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L’ITALIA 1867
STORIA POLITICA E MILITARE
CORREDATA DI MOLTI DOCUMENTI EDITI ED INEDITI E DI NOTIZIE SPECIALI
GUSTAVO FRIGYESI
Comandante la 2.a Colonna
NELLE GIORNATE DI MONTEROTONDO E MENTANA
Volume I.

FIRENZE
1868
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CAPITOLO VENTESIMOQUINTO
La crisi economica dell’Italia nel 1867

II. Difetto di moneta metallica. Funesta imposta del corso forzato della moneta cartacea. La Banca del Popolo e molteplicità dei valori flduciari. — III. Il corso forzato risveglia le industrie nazionali. Quando si è sperimentano i veri danni della moneta fittizia e inchiesta parlamentare fattane. — IV. Inquietezza per la crisi economica nel Veneto. Il Re rinunzia una parte della sua lista civile, ma il sito esempio non ha imitatori — V. Commissione parlamentare sulle condizioni della provincia palermitana. Dove è civiltà e lavoro, ivi è ordine pubblico e dovere del Governo. Memorabili consigli ed eccellenti dottrine del barone Ricasoli.


II.

In quei giorni stessi essendo gravissimo lo stato finanziaria del Regno, come accennava in principio, anche peggiori ed intollerabili divennero le condizioni economiche della Penisola per manco di moneta metallica. Dappertutto si levò unanime la querela ed il protestare contro il mercimonio che si faceva della moneta,


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poiché l’aggio per aver soldi da far le minute spese era tanto cresciuto a Firenze, a Torino, a Genova e più a Napoli, quanto non fu mai nei tempi antecedenti pel cambio di cartelle in oro. Il decreto, col quale il ministro Scialoja nel 1866, profittando delle facoltà concessegli durante la guerra, impose il corso forzato dei biglietti della Banca nazionale per averne un imprestito di 250 milioni, portò le cose a tal punto che era stata sottratta dalla circolazione pubblica non solo qualsiasi moneta in oro ed in argento, ma anche in bronzo; per guisa che, dovendo fare pagamenti fuori di Stato ove i biglietti di Banca non erano accettati, o pure per qualche altra necessità commerciale di procacciarsi moneta di metallo, l'acquisto di essa era di sì straordinario dispendio che le derrate venivano a costare sempre un terzo più di quanto ordinariamente valevano. Il Governo stesso per fare i suoi pagamenti fuori e per isborsare in oro la quota che si era addossata del debito pontificio ebbe a incontrare una perdita di circa quaranta milioni. Quello che più aggravava l'andamento delle cose si era che mancavano affatto gli spiccioli per le minute necessità della famiglia e per l'uso della povera gente, ed anche per soddisfare a tanti pagamenti che il Governo imponeva sempre si facessero in metallo, come ai telegrafi, alle poste, alle strade ferrate, nonostante che esso non emettesse altro che moneta in carta e sol con questa facesse i pagamenti agli uffìziali pubblici.

Il corso forzato adunque dei biglietti della Banca fu la più esosa e funesta imposizione che mai gravasse le popolazioni italiane; ed è calcolato che il paese venisse a pagare 300 e più milioni ali' anno in commercio per questa emissione della moneta cartacea. In moltissimi luoghi poi, specialmente nelle campagne e nelle province meridionali, le popolazioni diffidavano affatto dei biglietti di Banca, e non volevano che il denaro in rame per maggior sicurezza; anzi, come accadeva in Sicilia, preferivano la stessa moneta erosa e falsa e dei caduti Governi alla carta moneta, legalmente dal Governo italiano riconosciuta; dimodoché gli usurai ed i cambiamonete, approfittando di tali dare necessità e speculando sulla popolare insipienza, venivano ad estorcere denaro per ogni verso alla povera gente, che sentì essere talvolta 1" aggio sul cambio della moneta in rame più esorbitante che di quella in oro. Abusi generali vi furono tanto per parte dei privati speculatori, quanto dei pubblici uffìziali, che maneggiando il denaro pubblico ne facevano per se, specialmente nelle ricevitorie dello Stato, lucroso mercimonio.


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E il Governo non fu né previdente né solerte ad alleviare il generale incomodo e le quotidiane strettezze, poiché tardi si appigliò al partito di dar licenza alla Banca nazionale che mandasse fuori biglietti di piccolo valore pel minuto commercio (1), e più tardi ancora, cioè quasi alla mela del 1868, fu provveduto a reprimere, quanto era possibile, l'abuso che dai pubblici uffìziali si faceva del denaro riscosso per lo Stato. (2)

La Banca del Popolo, istituzione che in molte province italiane si diffuse per sollecitudine dell'egregio economista Giacomo Alvisi, fu quella che riparò in generale allo scompiglio ed alle angustie in cui era venuto il piccolo commercio, emettendo Buoni di Cassa di minimo valore (da una lira e da cinquanta centesimi), pei quali le contrattazioni al minuto divennero più facili, più eque e buone per quei luoghi dove di siffatto benefizio poterono tutti liberamente godere, poiché si venne a troncare con ciò principalmente quella sfrenata ingordigia dei cambiamonete e quell'eccessivo usureggiare sui privati bisogni, onde poco mancò non fosse turbata la pubblica quiete da un capo all'altro dell’Italia. (3) L'uso però dei valori fiduciari,


(1) Non prima del 24 aprile 1867 la II. me, i nazionale, già Sarda, nel Regno d'Italia, ebbe facoltà di emettere 50 milioni di biglietti di Banca da lire due che ben presto si videro essere anco insufficienti al bisogno, poiché si pretendeva per fino l'aggio pel cambio dei biglietti di grosso valore in questi piccoli.

(2) Soltanto nell'aprile 1868 il ministro delle finanze Cambray-Digny, impedire gli abusi che si commettevano dai cassieri ed esattori dello Stato, mandi una circolare per (stabilire una severa e costante vigilanza sulle riscossioni che facevano in moneta metallica, poiché infine si giunse a tuie che nemmeno al Governo veniva più moneta di metallo.

(3) Fino dal 1861 si fondò in Firenze una istituzione, che aveva per iscopo di dar soccorso agli operai sotto il titolo di Credito Operaio. Fondatore di essa fu il sig Giuseppe Rosange, uomo di alti sentimenti patriottici e d'animo schiettamente dedito al bene della Società.

Di questa istituzione o banca egli fu per conseguenza il Direttore, ed era coadiuvato da due sindaci e da un cassiere. In breve tempo essa ebbe il più grinta incremento, talché in capo a 7 od 8 mesi poté raccogliere da 700 a 800 azioni, e dir sovvenzioni fino di L.400.

Riconosciuta la grande utilità di tale istituzione, cadde in pensiero al dottor Giacomo Alvisi, emigrato veneto, di allargarne le basi, istituendo una vera Bjoci elio potesse rendersi utile e prestare più validi soccorsi a tutte le classi industriali.

Ond'è che il Rosange si accordo coll'Alvisi, il quale non esitò ad accettare la proposta, e la Banca del Popolo ebbe vita. In essa poi il sig. Rosange stesso ebbe sempre multa parte delle attribuzioni spettanti ai consiglieri.

La Banca del Popolo adunque ha per iscopo di giovare, mediante l'associazione e il risparmio, al credito delle classi meno favorite dalla fortuna, e dimenticate dalle Banche esistenti: essa cominciò le sue operazioni nel 1865 con risultati molto prosperi, perché fondata sopra ottimi regolamenti.


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cioè la emissione dei biglietti di credito privato, divenne in breve generale, non essendovi quasi più provincia, municipio, negoziante o bottegaio di qualche rinomanza in commercio ed anche di limitato traffico, che non emettesse i suoi piccoli biglietti di cambio, a fine di sottrarsi nelle vendite minute alle insopportabili perdite dell'aggio. Gl'Italiani, stretti dalla necessità, si dimostrarono in tal congiuntura non meno ingegnosi di quando inventarono la tanta utile al commercio lettera di cambio.


III.

Il corso forzato della carta moneta pertanto non fu così dannoso ali' Italia come nei momenti peggiori di crisi finanziaria si ebbe a temere, stantechè il paese, può dirsi, da sé cercò riparo alle tristi condizioni economiche, in cui l'aveva gettato il Governo.


Aristocratici, professori di arti liberali, operai e artigiani ebbero modo di avvicinarsi e di giovarsi a vicenda. Le azioni (di L.50 ciascuna) vendute al 45 settembre 1866, giorno dell'apertura, sommavano 3776 e nel maggio 1866 le 20,000 azioni destinate a fondo sociale erano tutte esaurite. Presto la Banca cominciò a impiantare sedi succursali nelle città di provincia invitando le persone più agiate a esplicare i principii dell'associazione e del risparmio e collegando solidamente i diversi interessi mercé le stesse azioni e gli stessi biglietti di Banca; onde ne veniva che un socio di essa avrebbe potuto girare i mercati tutti d'Italia con lettera di cambio rilasciatagli dalla Banca del suo paese. Nel 1867 aveva vendute 13000 azioni e contava oltre 43,000 associati. Il popolo accolse con favore la istituzione dovunque fu impiantala, l'accompagnò colla sua fiducia, la sorresse nei momenti di crisi. Infatti i depositi di risparmio ed i depositi in conto corrente, il cui aumentare e diminuire è il vero termometro della pubblica opinione, andarono sempre crescendo, anche quando per la minaccia di guerra scemò ai grandi istituii di credito la fede, onde il Governo fu obbligato a dare il corso forzalo ai loro biglietti. La somma dei conti correnti nel decembre 1865 era di L.84,035; nel giugno 1867 era giunta alla ragguardevole cifra di L.2,057,567. Quando apparve il decreto del corso forzato, il cambio dei grossi biglietti coi piccoli portò l'aggio al 20 0|0; in questa occasione la Banca del Popolo fu la prima in Italia che opponesse a questo disordine economico un rimedio colla circolazione dei biglietti in piccolo taglio, a titolo fiduciario, che essa proponeva come propone di cambiare ad ogni richiesta con carta autorizzata dallo Stato. La Banca del Popolo non usò lirgarnente del suo buono di cassa e del favore che esso godeva nella circolazione, non volle aumentarne la quantità a profitto del suo bilancio, ma restrinse la emissione de’   buoni di cassa alla somma di due milioni che è minore del suo fondo reale ed effettivamente incassala in conto delle azioni vendute. Se la Banca si fosse giovata di un diritto del privilegio di emissione concesso agl'istituti di credito, avrebbe potuto emettere 42 milioni di carta moneta, molto più se si riguardava come una Società mutua commerciale o industriale che allarga il suo credito in proporzione della pubblica fiducia. Le succursali che la Banca aveva alla fine del 1866 erano sedici sparse in ogni parte d'Italia, ed in più luoghi si cercava di fondarne altre. Questa istituzione prendendo, come l'utile pubblico richiede, vastissime proporzioni, sarà una delle più feconde sorgenti atte ad assicurare il lavoro ed il commercio in Italia.


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L'interesse ridestò più vivo il sentimento nazionale; si diede mano ad accrescere e coltivare le industrie e manifatture nostrane por sottrarsi ali' esorbitante prezzo che pretendevano le fabbriche forestiere, volendo per soprappiù il pagamento in oro; ed il Piemonte anche questa volta fu iniziatore di una rivoluzione economica tentando anche promuovere una Lega pacifica, per la quale nulla doveva venire in uso che non fosse di produzione nostrale. Mantenendo quella libertà e reciprocanza di commercio, con che ciascun popolo somministra all'altro le derrate, di cui da ambe le parti si abbonda o si difetta, gl'Italiani, indottivi dalle circostanze del tempo, appresero ad avere miglior conoscenza delle proprie forze economiche e dei propri prodotti. Essi intesero, direi quasi, per la prima volta a sottrarsi da quella schiavitù del commercio forestiero, il quale finora anche in generi nostrali era uso a prenderli greggi dal nostro paese per poi rinviarceli manifatturati a gravissimi prezzi, ritraendone un duplice guadagno che la nostra inerzia e indolenza non ci facevano minimamente curare. Fu ciò non un vero risorgimento economico, ma piuttosto un avviamento a quella vita produttiva, operosa e prospera, che, dopo la rinnovazione del suo stato politico, ali' Italia non dovrebbe mancare. Non può dirsi che il corso forzato della carta moneta fosse in Italia funesto quanto fu negli Stati germanici, dove, introdotta e smisuratamente accresciuta dal 1848 in qua, non si poté più togliere via, o quanto in altri Stati, come l'Austria e la Russia, dove la carta perde tanto del suo valore nominale da accrescere i prezzi, o meglio da gonfiare i prezzi delle derrate fino a costare centinaia di lire in carta ciò che vi ha di più vile e comune a campar la vita.

Nulladimeno è indubitato che il corso forzato della carta moneta fu un flagello economico per gì' Italiani, e tanto peggiore potrà divenire quanto più se ne renderà inveterato l'uso mantenendo le cause che lo introdussero, e non sollecitando quei provvedimenti che lo tolgano via.

I danni veri della moneta fittizia non si esperimentano che due volte: nel momento che essa comincia a penetrare nella società, e nel momento che si dee rimborsare. Quanto però è più lungo l'intervallo che passa tra questi due termini, tanto più è difficile poter evitare gravi disastri economici; poiché la differenza tra il valore reale e il nominale diviene sempre maggiore, ond'è quasi impossibile che da sé venga meno; e dovendo attenuarsi da un giorno ali' altro i prezzi delle merci in proporzione dell’aggio che sparisce,


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è molto probabile che nasca un generale turbamento qualvolta la circolazione fittizia trovisi al punto di dover cessare.

L'Italia sarà molto debitrice ali' onorevole Seismit Doda che promosse un' inchiesta parlamentare sul corso della moneta cartacea, ed alle investigazioni e studi fatti dalla Commissione della Camera a fine di evitare i disastri d'un troppo lungo mantenimento del corso forzato dei biglietti della Banca; come pure non potrà negare la prudenza di coloro che resistendo alla impazienza degli oppositori politici del Ministero Menabrea, non consentirono ad una subitanea abolizione della moneta fiduciaria., imperocché senza ritornare in commercio la moneta metallica, ad un tratto avrebbe tolto di corso tanti valori, mancando i quali lo Stato ed i privati sarebbero iti incontro ad inevitabile rovina.


IV.

La condizione economica e finanziaria della nazione era tuttavia ciò che teneva più in apprensione il Governo. Nella Venezia non assuefatta a tali angustie, e stremata dei lucri che ritraeva dalle grosse guarnigioni austriache, senza industrie e commerci utili al bisogno,1' agitazione era più rumorosa, sebbene non temibile quanto nelle province napoletane e sicule. Il Governo, con intendimento di non iscemare il favore primitivo ai Veneti, fece andare colà il Re, il quale a spese della sua lista civile donò 50,000 lire pei poveri di Venezia e promise che avrebbe fatto proporre al Parlamento una legge, affinché fossero assegnati dieci milioni di lire da spendersi in lavori per quell'Estuario (1). Nello stesso tempo fu approvata una legge (6 maggio) per la emissione di venti milioni di moneta in bronzo (2), ed il Re prese la determinazione di rinunziare una parte della sua lista civile, per dare esempio di annegazione nel provvedere alle straordinarie gravezze del pubblico erario.


(1) II Ministero fino dal 28 gennaio aveva proposto una leggo per la spesa di milioni per l'approfondimento a metri 8 dei canali di grande navigazione interna all'Estuario di Venezia, e pel compimento delle dighe regolatrici del porto di Malamocco.

Questa somma venne poscia con altra legge, presentata il 85 aprile, ridotta a 3 milioni e 285,000 lire; perciò i Veneti non ebbero a dirsene molto contenti.

(2) II ministro Ferrara, nella sua relazione precedente alla legge presentata al 6 di di maggio per la coniazione di questa moneta, scriveva:

«Da parecchi giorni ai è manifestata in molte province del regno una grandissima ricerca di valuta di bronzo, e generali s'odono le lagnanze sulla penuria della medesima, in guisa che si verifica che il bronzo ba un aggio sui biglietti anco di piccolo taglio.


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Infatti il presidente del Consiglio, Rattazzi, nella tornata del dì 8 maggio, dopo di avere partecipato alla Camera che il Regno d'Italia per unanime consenso di tutti i grandi potentati era stato ammesso alle conferenze di Londra, le quali avevano lo scopo di sciogliere la questione intorno al Lussemburgo, (1) e dopo di avere annunziato che ai 30 dello stesso mese sarebbesi celebrato in Torino il matrimonio fra il principe Amedeo duca d'Aosta e la principessa della Cisterna, venne a leggere una lettera, con cui il Re, desiderando che fosse provveduto alle difficoltà delle finanze con importanti diminuzioni di spese in ogni ramo di amministrazione,


«I lavori campestri ripigliati ora nella massima estensione, e la prossima riapertura delle filande, per cui la valuta di bronzo è ora più ricercata e sparsa io tutto lo Stato, hanno molto contribuito, a mio avviso, alla improvvisa sparizione del bronzo dalla circolazione.

«Ma altra causa della scarsità della moneta di bronzo, e forse la maggiore, vuolsi riconoscere nella esportazione della moneta divisionaria d'argento in quei paesi esteri, nei quali è ammessa in virtù della Convenzione internazionale stila approvata colla legge 84 luglio 1866, numero 3087.

«Calcolando infatti che sia stata esportata buona parte dei 430 milioni di lire in moneta divisionaria di argento posta dal Governo in circolazione nel regno sui 444 milioni stati emessi (dappoiché undici milioni trovansi oggidì nelle casse dello Stato), si comprende facilmente che, fra la moneta esportata e quella tenuta nascosta. rimane tale un vuoto che non bastano a colmare i 34 milioni circa in valuta di bronzo stati erogati dalle casse, dopoché fu decretato il corso forzato dei biglietti di Banca, in aggiunta ai 20 che, emessi innanzi al 4° maggio 1866, bastavano a provvedere agli ordinar! bisogni delle minute contrattazioni del paese.

«Gli altri 8 milioni di bronzo a compimento dei 66, dei quali fu autorizzala la fabbricazione e la emissione col regio decreto 20 novembre 1859, colle leggi 5 e 84 agosto 1868, e coi regii decreti 44 giugno e 48 luglio 1866, trovatisi sparsi fra tutte le casse dello Stato, della Banca Nazionale e dei Banchi di Napoli e di Sicilia. per cui i fondi in bronzo esistenti nelle casse pubbliche sono cosi sottilmente ridotti da non potersi distrarne da una per Tornirò ad un'altra onde accorrere qua e là, dove maggiore se ne sente il bisogno, per cambiare i biglietti in favore del commercio, dell'industria e dell'agricoltura. Tra breve anzi le stesse tesorerie non avranno nemmeno il fondo necessario per dare le frazioni nei pagamenti di spese governative.»

Questo documento conferma pur troppo in qual tristo stato fosse il paese.

(1) Vedi documento N.74 in fine del volume. Lettera del ministro degli affari esteri, senator Di Campello, in data del 30 aprile, ul ministro d'Italia a Berlino, in cui viene esposta la condotta del Governo italiano in siffatta questione.


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spontaneamente rinunziava 4,000,000 di lire della lista civile assegnatagli per legge (1).

Questa rinunzia del Re non fece grande effetto, né produsse in paese quella buona impressione che se ne attendeva; poiché se il Re rinunziava quattro milioni della sua lista civile, chiedeva pure che si pagassero sei milioni di debiti ond'era gravata, in guisa che per altri due anni la dotazione della Corona rimase ferma in 15,250,000 lire (2).

Nello Stato poi le popolazioni erano così gravate di balzelli e stremate di forze che ogni sacrifizio da parte del Governo, per quanto generoso fosse, si reputava un dovere e sempre inferiore a quello che le strettezze erariali avrebbero generalmente richiesto.

Ciononostante l'esempio del Re non fu, siccome ne aveva


(1)Il presidente del Consiglio comunicava nella tornata dell’8 maggio 1867 alla Camera questa lettera del re:


«Caro Rattazzi,

«Essendo giunto il momento di provvedere alla condizione delle finanze con saggia economia, e nell'atto in cui il ministro di finanza sta per proporre al Parlamento molte ed importanti riduzioni di spese in ogni ramo di amministrazione, desidero io stesso pel primo di darne alla nazione l'esempio, e mi sono determinato a ridurre di quattro milioni la lista civile che mi venne erogata per legge.

«Spero che tutte le amministrazioni dello Stato, seguitando il mio esempio. si rassegneranno volonterose a quei sacrifizi che le ristrettezze finanziarie del paese richiedono, ed ho fiducia che in questo modo e coi provvedimenti finanziarii che saranno tosto sottoposti alla sanzione del Parlamento, si potrà in un tempo non molto lontano conseguire nel bilancio dello Stato quell'equilibrio che e si giustamente desiderato. Debbo però farle presente che per le ragioni a lei esposte a viva voce e che l'autorizzo, quando lo stimi, a comunicare al Parlamento, la lista civile dovette negli anni scorsi incontrare alcune passività che in tutto ascendono a 6 milioni.

«Le esprimo in questa occasione il desiderio di veder tolto questo peso, onde ti possa pel nuovo anno stabilire un bilancio normale e regolare della lista civile.

«Ella potrà formolare questo mio pensiero in un progetto di legge che le do facoltà di presentare in nome mio al Parlamento.

«Sono coi sentimenti della più sincera amicizia

«Suo affezionatissimo u Vittorio Emanuele.»

(2)La dotazione della Corona primitivamente con legge del 84 giugno 1860 fu decretata in L.40,800,000; con la successiva legge del 10 agosto 1862 fu portata a lire 46.850,000. Ai 4 novembre 1864 il ministro delle finanze Sella leggeva alla Camera una lettera del ministro della Real Casa, il quale gli significava che il Re, atteso le gravi condizioni delle finanze, rinunziava tre milioni di lire della sua lista civile; sicché la rinunzia di tre milioni temporanea a tutto il 4870 sarebbe divenuta stabile coll'aggiunta di un altro milione.


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egli espresso il desiderio, imitato da veruna delle amministrazioni dello Stato. Gli uffìziali pubblici in generale, che certo, tranne gli alti privilegiati, non possono dirsi i meglio retribuiti in Italia, si trovavano assottigliato tanto l'infelice stipendio colla tassa sulla ricchezza mobile, resa più gravosa colla legge del 9 maggio dello stesso anno, che per loro nessun maggior sacrifizio poteva darsi di quello di dover soddisfare a tal tributo. Ma fra i personaggi collocati ne' più alti uffici, con molteplici stipendi per diversità di cariche, niuno vi fu, nemmeno fra i più vicini al Re, che sentisse virtù di rinunciare uno scudo seguendo per comunanza di causa l'incitamento sovrano. Anzi tanta fu l'avversione persistente nei corpi dello Stato ad ogni sorta di risparmi e ad ogni riforma conducente a diminuzione di spese, che tutto lo studio e la sottigliezza dei governanti si ridussero al cercare in nuovissime imposte quanto più si richiedeva per supplire al dissesto delle finanze ed al continuo dispendio che dal non retto sistema era accresciuto.


V.

Un tal procedere peggiorava, non mitigava, le condizioni economiche delle province. Ond'è che la Commissione parlamentare d'inchiesta sulle misere sorti che opprimevano la città e la provincia di Palermo, dovette proporre alla Camera leggi straordinarie per provvedere alle deplorabili angustie degl’impiegati che vi si trovavano in disponibilità; per esentare dall'imposta fondiaria durante il corso di otto anni le case incominciate a costruirsi prima del 1865; per {stabilire un maggior numero di viaggi della corrispondenza fra Palermo e Napoli; per definire tanti processi criminali arretrati; per sollecitare finalmente e rendere obbligatoria la costruzione di tante strade ferrate nazionali e specialmente comunali, rese necessarissime non solo per ragioni di commercio, ma più di pubblica sicurezza.


Io non credo che le condizioni morali ed economiche di tante province italiane sieno, come fa temere la Sicilia, incurabili; stimo però che dove è da vivere, ivi è civiltà, cioè ordine pubblico, mitezza di costume e cultura d'intelletto. Dove il lavoro manca e col lavoro il pane, ivi è selvatichezza, e, quasi dirò, barbarie. I popoli italiani sono forse un po' lenti, ed anche della loro miseria non curanti, al dolce far nulla propensi; ma al Governo vie più spettava eccitarli, correggerli, porli sulla via buona, più che non fece o non seppe fare; attesoché quanto ad un Governo aspro sono riottosi e ribelli,


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altrettanto ad un reggimento savio si dimostrano docili e maneggevoli. Nello stesso modo che seppero manifestare il sentimento nazionale politicamente, non saranno da meno nel darne prova economicamente. Ma il Governo deve pure esser sollecito di prevedere e provvedere a tempo, e di non lasciar trascurate le province, siccome fece già in Sicilia prima del tumulto del settembre 1866, e finora iu Sardegna, fidando troppo nella longanimità degli abitanti. Da un momento ali' altro la questione del lavoro e del pane potrebbe mutarsi in questione politica; e la questione del lavoro e del pane non potrà dirsi risolta, finché vi sieno tanti inoperosi, tanti terreni non coltivati, e tanto difetto di vie, di porti, di comunicazioni, da render difficili le industrie, i commerci e le grandi fabbricazioni nazionali. Dirassi pure che non può il Governo far tutto né molto, e che tutto o quasi tutto deve lasciarsi alla privata iniziativa, alla efficacia della associazione; ma né l'una né l'altra potranno bensì operar miracoli, finché il Governo col sistema proprio mantiene quelle condizioni di finanza, per cui vennero a carissimo prezzo i capitali o pregiudicando al credito pubblico, o esaurendo tutti i possibili mezzi, e finché colla sua politica tanto è servile agli stranieri da accettare trattati internazionali di navigazione e di commercio che hanno rovinato le industrie nazionali e resi schiavi dei forestieri tutti i nostri commercianti.

Al miglioramento morale ed economico insieme della Penisola le scuole e le carceri non bastano. Di tutte le province d'Italia molto a proposito ancora potrà ripetersi quello che il barone Ricasoli scriveva da Palermo al ministro dei lavori pubblici in data del 12 ottobre 1866:


«Val meglio spendere il denaro dello Stato in lavori pubblici, fonte di moralità e di benessere, anziché in repressione di sedizioni ed in mantenimento e ricovero nelle prigioni dei malfattori. Imperocché, se il Governo non troverà modo di procurare lavoro alle moltitudini bisognose, più difficile si renderà il compito della autorità politica

«Coi mezzi di energica aziona si avrà certo una tranquillità; ma non sarà duratura? Gli elementi facinorosi delle popolazioni, non si tosto il terrore delle forze militari sarà cessato, ritorneranno ai furti, alle grassazioni, ai ricatti e quindi alle associazioni di bande armate, ed i malcontenti del Governo, i nemici larvati dell’attuale ordine di cose, che al certo non possono essere distrutti, né ridotti assolutamente al rispetto delle istituzioni del Regno, cercheranno di reclutare, e di leggieri lo potranno,


324       CAPITOLO VENTESIMOQUINTO — LA CRISI ECONOMICA D'ITALIA NEL 1867


agenti numerosi in mezzo a quella gente. Quindi nuove difficoltà per il Governo t nuove spese. Il lavoro invece moralizzerà le classi del basso popolo, e le più facili comunicazioni dati'una provincia all'altra, che si schiuderanno con quei lavori, accrescendo col miglioramento delle industrie e del commercio il benessere delle province, renderanno più sicura ed efficace l'opera della moralizzazione medesima.»


Da questa eccellente dottrina si vede chiaramente quanto sono fallaci i nostri uomini politici e quante volte essi mancano alla stessa logica. Molti fra di essi, quando non sono al potere, scrivono e consigliano cose di somma utilità, e saliti che sieno sull’alta scala le loro lettere patriottiche rimangono dimenticate ed abbandonate: appena si riconosce il privato autore del bene dal potente uomo di Stato.



CAPITOLO VENTESIMOSESTO


Lo stato finanziario dell’Italia


I. Congratulazioni della Camera al Re. Triste condizioni delle finanze in Italia. Avversione generale ai risparmi e viziosa insistenza nello sfruttare le rendite dello Stato. — II. La burocrazia e le pubbliche spese. Il bilancio del 1867. Due gravi dispendii dell'amministrazione italiana. Enorme somma delle spese fiduciarie e personali. Differenza fra le spese ti pubblica sicurezza e di pubblica istruzione. — III. Dissesto delle amministrazioni municipali; loro sovrimposte e spese. Difetto del sistema amministrativo. I. a legislazione nuova lo peggiorò. — IV. Le undici esposizioni finanziarie dal 1860 al 1867 in che differirono e in che tutta ai assomigliarono. L'anno amministrativo e l'anno contabile Inevitabile errore lei compilare i bilanci. Il sindacato finanziario e la Corte dei Conti. Gl'impiegati. — V. Francesco Ferrara, la sua scienza economica e la sua pratica politica. Gli uomini teorici e i pratici. La esposizione finanziaria del Ferrara. — VI. Disapprovazione degl'imprestiti del corso forzato della carta moneta. Riforme delle amministrazioni delle dogane e dei tabacchi. Il dazio consumo, la tassa prediale e della ricchezza mobile. Il disavanzo calcolato dal Ferrara.


Una Deputazione della Camera il 18 di maggio si presentava al re Vittorio Emanuele per congratularsi del conchiuso maritaggio fra il principe Amedeo e la doviziosissima principessa Della Cisterna, ed insieme per ripetergli «il plauso della Camera per la sua nobile risoluzione di rinunziare 4 milioni della Lista Civile.» La Camera però restringendosi a semplici parole si guardò bene da promessa alcuna d'imitare il regio esempio scemando le enormi spese che gravano il suo particolare bilancio (1).


(1) Le spese del bilancio passivo della Camera nel 1867 sommarono L. 578,736,89. Gl'impiegati addetti alla Camera costano la somma annuale di L. 179,594,99. Per le pubblicazioni a stampa si spendono ogni anno non meno di 206,000 lire. Per riparazione e mantenimento dei mobili e per spese diverse che è quasi tutta una stessa cosa, si richiedono circa 42,000 lire; a queste vanno aggiunte lire 64,464,53 di spese straordinarie; onde si hanno tutti gli anni 106,000 lire Tra spese diverse e straordinarie.

In tutti i bilanci dell’amministrazione dello Stato troviamo questa importantissima rubrica delle spese diverse e straordinario che assorbe ingenti somme senza rhr se ne possa mai conoscere i particolari.


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Ciononostante Vittorio Emanuele fu gentile colla Deputazione, e con essa intrattennesi a parlare delle condizioni del paese e dell’Europa; disse «avere accolta con piacere la notizia della pace di Londra, tanto più lieto che l'Italia vi avesse potuto contribuire; però non doversi fare illusioni, potendo sorgere ben altre complicazioni ed avvenimenti imprevisti; infrattanto essere una grande fortuna per l'Italia, se nel periodo della pace le potesse riuscire di riordinare le finanze, la cui condizione era grave, ma non disperata, ed a migliorarla non si richiedeva che coraggio e perseveranza.»

Le finanze italiane del resto erano in basso più che non si dicesse o non si avesse animo di considerare. Il credito pubblico andava perdendosi; la moneta, come dissi, mancava; le rendite pubbliche erano esauste; risoluzioni a fare risparmi non apparivano; la indigenza popolare aumentava; por fine agli scialacqui nell’amministrazione dello Stato non era facile, poiché niuno mai n' ebbe dimostrata una volontà risoluta e ferma. Fuori, le denigrazioni sulla solvibilità degl’Italiani si facevano ogni giorno più impudenti; dentro, non che le popolazioni a pagare i tributi, il Governo stesso, per le generali distrette, a soddisfare ai suoi obblighi era in evidente pericolo di venir meno. Il disavanzo annuale, ognora crescente nel bilancio dello Stato, era il peggior nemico che l'Italia si trovasse a fronte. Contuttociò eravi apatia, indifferenza, inconsideratezza, che facevano credere gì* Italiani non atti a governarsi, e tanto negligenti delle cose loro e della propria dignità da apparire il popolo più scapestrato e insipiente dell’Europa.


 Le riparazioni e il mantenimento di mobili nella parte ordinaria del bilancio della Camera si valutano 10,000 lire, e nella parte straordinaria dello stesso bilancio per regola fissa annualmente si calcolano 18,000 lire, che nel 1867 realmente poi furono 34,146,59. Ora come può dirsi esatto e normale un bilancio di questa fatta? E notisi che il locale della Camera venne messo tutto in buon punto, quando fu costruito a nuovo col trasferimento della capitale. Quanto di mantenimento importerebbe se si trattasse di un locale cadente e per vetusta deperito?

La somma che costarono le bibite acquose per gli onorevoli che sentivano bisogno di rinfrescare le riarse fauci arrivò nel 1867 a L. 18,324,891

Per la biblioteca si spendono invece sole 16,000 lire. Anche questo è indizio dei tempi e dell'indole odierna degli uomini. Il totale di spese diverse sotto la rubrica materiale nella parte ordinaria del bilancio è di L.97,977,38; e nella parte straordinaria il totale di spese per la stessa rubrica materiale è di lire 64,164,52, come ho sopra notato. Intenda chi può. Da questo però s'intende con qual ordine, chiarezza e scrupolo si fanno, si accettano e si votano i bilanci dello Stato.


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Ed invero si andò poco per volta fino sull’orlo dell’abisso con una spensieratezza imperdonabile.


Vi furono acerbe lamentanze, accuse e scuse reciproche, ma a toccare al vivo la piaga, a resecare le spese superflue, a ridurre in una giusta misura le necessarie, a smettere le prodigalità e le spese fuor di proposito., nessuno volle consentire, o, per dir meglio, a nessuno fu consentito di fare. I risparmi ottenuti sui bilanci furono sempre esigui e di nessun momento; più a carico degli stipendiati meschinamente che non dei lautamente retribuiti. Anzi della riforma stessa delle amministrazioni dello Stato che si decretò sotto il Ricasoli, nulla rimase fuorché i maggiori assegnamenti ai primi ufficiali dei Ministeri. Quando avvenne che alcun risparmio con legge si stabilisse, fu fatto poscia svanire per ispese o straordinarie o non previste nelle approvazioni dei bilanci. La magagna peggiore della finanza italiana non istà in qualche milione di più che il buon mantenimento della milizia e degl’impiegati potrebbe richiedere, ma sì veramente in quelle certe spese straordinarie gravissime o fatte a caso, o con animo da averne tanto vantaggio i privati quanto più danno se ne reca allo Stato. Della qual cosa deve chiamarsi in colpa anche l'indole degl’Italiani in generale, che si ricostituirono in nazione sperando di averne grande utile da parte del Governo, e nulla mai omisero d'ingegno e di astuzie per torsi dallo Stato quanti maggiori mezzi di fortuna potessero. Avvi in Italia forse più che altrove questa smania di voler essere impiegati del Governo o del Municipio, tostochè si sappia leggere, scrivere e far di conto, quasiché la rimanente istruzione men sia necessaria, o che fuori dell’impiego il lavoro ed il sapere non sieno cento volte più di guadagno. L'impiegato non lavora che poco, appena sei ore al giorno, e molti in questa carriera credono, ed hanno ragione finché le pensioni non sieno abolite, di aver assicurato il vivere col dolce far niente. Stranissima contraddizione, essendoché molti lamentavano che il Governo non elargisse retribuzioni né assicurasse stipendi o compensi richiesti, mentre in generale allo Stato non fu pagato mai quanto da esso si pretese. Vero è peraltro che i fortunati ben ci furono a danno dei più miseri; e spesso la buona sorte degli uni eccitò vieppiù l'avidità degli altri. Le speculazioni a discapito dello Stato divennero comuni, d'ordinario più frequenti in coloro che dello Stato erano in dovere, per la fiducia concessa loro dal pubblico, di tutelare più rigorosamente gli interessi e le sostanze.


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II.

Una storia intima dei Ministeri e dei manipolatori di politica di ogni risma potrebbe ancora provare che se vi furono lamentanze ed accuse, queste non erano sempre lontane dal vero. L’arricchirsi per ogni mezzo, il volersi godere ogni sollazzo, è questa una delle peggiori corruzioni, da cui fu presa la nostra moderna società, studiosa sempre di celare le sue più riprovevoli mende sotto una purezza di sentimenti e una nobiltà di propositi da far credere il nostro tempo quello delle pubbliche e private virtù per eccellenza.

Chi getti uno sguardo sui bilanci del nuovo Regno d'Italia può facilmente vedere come le spese pubbliche rivelino i difetti dell'amministrazione, gli sconci del sistema politico, l'abbassamento delle condizioni morali in tutto il paese.


Il bilancio dell'entrata nel 1867 fu calcolato in lire 658,653,760 e 18, e le spese si dissero ascendere a lire 905,560,092 05, non comprese in ciò le province venete.

La somma inscritta nel bilancio pel pagamento degl'interessi del debito pubblico ascendeva all'immane cifra di lire 428,073,942 e 71; le spese per assegnamenti fatti a tutti gli ufficiali pubblici dello Stato, non comprese le milizie, a lire 128,166,452 40. Il pagamento degl’interessi e quello di quanti si trovano al servizio dello Stato sono due grandi piaghe della finanza italiana. A ciò si aggiunga che nonostante tanti edifizi demaniali che pur sono in gran parte dati ai pubblici Uffizi, la nazione deve pagare ogni anno per pigione di locali ad uso degli stessi Uffizi lire 12,522,445 69. E senza valutare gli utili che vengono i dare agli amministratori dello Stato i contratti e gli appalti per provviste di derrate, per compre e vendite di utensili e d quanto abbisogna a provvedere l'esercito e l'armata navale nei bilanci a titolo di spese d'ufficio, di spese segrete, di casuali dì spese diverse e di maggiori assegnamenti, è loro messa i libera disposizione la ingente somma di lire 25,154,839 69.

In questa somma poi non è compresa quella di una parto delle pubblicazioni a stampa; per le quali troviamo assegnati distintamente ancora circa un milione di lire.


In tal modo le somme, per cui non vi ha sindacato o chi almeno sono quasi fiduciarie, fuori dei contratti fatti per provviste, lavorazioni e armamento dello Stato,


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si calcola che ascendano a lire 38,677,285 38, somma tanto maggiore quanto più chi ne usa è in istato di poterne abusare.


Le spese per la pubblica sicurezza, non contandovi quelle per la magistratura, per fabbriche di nuove carceri e per la polizia urbana dei municipii, ascendono nientemeno che a lire 58,081,000, mentre a prò della pubblica istruzione, per cui principalmente deve conseguirsi la pubblica morale, non si spende più di lire 9,754,225 17.


III.

Né il dissesto finanziario dell’Italia consiste in queste spese o mal distribuite, o eccessive, o male adoperate da parte del Governo; ma si fa anco maggiore per le amministrazioni dei municipii, le quali assorbono quasi una metà di quel che pagano i contribuenti, e sono in tale sproporzione fra le entrate e le spese da dover esaurire tutti gl'introiti patrimoniali e legali, e ricorrere di continuo ad imprestiti, con patti sempre più onerosi. Nell’anno 1866 le province ed i municipii, come risulta dalle statistiche, imposero sopra le tasse dirette governative lire 109,338,495 45. Nella sola provincia di Firenze, che certamente non è fra le peggiori, si contarono nel 1867 fra 49 municipii 39 che con la semplice sovraimposta non coprivano le sole spese di obbligo ordinarie. Fra queste spese di obbligo avvi quella della guardia nazionale che costa non meno di lire 92,650,000, né in questa somma si può certo comprendere quella che risulta dallo spreco di tempo che fanno tanti professionisti ed operai costretti a passar le giornate nella inutilissima mostra della loro innocente divisa militare. E qui di passo io faccio eco a tutti quei diari che con assai valide ragioni gridano essere venuto il tempo di modificare questa gravosissima istituzione di cittadina milizia, la quale se bella e forse vantaggiosa era nei primi anni del nostro rinnovamento a libera vita, perde poi ogni importanza ed ogni ragione di essere quale è attualmente. Ora è da considerarsi come fra le spese straordinarie i municipii ne abbiano di doverose ed urgenti quanto le ordinarie. E se non possono bastare alle ordinarie, come potranno alle straordinarie? Vi sono alcuni municipii sì ristretti di contribuenti che nemmeno possono per la loro esiguità provvedere alle spese d'uffizio! Eppure il Parlamento non s'indusse mai a voler decretare un buon riordinamento non meno delle province che dei municipii.


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Un tale stato di cose sì anormale, mantenuto nelle amministrazioni centrali e provinciali, non fece che accrescere il disordine finanziario e lo sperpero del pubblico denaro.


Il male sta nel voler conservato un sistema che più non potrebbe adeguatamente sodisfare alle nuove condizioni dell'Italia, e che da facile occasione ad abusi, prodigalità e malversazioni, senza che ad alcuno riesca di opporvi un argine. Non è tutta colpa delle persone, ma sì piuttosto di un ordinamento che ad esse porge occasione di sentire le più forti tentazioni della immoralità. Si credette riparare al disavanzo sempre con nuove imposte, come si pensò che la corporazione degli ufficiali pubblici potesse migliorarsi accrescendosi da ciascun ministero il numero dei propri fautori. Stolta illusione! poiché quanto maggiori furono le entrate, tanto più si trovò modo di mantenere, se non di accrescere, le spese; quanto più i partiti ebbero in mano le amministrazioni, tanto più si credette sfuggire al severo e sempre utile sindacato della pubblica opinione.

Per migliorare l'amministrazione era d'uopo prima di tutto semplificare ed unificare, distrigarsi dai vecchi sistemi e crearne uno nuovo conforme ai nuovi tempi, riformare togliendo in tutto la moltiplicità, e introdurre un riordinamento che si confacesse alla grandezza dell’Italia non più divisa in tanti piccoli Stati arbitrarii.


La legislazione nuova dal 1860 in poi mancò di questo criterio; si accrebbe colla confusione e contraddizione incessante delle leggi il disordine, e tante furono le variazioni a caso ed a frammenti introdotte, che non fu quasi più possibile accertarsi dell’osservanza di una legge o assicurarsi del buon andamento di una esazione.


VI.


La esposizione delle condizioni finanziarie dello Stato fu fatta alla Camera dei deputati dal 1860 al 1867 undici volte: dal ministro Bastogi nel 1860 e poi nel 1861, dal ministro Sella il 1* dicembre 1862, dal ministro Minghetti il 14 febbraio e il 12 dicembre 1863, di nuovo dal Sella il 4 novembre 1864, il 14 marzo e il 13 dicembre 1865; dal senatore Scialoja il 22 gennaio e il 22 febbraio 1866, dall’onorevole Ferrara il 9 maggio 1867; della quale ultima io sono per dire.


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Or bene, confrontando tutte queste esposizioni finanziarie vediamo che nessuna si rassomiglia; anzi studiandovi sopra, si scorge come fallaci fossero i calcoli, illusione le idee di tutti quanti i ministri di finanza. Col loro consiglio, col loro esame non fu possibile indicare alcunché di certo, né ovviare al disavanzo che genericamente si vedeva sempre maggiore. Non potendo metter la mano sugl'inconvenienti dell’amministrazione, non seppero i ministri far di meglio che metterla nella borsa dei contribuenti. Tutte le esposizioni finanziarie pertanto ebbero il fine o di chiedere un imprestito, o di volere una nuova imposta, o di vendere qualche grosso possedimento dello Stato.


Ma rimuovere gli abusi, stabilir bene la consistenza del bilancio, esaminare attentamente le piaghe che finora resero impossibile il definire la quantità e la durata dello sbilancio, fu tal opera a cui tutti i ministri di finanza vennero meno, poiché vollesi serbare sempre la distinzione dell’anno amministrativo dall’anno contabile; dimodoché, otto mesi dopo compiuto l'anno amministrativo, è dato fare spese ed esigere imposte a carico o a vantaggio dell’annata trascorsa. Oltre a ciò nessuno poté sapere qual sia l'inventario del patrimonio mobiliare dello Stato (1); quindi non vi fu neanche modo di poter compilare i conti amministrativi o consuntivi (2).

Onde ancora ne conseguitò che finora i bilanci di previsione


(1) Gl'inventarii del patrimonio dello Stato, mobiliare e immobiliare, dovevano essere compilati nel regno sardo per decreto del 1853, rimasto in gran parte ineseguito e rinnovato senza miglior effetto nel 4859, dopo 1'annessione della Lombardia. Il regolamento del 1864 (Bastogi) sulla computisteria dello Stato prescrisse che gli inventarii dovessero farsi pel Regno d'Italia entro l'anno successivo: il nuovo regolamento del 1863 (Minghetti) non tralasciò di ordinarli anch'esso pel 1864. Corre il 1868, e gl'inventarii sono tuttora un desiderio, anzi la Camera nuovamente gli ha ora prescritti colla nuova legge sulla computisteria. Soltanto nel 1866 il ministero della guerra presentò l'inventario del materiale mobile di sua appartenenza che rappresentava un valore di circa 850 milioni di lire.

(2) Mentre la legge di computisteria avrebbe statuito per obbligo al Governo ili presentare alla Camera entro il febbraio del 1867, insieme col bilancio di previsione del 1868, anche il conto amministrativo del 1865, finora non si videro che i conti del 1860!

Pel nostro sistema di computisteria non è possibile compilare il conto consuntivo di un esercizio senza avere assestato in ogni suo particolare il conto consuntivo precedente; cosicché i conti degli anni 1862, 63, 64, 65, non si possono produrre, finché non sieno approvati quelli del 1859, 1860 e 1861.


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furono o molto erronei o molto immaginarii; poiché, trattandosi di calcolare anticipatamente gl'introiti e le spese, non si ebbero a paragonare fra loro le ipotesi colla realtà dei fatti (come quando un bilancio di previsione è determinato sui risultati del conto consuntivo dell’esercizio precedente), ma si ebbero invece a paragonare ipotesi con ipotesi; cioè la previsione delle entrate e delle spese per l'anno da incominciare si dedusse dai bilanci preventivi antecedenti già modificati ripetutamente per effetto di nuove leggi d'imposta e di nuove votazioni di spese, o per apertura di nuovi crediti fatta dalla potestà esecutiva durante la proroga del Parlamento. Laonde i bilanci finora non furono che una incessante fantasmagoria, che rese sempre più incerta e pericolante, la condizione nostra finanziaria.


Ed essendo manchevoli i bilanci, a rimuovere gli abusi e le malversazioni non è sufficiente il sindacato. Il mezzo più efficace di riscontro in generale consiste in un buon sistema di scrittura, e per questo lato è certo che il sistema della computisteria francese a partita doppia non ha pari in Europa. Ma volendo vedere che le somme tornassero con esattezza fino al centesimo, tanto colle cifre grandi quanto colle cifre piccole colle cifre vere come colle cifre supposte, farebbe d'uopo sindacare l'amministrazione intorno ai contratti più importanti prima di conchiuderli, ed ai contratti anche più piccoli dopo conchiusi e consumati, esaminando ogni ordine di pagamenti ed ogni decreto di spesa. In Italia, avendo voluto moltiplicare le verificazioni ufficiali, si venne a creare una moltiplicità d intoppi alla sollecita spedizione degli affari, senza aver sicura guarentigia della legittimità e parsimonia delle spese. La Corto dei Conti d'Italia, secondo il sistema belgico, esercita il riscontri preventivo dei mandati di pagamento, oltre il riscontro, dopo i fatto, dei titoli e dei documenti giustificativi; ma cotesto sistema se può esercitarsi senza inconvenienti in un piccolo paese chi abbia meno di 5 milioni di abitanti, in uno Stato grande comi l'Italia oppone soltanto una resistenza materiale assai nocevoli alla macchina amministrativa.

Infatti il doppio riscontro della Corte dei Conti e sue dipendenze viene a dare un giro così incomodo alla verificazione di documenti, che un mandato in Italia subisce ventidue registrazioni prima che possa avere esecuzione effettiva.


Non ultimo danno dell’amministrazione dello Stato è il mantenere il maggior numero degl'impiegati, su cui grava il più necessario lavoro,


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in una condizione miserabile, oltre che sono continuamente esposti al pericolo di essere messi in disponibilità, o per abolizione d'ufficio, o per diminuzione de"ruoli organici, o per vessazioni de’ superiori. Gl'impiegati stessi nella massima parte disgustati a cagione dei privilegiati, mal retribuiti, non punto assicurati, difficile è che sentano amore del proprio ufficio e dovere. E per vero, essendo loro tolta ogni libertà d' azione, senza che abbiano sicurezza per l'avvenire, stantechè tutto ancora nelle amministrazioni è precario, essi cooperano necessariamente a mantenere tutti i disordini lamentati; poiché i giovani sono, o per timore o per isperanza, costretti a proseguire nel riprovato sistema, ed i più vecchi non sanno né vogliono favorire le novità contrarie alle antiche tradizioni, alle loro inveterate abitudini ed anche ai loro privati interessi.

Rimpetto alla burocrazia (ente barbaro non meno della parola) il ministro è impotente.


V.

Il celebre economista Francesco Ferrara nel ministero Rattazzi fu assunto a reggere le finanze dell'Italia, e la scelta di esso fa approvata con generale soddisfazione, poiché i suoi commendevoli scritti, pubblicati nella Nuova Antologia, ove sì acutamente aveva toccato i mali finanziarii dello Stato, fecero sperare che egli sarebbe l'uomo necessario e il più atto a riformare il pessimo sistema delle nostre finanze. Le dottrine economiche del Ferrara essendo liberalissime, il suo sapere vasto quanto profondo, egli ardito più che prudente nei rinnovamenti da farsi in ordine alle finanze, avrebbe potuto essere ben facilmente, venuto al governo, il Riccardo Cobden dell'Italia. Ma non era uomo di politica né spregiudicato in fatto di convinzioni religiose; aveva un grande incarico da eseguire senza essere delle amministrazioni esperto, senza avere il sostegno del Parlamento, poiché ad una parte spiaceva che fosse del ministero Rattazzi, ed ili' altra era in diffidenza per tema che volesse nella liquidazione dell’asse ecclesiastico favorire le pretensioni del clero.

Ond'è che il Ferrara, per quanto, valendosi degli aiuti della scienza, avesse in animo di far risorgere le finanze italiane, si trovò ben presto a mal partito, incontrando tale straordinaria gravita di nuovi ostacoli da sgomentare, non che il suo, l'animo più esperto nei raggiri burocratici ed il più previdente ed abile nelle lotte politiche.


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Quanto fu stimato sommamente ingegnoso nelle sue teoriche, altrettanto disadatto si vide nella pratica; e non già in quella pratica che procede dai principii della scienza, ma in quella di saper trattare con quell'esercito d'impiegati e d'interessati che stanno per un sistema piuttosto che per un altro, che vogliono essi soli essere lo Stato, e che son sempre disposti a rovinar tutto, quando una idea o un interesse loro non dovesse prevalere. Tolto dalla cattedra, il Ferrara era troppo nuovo al battagliar della burocrazia, né deve far meraviglia se presto egli venne meno a se stesso, poiché era pur destinato a soccombere.


Oggidì è invalsa la moda che abbisognano uomini pratici; ma la teorica non è senza pratica, poiché questa è l'atto perfetto di quella; quindi male si giudica che gli uomini di dottrina debbano apparire inetti nel fatto. Pur troppo lo scienziato può essere sofista e ne' suoi atti tanto sottile da sacrificare il tutto ad una meschina considerazione. Ma in Italia, se non vi furono uomini pratici, si deve ciò attribuire piuttosto al non essere stati punto, anzi che troppo, teorici. La mediocrità degli ingegni ha rovinato l'Italia; ed i più volgari sempre vollero soprastare ai più eminenti. Bastò esser politico, o caro ad un partito o a chi aveva già in mano la somma delle cose, perché altri potesse esser tenuto per uno dei grandi uomini; e poiché la scienza mancava fu detto che gli uomini pratici erano i migliori. Ma poi al fatto si vide la loro bravura pratica e nel reggimento dello Stato e nelle operazioni di finanza e nelle imprese di guerra e nei negoziati diplomatici. La pratica migliore si ebbe solo nel muovere a tumulto le popolazioni, nel vantar meriti insigni oltre il vero, nel soppiantarsi gli uni agli altri, fidenti nella reciproca mediocrità. E dove si formarono gli uomini che, portati innanzi dalla rivoluzione, fuori di questa non ebbero altra scuola? Dove appresero le teoriche del saggio operare i tanti che nulla infine mostrarono di saper fare? Finché in Italia la politica terrà luogo di tutto, ed i politici, sol perché a caso son tali, crederanno che la dottrina nel reggere lo Stato e nel guidare eserciti sia cosa di secondaria importanza, sempre sarà facile distruggere, ma non mai assodare di far sorgere a grandezza uno Stato. Di tal guisa vanno le cose in Italia.


Il ministro Ferrara, ai 9 maggio presentandosi alla Camera per esporre le condizioni finanziarie da lui studiate, non dissimulò d'essere fino allora stato alieno da ogni operazione politica e privo affatto di ogni tirocinio parlamentare;


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ciononostante egli disse come aveva sentito il dovere d'applicare l'animo a trovar modo di ristorare le dissestate finanze., e che perciò si era sobbarcato animosamente al difficile incarico.


La esposizione finanziaria del Ferrara, per quanto potesse in diverse questioni essere non accettabile, veniva ad enunciare tali principii che gli uomini liberali non potevano rigettare, e che per mala sorte furono troppo presto dimenticati.


VI.

Base e fine del suo programma, come egli ebbe a dire, erano i provvedimenti di economia. Riprovò l'espediente degl'imprestiti, poiché sono essi un rimedio traditore, che aggrava e rende incurabile il male stesso contro cui si adopera; qualificò l'emissione della carta moneta come l'imprestito della disperazione, rassomigliandolo ad una tavola che salva il naufrago, ma che lo condannerebbe a spasimi orrendi, se vi si dovesse adagiare in perpetuo. Suo proposito era di stabilire alla Banca nazionale il termine del 1.° gennaio 1868 per riprendere i pagamenti in contanti.


Essendo di opinione che meglio dei radicali mutamenti giovassero le opportune riforme, a pareggiare l'annuale disavanzo, credeva che molto avrebbe giovato il riordinamento del sistema daziario, ribassando le tariffe per reprimere il contrabbando, e togliendo nei dazi quel carattere di protezione che scema le forze vitali al commercio ed alle industrie. Molto poi si riprometteva in vantaggio dell’erario dal concedere in regia cointeressata la esazione delle gabelle, come anche lo spaccio dei tabacchi, a fine d'infrenare le frodi, il contrabbando, e di evitare quei danni, a cui i Governi van sempre soggetti quando vogliono farsi produttori di cose che mai non dovrebbero sottrarsi ali' azione dell’industria privata.


Con molta saviezza egli seppe eziandio riprovare la riscossione dei dazi di consumo per conto della finanza, poiché l'Italia non è ancora abbastanza concorde in tutto e uniforme da sopportarli come tributo generale, anziché come imposta locale (1),


(1)Ecco come il Ferrara si dichiarò a questo proposito: «I dazi di consumo riscossi per conto della finanza hanno confermato le precisioni che se ne fecero nel 1864, quando furono istituiti. L'Italia non è ancora abbastanza compatta e uniforme


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e propose invano che si dovesse al più presto trasmettere dalla finanza ai comuni ed alle province un tal ramo di pubblica contribuzione,

In quanto alla imposta prediale, disse doversi giungere alla perequazione in modo da potersi ripromettere ancora un accertamento di maggior rendita imponibile (1); in quanto alla tassa


per sopportarli come tributo generale anziché come imposta locale.

«Non meno di cinque sono i metodi che contemporaneamente è forza di adoperare nella loro riscossione. Alcuni Comuni sono abbonati, altri convennero per un minimo assicurato, altri entrano nell'appalto generale, per altri si sono fatti appalti parziali, ed altri infine sono sotto riscossione diretta del fisco.

«Quest'unico fatto basta a mostrare tutta la difficoltà che i dazi di consumo presentano come cespite finanziario dello Stato.

«Dal punto di vista della esazione vi dirò che a tutto lo scorso marzo l'erario trovavasi in credito di poco meno che 7 milioni verso i Comuni, contro i quali n. on è fornito che di armi assai (lacche. Fino dal luglio del 1865 non si mancò di affidare alla società dell’appalto generale la riscossione in trentatré dei Comuni pili renitenti; ma il canone di 88 milioni si dovette ridurre a 14 milioni. Quest'esperienza distoglie affatto dal pensiero di ulteriormente appigliarsi a siffatto partilo. Per mezzo delle prefetture si fecero emettere da molte deputazioni provinciali i mandati a carico dei Comuni morosi, ed in ultimo non si ristette dal ricorrere all'intimazione giudiziaria per la costituzione in mora di taluni fra i più importanti municipi, onde ottenere lo scioglimento del contratto ed assumere la esazione diretta.

«Quanto più i debiti si vengono accumulando, tanto più si affievoliscono!e speranze di vederli saldati; e il rimedio della riscossione diretta, sperimentatosi già in parecchi luoghi, non ha dato effetti che ci possano incoraggiare a ricorrervi.

«Il sistema medesimo degli appalti ha i suoi deplorabili inconvenienti, e l'avversione che contro di esso si è suscitata generalmente, lo rende oramai presso s poco impossibile.

«La causa vera di questi infelici risultati non mi sembra difficile a di scoprirsi. Le discrepanze nella economica condizione delle varie parti del regno sono troppo spiccate, antiche troppo, perché le stesse derrate potessero subire in diversi punti le stesse quote di dazio, e perché a compensare la differenza bastassero i provvedimenti, a' quali la legge del 3 luglio 1864 e il decreto del 28 luglio 1866 si attennero. Bisogna bene riconoscere che la natura e la storia hanno i loro diritti; la unità è un principio, un concetto, che ha i suoi sterminati vantaggi; ma forse il più grande nemico dell’unità è l'uniformità, inesorabile giogo che nessuna umìtu potenza può imporre su cose, le quali per indole propria e per prepotenti cagioni sieno difformi. Io non credo che oramai si incontrino due opinioni in Italia codesto argomento: un consiglio, una voce, s'innalza da tutti gli angoli del paese, è un generale giudizio, che io pienamente divido, doversi al più presto trasmettere dalla finanza a' Comuni ed alle province questo ramo di pubblica contribuzione.


(1) Ecco quali erano le idee del Ferrara sulla imposta prediale:

«Giacché abbiamo posto piede sul campo delle tasse dirette, mi è d'uopo di ricordarvi che noi siamo ben lungi dall’aver dello ancora l'estrema parola intorno all'imposta prediale.

«Io certamente non credo che la quota del 15 per cento a cui trovasi già pervenuta, e quelle aggiunte gravissime a cui la innalzano le sovrimposte, costituiscano un lieve peso sulla rendila fondiaria; tutto al contrario, i grandi interessi


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sulla ricchezza mobile, consigliò doversi lasciare quale era, cercando solo di scoprire quei proventi che ad essa ancora restavano sottratti (1).


economici che son vincolati alla proprietà rurale ed urbana mi tengono sempre viva la speranza che gli aggravi accumulatisi sulla rendita si possano alleggerire; ma io non son solo a desiderare e sperare che una ripartizione più equa basterà senz'altro ad accrescere sensibilmente il prodotto finanziario della tassa.

«Il gran nodo della perequazione è mestieri troncarlo oramai; e da parte del Governo v'è la più decisa volontà di adempiere tra poco l'impegno che i suoi predecessori avevano assunto, di sottoporvi al più presto possibile la sua maniera di vedere intorno a questo grave argomento. In tale opportunità, l'accertazione delle rendite troverà naturalmente il suo posto; e qualunque plausibile soluzione daremo al problema, essa avrà sempre l'effetto di far sorgere un incremento di materia imponibile, senza punto esarcerbare, e forse ancora diminuendo di qualche cosa la quota.

«Se si potesse a man franca arguire da ciò che è avvenuto pe' fabbricati ciò che avverrà per le terre, avremmo bene di che rallegrarci. Sui fabbricati una rendita prevista soltanto per 168 milioni, al primo saggio di accertamento risultò di 251 milioni, crebbe di 83 milioni; quasi il 49 per cento. Vi sono plausibili motivi per argomentare che un accertamento più accurato potrebbe ancora sospingerla fino a non meno che 375 milioni. Non voglio di certo asserire che un incremento analogo si debba per necessità trovare nella rendita de’  beni rurali: ma tutte le ipotesi che si sappiano immaginare ci conducono sempre a predire un immancabile aumento di prodotto. Le persone più pratiche in questo ramo di servizio non dubitano di affermare che vi ha accora tanta rendita di ambe le specie a doversi assoggettare all'imposta, da poterne raccogliere una contribuzione totale ascendente a ben più che 200 milioni. Se, preso l'aumento probabile de’   fabbricati, ci fondiamo su questo elemento per crederlo del pari probabile in riguardo ai fondi rustici, l'imposta rurale ascende a non meno che 184 milioni, compreso il Veneto nulla proporzione di un decimo. Se ci limitiamo a calcolarla sulla base di un aumento analogo a quello che effettivamente fu ottenuto sinora sui fabbricali, l'imposta rurale sarà sempre di 174 milioni; e per averla limitata a soli 402 milioni bisognerà contentarsi di credere da un lato, come all'ingrosso si è sovente creduto, che la rendita dei terreni non possa mai sorpassare la proporzione del triplo relativamente a quella dei fabbricati, e dall'altro lato supporre che quest'ultima sia già pervenuta al suo colmo.»

(1) In quanto alla tassa sulla ricchezza mobile, le idee del Ferrara erano molto speranzose senza bisogno di aumentarla; ed ecco che cosa ne diceva:

«Comunque si ami di esagerare i difetti e gl'inconvenienti della tassa sulla ricchezza mobile, io sono di parere che le successive modificazioni apportatevi la rendono ormai abbastanza tollerabile per consigliarci di non porvi ulteriormente la mano, ed attendere invece i risultati della esperienza che potremo raccorre nella prossima sua attuazione, relativa al secondo semestre del 1866 e dei due semestri del 1867.

«Nata come un semplice tentativo per innestare fra noi un modo di contribuzione che introdotto dai nostri padri aveva da lungo tempo emigrato fra popoli di ben altra razza, in pochi anni è passata per quelle fasi, alle quali si attribuiva il bisogno d' un lungo corso di tempo. Noi ne abbiamo rapidamente esteso l'importanza totale; abbiamo da un anno all'altro avutoli coraggio di spezzare il freno del contingente, accettando francamente i pericoli della quotità; ci siamo spastoiali dall'imbarazzo delle quote minime. Checché ora si dica, i falli dimostrano che l'accertamento dell’imponibile si può, anche in Italia, ottenere per mezzo della di dichiarazione del contribuente,


338               CAPITOLO VENTESIMOSESTO — LO STATO FINANZIARIO DELL’ITALIA.


Secondo i computi fatti, il Ferrara calcolava che il disavanzo del 1867 ascendesse a 185 milioni; a questi aggiungendo 40 milioni di minori entrate e maggiori spese, e 35 milioni non riscossi dell'imprestito forzato e la deficienza antecedente di 137 milioni, si veniva ad avere un disavanzo di 400 milioni. E poiché vi erano cespiti di rendita che davano una minore entrata e che non potevansi riscuotere se non tardi, come la ricchezza mobile, il Ferrara pensava che alla fine del 1867 il disavanzo sarebbe stato di 500 milioni.

Non potevasi ad un tratto pareggiare questo enorme disavanzo. Quindi il Ferrara ebbe in animo di porre una barriera tra il passato e l'avvenire. Dal 1869 stabilì di potere incominciare un bilancio normale fondandosi sopra una migliore amministrazione, sopra un maggiore prodotto delle imposte esistenti, e sopra il maggiore introito della tassa sul macinato che egli pure era risoluto d'imporre.

Per colmare il disavanzo del 1868, che unito a quello del 1867 faceva in tutto ascendere a 580 milioni, pensava di ricorrere ai beni ecclesiastici, prelevandovi una imposta straordinaria di 600 milioni; della quale conviene che ora io passi ampiamente a discorrere.


e che il privilegio della menzogna non è cosi esclusivo al popolo italiano da rendere qui impossibile un sistema plausibilmente praticato altrove. Io posso ingannarmi; ma sono più che mai persuaso che, se avremo la pazienza di attendere ancora un poco, perché i nostri concittadini, persuasi dell'indeclinabile necessità di concorrere, ciascuno secondo i suoi mezzi, alla pubblica spesa, comincino a riconciliarsi col Osco, la tassa sulla ricchezza mobile riacquisterò agli orchi loro quel carattere di equità che forse nei primi attriti della sui introduzione si è potuto smarrire, e sarà ben volentieri pagala.

«Non conto adunque sopra ulteriori riforme, che mi sembra essersene operate abbastanza finora; conto bensì sullo svolgimento spontaneo della sua applicazione. Niuno nel 1863 avrebbe osato vaticinarci risultati che oggi sono acquisiti, e quelli che abbiamo ogni ragione di attenderci ancora. Niuno avrebbe supposto che in così poco tempo doveva venir fuori una massa di redditi ascendente a 1300 milioni di netto, e 990 di materia imponibile.

«Evidentemente questo progresso di rivelazione di redditi è lontano dati' aver toccato il suo limite estremo. Analizzando le diverse categorie, e riflettendo al modo in cui le loro cifre son venute crescendo, a colpo d'occhio si scopre che gran tempo non passerà per trovare una cifra di reddito lordo, ascendente a due miliardi, che farebbe ascendere a 1500 milioni la parte imponibile. Se dunque nulla sopravverrà per indurci a credere che una quota dell'8 percento si possa riguardare come troppo onerosj ai contribuenti (e nulla in verità potrebbe condurci ad un tal giudizio), voi vedete, signori, come questa tassa che si diceva sterile ed impossibile nel nostro paese, che cominciò dalla modesta pretensione di non figurare che per una trentina appena di milioni, si troverà più che quadruplicata, ed avrà nel nostro bilancio un'importanza di non meno che 132 milioni.









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