre è terrorizzata dall’idea che il figlio possa compiere qualche reato.

Perché poi fuori al biliardo si frequentano ragazzi diversi.

C’è il tipo che magari non ha mai fatto il guaio ma anche quello che comunque li fa. Ci sta comunque un’amicizia. E la mamma fa i debiti per comprargli il giubbino firmato, per mandarlo ogni 15 giorni dal barbiere perché si deve rifare le basette. Cose che fino a pochi anni fa non esistevano proprio.

Gaetano Di Vaio,

abitante di Piscinola

 

III. Le poche case che trovi tra Scampia e Piscinola ormai i prezzi sono altissimi. Intorno alla Metropolitana i prezzi sono più che raddoppiati. Anche perché poi qua si era venuto a sapere che dovevano fare l’Università e tutta un’altra serie di cose che si dovevano fare.

Conosco situazioni di persone che sono state buttate fuori dalle case in cui abitavano da 30- 40 anni. Alcuni dei vecchi proprietari, negli ultimi 4-5 anni, hanno venduto le abitazioni a persone che facevano parte di organizzazioni camorristiche, o almeno che si vantavano di farne parte.

I nuovi proprietari, laddove avevano avuto informazioni negative sull’inquilino che per esempio era disoccupato, gli hanno dato un tempo di scadenza e se questo non lo rispettava si presentavano o lo sbattevano fuori con tutti i mobili.

Questo è successo verso la fine dell’estate scorsa e per il momento che io sappia i casi così sono ancora pochi.

Un abitante anonimo perché non si sa mai

CASE       

Storie zingare

La famiglia rimase così nei giardinetti per tutta l’estate. I giardinetti sono popolati da filonari, mamme con bambini e, soprattutto, da colf e badanti dell’Est che si godono il dopo lavoro sotto un pergolato. La piccola folla di colf e badanti ucraine, russe, polacche viene puntualmente circondata da stormi di vecchietti napoletani rinati, agghindati e passati a lucido per fare acchiappanze.

Molti ci riescono e poi li si vede andare in giro per la città come ragazzetti con l’innamorata sotto al braccio. La macchina in cui la famiglia dormiva si era definitivamente rotta. Il padre aveva chiamato un meccanico che era venuto a vederla.

Il meccanico gli aveva detto che lui non la poteva aggiustare che su quel marciapiede non poteva rimanere che doveva chiamare qualcuno per farsela trainare fino a casa. Il padre gli aveva risposto che quella era la sua casa. Il meccanico gli disse che non sapeva che fare e si prese 50 euro.

Per fortuna d’estate fa caldo e la famiglia può dormire su un materasso nei giardinetti. Ma la gente, si sa, è malpensante e chiama vigili e forze dell’ordine ogni volta che qualcuno la molesta. Pronta la pattuglia di vigili assieme a un furgoncino della nettezza urbana arriva e si prende il materasso. Ma la famiglia ne trova un altro, sempre nell’immondizia.

A volte piove, anche d’estate e la famiglia passa la notte sotto qualche balcone a ripararsi. Per due mesi abbiamo cercato case tutti i giorni. La famiglia era andata a chiedere aiuto agli altri rom che in questi anni ne avevano trovata una al centro storico, ma senza risultati. Il padre aveva cominciato a comprare il giornale degli annunci e poi insieme telefonavamo.

Quando telefonavo io, dicevo di essere della Consulta Comunale per le problematiche rom, che come Comune avremmo potuto fare da mediatori rispetto a tutte le problematiche presenti e future. Era vero, facevo parte di questa Consulta costituita dal Sindaco in persona, Rosa Russo Jervolino.

E la Consulta tra gli scopi avrebbe avuto anche questo di trovare case ai rom per favorirne l’uscita dal megacampo. Solo che la Consulta si era riunita una sola volta e di fatto non serviva a niente. Io mi spacciavo per la Consulta quando proprio non sapevo che cosa dire più. Il problema era che tutti i possibili proprietari appena sentivano la parola extracomunitario iniziavano a tergiversare, quando poi pronunciavo “slavo”   (perché a dire rom o addirittura zingaro non mi azzardavo neppure) dopo un po’ mi attaccavano la cornetta in faccia. Per 4 mesi cercammo una casa. Ne vedemmo tante. La prima era una stanza umida e senza finestre dove fino a poco prima ci viveva una famiglia italiana di Montesanto. Volevano 650mila lire al mese.

Quel giorno il padre s’era vestito di tutto punto, con tanto di capelli tirati a brillantina. Il padre è uno alto, robusto, baffetti sottili, io l’ho sempre creduto un divo di Hollywood in incognita. Era emozionato, era la prima casa che vedevamo. Non vollero fittargliela. Ne vedemmo un’altra, altre 3, altre 6, altre 9… sempre più o meno per 600mila lire al mese.

Stanze uniche, spesso garage rifatti con tanto di saracinesca come porta e un quadrangolo interno in mattoni come bagno. Le uniche che riuscimmo a vedere furono quelle del centro di Napoli. Sul litorale domizio o in zone un po’ più distanti dalla città la famiglia non voleva proprio trasferirsi.

La famiglia vive soprattutto dell’elemosina e il giro di relazioni, di aiuto e protezione, ce l’ha a Napoli. Ma la fortuna degli zingari la fanno i figli, si sa. Se no perché ne farebbero tanti? E la famiglia di figli ne ha uno, ma che vale per 7.

Il vicino di bancarella del padre è un senegalese che vende cd contraffatti. Il figlio diventa suo amico. Stanno spesso insieme, lui va a vedere le partite di calcio a casa loro e fanno festa insieme. Spesso mi racconta delle cose strane che mangia, che vede, che sente dai senegalesi.

Lui che fino a un mese fa quando vedeva un negro cominciava a urlargli ingnominiose improperie, ora sembrava davvero innamorato di questo senegalese e dei suoi amici. Il resto della giornata il figlio gioca a pallone con i ragazzi del Vomero, o va al bar di fronte alla villa Floridiana dove la famiglia si appoggia. Sembra che qua al Vomero il figlio sia rinato. Il proiettile che gli si è ficcato nell’addome durante gli scontri di S. Giorgio è ormai acqua passata.

Trascina ancora un po’ la gamba ma il suo umore non ha niente a che vedere con quando stava al campo. Il dubbio mi viene: che non ci troviamo tutti in uno dei progetti sull’intercultura del Comune? Comunque il senegalese che abitava da quasi due anni in un vico del centro, tre stanze condivise con una ventina di altri connazionali, ha le credenziali giuste e inizia a cercare casa alla famiglia.

Dopo nemmeno un mese gliela trova e la famiglia può trasferirsi. È una stanza unica anche questa, con sopra la dicitura su marmo “Municipio di Napoli. Vano non adibibile ad uso abitazione”. Ma finalmente ora la famiglia ha un posto dove passare l’inverno.

Passa un giorno e Roberto lo trovo che gioca a pallone in una piazzetta restaurata che i bambini indigeni hanno subito trasformato in campetto di calcio. Può iscriversi anche a scuola. Il primo giorno lo rimandano a casa perché c’è appena stato il terremoto e le scuole napoletane si scoprono pericolanti. Rimarrà chiusa almeno per una settimana. Ancora una settimana di calcio intensivo.

Racconti del Com.p.a.re      

Pianura

Pianura è il quartiere abusivo per eccellenza. Si chiama così perché sta nella piana ed era una terra di lavoratori agricoli. Diventa metropoli, ovvero quartiere periferico di una grande città, quando viene invasa dal cemento intorno agli anni ‘70.

Cominciarono dai costoni, quelli che salgono verso i Camaldoli e che ora sono quasi interamente costruiti e non condonati. I pianuresi in genere hanno un’idea di città che si fa da sé e per sé, che non ha niente a che vedere con la città amministrativa. Considera che qua in pochissimi hanno chiesto il condono. Due dati. A Pianura la camorra è molto presente e forte.

Pianura è stata storicamente un serbatoio di voti per la destra. In questo quartiere c’è un insediamento storico di sudamericani, colf e badanti per lo più, sparsi un po’ su tutto il territorio. Nel centro storico di Pianura ci vivono invece molti africani. Il centro storico è antico, fa parte di quei ‘casali’ storici amati e studiati dai cultori della morfologia degli insediamenti. E non è abusivo.

Gli italiani non ci stanno quasi più. Nel terremoto dell’80 molti degli antichi casali dei centri periferici vennero dimessi perché se ne cadevano a pezzi. Alcuni furono ristrutturati e altri no, ma quasi tutti divennero edifici pubblici perché espropriati e chi ci abitava venne ricollocato in altri alloggi.

Gli africani di cui ti parlavo sono dislocati in tre insediamenti, di cui il più numeroso sta in uno dei casali non ristrutturati. Come gli altri anche questo è costituito da un insieme di casette alte 2 piani, chiuse a corte, e non essendo ristrutturato dispone di appartamenti tipici di come si viveva 60 anni fa. Sotto avevano la cantina o la stalla per le mucche e sopra la casa cui si arrivava con la scaletta esterna. Il bagno se c’era stava giù.

Gli immigrati ora occupano sopra e sotto e sono di base in 25 con un bagno. Per bagno intendo solo la tazza. Il casale è completamente sfracellato, con i solai che se ne cadono e i muri spaccati. È così disastroso anche perché loro lo lasciano cadere a pezzi. Hanno continue minacce di sgombero dal Comune per cui dicono io non mi aggiusto il tetto se no spendo i soldi e poi mi cacciano pure. È un circolo vizioso. La maggior parte di questi africani lavora a Quarto, un comune vicino.

Vanno a offrirsi nella piazza all’alba per lavorare in campagna o nei cantieri o per i tanti piccoli lavoretti che possono servire. Per cui per nessuno di loro è stata richiesta la regolarizzazione. Chi si mette a regolarizzare qualcuno che serve un giorno sì e sei no? In molti qui ci abitano fissi da oltre 15 anni. Ci vivono anche due famiglie italiane, 2 ragazze con i figli. Ma possono essere 25 come 150. Cioè c’è un nucleo più o meno stabile e quando arrivano nuovi connazionali questo casale è il primo posto dove trovano ospitalità. Funziona insomma da centro di prima accoglienza informale.

Ilaria Vitellio, che svolge

 attività di ricerca presso il Dun

Il comune di Napoli è uscito dallo stato di dissesto economico solo nel dicembre 2002, anche in virtù dei soldi, reali o presunti, dei condoni edilizi. “Adesso il Comune potrà finalmente vendersi il patrimonio immobiliare” (“Corriere del Mezzogiorno”, 8 dicembre 2002) fu allora il primo commento ufficiale. Già da diversi anni la proprietà immobiliare che era in qualche modo sottoposta a controllo pubblico (come quella della Società Risanamento e dell’Istituto Autonomo Case Popolari) aveva cominciato a venire (s)venduta ai privati.

Nel caso della Società Risanamento l’acquirente è stato il Gruppo Pirelli, che questa operazione la sta facendo anche nel resto d’Italia. È andato così scomparendo anche a Napoli il sistema di garanzie pubbliche rispetto al mercato delle case. E per molti questo è un bene, viste le condizioni in cui il patrimonio pubblico versava.

L’edilizia pubblica a Napoli è stata sempre caratterizzata da manutenzione pessima e da imbrogli di ogni tipo da parte di amministratori, inquilini, proprietari. Decine di mancate scuole, ospedali, polifunzionali, biblioteche... di proprietà degli enti pubblici se ne sono rimasti a marcire anche in questi ultimi dieci anni, intrappolati tra l’ignavia delle pubbliche amministrazioni e le mire incrociate che i privati avevano su quegli stabili.

TERRE DI LAVORO

(Da un’inchiesta fatta l’anno scorso con Marco Carsetti e Domenico Chirico) Stavo a Napoli, mi hanno indirizzato a Villa Literno. Ci sono andato. C’era una scuola che avevano iniziato a costruire e non l’hanno finita. Praticamente erano solo i pilastri e il tetto ed eravamo 2-300 immigrati quasi tutti africani. Io mi ricordo benissimo come chi trovava un cartone era fortunato. Fortunatissimo.

Un cartone per dormirci sopra. Il pomeriggio quando chiudevano i negozi andavamo tutti quanti a cercare i cartoni. Io l’ho trovato dopo 2 sere e sono stato fortunato. I negozianti, quelli che vendono elettrodomestici, li vendevano agli extracomunitari. Vendevano i cartoni che di solito si buttano. Per farci le docce, quando avevamo i soldi, c’erano alcuni barbieri del paese che si prendevano 7-10mila lire per doccia.

Lassad     

Castel Volturno

Dovremmo rifarci al boom degli anni Cinquanta, a quel tipo di sviluppo sociale ed economico che portò la gente a desiderare la seconda casa, realizzando con la seconda casa l’illusione di una condizione sociale di tipo diverso. Da lì partì la corsa alla villa a mare, e non solo a Castel Volturno, ma in tutt’Italia. Il litorale Domizio era una zona tipicamente mediterranea, vicina a Napoli e a Caserta, e ancora quasi interamente vergine.

Si edificava senza regole, così com’era possibile; non si facevano strade né si realizzavano altri servizi. Si è costruito anche in zone paludose. Si è creato per il più povero degli acquirenti la più sgangherata delle case.

Finché a un certo punto a questo fenomeno più vacanziero della seconda casa non si è associato un altro fenomeno, quello del bisogno abitativo.

La periferia di Napoli – specialmente a seguito del terremoto dell’80 – aveva bisogno di alloggi. A poco a poco assistemmo in quegli anni a un imponente spostamento di popolazione dall’hinterland napoletano e anche da quello casertano verso il litorale Domizio.

In un clima politico di assoluta connivenza e assenza di piani regolatori da parte dei Comuni, i costruttori hanno avuto la possibilità di determinare le sorti di questa o quell’amministrazione, oltre che dell’intero litorale. Il flusso migratorio di napoletani ha interessato – oltre ai paesi della fascia Domiziana – anche quelli dell’interno. Basti pensare a Marcianise, S. Marco Evangelista, S. Nicola, comuni che si trovano a 13-15 minuti da Napoli, e che in effetti sono molto più vicini al centro di Napoli rispetto a quartieri come Pianura, Fuorigrotta, S. Giovanni. Per molti aspetti questi paesi erano anche più vivibili.

L’hinterland napoletano si è così spostato verso la “Terra di lavoro”, occupando e includendo le fasce più contigue. Castel Volturno, in effetti, è un esempio tipico di espansione incontrollata, perché è la zona al limite tra due province, quella di Napoli e di Caserta. Di lavoro, allora, ce ne fu davvero in abbondanza e così a Castel Volturno e sul resto del litorale Domizio arrivarono molti extracomunitari.

Sbarcavano per lo più al largo di Ischitella, e venivano importati per lo più dalla Camorra. Vi sono stati scontri tra la camorra locale e le mafie nigeriane, ganesi… per lo sfruttamento della manodopera straniera.

Intorno agli anni Ottanta ci furono grandi sparatorie, con molti morti e feriti. Alla fine si raggiunse una specie di pax mafiosa, che li portò all’accordo sulle percentuali di sfruttamento (per la prostituzione, per il collocamento al lavoro, per lo spaccio della droga…).

Le prostitute, ad esempio, pagano alla camorra locale la tangente per il posto occupato sulla strada, e a quella nigeriana il “pizzo” sul guadagnato. Fin tanto che la cementificazione selvaggia è andata avanti, i rapporti tra stranieri e italiani sono stati più o meno passabili.

La visibilità degli extracomunitari era solo quella che dava loro il cantiere. È stato quando l’edilizia abusiva si è bloccata, più per saturazione del mercato che per altro, che sono iniziati i problemi. Una grande massa di manodopera rimasta senza lavoro si riversò per le strade, in cerca del miglior offerente, diventando improvvisamente visibile.

Gli ex operai edili cominciarono a raggiungere i loro fratelli immigrati che lavoravano nelle campagne dei dintorni, dove la richiesta di braccianti era invece in forte aumento.

Dormivano per la maggior parte in una zona interpoderale che poi verrà conosciuta come il “ghetto di Villa Literno”. Quello a cui verrà dato fuoco in seguito.

Fu a questo punto che la camorra, per parte sua, si aggiornò e variò l’offerta. All’edilizia abusiva e al collocamento nelle campagne, sostituì il più redditizio mercato dello spaccio della droga e della prostituzione.

Mercati che esistevano già prima ma in forma più ridotta. Per quanto riguarda la prostituzione il litorale offre una vetrina di 30 chilometri, la strada Domiziana. Avere le prostitute tutte insieme conveniva, così il cliente poteva scegliere meglio. Ma era una cosa estremamente fastidiosa per chi lungo quella strada ci abitava.

L’essere diventato uno dei più grossi centri di spaccio della droga e della prostituzione del Mezzogiorno; la mancanza di servizi e infrastrutture; la generale crisi economica e la trentennale invivibilità del territorio… gli autoctoni attribuirono automaticamente tutto questo alla presenza immigrata.

Soprattutto i commercianti, che diedero inizio a continue manifestazioni contro “i neri”. Anche se tutti sapevano che la maggior parte dei “contestatori” erano poi quelli che fittavano le case agli immigrati. E con notevoli vantaggi: se in un appartamento ci va una famiglia di italiani ne ricavi un normale pigione; ma se ci metti 20 stranieri e li fai pagare 100 mila lire a persona, è ovvio che conviene molto di più.

Ci fu un momento in cui Castel Volturno esplose come una torre di Babele: quando al fabbisogno dell’extracomunitario si associò quello del disoccupato napoletano, del senza casa che veniva dalla periferia e che da questa zona si aspettava una sistemazione, una prospettiva. I bisogni dell’extracomuniatrio straniero e quelli dell’extracomuni-tario italiano si sono scontrati anziché fondersi.

Anche il commerciante, che spesso era un piccolo esercente o il disoccupato, avevano ragione a fare rivendicazioni rispetto a un territorio ridotto in quello stato.

Solo che le facevano contro gli extracomunitari, invece di mettersi insieme per rivendicare una politica diversa. Raids notturni contro i neri, incendi d’auto, occupazioni stradali, sit-in davanti alla caserma dei Carabinieri, uccisioni… un vero impazzimento! Ma già allora era chiaro – lo hanno poi confermato alcuni processi e rapporti della polizia – che dietro a tutto questo c’era chi soffiava sul fuoco e strumentalizzava gli immigrati per combattere l’amministrazione comunale.

Eppure la mia amministrazione aveva contenuto e ridotto il fenomeno della criminalità legata agli immigrati clandestini. Io li avevo i dati e sapevo come andavano le cose. Il Ministero ci stava dando una grossa mano.

Da tredicimila che erano nel ’93, nel giro di due anni i clandestini presenti sul territorio li avevamo portati ad essere tre-quattromila. Ma questo non era stato sufficiente perché gli immigrati ormai erano diventati un problema ideologico e uno strumento di lotta politica. Il Centro di accoglienza da noi aperto, uno dei primi d’Italia, era diventato il simulacro di tutte le ostilità.

La popolazione di residenti iscritti all’anagrafe di Castel Volturno è di circa diciottomila unità. Mediamente ci sono quarantamila presenze al giorno, che durante l’estate arrivano quasi a centomila. Se Castel Volturno è diventata un luogo ideale per l’immigrazione clandestina è stato sì per la posizione geografica ma anche e secondo me soprattutto perché era un litorale di seconde case: disponibilità alloggiativa ma principalmente un panorama di desolazione imperante per la maggior parte dell’anno.

Durante l’inverno il litorale domizio è disperatamente vuoto e per una certa parte è vuoto anche d’estate. In una città tredicimila persone le si notano, dove si nascondono?

Le seconde case invece sono state – e restano – come un bosco nel quale è stato possibile nascondersi, senza dar fastidio e senza correre il rischio di venire scoperti.

Mario Luise, sindaco di Castel Volturno

dal ’70 al’ 71, dal ’71 al ’76 e dal ’93 al ’97.      

Braccianti

I primi a incominciare a lavorare nelle aziende so’ stati i zingari. Intorno al 1980. Stevano delle aziende che non trovavano manodopera e hanno cominciato a piglià i zingari. Ca chilli po’ ce jevn.

Sig. Aldo, proprietario di un’azienda bufalina

Con me hanno lavorato albanesi, algerini, tunisini. Solo i marocchini no. Mi trovo male a lavorare con loro. Perché prima erano ragazzi che ti capevono, avevano di bisogno.

Adesso manco loro ne aveno di bisogno. E allora pattuisceno, il tabacco se mi dai tanto lo faccio, si no lo lascio. È capace che fatta una raccolta ti lasciano il tabacco ’ncopp ’e piante. Perché vonno più soldi. Fanno il ricatto. Questo è un ricatto l’operaio col padrone.

Se non ci fossero gli extracomunitari non si potrebbe più lavorare il tabacco. No, non riuscite a prendere un italiano neppure si facite la richiesta al collocamento. No, non è che è duro. È sporco. È sporco nel senso che quando avite maniato ’o tabacco v’ potite lavà ’e mani ’e tutte manere che sò sempre amare. Nun putite mangià n’u morso ’e pane. Verite che ’e mani s’ fanno ’e o colore ’e ’stà tazza, più scuro. Nere.

Franco, ex bracciante agricolo,

attualmente proprietario terriero

A Napoli di agricolo non restano che i nomi di alcuni quartieri come Pianura, Scampia, Vomero. La produzione agricola, che serve anche la città, è altrove. L’area che va da Napoli a Caserta, conosciuta come le “Terre di lavoro” rimane una delle zone più fertili d’Italia, malgrado lo stupro sistematico e costante perpetrato nei decenni su questo territorio.

Un quarto della produzione italiana di frutticoltura viene da queste terre. I pomodori che l’avevano resa famosa assieme agli immigrati sudafricani che li lavoravano, oggi sono quasi scomparsi.

Tra le cause molti agronomi indicano una virosi seguita all’introduzione di sementi americane. La produzione si è così spostata principalmente su ortofrutta e oro bianco, la mozzarella.

Sempre più terreni cambiano destinazione trasformandosi in pascoli per bufale, su spinta anche delle organizzazioni camorristiche che di affari ne capiscono e sanno che in questo settore il mercato è in forte crescita, con richieste crescenti da ogni parte del mondo.

Mentalità e tempi del lavoro rimasti fermi a un secolo fa, si confrontano con leggi di produzione avanguardistiche. È recente una normativa che prescrive la meccanicizzazione di tutti i processi di produzione della mozzarella.

Nonostante l’alta produttività dei terreni però l’economia agricola delle Terre di lavoro è tutt’altro che florida. I motivi sono essenzialmente tre.

La cementificazione selvaggia e il diritto successorio hanno portato a una polverizzazione estrema dei fondi agricoli, finiti per diventare terreni di estensioni esigue per di più sparsi in giro per la regione.

L’incapacità degli agricoltori locali ad aggregarsi ha loro impedito di organizzarsi per la commercializzazione del prodotto. I mercati del Nord Italia vengono così in queste terre a rifornirsi direttamente, trovando prodotti di buona qualità e a prezzi modici, a cui a volte mettere il proprio marchio.

Questo oltretutto è un fattore che priva il territorio della ricchezza di un indotto che attualmente nelle Terre di lavoro praticamente non esiste.

L’introduzione di cultivar estere, che oramai hanno sostituito quasi del tutto le sementi italiane, comporta il pagamento di costi altissimi per le royalty che in genere sono americane, francesi, olandesi, israeliane. “La Provincia di Napoli per anni è stata una dei primi produttori di patate autoctone.

Oggi penso che non abbia un solo Kg di patate fatto con seme nostrano” dice il tecnico agrario Sergio Di Stasio.

Tutto questo fa enormemente alzare i costi di produzione per gli imprenditori che, non sapendo ridurre gli altri, hanno potuto ribassare solo quelli del lavoro.

Cosa che è stata possibile anche grazie alla grossa disponibilità di manodopera straniera che a un certo punto si era resa disponibile sul territorio e che oggi costituisce almeno il 60% della forza lavoro impiegata in agricoltura.

Per lo più a nero e clandestina. Anche se quello che attualmente spinge gli imprenditori agricoli a rivolgersi alla manodopera straniera non è neanche più tanto il costo del lavoro. Le diecimila lire, che dieci anni fa erano la paga di una giornata, oggi cominciano a diventare una retribuzione vicina alla diaria minima sindacale.

Quello che spinge gli italiani a rifiutare il lavoro agricolo e gli imprenditori a scegliere l’immigrato, è ormai principalmente un elemento giuridico-burocratico e uno relazionale.

A un clandestino non si pagano contributi e costi previdenziali, se si ammala o si fa male non accampa pretese.

Un immigrato è una delle ultime persone ancora disposte ad accettare un rapporto lavorativo fatto di urla in testa e sottomissione.

E così le piazze come quella di Marano, di Villa Literno, di Quarto, dove fino a 50 anni fa si raccoglievano i manovali italiani per offrire le proprie braccia, in questi ultimi 20 anni si sono riempite di nuovo ma di extracomunitari.

Oggi alla selezione di piazza subentra sempre più il fenomeno del caporalato immigrato.

Per gli stranieri appena arrivati in Europa un territorio come quello delle Terre di Lavoro e un settore economico come l’agricoltura, sono stati un buon posto dove nascondersi per i primi tempi. Ma non appena riuscivano a trovare qualcosa di meglio cambiavano settore produttivo e zona geografica.

Hanno così potuto avvalersi della manodopera immigrata anche le tante fabbrichette con le più svariate produzioni. Molti napoletani, allettati da una forza lavoro tanto appetibile, si sono lanciati verso avventure imprenditoriali grandi e piccole, spaziando dall’agricoltura all’edilizia, alla produzione e al commercio di ogni genere di merce.

Alcuni anni fa a Casale la camorra emanò un editto: debbono andar via tutti gli immigrati. Di qualsiasi razza, di qualsiasi colore. Via da Casal di Principe entro 7 giorni. Per fare questo minacciarono i proprietari delle case eccetera. Veramente ci fu la fuga.

Gli immigrati fecero le valigie e andarono via. Però in quei giorni, proprio mentre gli immigrati andavano via, scattò un meccanismo particolare. Da parte degli imprenditori, dei commercianti, dei distributori di benzina, che incominciarono a porsi il problema. Ma se questi vanno via, io come faccio?

Chi mi scarica la roba dal camion, chi mi lavora alla pompa di benzina, chi mi va ad accudire il bestiame in campagna? Chi mi va a zappare la terra? In effetti questa reazione bloccò l’editto.

Provocò anche il coraggio di denuncia da parte di qualcuno, di fronte a un soggetto come la camorra che insomma, nelle nostre realtà, non consente spazi di libertà. Eppure il vedersi all’improvviso privati di uno strumento fondamentale per la propria struttura economica provocò la reazione.

Renato Natale,

medico di Castel Volturno

FOLKLORE

Economia     

Napoli, come molte altre città, ha seguito la strada del cosiddetto marketing urbano. Cioè vendere il prodotto “città” sul mercato degli investimenti internazionali. La competizione internazionale è il criterio guida di tante politiche cittadine. Politiche che tendono ad accentuare tutto quello che può servire ad attrarre investimenti dall’esterno.

Il turismo è una componente di questo tipo di economia urbana e per questo una torsione turistica molto forte è stata data alle politiche culturali. Ad esempio l’impostazione di marcata impronta civile che aveva “monumenti porte aperte” nell’anno di fondazione, è stata poi sopraffatta dalle esigenze di promozione del turismo.    

Nella stessa direzione sono andate le scelte sulle grandi infrastrutture, come l’aeroporto o la Metropolitana: rendere la città attrezzata per reggere i rapporti con l’esterno ed essere in grado di consentire una forte movimentazione di persone dentro la città.

Anche questa era una condizione indispensabile al marketing urbano. Questo tipo di politica funziona però quando una città è forte, perché comporta un problema di equilibrio tra coesione interna e capacità della città di proporsi nella competizione.

Ora mi sembra che questa coesione interna a Napoli sia molto precaria, e che si sia fatta troppa poca attenzione per farla crescere. Certo è sempre difficile distinguere le responsabilità del governo nazionale da quelle dell’amministrazione cittadina.

E anche in quest’ambito bisogna riuscire a individuare l’insieme di forze interne che governano la città oltre a quelle più propriamente politiche. Solo per citare, il ceto accademico- professionale, la proprietà immobiliare, oltre all’onnipresente camorra.

Mi sembra che questi e altri gruppi sociali abbiano conservate immutate cultura e influenza. Ad esempio la lievitazione dei prezzi dei suoli (che in aree come quella orientale ha contribuito ad allontanare nuovi insediamenti industriali) io non penso che sia avvenuta semplicemente a causa delle politiche urbanistiche del Comune.

La speculazione immobiliare tiene in ostaggio immobili e aree, è gente che aspetta e quando non riesce a incidere direttamente sulle scelte urbanistiche, riesce poi a vanificarle di fatto ricorrendo a meccanismi d’inerzia, nell’aspettativa di una crescita continua dei valori dei propri immobili. A ogni modo di investimenti nella città se ne sono attirati ben pochi.

Per esempio ci sono i call center delle grandi compagnie telefoniche, ma poco altro di veramente qualificante. I piani di riqualificazione delle periferie da Scampia a Pianura, a Ponticelli, a S. Giovanni stentano a produrre effetti significativi e in molti casi non sono proprio partiti. Più in generale, facendo attenzione a fatti strategici (ad esempio a come si è arrivati a perdere il Banco di Napoli, con la conseguente accelerazione del carattere periferico della città rispetto al sistema economico e finanziario internazionale) verrebbe anzi da dire che Napoli in questi ultimi anni si è addirittura indebolita.

Francesco Ceci, sociologo urbano     

Educazione

Prima era difficile reperire l’esperto di botanica o di informatica che sapesse lavorare con i bambini. Il cercarlo, programmare con lui e avviare i laboratori aveva un piacevole aspetto artigianale e di ricerca. Oggi invece c’è una grande offerta che viene fatta alla scuola. Però io ho la sensazione che la scuola si trovi di fronte a una specie di supermercato dove andare a fare la spesa e vedere quale offerta ti piace di più. Quindi per forza è molto superficiale.

Non hai più la possibilità di dire ho una serie di competenze interne e le utilizzo per tutta la scuola. Questo è quello che stiamo vedendo noi a scuola. È più difficile ottenere finanziamenti per fare funzionare un progetto interno e vengono favoriti tutti i progetti che utilizzano pacchetti esterni già confezionati.

Gabriella Giardina, maestra

A Napoli molte delle sperimentazioni pedagogiche che hanno avuto un senso hanno ruotato attorno a tentativi di mescolanza. Erano sperimentazioni che funzionavano proprio grazie alla presenza di bambini e adolescenti di contesti sociali e culturali differenti.

Alla base esisteva un progetto pedagogico che era essenzialmente anche politico, perché voleva trasformare le condizioni strutturali del vivere comune. Molti di questi progetti si avvalevano degli strumenti offerti dall’educazione attiva e venivano portati avanti da movimenti più o meno interni alla scuola, come l’Mce (Movimento di cooperazione educativa).

Si basavano sulla pedagogia popolare ed erano intrisi della volontà di riscatto dei ceti più deboli, senza un modello di società ben definito a cui arrivare ma piuttosto volendo tentare di costruirne uno nuovo.

Erano esperienze per lo più minoritarie, spesso in contrasto anche con lo stesso Pci che magari un suo modello ce l’aveva. Sicuramente costituivano tentativi di resistenza e andavano verso la costruzione di un qualcosa di alternativo rispetto ai modelli dominanti.

La ricerca pedagogica a Napoli sembra essersi fermata a quelle sperimentazioni, a vent’anni fa.

Alla scuola media statale Lombardi alle Fontanelle o all’esperienza del 73° circolo di Bagnoli e a quella della Mensa dei Bambini proletari a Montesanto. Eppure malgrado i decenni di omologazione lo stato di separatezza tra napoletani non ha subito grosse modifiche, anzi si è per molti versi accentuato con l’aggravarsi del senso di frustrazione di una fetta consistente di città.

Separatezza che più che dalle condizioni economiche dipende oggi dalla possibilità di accesso ai circuiti legali e istituzionali, rimasti prerogativa di una minoranza. In più oggi a Napoli ci sono gli immigrati, che spesso appartengono al ceto medio per estrazione sociale e culturale, ma che condividono con gli ex proletari il marchio di estraneità e l’impossibilità di accedere ai circuiti ordinari.

Trovandosi ai margini più estremi gli stranieri rendono maggiormente visibili atrocità e contraddizioni del vivere comune. Proprio per questo possono essere un punto di partenza per riprendere discorsi interrotti. Se in alcune scuole il dibattito pedagogico sta ripartendo è anche grazie a loro.

Quando cioè invece di accanirsi sul bambino straniero, le scuole sono riuscite a vedere l’inadeguatezza delle strutture e dei modelli pedagogici di un’istituzione che a distanza di un secolo non era ancora riuscita a risolvere i problemi dell’educazione di massa, a partire dalle questioni legate al dialetto.

Il fallimento della scuola pubblica ha fatto però presagire rinunce pericolose, nuove preferenze di separatezza piuttosto che di mescolanza.

Anche per i bambini stranieri le cose non sono iniziate troppo bene, barcamenandosi le tendenze educative tra esotismo della differenza e pietismo (secondo gli insegnamenti di quella che qualcuno chiama pedagogia del couscous).

Oggi un modello di città c’è ed è pure forte. E l’educazione in questi anni ha avuto essenzialmente il compito di assimilare a questo modello chi ancora resisteva, che fosse minore a rischio o straniero. Avercene uno da recuperare è diventato medaglietta al valore da appuntare sul curriculum.

Spesso quest’educazione si è avvalsa degli strumenti della pedagogia popolare. Cosa di cui non si potrebbe che essere felici, se non fosse che tra la deriva new age e la nuova funzione che era stata loro assegnata, questi strumenti hanno rischiato di diventare contenitori vuoti, offerta di consumo per bambini iperstimolati, iperimpegnati e allevati sin da piccoli a narcisismo esasperato e attività salottiera.

In una città dove “la strada” veniva sempre più demonizzata e per i bambini non esistevano che pochi recinti dove starsene attaccati al guinzaglio.

Dove la vita vera scorreva all’insegna della reclusione di una cameretta giochi o di un campo-ghetto per rom. È sembrato insomma che quelli che furono un tempo gli strumenti della pedagogia popolare e libertaria fossero stati addomesticati per il mantenimento dello status quo.

E che venissero accantonati insegnamenti preziosi di maestri come Colin Ward, Pasolini, Danilo Dolci o (senza andare troppo lontano) Felice Pignataro con il suo storico carnevale di Scampia: l’educazione è principalmente il risultato delle relazioni instaurate con le persone (i propri coetanei innanzitutto) e le cose (la casa, il palazzo, la città) con cui si entra in contatto durante l’intero arco di una vita.

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Fonte:
LO STRANIERO - Numero 38/39 - agosto/settembre 2003

Di due realtà cerchiamo in quest’opuscolo di dare testimonianza: quella del vecchio ceto che è stato Napoli e ha vissuto il suo centro, e che è ormai scompaginato e cacciato, o corrotto; e quella delle periferie, che è più mobile e vitale di quanto non si pensi, benché oggi sottoposta a dirompenti mutazioni che sono destinate a cambiarne ogni assetto. Le periferie si allontanano, ma non scompaiono, anzi crescono.

Il più e meglio che possiamo fare è forse, ancora e sempre, “rompere le scatole”, e cioè affermare il nostro diritto di tener gli occhi bene aperti su ciò che è politica e cultura, nella città che pur da nomadi abitiamo e che è il nostro punto di riferimento primario, anche se non più una vera “casa”. Difendiamo il nostro diritto di critica dell’esistente.

Continuiamo a “non fidarci degli occhi” e a voler vedere oltre le apparenze, e capire oltre le chiacchiere e oltre la chilometrica kermesse di eventi e altri eventi e altri eventi, talmente quotidiani ormai da meritare il nome di rumore di fondo. “Fa’ quel che devi, accada quel che può”, ci ha insegnato tanti anni fa, al momento della nostra scoperta del Sud e del nostro innamoramento per Napoli, il vecchio Salvemini.

Addio, Napoli. E soprattutto, addio trionfante stoltezza dell’immagine, addio politica e sogno di democrazia dal basso. Il mondo cambia e cambierà ancora.

Cose da fare ce ne sono tante. Non è più tempo di perderlo, il tempo, appresso al superspettacolo di una città che ha voluto essere uguale a mille altre, nella comunanza della loro stessa stupidità.

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Addio, Napoli


Addio, Napoli


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