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Siamo nel 1884 e tutti i peggiori luoghi comuni sui rapporti nord-sud si sono sedimentati e tali resteranno fino ai giorni nostri.

L'autore è un ufficiale sabaudo che ha partecipato alla guerra contro il brigantaggio, contro quelli che in diversi passaggi definisce partigiani (seppur della reazione borbonica).

I meridionali son bravi e buoni solo quando accettano tutto ciò che viene dal nord come sacrosanto. Questo emerge dal suo racconto.

Troviamo espressioni come "mollezza o pigrizia meridionale", "sanfedisti rossi camuffati da liberali", "come tutti i meridionali era bruno di carnagione", "udire tali serenate nell'Italia meridionale non fa specie, sono cose di tutti i giorni".

Troviamo pure i più triti luoghi comuni della retorica patriottarda, tipo “da Marsala a Calatafimi fu prodigiosa marcia di celesti cherubini; a Calatafimi ed a Palermo fu pugna di giganti”, “in Sicilia il sacro fuoco di libertà divampava mandando fuori rivoluzionari faville”.

Tra le righe anche qualche verità, sulla sconfitta del brigantaggio “per la potente cooperazione della guardia nazionale” oppure “che le perdite effettive di uomini avute dall'esercito mobilizzato per la repressione del malandrinaggio, nelle proporzioni superano quelle di qualunque guerra”.

Al di là di questi limiti propri di tutta la pubblicistica di impronta sabauda e liberale, il testo è interessante perché vi sono descritti alcuni eventi tragici come l'incendio di Pontelandolfo, il complotto contro Ferdinando II ordito da Agesilao Milano (l'incredibile è che dopo questo libro son dovuti passare altri novanta anni e si è dovuto aspettare una ricerca come quella di Michelangelo Mendella per stabilire una volta per tutte che fu una cospirazione e non il gesto isolato di un martire della libertà).

Zenone di Elea – marzo 2014

STORIA POLITICO-MILITARE

DEL BRIGANTAGGIO

NELLE PROVINCIE MERIDIONALI D'ITALIA

SCRITTA DA

ANGIOLO DE WITT

Già Ufficiale del R. Esercito

FIRENZE

Girolamo Coppini, Editore

1884

Storia politico-militare del brigantaggio… di Angiolo de Witt - HTML 01
Storia politico-militare del brigantaggio… di Angiolo de Witt - HTML 02

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PREFAZIONE

Scrivo per la generazione che sorge; accenno a fatti avvenuti da quattro lustri appena; gli adulti ne conosceranno gran parte, i giovani forse no.

Tanti eroismi molti contrasti di partiti politici, nonché innumerevoli sacrifici di sangue e d'interessi, cose tutte che formano la materia del mio racconto, serviranno d'esempio alle speranze della Patria che è quanto dire, ai giovani che devono rimpiazzarci nei doveri e negli onori.

Talvolta mi necessiterà, parlare di me; non sarà passione di mettermi in evidenza, quella che mi spingerà a ciò fare; sarà invece necessità di prova che il mio romanzo in gran parte si basa su avvenimenti verificatisi me presente, me cronista fedele.

ANGIQLO DEWITT.

CAPITOLO I.

La prima prova degli sbandati

Il 17 Luglio 1862, per ordine del Colonnello Mazé De la Roche, allora Comandante dei 36° Reggimento Fanteria, partii da Dogliani per Campobasso, capoluogo della provincia del Molise. Addio Dogliani, terra ospitaliera, dove le brume tutte inaridiscono, e le belle Tote (1) confortano col loro sorriso tanta sterilità di natura. Presto sarò nel mezzogiorno d'Italia, dove perenni tepori fanno fiorire i campi più volte all'anno; costì trovandomi, non dimenticherò le rupi boschive, la tua Rea (2) ed il generoso vino delle tue scarse collinette.

Il Capitano Dimier, il Sottotenente Marieni ed io, dovevamo condurre a Campobasso seicento sbandati. (Così chiamavansi i soldati provenienti dal disciolto esercito borbonico). Sulla nave-trasporto la Bora, partimmo da Genova alla volta di Napoli. A bordo regnava ordine, sanità ed allegria, ed il mare tranquillo ci offriva i suoi specchi immoti, simili alle morte onde di Stige.

 (1)Tota, in dialetto piemontese, significa fanciulla.

 (2)La Rea, è un piccolo e grazioso torrente che bagna Dogliani.

I militi dell'ex-re di Napoli, cantavano alcuni inni patriottici, quelli stessi che, due anni addietro, erano stati cantati dai volontari di Garibaldi.

Io piangevo per la morte di mia Madre, avvenuta in Napoli poco tempo prima della mia partenza da Dogliani.

Isoldati credevano che le mie lacrime fossero motivate da un qualche distacco amoroso; essi folleggiavano in dubbi crudeli per me, che sentivo tutta la santità del mio dolore.

Il sottotenente Marieni raccontò a quei militi la vera cagione del mio pianto ed allora i bruni volti di quei soldati si composero ad un espressivo sentimento di mestizia; erano figli essi ancora, e col ritorno psichico ai cari affetti di famiglia, dimostravano di avere animo gentile.

La prima notte di navigazione mi trovò sul ponte di prua, solo e pensoso; volgevo i dolenti pensieri miei alla stellata volta celeste, e cercavo fra quegli impenetrabili arcani un raggio di conforto.

Mi ricordo che il mio sguardo si smarriva nell'immensa superficie del Mediterraneo, e che la striscia argentea del riflesso lunare, la quale come vigile scorta seguiva il nostro cammino, pareva che colla sua vergine luce riscaldasse il funereo ghiaccio dell'anima mia, angosciata per una perdita che in certi momenti mi sembrava impossibile. , '

Il mio dovere di militare mi imponeva di smorzare il cordoglio e volger l'animo alla seria e rischiosa missione che ci veniva affidata; ma allora avevo solo venti anni, e tale forza di riflessione non era ancora fra i miei attributi.

Durante i tre giorni di navigazione che si impiegarono da Genova a Napoli, fui buono a poco, che la mia voce era tramezzata dai singhiozzi, e la mia vista velata da incessanti lacrime.

La mattina del 20 luglio, più cose ci additavano la vicinanza del delizioso golfo di Napoli.

Un vento soffocante, il mare di un color verde cupo, ed

un cielo torrido, chiaramente ci addimostravano che le spiagge cuiaane (1) dovevano essere poco lungi da noi.

Infatti, alle ore 9 in punto si avverti un certo movimento sul cassero della Dora.

Molti di quei soldati riconoscevano le native pendici e lieti le salutavano unitamente alle vezzose isolette li Nisida e di Capri, che, simili a natanti Nereidi, si bagnano ab aeierno nell'arcipelago napoletano.

A tale improvviso mormorio, ai gridi di cento bocche intente ad emettere motti di allegria ed esclamazioni di grata sorpresa si mischiava una specie di romba che dalla popolosa Napoli giungeva fino a noi.

La città dalle dodicimila carrozzelle e dai duemila gozzi (2) coi vetturini che urlano, coi barchettaiuoli che cantano, si annunzia strepitosa a più chilometri di distanza.

Ivi, per tutti coloro che erano sulla navetrasporto, si palesavano i più vivaci segni della vita gaia di quel popolo; per l'animo mio invece, quei rumori rassomigliavano a piagnistei di prefiche, o a gridi di morte.

Appunto a Napoli, in casa di mio zio, due mesi prima, era morta mia madre. Il telegramma che mi aveva comunicato la trista nuova della sua prossima fine non mi toglieva del tutto la speranza di una possibile di lei guarigione; ma un lugubre sogno da me fatto a Dogliani, durante il quale io aveva veduto il di lei cadavere adagiato sul letto della funebre stanza, pur troppo mi aveva intuito la convinzione che essa non era più.

Infatti, appena potei condurmi da mio zio, riconobbi che tutti i particolari del sogno altro non erano stati sennonché la riproduzione di una crudele realtà!

La Dora gettò l'ancora nel porto militare, e la truppa fu accasermata ai Granili.

Vengono chiamate i Granili più e varie caserme riunite in uno spazioso alloggiamento per molte migliaia di soldati.

(1)Cumane, perché presso a Napoli era l'antico Cuma.

(2)Così vengono chiamate le barchette del porto di Napoli.

Questo vasto edificio venne fatto fabbricare dal cessato governo borbonico, nel punto il più adatto a reprimere una possibile rivoluzione cittadina, ed infatti, situato a cavaliere della via che da Napoli conduce alla sua costa, si può ritenere come il posto meglio scelto per tagliare, all'occorrenza, le comunicazioni della città con i suoi popolosi dintorni.

Ivi mi trovai al mattino del 21 Luglio, dopo avere passata una eterna notte d'insonnia.

Era il momento in cui le frettolose dive notturne, sogliono porre i sonanti freni ai fulgidi destrieri di Febo, ornai satolli dell'erba ambrosia.

Non era ancora stata battuta la diana (1), ed un sepolcrale silenzio regnava allora per le camerate del quartiere N. 4, dove su poca paglia erano avvolti nel sonno i nostri seicento sbandati.

Qualche minuto dopo di me, giunse il capitano, e mi disse che quella sera stessa saremmo andati a Maddaloni, per mezzo della ferrovia, per poi da quella città, con due lunghe tappe, condurci a Campobasso.

Tale era l'ordine del Comando supremo di Napoli, tenuto allora dall'illustre generale La Marmora, il quale ci fece sapere che in Quella stessa mattina avrebbe ricevuto noi ufficiali.

Alle ore 10 ant. ci recammo, in tenuta di marcia, a quel dipartimento militare, che era sulla gran piazza che si trova di fianco al palazzo reale.

Confesso il vero, che l'idea di trovarmi al cospetto di uno dei più grandi cittadini d'Italia, fra tutti coloro che cooperarono al nostro risorgimento nazionale, produsse in me un certo orgasmo. Lo avevo conosciuto nell'inverno del 1860, a Firenze, e precisamente nella prima festa da ballo che dette, a palazzo Pitti, Vittorio Emanuele di solenne memoria.

L'aristocratica figura del vecchio generale, che mai venne meno alla giurata fede, aveva già al primo incontro prodotto su di me una certa impressione;  

(1) Diana, s'intende l'ora della sveglia.

né poteva essere diversamente, ché il chiarissimo statista e condottiero, era una delle poche personalità politiche delle quali poteva dirsi che nella loro singola biografia compendiassero la storia del proprio paese.

Nel trovarmi a lui dinnanzi, riandai col pensiero all'illibatezza del suo nome ed alla fermezza della di lui volontà nel tenere alta la bandiera dell'ordine, militando nell'Esercito dell'unica Dinastia, che per il di lei passato divenne possibile in Italia.

Dicevo a me stesso: quest'uomo è una potenza; ed anche nelle provincie meridionali, dove era ancora molto contrastata l'unità italiana, fece quanto ai suoi predecessori non era riuscito di fare.

Costui, infatti, col suo liberale e temperato governo, contribuì a che la guardia nazionale di Napoli e delle Provincie, sempre più si associasse alla buona causa dello italiano risorgimento; seppe conciliare gli interessi regionali col grande utile unitario, e infine seppe purgare la bella Partenope dai tanti marioli di strada, e dai terribili camorristi, i quali, avanti la di lui gestione, si erano imposti agli stessi governanti.

Checché adunque ne avessero poco favorevolmente detto in Parlamento il Ricciardi, il Ferrari ed il Dondes-Reggio, io giudicai, per imparziale giustizia, che La Marmora era uomo prezioso per l'unità italiana, e meritevole quindi del più alto rispetto per parte di ogni sincero liberale.

Il generale prefetto, siccome era da prevedersi, ci ricevette con la sua solita contegnosa affabilità. Ci raccomandò di mantenere inviolata la disciplina, facendoci avvertire che dalla felice prova degli sbandati (i quali in numero considerevole, dovevano ingrossare le diradate file del nostro Esercito) poteva dipendere la prospera o avversa fortuna dell'Italia e della libertà.

Appena il generale venne a conoscere, dalla situazione della forza, che il numero dei militi, comandati da soli tre ufficiali, ammontava a seicento, ordinò che due subalterni del reggimento Granatieri, allora di guarnigione a Napoli,

prestassero servizio al nostro drappello, fino al di lai arrivo in Campobasso.

Infatti, il luogotenente Vannutelli ed il sottotenente Valpino, vennero in quella stessa mattina alla caserma dei Granili, per porsi a disposizione del capitano Dimier, comandante la colonna.

La partenza venne fissata per le ore 7 della sera, dopo l'ultimo treno che era solito a partire per Maddaloni.

Intanto fu diviso il precario battaglione in quattro compagnie di 150 individui, ed ognuna di queste compagnie, fu affidata al comando di noi quattro subalterni.

Passata la rivista alla truppa schierata, con armi e bagaglio e col bottino fuori dello zaino, ci assicurammo che tutti avevano il necessario corredo, i sei pacchi di cartuccie voluti dal regolamento di campagna, e le armi in buono stato, e dopo ciò furono rotti i ranghi.

A giudicare dalla loro condotta, fino a quel punto lo spirito militare degli sbandati prometteva assai bene.

Infatti, al di loro ritornò in Napoli, da dove due anni addietro erano partiti molto scontenti, avevano dato prova di disciplina e di subordinato contegno, talché, se si tolga qualche tardanza all'appello della sera avanti, per ogni resto si erano bene condotti.

La buona causa dell'unità d'Italia si avvantaggiava sempre di più, a dispetto dei partiti contrari.

E cosi, alle ore 7 di sera, un lungo treno appositamente preparato per noi, dalla stazione di Napoli, in mezzo ai fischi della locomotiva, ed ai canti patriottici dei soldati, ci condusse in breve tempo a Maddaloni, dove pochi mucchi di paglia ed una vasta stanza terrena dovevano ospitare i novelli gregari dell'esercito nazionale.

A Maddaloni, ove in quell'epoca era un continuo andirivieni di drappelli di tutte le armi, i quali venivano dalle diverse provincie infestate dal brigantaggio, ovvero erano colà inviati, avemmo la notizia che lungo la via che noi dovevamo percorrere, si aggiravano diverse numerose bande dei soliti briganti.

Tutto ci faceva sperare che l'indomani ci saremmo misurati con qualcuna delle orde brigantesche, che erano state inviate contro di noi dai congiurati legittimisti della penisola, della Baviera, della Spagna e dell'Austria, la quale, dal porto di Trieste, su tanti trabaccoli (1), in una sola volta aveva spedito centocinquanta briganti.

Intanto a Napoli stessa si stampavano alcuni periodici reazionari, quali erano Il Veridico, Il Piccolo Indipendente e L'Incivilimento, periodici che, col dipingere quegli avventurieri siccome eroi difensori del legittimismo universale, fomentavano nelle popolazioni la speranza di una completa e non lontana restaurazione.

Ma i soldati d'Italia tenevano in poco o nissun conto le ciarle dei giornali retrogradi e le brighe dei partiti opposti, tantoché col loro contegno ispiravano ai ben pensanti la fiducia che tutte le forze vive del paese, fossero delle nordiche o delle meridionali provincie, avrebbero sempre con fedeltà servito quel Governo che le aveva nazionalmente coordinate.

Pertanto, la diserzione degli sbandati, preconizzata dai fogli reazionari, non avvenne nemmeno in minime proporzioni, e la mattina del 22 luglio, senzaché un solo uomo mancasse alla chiamata o si dasse per ammalato, la giovane coorte, lieta ed in buon ordine, si avviava per la prima escursione contro il fiero nemico d'Italia — i briganti. —

Il capitano Dimier divise la colonna in cinque sezioni, delle quali la prima, a centocinquanta metri innanzi, ci faceva da avanguardia, e l'ultima, a pari distanza in dietro, ci guardava le spalle come retroguardia Stabilita inoltre una catena di fiancheggiatori, e una squadriglia di esploratori o vedette, per la via del Molise ci incamminammo verso il paese di Solopaca, dove avevamo ordine di pernottare.

(1) Nome che danno nell'Adriatico a certe barche a vela che servono per il piccolo canottaggio.

Durante i primi chilometri della nostra marcia gli allarme furono frequenti perché, non essendo il giorno abbastanza chiaro, tutte le volte in cui le vedette scorgevano attruppamenti di gente davano il segnale attenti: ciò che riusciva inutile inquantoché quei supposti briganti non erano altro, che delle guardie nazionali in perlustrazione per quelle adiacenze.

A pochi chilometri da Maddaloni tutti i più certi segni di desolazione si manifestavano a noi; qua era una croce che stava a rammentare ai passanti come una banda di circa 70 giovanetti avesse trucidato due novelli sposi allora appunto quando erano per inebriarsi del più auspicato imeneo; là un cippo ne additava il luogo dove erano sepolte le vittime, e dove le spietate reclute del legittimismo avevano bevuto il sangue delle sciagurate vittime alle quali avevano ricambiato i fiori di Imene coi semprevivi del martirio; e boschi e case incendiate, e carcasse di giumente per dispetto ai proprietari uccise, ed altri e diversi avanzi di eccidi stavano ad indicare che eravamo entrati nell'orrevole campo del brigantaggio.

I vetturali che incontravamo per la via spaventati e sconvolti nel sembiante ci acclamavano come liberatori, ed in vederci riadattavano le sonagliere alle briglie dei loro cavalli, ai quali le avevano tolte per timore che il tintinnio dei campanelli avvisasse della loro presenza i briganti acquattati nei vicini boschi: insomma tutto ci faceva travedere da un momento all'altro un possibile scontro, ma ancora le bande brigantesche avevano organizzato un servizio di spionaggio ed a quell'ora già sapevano che eravamo troppo numerosi per attaccarci.

Gli sbandati fino alle ore 10 del mattino sostennero la marcia egregiamente, ma da quell'ora in poi, quando il sole incominciava a sferzare a buono, ci facevano sentire più qua, e più là della colonna ripetuti lamenti in causa della pesantezza del zaino, che, quei soldati meridionali con pulcinellesca arguzia chiamavano — lo Piemonte. —

La marcia che in quel giorno dovevamo fare da Maddaloni a Solopaca, a seconda del nostro itinerario, era

di 35 chilometri ed una tappa così lunga con arme e bagaglio riesce sempre ed a chiunque disagiosa, ma per i soldati che noi conducevamo, i quali al servizio del borbone non avevano mai fatto più di 20 chilometri al giorno, riusciva faticosissima.

Infatti non si era percorso ancora il quindicesimo chilometro quando avevamo tutti asciugate le borracce, ed una arsione indescrivibile raddoppiava la febbre della stanchezza;  né potevamo cavarci la sete, poiché il nostro cammino traversava lande squallide o aduste macchie, ove non si trovava  né una goccia d'acqua  né un solo pratello ombreggiato; eravamo in pieno Senegal, ed al ronzio dei tafani, 0 al cinguettare dei passeri, che a branchi ci precedevano, si era dileguata la primitiva allegria e lo scontento cominciava a delinearsi sui volti dei soldati, lordi di rappreso sudore.

Malgrado il buono esempio, che noi ufficiali davamo loro nel sopportare la faticosa marcia, gli sbandati facevano coda (1) ed ormai divenuti disobbedienti ai nostri comandi, anziché affrettare il passo, si lagnavano del perché con quella razza di canicola, senza uno scopo urgente, avevamo avventurato una marcia tanto lunga e disagiosa. — Qualcuno di loro diceva — così malamente non ci ha mai trattato lo Borbone — ma pure camminavano zoppicanti ed a stentoni, in molto somiglianti a trafelati armenti di ritorno dalle maremme.

Era necessario fare una buona ora di riposo, tanto da potere offrire alla stanca truppa il modo di refocillarsi; ma per ciò fare occorreva un luogo ombreggiato, e che presentasse altresì un qualche pozzo d'acqua per dissetarci.

Alla fine di qualche ora penosa, come Dio volle, ci apparve una masseria (2), che riuscì tanto gradita alla nostra vista, quanto lo fu agli ebrei vaganti nel deserto,

(1)Coda, militarmente parlando, significa restare indietro.

(2)Masseria si chiama in quei posti qualunque casa colonica.

quella di un branco di ciuchi selvaggi, i quali, invece della mistica verga di Mosè, valsero ad insegnare loro dove trovavasi l'oasi, e dove il fonte promesso (1)

In tale masseria (di cui non ricordo il nome) facemmo il grand'alto, e dopo avere constatato che nissuno mancava all'appello, sciogliemmo le righe avvertendo la truppa che non si sparpagliasse al di là delle sentinelle di campo.

È inutile il dire che appena rotti i, ranghi, tutti gli sbandati si avvilupparono intorno alla fontana del casolare colonico; ancora noi ufficiali facemmo altrettanto, e nel raccomandare ai soldati che a riguardo della loro salute non bevessero di soverchio così accaldati come erano, noi dal canto nostro da veri frati Zappata ne tracannammo una buona misura.

Pareva che tutto andasse pel suo meglio quando V ora designata pe r il riposo fu consumata, allora fu giocoforza prepararci a proseguire la marcia avendo ancora da fare 18 chilometri di cammino prima di giungere alla montuosa terra di Solopaca.

Alle due e mezzo pomeridiane il comandante la colonna ordinò agli otto trombettieri, che suonassero a raccolta, ciò ché fu da essi eseguito con una certa veemenza.

Ma le trombe suonarono invano, ché di ogni compagnia venivano in rango a malapena una trentina di soldati, i quali poi, non vedendo venire in riga i compagni, ritornavano a giacersi non curanti del tutto.

Inutilmente i sergenti ed i caporali andavano fra i diversi gruppi per sollecitare quei pigri gregari; i fiacchi figli del mezzodì d'Italia rispondevano alle ingiunzioni dei superiori col proverbiale non mi fido.

La posizione cominciava a farsi scabrosa, onde il capitano Dimier, su di cui pesava tutta la responsabilità dell'inconveniente, risolvette di riunire noi ufficiali in caporali, trombettieri e soldati di buona volontà, coi quali arrivavamo in tutti 'al numero di quarantacinque individui.

(1) Vedi C. . Tacito

Il nostro duce riunito che ebbe intorno a sè i migliori elementi della schiera affidatagli, ci fece in brevi termini presente la difficoltà della nostra posizione, sia rispetto agli ordini dei grande comando, sia di fronte alle esigenze della disciplina; dopo di ciò cosi finì col dire con quel suo accento savojardo, che sembrava imprimere maggiore energia alle sue parole.

—Signori miei — disse — bisogna finirla con questi poltroni!? — Farò suonare per l'ultima volta l'assemblea, e se essi verranno ai loro posti, sia lode al cielo, in caso diverso, ciascuno di noi prenderà a sciabolate, o a calciate di fucile costoro finché non abbiano adempiuto al loro dovere.

—Se si rivolteranno sarà finita per noi, ma non si dirà che ufficiali e graduati italiani siansi fatti menare pel naso da questi vigliacchi.

Come il capitano aveva ordinato fu eseguito, e dopo che le trombe un'altra volta indarno ebbero suonato a raccolta, noi tutti e quarantacinque ci avventammo su di loro come un solo uomo, e quali colle sciabole e colle daghe, e quali coi calci dei fucili menammo un turbinio di colpi su quei soldati che si rendevano disobbedienti per eccesso d'infingardia.

A questa repentina pioggia di sciabolate, e di calciate di fucile che cadde loro addosso, ve ne furono di quelli che si alzarono con violenza, e poco mancò che sparassero l'arma micidiale contro di noi, altri ci misero al petto le punte delle bajonette senza avere il coraggio o il malo animo di ferire, altri infine si allontanarono minacciosi e si misero in posizione come se avessero voluto bersagliarci.

Bastava che uno solo avesse fatto fuoco perché una grandinata di projettili quasi a bruciapelo, ci avesse tutti annientati in un istante medesimo.

Era un momento di perplessità, che poteva decidere di qualche diecina di vittime, dell'accrescere il brigantaggio di seicento persone, e di un terribile esempio per tutti gli altri sbandati del regno.

Era un istante tremendo pel quale, la storia militare

d'Italia e quella del risorgimento Nazionale si sarebbero potute macchiare del più nero episodio, quale sarebbe stato quello di uno spietato fratricidio.

E le nazioni cattoliche che sino a quell'epoca non avevano ancora voluto prestar fede all'unanimità delle tendenze unitarie della penisola, si sarebbero servite di tal deplorabile avvenimento per protestare dinanzi all'Europa civile, che, non solo i briganti e i reazionari ma gli italiani tutti del reame di Napoli avevano subito quella nuova forma di governo quale era stata loro imposta colla forza delle armi dall'esercito subalpino e non coll'amore di figli e di fratelli di una Patria medesima, e non colla consentaneità dei sentimenti politici egualmente comuni a tutte le provincie italiane.

Ma fosse forza del buon destino d'Italia, o che i più di loro ritornassero a meglio savi consigli, fatto fu che dopo avere tentennato fra il pensiero di rivolta ed il sentimento del proprio dovere, un numero ragguardevole di loro venne speditamente a rango, e così, appena un nucleo di circa trecento militi si ricostituì in corpo militare schierato per ordine di battaglia, il capitano ne prese energicamente il comando, ed ordinò di far fuoco contro i più indisciplinati, che divisi in squadrìglie poco discoste le une dalle altre si tenevano ancora in disparte.

Avvedutisi allora i più renitenti che non si scherzava, vennero a porsi in riga ciascuno alla sua compagnia proferendo qualche invettiva ed anche qualche bestemmia.

Ciocché non aveva potuto la buona maniera e la tolleranza, era riuscito ad ottenere un brusco e radicale trattamento.

In quella zuffa dove molto ci protesse la forza morale del grado, nissuno di noi quattro ufficiali riportò la minima scalfittura; non fu così dei sottoufficiali ed altri individui dì bassaforza, i quali, se dispensarono parecchie busse, ne ricevettero alcune altre di rimando.

Colui che si trovava più malconcio di tutti, fu certo Michele Squillace, caporale alla mia compagnia, il quale, sebbene facesse parte degli sbandati, si dette in tale circostanza a menar giù colpi da orbo in modo degno di miglior causa.

Egli aveva riportato una leggera ferita di baionetta alla mano destra ed una forte contusione al capo.

Ripristinato l'ordine, e ristabilito l'impero della disciplina, riprendemmo la marcia in mezzo ai brontolìi dei più malmenati in quel parapiglia, i quali, non potendo in altro modo vendicarsi delle percosse ricevute, si sfogavano col fare degli epigrammi contro l'uso, che si faceva in Piemonte, della polenta.

Per costoro, ignari financo della patria geografia, tutto  quanto non era ex-reame di Napoli, era Piemonte; ed al di là di queste due regioni, per loro non esistevano altre parti d'Italia, onde è che, a qualunque motivo di disgusto avessero avuto in quél loro nuovo periodo di vita militare, si suscitava in quelle menti proclivi al sarcasmo, un sentimento di critica contro gli usi piemontesi.

Era strano il sentire quei meridionali prendersela allora contro il Piemonte, mentre fra tutti i graduati e gli ufficiali di quel battaglione provvisorio non vi era un solo piemontese.

Purnonostante fino a quel punto si poteva tollerare una cosi innocua reazione.

Intanto marciavano meglio spediti e più compatti che non lo fossero stati la mattina, ed un serotino venticello, il quale a misura che si salivano i monti di Solopaca sempre più veniva a mitigare i calori canicolari di quella caldissima giornata, valse a ricondurre la calma e la quiete in mezzo alle file; tantoché quegli stessi soldati, che poche ore prima si mostravano infingardi, riottosi, ed anche minacciosi, allora invece camminavano alla svelta, e se la cantavano come nulla fosse successo.

Bisogna arguire dall'accaduto che quella gente se era un poco troppo pigra, era però di buona indole ed a sufficenza unitaria; infatti chi avrebbe impedito loro di accopparci tutti e darsi alla campagna o alla reazione (che era la medesima cosa) allora, quando oscillavano molto dubbie le sorti dell'unità italiana, sia per il brigantaggio che infieriva, sia per gli inconsulti tentativi di Sarnico, sia infine per le minaccio dell'Austria, e di quasi tutta l'Europa cattolica?

Col loro contegno passivo quale in fin dei conti fu quello dei Sbandati in tale circostanza, eglino rinnovarono il più efficace dei plebisciti, il plebiscito dei fatti!

Era proprio vero che la stella d'Italia brillava ancora in mezzo alle fosche nubi della reazione e della progresseria.

Strada facendo chiamai presso di me il caporale Squillace, che così bene si era condotto, gli domandai se la contusione del capo e la ferita alla mano gli dolevano, e se riconoscerebbe i soldati, che gli avevano procurati simili lesioni.

Egli allora mi rispose (sorridendo) che in quanto alle ferite erano cose da nulla, e che non poteva dirmi quali erano stati i militi che avevano reagito contro di lui perché (come egli si espresse) in quei momenti di baracca aveva perduto per lo sdegno il lume degli occhi.

Capii bene che questa sua risposta della perdita della vista, non era altro che un pretesto per non fare infliggere punizione a qualche suo camerata, cui in cuore aveva di già perdonato, onde volli essere cortese di accogliere la scusa.

Michele Squillace era un giovane aitante della persona, di età oltre i trent'anni; si può dire che fosse il più attempato del battaglione, nonostanteciò era stato il più instancabile durante la faticosissima marcia, cosicché da ciò e dalla sua andatura sempre decisa e spigliata poteva  ritenersi fornito di una costituzione robusta quanto mai.

Oltre essere forte era ancora avvenente!

Una folta capigliatura cupocastana gli copriva il capo, e due biondi e lunghi mostacchi gli cadevano dal labbro superiore, che se a caso era sfiorato dal sorriso ne faceva travedere due compatte file di bianchissimi denti.

Nello zigomo sinistro aveva un neo dal quale pendeva un piccolo ciuffo di biondi peli, cosa che lo rendeva riconoscibile in mezzo a cento.

Di carnagione chiara (rara fra i meridionali) e di temperamento sanguigno-nervoso, aveva quasi sempre un colore rosso-carnicino che gli comunicava il più fiorente e simpatico aspetto.

Gentile nei modi, e fiero nel tempo stesso, pareva che con i suoi occhi di colore scuro, e scintillanti, accennasse precedere ogni di lui atto.

Chiunque avesse bene scrutato nell'espressione dei suoi sguardi, si sarebbe facilmente accorto che un'idea fissa ed un'ansia irresistibile dovevano tenere l'impero della di lui mente.

Era una di quelle rare nature sulle quali suole predominare la psiche all'involucro corporeo— Vedi sventurato!! —

Durante la prima marcia dei sbandati il caporale Squillace non aveva mai dato il minimo segno di stanchezza, ed anzi non si era risparmiato dallo spingere innanzi i più deboli, cui qualche volta alleggeriva del pesante sacco o del fucile per addossarli a se stesso.

Per tali atti di cameratismo e per essere sempre stato il gratuito scrivano, e per conseguenza il confidente dei suoi analfabeti commilitoni si era fra questi guadagnato un certo ascendente; talché da ciò, e da quanto potei appurare in seguito posso affermare che Squillace incuteva a quei soldati soggezione e rispetto, meglio di qualche ufficiale.

Solopaca è un paese di circa tremila anime consistente in una sola via maestra dove a quei tempi s'incontravano varie botteguccie, una semispece di caffè, nonché l'ufficio municipale, che serviva pure ad uso di corpo di guardia per la milizia cittadina.

Molte delle case di quel paese (che ha certamente origine romana per quanto ne insegna l'etimologia del nome solisopaca, priva di sole) hanno una specie di marciapiede rilevato dal suolo della via per circa un terzo di metro, e che dura per quanto è lungo il tratto della casa medesima; e questo antico modo di costruzione è molto beninteso, inquantoché la via che spesse volte per le grandi piogge si tramuta in melmoso torrente, facilmente potrebbe invadere con le sue torbe le case fiancheggiantela, se non fossero tali rialzi di livello della porta d'ingresso.

Del resto il carattere edilizio diquirita antichità, che conservano tuttora alcune case insulae di quella terra, ci fanno sovvenire dell'epoca in cui le legioni romane occuparono la Campania che formò dipoi una delle più ricche e belle provincie della Roma repubblicana.

Del perché i Romani chiamassero questo paese privo di sole, è facile a capirsi quando si rifletta che sebbene sia situato in vetta di una ripida montagnola, ai di cui piedi serpeggiano il sinnoso Volturno (1) ed il Calore, (2) ha però al suo Sud una più aita montagna che lo priva per molte ore del giorno della projezione dei raggi solari.

Ivi giungemmo a sera inoltrata e fummo accasermati nella chiesa maggiore, che era qualchecosa di più capace ed imponente che non lo sia una delle nostre chiese parrocchiali.

Si giudicava facilmente che codesto tempio era servito un giorno ai rituali del paganesimo da qualche framento di opus reticulatum (3), che si ravvisava nelle pareti esterne.

Quel vetusto edificio aveva senza dubbio subito il trasformismo religioso, e dopo essere stato molti secoli addietro consacrato a Giove Statore; o a quello Arotrio, aveva finito coll'addivenire l'augusta dimora della Madonna del Carmine.

Come era nero ed inquieto il capitano Dimier!?

Quel tentativo di rivolta lo aveva messo di pessimo umore, ed appena la truppa ebbe fatto i fasci nell'interno della chiesa, egli si fece a percorrere le file del battaglione guardando fièramente in faccia quei rabboniti soldati.

Disse loro, che per questa prima mancanza voleva perdonar tutti, ma che ad un altro disordine di simil genere avrebbe fatto decimare le compagnie.

(1) Fiume della Terra di Lavoro.

(2)Fiume del Sannio.

(3)Modo di costruire ctruscoromano.

Indi, rivoltosi a noi, ci ringraziò di avere cooperato a mantenere la disciplina, e dopo di ciò si congedò, invitandoci a dare le necessarie disposizioni affinché ciascuna delle quattro compagnie l'indomani alle ore quattro del mattino si trovasse pronta per la partenza.

In fine dei conti la prima prova dei sbandati non era riuscita malissimo.


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CAPITOLO II

Un mazzo di sigari a Milazzo

Avevo per mia ordinanza certo Santomena di Basilicata; era un affezionato attendente, che rare volte trasgrediva ai miei ordini, ma che molto doveva ancora imparare in fatto di convenienza.

Non erami stato possibile d'indurlo a darmi del lei come esigeva il regolamento di disciplina.

Spesso cominciava coll'appellativo in terza persona, ma alla lunga finiva col tu; ed in questo sistema di trattare avea molti che lo assomigliavano fra i suoi commilitoni, i quali principiavano coll'Eccellenza e terminavano col te ancora quando rispondevano al generale d'ispezione durante la rassegna annuale.

Non avevano in fondo tutti i torti, ché noi mortali usiamo dare il tu a Dio quando lo invochiamo, ed a nostro riguardo esigiamo gli appellativi più sonori ed aristocratici.

I Romani invece, quando erano grandi, non ammettevano distinzione di titoli, e dicevano a Cesare tu Coesar; ma vi era, fra me e Santomena, la spada di Damocle del regolamento di disciplina che non transigeva su tale proposito.

La mattina veniente Santomena venne a svegliarmi avanti l'alba, e poiché aveva la smania di tutto dirmi

quanto in compagnia si buccinava riguardo al servizio, questa volta volle accertarmi che quasi tutti gli sbandati si erano pentiti di avere commesso quell'atto di insubordinazione a cui accenna il capitolo precedente, e che ognuno di loro deplorava le lesioni del caporale Squillace, il quale, a seconda di quanto asseriva Santomena, era universalmente beneaffetto.

Gli domandai il perché costui era beneaffetto a tutti i suoi compagni, ed ei così mi rispose.

— Isso è uno figlio di galantuomo e tiene lo sistema de fa lo bene a gnuno

Ed in che consiste — gli chiesi io — questo gran bene che Squillace dispensa?

Allora Santomena mi raccontò più e diversi fatti che stavano a dimostrare come quel caporale fosse fornito di un animò assai gentile: più di ogni altro aneddoto a lui riguardante e raccontatomi alla meglio della mia ordinanza, mi colpì il seguente episodio che voglio qui riferire.

Avanti di passare caporale, Squillace era al campo di San Maurizio insieme a tutti gli altri sbandati.

Una certa notte montava di guardia alla polveriera di queir accampamento; ciascun soldato doveva fare due ore di sentinella, e Michele al suo turno le aveva già. fatte dalle 10 alla mezzanotte; cosicché fino all'indomani mattina sarebbe stato libero di riposarsi, meno casi imprevisti.

Era una notte burrascosa come sono quelle che sopraggiungono improvvisamente nella estate, ed. appunto in quell'anno 1861 i mesi più caldi furono tramezzati da freddi improvvisi, da tempeste e da cicloni.

Codesta notte qualche fulmine si era andato a scaricare nel pozzo dei pali elettrici; e lo scroscio della pioggia a vento aveva invaso la parte dischiusa della garetta

E tuoni e lampi e torrenti di pioggia accompagnati dal cigolìo dei venti che rassomigliava un incessante gemito d'innumerevoli anime espiatrici, formavano il tetro quadro di quella notturna tempesta, in mezzo alla quale

l'Airone, messaggero della procella, batteva i larghi vanni sui turbinosi vortici dell'atmosfera.

Erano le due di notte ed il turno di fazione spettava ad uno sbandato d'aspetto malaticcio, il quale durante la campagna del 1860, nella pianura sottostante a Gioja, aveva preso le febbri miasmatiche, che per non essersi mai a sufficienza curato, spesso gli ritornavano.

Questo sventurato appunto allora era affetto da febbre, ed accusava questo suo malore, affinché il sergente capoposto lo sostituisse con altro, chiedendo la di lui muta di guardia.

Il sergente però si mostrava incredulo al male, e si opponeva a che quel disgraziato potesse ottenere la richiesta surroga; era. un vecchio bassoufficiale piemontese poco o nulla tenero di cuore, e che invece di soccorso dava di plandrone (1) a quel disgraziato.

Il povero soldato barcollava pel tremito febbrile che gli aveva invaso le membra, e sempre più si raccomandava al capoposto di non volerlo mandare in quello stato e con quel tempo indiavolato a fare la sentinella; — diceva.

—Se vado così come mi sento a montare in fazione, quando verrete a darmi la muta mi troverete morto.

Ma il sergente ostinato nella sua inumanità gli rispose in tono secco:

—O montare la sentinella o andare alla prigione per insubordinazione. —

Il meschinello militare era dubbioso nello abbracciare l'uno dei due mali, che gli venivano offerti da uno spietato superiore; gli rincresceva tanto il morire, quanto lo andare a Fenestrelle.

Poveretto! Egli ancora aveva i suoi affetti che lo legavano ad una esistenza di appena 25 anni ed in pari tempo gli era caro vivere onorato.

—Che aggio a fà — diceva con voce tremola e piagnolenta.

(1) Plandrone, in dialetto piemontese significa poltrone.

Squillace allora destatosi, fortunatamente per quel soldato, capì di che cosa si trattava, e fece presto a farsi una chiara idea della cantonata presa dal capoposto, onde, convinto siccome era, che quel soldato fosse realmente ammalato, volle risolvere la vertenza offrendosi egli in luogo del febbricitante compagno per fare le due ore di sentinella.

Il sergente brontolando acconsenti, il caro Squillace se ne andò nella garetta della S. Barbera a contemplare ancora gli orrori della natura irata, ed il povero ammalato si ributtò sul pancaccio, dove peggiorò in guisa che l'indomani poco mancò che una perniciosa lo mandasse all'altro mondo.

È facile il giudicare, che fatti di tanta filantropia bastassero da sè soli perché tutti i camerati di Squillace gli fossero affezionati e lo ritenessero per un essere a loro superiore.

Volere o non volere, in quella circostanza aveva salvato la vita ad un suo compagne, e tolto il crudele capoposto da una grave responsabilità.

Udito con sentimento d'ammirazione il racconto di questo episodio, convenni ancora io con Santomena che il caporale Squillace doveva essere stato sempre un eccellente militare, e un uomo di cuore.

A tali parole la mia ordinanza mi soggiunse avergli detto lo stesso Squillace che nel 1860 in Sicilia egli aveva confabulato con me, cosa che avrebbe voluto più volte rammentarmi ma che fino ad allora non si era mai arrischiato di fare.

Io andai ripensando dove avrebbe potuto trattare con me colui, che in Sicilia faceva parte delle schiere nemiche, e per quanto andassi rovistando nella mente per quel giorno non mi riuscì raccapezzarmi.

Alle ore 5 del mattino del 23 luglio da Solopaca ci ponemmo in cammino per Campobasso, designando il paese di Morcone come luogo di grand'alto; e siccome il capitano Dimier si era proposto di fare ivi una sosta di almeno due ore, fu stabilito che appena fossimo giunti a Morcone avremmo fatto fare il rancio per la truppa.

Questo nostro itinerario era subordinato alla condizione (poco, o punto difficile) di non trovare il paese invaso dai briganti, che se questo caso non nuovo si fosse dato, bisognava prima fare sloggiare quei malandrini, eppoi pensare alla necessaria refezione.

Tali erano allora le condizioni politiche di quella provincia; gli opposti partiti, liberale e borbonico, disputavansi il dominio della situazione, e malgrado la tollerata monarchia del Re Vittorio, da un momento all'altro briganti e popolazioni facevano causa comune fra loro, allo scopo di restaurare il soppresso trono di Francesco II.

In tale circostanza guai ai liberali ed ai soldati italiani che si fossero trovati ivi presenti; non se ne sarebbe salvato uno solo, gli avrebbero accoppati tutti.

Ciò nonostante in parlamento si gridava la croce addosso al governo italiano per le misure di rigore adottate nelle provincie meridionali, e non erano sempre i deputati clericali quelli che protestavano contro; qualche volta erano invece gli uomini politici della così detta sinistra storica.

Ci ponemmo in cammino nello stesso ordine del giorno avanti con la variante che allora marciavamo avendo la sinistra in testa.

In quella seconda tappa l'onore della avanguardia toccò alla compagnia da me comandata e che disposi come il regolamento prescrive.

Io marciavo al mio posto, cioè al centro del nucleo con la mano sinistra appoggiata sul calcio del revolver e con la destra tenevo i miei canocchiali da campagna per meglio esplorare i dintorni, e tutto quanto precedeva la mia sorveglianza; intanto per rompere la monotonia di quelle ore lunghe di cammino, feci chiamare presso di me il caporale Squillace (divenuto oggimai protagonista del mio racconto) col quale ebbi il seguente dialogo.

— Dunque voi — gli dissi — mi avete conosciuto in Sicilia nell'anno 1860?

— Sissignore — rispose — e mi ricordo benissimo che ebbi da lei regalato un mazzo di sigari.

Allora lo squadrai meglio e mi accorsi in confuso che una simile fisonomia l'avevo riveduta in un' epoca lontana, ma erano ormai passati due anni e non era facile il ricordarmi dei particolari di quella conoscenza di pochi istanti.

Squillace allora, vedendomi lontano dal rammentarmi distintamente di lui, mi ritornò alla memoria la resa del forte di Milazzo, ed un mazzo di sigari, che io regalai ad un soldato borbonico, mediante una funicella che questi mi aveva calata dagli spalti del forte.

Mi fu facile allora il sovvenirmi completamente di lui.

Infatti nel 1860, allorché feci tutta la campagna delle Due Sicilie, mi trovai alla capitolazione del forte di Milazzo.

In quella brillante guerra fatta da Italiani già liberi contro Italiani mistificati da un potere autocratico, io tenni per qualche tempo il comando dell'ottava compagnia del primo reggimento Cosenz, sebbene fossi semplice sottotenente.

All'alba del giorno in cui avvenne la sanguinosa battaglia di Milazzo, il mio reggimento era a Cefalù, e quella stessa mattina era dietro ad imbarcarsi su tante paranze (1) per poi far vela verso la rada milazzese.

Ed infatti, navigando pel piccolo mare che precede la lunga costiera sud dell'istmo di Milazzo, alle 2 pomeridiane si avvertì in lontananza una rumorosa eco di forti detonazioni, che giungeva fino a noi sulle ali di un maestrale che allora appunto aveva incominciato a spirare.

— Senza dubbio — dissero i più di noi — avviene adesso un qualche fatto d'armi fra le milizie regie e la divisione Medici che per la via di terra ci aveva di qualche giorno preceduti nella partenza. —

Addatosi in eguale giudizio il nostro colonnello, signor

(1) Parante, così si chiamano alcune grosse barche a vela ed a remi.

conte Fazioli, ordinò ai marinai che si effettuasse lo sbarco al primo scalo che si fosse presentato, poiché, causa il vento contrario, per la via di mare saremmo giunti troppo tardi sul campo dell'azione.

Infatti nel piccolo seno che si trova a poche miglia prima di arrivare all'altezza di Barcellona, quanto più sollecitamente si potè, effettuammo lo sbarco in circa milleduecento uomini.

Di scesi a terra, ci dirige. mmo a passo di corsa verso Milazzo procurando il più che ci era possibile di poter giungere in tempo di prendere parte alla pugna, cui sempre più formidabile ci pronunziava il crescente fragore delle artiglierie borboniche.

Ma avevamo perduto troppo tempo nello sbarcare atteso la ristrettezza dello scalo, e malgrado la nostra mai interrotta corsa, più propria di cavalli che non di fantaccini, giungemmo sul teatro dell'azione verso un'ora di notte, allora appunto quando di pochi momenti aveva avuto termine la titanica pugna.

L'indomani mattina, dopo un'intera notte di all'erta, io riconobbi tutto il lusso di stragi, che nel giorno decorso aveva signoreggiato su quella angusta lingua di terra.

Scorsi alcuni dei garibaldini con i pantaloni intrisi di sangue umano, che con la tela di quelli avevano forbite le esiziali baionette; avvertii inoltre le tante guise con cui si scavava il terreno per inumarvi cataste di deformati cadaveri.

E qui armi spezzate nella zuffa, e là ruote di cannone troncate o tolte dagli affusti, e muri forati a guisa di feritoie, e piante di fichi d'India abbattuti o potati dalla mitraglia, apparivano ovunque come i più sicuri segni del lìero contrasto e dell'accanita tenzone.

Quel giorno, in cui mi fu concesso per la prima volta di ammirare i resti di una sanguinosa battaglia, era giorno di tregua per ambo le parti belligeranti.

Il mio reggimento, per essere di poco arrivato ed intatto, prese posizione in prima linea dirimpetto al nemico, il quale in quella stessa sera abbandonò il paese, e si ritirò nel castello fortificato.

È cosa naturale che dopò un serio fatto d'armi, ciascheduno indaghi se i propri parenti o i più stretti amici abbiano subito danno, ovvero sieno rimasti incolumi: per questa ragione ebbi premura di domandare ad alcun i del battaglione Malenchini (composto di soli toscani), se mio cugino Rodolfo DeWitt, uno dei mille di Marsala, era rimasto salvo o no.

Per un equivoco, causato dalla più accentuata somiglianza, mi fu risposto che trova vasi alla prossima città di Barcellona gravemente ferito: corsi tosto in quella località, e per rintracciare il prelodato parente (che non solo era sano e salvo, ma nemmeno erasi trovato a quel fatto d'armi) mi occorse visitare tutti gl'improvvisati spedali o ambulanze di quella città.

Bisognava trovarvisi per potersi fare un'adeguata idea di tutte le chiese barcellonesi rigurgitanti di feriti garibaldini.

Mutilati e mutilandi, e moribondi guerrieri che avevano volenterosi sacrificato le giovani esistenze sull'altare della patria, (spesse volte ingrata) avevano soltanto essi potuto ottenere il privilegio di un letto di tormenti o di morte.

ché poi, giovanetti di appena 16 anni dalla bianca uniforme del reggimento Duun, uomini so tto la trentina del battaglione Gaeta dalla blouse color rigatino, volontari di Malenchini parimente vestiti di rigatino, «picciotti siciliani dalla camicia rossa, tutti fase iati alla meglio ed in vari modi malconci dai projettili si movevano indolenziti per le corsie delle chiese, macchiando con spesse emorragie di sangue le bianche fascio, che il solerte servizio della borghese ambulanza aveva loro applicate.

Non vi erano giacigli bastevoli per tutti i feriti, e bisognava attendere la morte dei più incurabili per offrire agli ultimi ricoverati l'eredità di un letto di dolore.

Ciocché mi fece più senso, fu l'assistere all'amputazione della gamba sinistra fatta ad un uomo sulla quarantina, che mi si disse essere un maggiore; costui subì quel lungo martirio senza mandare un lamento, ma per lo spasimo represso trinciò coi denti un lembo del lenzuolo.

Quando poi vidi una giovane e leggiadra infermiera che singhiozzando chiudeva a morte le semispente pupille di un volontario (forse a lei non indifferente in altri tempi d'amore) maledii la guerra con tutte le sue pompe di gloria.

Noi garibaldini del 1860 eravamo andati in Sicilia con quattro quinti di probabilità di non tornare più a casa; bisognava allora o vincere o renunciare al proprio paese, ché se la spedizione di Garibaldi avesse abortito in quell'isola, non sarebbe altrimenti stato possibile il nostro ritorno in terraferma, e con molta probabilità le isolette di Lipari e di Pantelleria, nonché i sotterranei di Gaeta ci avrebbero per sempre coercitivamente ospitati, quando non fossimo stati passati per le armi.

Col borbone non si scherzava!

Tale apprezzamento, nonché il santo prestigio, che eser. citava su di noi il nome di Garibaldi, di ogni volontario ne facevamo un vero soldato, che giocava tutta l'intiera sua sorte in quella difficile e pericolosa spedizione.

Per tale medesima ragione nella giornata di Milazzo su quattromila combattenti di parte garibaldina, ne rimasero oltre settecento fra morti e feriti.

Così immenso olocausto di vite non ha riscontro nella storia delle patrie battaglie.

Ma tali e tanti eroismi e si gloriosa copia di sagrifizi di sangue non avevano ancora recato alcun vantaggio reale alla causa della libertà di Sicilia.

Se non si prendeva in qualche modo la rocca o non si facevano da lì sloggiare tutte le milizie regie, poco o nulla si era ottenuto, perché sarebbe stata imprudenza per noi, il proseguire la marcia verso Messina, lasciandoci un punto fortificato ed una divisione nemica alle nostre spalle.

Ma come fare ad assediare un forte, che era difeso da 15 cannoni fra grossi e piccoli e da qualche migliaio di agguerriti soldati ormai ubriachi per una vittoria cedutaci a così carissimo prezzo?

Come se l'esercito garibaldino non aveva un solo pezzo da assedio?

Il generale Garibaldi non aveva. artiglierie vere e proprie (meno due piccoli cannoncini a mano) ma aveva con sè il genio della guerra che lo rendeva invitto.

Seguivano la di lui fortuna, quelle dell'intiera Italia e della dinastia predestinata, ed il valoroso dittatore che a nome della nazione italiana risorta a libertà, inalzava in Sicilia il tricolore stendardo, ove era scritto Italia una con Vittorio Emanuele suo Re, non doveva cedere ad alcuna difficoltà.

E non erano forse gli angioli della giustizia e della vittoria, quelli che lo guidavano al trionfo?

Unico per gli espedienti nei casi più disperati, siccome era il grande guerrigliero nizzardo, trovò egli il modo di fare arrendere l'approvvigionato castello senza un solo colpo di cannone.

Ecco come fece.

Coi rinforzi che gli erano arrivati, cioè 1°, 2° e 3° reggimenti Cosenz, ed un battaglione picciotti (milizie tutte quali fece trincerare avanti il forte, utilizzando ogni accidentalità del terreno) rese impossibile ai borbonici qualunque ulteriore sortita, e dopo di ciò diede ordine che una quantità di garibaldini provveduti di pale e marre, scavassero un cammino coperto che incominciato a ponente del promontorio sopra del quale era situata la rocca, doveva poi mediante un tunel raggiungere la linea del najadir di quella, per ivi far posto ad una potente mina destinata a far saltare in aria il castello ed i suoi difensori.

Il generale comandante quel presidio borbonico, accortosi del brutto giuoco che gli si voleva fare da Garibaldi, non appena fu posto mano ai primi lavori di approccio, tentò tosto una sortita di truppa coll'intenzione di sventare le mire del condottiero del popolo.

Ma a ciò fare i battaglioni borbonici dovevano necessariamente passare per l'angusta via centrale, che dal paese è la sola che comunichi col forte, e sulla quale appena in quattro righe avrebbero potuto avanzarsi.

Infatti quando il primo battaglione ebbe fatto capo in quella via fiancheggiata da fitti casamenti, noi, dalle tante finestre e dalle diverse porte di quelli, aprimmo contro di loro un fuoco di moschetteria, cosi vivo, e nutrito a segno tale, che furono costretti a rientrare nella ròcca la quale per essere quasi a picco su di noi non poteva recarci alcun danno con i suoi cannoni.

Riuscitogli impossibile il. tentativo di sortita, il supremo comando delle forze borboniche incominciò ad avanzare trattative di resa, che durarono per tre giorni ancora.

' In questo frattempo, unitamente ad altri ufficiali e militi del mio reggimento, mi aggiravo sotto gli spalti di quella fortezza.

Alcuni soldati borbonici vennero a guardarci dalle troniere, da dove pareva che ci dirigessero delle parole che non potemmo comprendere; noi facemmo vedere loro alcuni mazzi di sigari invitando quei militi di venire a prenderli. Alla fin fine ancora essi erano italiani e se ci fosse riuscito tirar loro dalla parte nostra si sarebbe risparmiata molta guerra civile.

I più di quei militi ci rispondevano con dei veri sgarbi, alcuni pochi invece ci protendevano le braccia come se avessero voluto farci capire che volentieri avrebbero mutato bandiera.

La mattina susseguente io mi trovavo in quei pressi insieme al sottotenente Bettazzi di Lugo, quando ci accorgemmo che un soldato borbonico ci faceva dei cenni che ne invitavano a portarci sotto gli spalti, ove egli era senza alcuna arma da fuoco visibile.

Intantoché il Bettazzi sorvegliava se altri soldati fossero sopraggiunti con fucili, io mi avvicinai guardingo verso il punto dove trovavasi quel soldato.

Traversai la specie di fosso sottostante alla rocca, ed accostatomi a lui vidi che mi aveva calato una funicella in cima alla quale era attaccato un piccolo envelop; tosto mi accorsi di che si trattava ed alzatomi sulle punte dei piedi, potetti afferrare la piccola fune per togliere da quella un biglietto.

In quel pezzo di carta ripiegato alla meglio, erano scritte con lapis queste precise parole — Siamo circa quaranta che aspettiamo la prima occasione favorevole per disertare e venire con voi — Viva Garibaldi. —

Io dal canto mio gli risposi evviva, e legato alla cordicella un mazzo di sigari che teneva nella sacchina di cuojo, (mio unico bagaglio in quella lunga campagna) me ne ritornai dietro i nostri naturali trinceramenti, che erano i primi casolari che s'incontrarono appena sortiti dal forte.

Nel traversare quel tratto che" mi separava dal Bettazzi, non so come, una sentinella potè sborniarmi, e sebbene lontanuccia mi volle far fuoco addosso, però senza re. carmi alcun male.

Il lettore avrà già capito, in seguito a così lunga digressione, come il milite che aveva scritto quel biglietto fosse stato lo stesso Squillace, il quale due giorni dopo, vale a dire, quando si arrese il forte, venne nelle nostre file, e deposta la esecrata uniforme del soldato borbonico, insieme ad altri quaranta disertori, indossò la gloriosa camicia del volontario di Garibaldi.

Ed ecco come era accaduto, che la parola Milazzo, ed il ricordo di un mazzo di sigari mi avevano fatto completamente sovvenire della momentanea conoscenza che in modo così romantico avevo avuto la fortuna di fare col caporale Squillace.

Tale circostanza venuta a mia cognizione, mi fece prendere ancora più vivo interesse per questo mio sottoposto e per dimostrargli, che i sigari donatigli in Sicilia non sarebbero stati gli ultimi, che io mi proponevo di offrirgli, lo pregai di accettare ancora qualche altro Cavour, di cui mi ero a sufficienza provveduto in Napoli.

Egli ne accettò uno solo, e nel soffermarsi ad accenderlo, emise un lungo sospiro.

Capii da questo e dall'assieme della sua fisonomia che una occulta passione doveva tenere il dominio della di lui anima;

egli dal canto suo, penetrante siccome era, si accorse che avevo di già compreso il triste avvicendarsi dei suoi mesti pensieri, onde ideò rivolgermi privatamente una preghiera, per la quale, con le regole di disciplina, avrebbe dovuto prima chiedere di essermi presentato a rapporto.

Infatti, con squisita gentilezza nelle espressioni, cosi mi disse: — Signor tenente, giacché ella é tanto cortese verso di me, oserei di chiederle un segnalato favore.

—Dite quale — risposi. —

—Il favore sarebbe quello — riprese Squillace — di farmi ottenere dal signor maggiore un mese di permesso.

Promisi di fargli un tal piacere, o molto più che ne era meritevole atteso la sua irreprensibile condotta, ma prima di risolvermi ad impegnarmi per tale affare, volli conoscere il perché costui era così ansioso di avere un mese di licenza, appena arrivato al suo nuovo destino.

Da altra parte in quella difficile epoca ognuno di noi doveva moltiplicarsi, poiché al nostro arrivo in Campobasso si difettava di personale in modo, che nelle carceri di quella città, dove erano rinchiusi millecinquecento detenuti fra briganti e reazionari di Isernia, rimasero di guardia per otto giorni continui i musicanti del nostro reggimento, a cui invece di strumenti furono consegnati di buoni fucili, e peri quali soldati veniva fatta preparare la zuppa dallo stesso colonnello conte Mazé de-la Roche, che per amore del suo paese faceva da ranciere.

Squillace allora obbligato a farmi conoscere tutta la ragione che gli faceva avanzare tale domanda, fra il confuso ed il dubbioso mi rispose in questa guisa:

—Signor tenente, perché ella potesse farsi una adeguata idea di quanto mi interessi il tornare a casa, dopo sei anni di assenza, bisognerebbe che io le raccontassi una lunga storia, che quando non l'annoiasse lo metterebbe di cattivo umore.

In così dire quell'uomo eccitabilissimo si faceva rosso in volto.

—E che storia? — gli domandai.

—La storia del mio passato — replico egli.

Ebbene raccontatela pure che vi prometto di non annojarmi  né di rattristarmi — Ancora io so già qualcosa della sventura!

A tale invito così egli incominciò a dire:

—Sappia signor comandante (1) che sotto questa umile veste di semplice caporale si cela un gentiluomo, in tutta la estensione della parola.

Dipoi in tuono più sommesso così soggiunse.

—Non mi è rimasta altra consolazione in questo mondo all'infuori di una tale convinzione — indi riprese in modo vibrato.

—Ma questo gentiluomo che ella vede apparentemente sereno, senza un rimprovero da farsi alla propria coscenza, ha molto sofferto, e pur troppo soffre tuttora.

—Lo credo benissimo! — risposi io.

—Sì, riprese Squillace — io nacqui da benestante e civile famiglia di Castropignano nell'anno in cui venne alla luce un infelice, nel 1830.

Veda adunque che oltre essere robusto sono tuttavia giovane. Ebbene — Lo crederebbe lei? — malgrado ciò mi è di peso l'esistenza!!

— Ma perché? — domandai io.

—Perché lei dice?... — e qui dopo una angosciosa pausa di pochi secondi, durante la quale la di lui fisonomia rivelava con segni esterni la occulta lotta dell'animo suo.

—Vengo a spiegarglielo — soggiunse — con lungo racconto.

Ero felice ai miei 25 anni e me ne vivevo tranquillamente in patria, tramezzando le mie lucrose occupazioni coi più graditi ed arcadici passatempi.

Il giorno al mio ufficio di procuratore legale, la sera mi aggiravo solingo con la mia chitarra per i monti del castello natio, inviando note di pazza allegria alla luna, che era allora il mio unico ideale.

(1) Comandante perché comandavo la Compagnia.

Una sera, (sera fatidica per me) fra un tocco e l'altro che spensieratamente davo alle corde armoniche dei mio strumento, tutto ad un tratto il pallido viso di Cintia si velava di nubi.

A quella vista una improvvisa stanchezza mi assaliva tutta la persona, al punto tale che mi trovai costretto di adagiarmi fra i timi di un margine che era a me ivi presso.

Mi colse il sonno nervoso, uno di quei sonni ai quali non può mai rendersi del tutto ribelle la nostra volontà.

Ma non era il solito sonno mio quello, era invece un forte sopore che agiva su di me per forza di magnetismo e che dopo avermi vinto mi presentava in sogno un viso femmineo, cui credetti rubato al cielo.

Risvegliatomi dall'incubo magnetico giudicai tali paradisee sembianze siccome quelle di un Angiolo o di una ninfa, che sentisse gelosia del mio idealismo per Cintia.

L'effetto che produsse nell'animo mio quella momentanea visione, non posso spiegarlo con parole, vorrei in questo momento possedere i segreti di Paracelso o di Ermete per poterlo ispirare nella di lei mente.

Solo posso dirle che un'estasi sconosciuta, un dolce languore, ed illusioni del tutto nuove suscitava nel mio cuore la vista di quel serafico viso, che per due notti ancora si fece da me vedere.

Se per vedere cosi divina beltà io doveva attendere le ore del sonno, ella capirà bene, che erano divenuti eterni i giorni miei, e che tutta la rosea speranza della mia vita in quel breve periodo, si compendiava nella sonnifera notte.

Quando l'upupa cantava, io invocava l'amica dei sogni miei, come il più appassionato africano avrebbe a sè chiamata in giorno di nozze la diletta Asica (1).

(1) Asica, vergine araba che mai avvicinò uomini e rimase sempre velata sul viso, e rinchiusa fino al giorno del di lei imeneo. Vedi costumi moderni dell'Egitto.

Ma decorso il terzo giorno la visione mi lasciò, e per più fiate io Fattesi invano, ché le mie notti ritornarono buje ed i miei sogni strampalati.

Indispettito allora da ciò, stimai l'accaduto un'allucinazione, e spezzato lo strumento, al di cui suono erasi suscitata in me tale fantasmagoria, per fiera reazione di animo, decisi di consacrarmi a più marziali distrazioni.

Da allora in poi la caccia di aspetto al cinghiale, e la pesca nei più rapidi e vorticosi fiumi, cui sovente tagliava col mio audace nuoto, occupavano una gran parte delle mie ore di svago, e nessuna idea amorosa infirmava la mia fantasia, malgradoché il vecchio padre desiderasse il mio matrimonio con una ricca ereditiera di Frosolone, la quale, per quanto dimostrasse inclinazione verso di me, pure non mi fu mai possibile il potere amare.

Fino a quell'età l'animo mio era sempre vergine di gentili affetti, e trovavo nella donna non il fine, ma il mezzo.

Nonostante sentivo in me il prepotente bisogno di una affezione nuova, e che non fosse quella di parentela, ma dopo l'accadutami visione tutte le fanciulle, ancora le più leggiadre, mi erano divenute antipatiche.

Venne però il giorno in cui il fato mi fece incontrare colei, che doveva sconvolgere tutta la mia esistenza!

Un bel dì, non so ancora se infausto o avventuroso, io mi trovavo nel mio giardino dove era solito dare la caccia alle variopinte farfalle, di cui stavo facendo una pregievole collezione.

La più graziosa che io mai abbia visto, di colore biancastro, e tutta punteggiata di globuletti d'oro, mi trascinò col suo irregolare volo presso una siepe viva di bossolo, che divideva il giardino di mio padre da quello del Duca di Castropignano.

Volevo prenderla, ma la farfalla aveva varcato la siepe, onde nello sporgere la mia mano per afferrarla mi incrociai con altra bianca e morbida manina di donna, la quale facendo prima di me prigioniero il malizioso animaletto, con voce fra lo stridolo e l'armonioso così esclamò: è mia, e mia...

Quella vocina, non so il perché mi scese soavemente al cuore interessandolo intieramente, mi pareva di averla già udita fra i vagiti della prima infanzia inneggiare con me ai piaceri di una vita futura, onde fattomi sostegno al piede col ceppo di una di quelle piante della siepe, mi sollevai tanto da terra quanto era necessario per potere scorgere chi l'aveva proferita.

Si immagini lei — disse Squillace con accento tutto emozione — chi era mai la giovane 'che si trovava in quella guisa a me vicina?

Era quella stessa ed identica faccia che aveva per tre volte veduta in sogno: seppi di poi essere la unica figlia del Duca di Castropignano, nemico giurato di mio padre, la quale a soli diciassette anni era stata levata dal convento di S. Chiara di Napoli, ove da piccola bambina fu messa in educazione.

A questa tanto lusinghiera, quanto inesplicabile coincidenza di un sogno estatico con una poetica realtà, la mia pace se ne andò un'altra volta.

Cominciai a fantasticare sul perché quel medesimo viso mi era apparso in sogno, o sul come la rara farfalla col di lei volo mi aveva trascinato verso qu ella vaporosa angioletta delle di cui mani preferì essere la fortunata ostaggio.

Insomma pensavo in quel momento alla stranezza delle cose che mi accadevano, e vi ravvisavo un capo fatale della avviluppata matassa del mio destino, che sentivo essere presso a cambiarsi.

Dopo pochi istanti di simili riflessioni volli essere cortese di convenire con la duchessina che la farfalla doveva essere sua per due ragioni, la prima perché era entrata nei suoi domini, la seconda perché ella era stata più svelta di me nell'acchiapparla.

Soggiunsi di poi che se la signorina desiderava avere altre magnifiche farfalle, io mi sarei creduto assai onorato di oftrirlene una discreta quantità.

L'amavo già tanto che le avrei donato fin la speranza di rivedere in altra vita la mia defunta madre!

Così disse Squillace asciugandosi due calde lacrime, eppoi in tal modo riprese. —

Quella giovinetta di un'angelica beltà che rassomigliava meglio ad una apparizione celeste, anziché ad un essere vivente, alle mie parole si colorì in viso, e con voce commossa mi ringraziò, offrendomi in contraccambio della mia esibizione una magnifica cardenia che teneva in seno.

Io accolsi colle mie mani quel fiore pazzo di giubbilo. — Era il primo dono che ingentiliva l'animo mio!

Intanto la nobile e pur vezzosa fanciulla accennava a ritirarsi, mentre io mi rimanevo estatico nel contemplarla, ma fatto da lei appena il primo passo, come se una reminiscenza o una sopraggiunta idea la richiamasse indietro, si rivolse di bel nuovo verso di me, e con voce d'incanto sì mi disse:

—Ma io lei l'ho riveduto... lo conosco già... noi ci siamo incontrati... non mi rammento bene dove, ma ci siamo ritrovati di certo... — ed in così dire a frasi rotte, un convulso battito del seno le scompaginava le pieghe della elegante veste.

Non spiego come, — riprese con forza Squillace — non so se fossero diavoli dell'inferno o santi del paradiso quelli che mi ispirarono, ma l'idea che ancora essa mi avesse veduto nei suoi sogni, mi balenò tosto alla mente, onde fattomi animo così le risposi:

—Signorina potrebbe mai essere possibile che mi abbiate veduto nei vostri sogni?

Ella allora sorrise, mi guardò meglio, si fece smorta smorta in volto, e se ne partì da me abbandonandomi ad un interminabile affetto.

A questo punto io scrivente interruppi il romantico narratore, e gli domandai se quella damigella era sempre vivente.

—Altro se vive — mi rispose Squillace — Iddio voglia che muoja dopo di me, altrimenti sarei costretto di uccidermi.

—Ma dunque amate tuttora questa fanciulla — così lo interrogai.

—Ella ormai è maritata!! — rispose Squillace tutto sconfortato. — Nonostante chi potrei amare io in questo mondo, se non la memoria del suo candore, ed i più bei ricordi di un amore infelice!

—E sia — gli risposi io.

Di poi così soggiunsi.

—Questo vostro romanzo mi interessa assaissimo, e voglio che me lo raccontiate per filo e per segno e nelle sue più minute circostanze durante il resto della marcia che dovremo fare insieme.

In questo frattempo essendo arrivati a Pontelandolfo dove avevo ordine di fare un piccolo alto, feci serrare le righe, richiamai i fiancheggiatori, e Squillace tornò al suo posto, cioè in serratile del primo plotone.

Sì, eravamo a Pontelandolfo, in quel piccolo paese di circa tremila anime, dove poco tempo prima erano rimasti vittime dei briganti un ufficiale e quaranta soldati del nostro reggimento.

Quei bravi militi, sorpresi da una banda di circa 200 briganti, mentre erano in perlustrazione sulla via di Morcone, opposero una accanita resistenza, e mantenendo un efficace fuoco di ritirata, si diressero a Pontelandolfo, sperando che colà giunti la guardia nazionale sarebbe accorsa in loro ajuto.

Ivi ripiegatisi, trovarono invece quel popolaccio in completa reazione, e furono presi a colpi di sasso dalla inferocita plebaglia, che al grido di viva Francesco secondo aveva lì per lì sposato la causa dei briganti.

Ritiratisi quei militi in una collinetta molto vicina al paese, formarono un gruppo di difesa, e tennero per molte ore a rispettosa distanza quella canaglia di alleati, proseguendo un continuo fuoco di fila e facendo di tanto in tanto delle scariche di riga contro di loro, ma quando ebbero finito i sei pacchi di cartuccie che ogni soldato teneva presso di sè, sopraffatti dal numero e diradati nelle file dai spessi projettili dei briganti, furono tutti, uno dopo l'altro, miseramente trucidati.

Quella mezza compagnia di eròi era comandata dal valoroso luogotenente Bracci di Livorno, che mori al suo posto con la spada in pugno.

Due giorni dopo questo atroce misfatto della reazione brigantesca, sopraggiunse in quella terra di ribaldi un battaglione di bersaglieri, comandato dal maggiore Bossi che era un esperto e valente ufficiale superiore.

Per la stessa via da noi percorsa, ivi arrivata in fretta ed in furia la vindice schiera, trovò, che i briganti si erano già di molte miglia allontanati, ed il paese deserto.

Le porte e le finestre delle case erano ermeticamente chiuse, e non una sola persona s'aggirava per le silenziose contrade.

Due sole finestre si spalancarono e furono quelle dell'unica casa appartenente ad una famiglia liberale, la quale, durante l'invasione dei briganti aveva subito molti dispetti, e corso serio pericolo della vita.

Quei signori avevano dovuto barricarsi entro la propria abitazione, nelle di cui pareti esterne avevano fatto praticare diverse feritoje, dalle quali facevano un micidiale fuoco addosso a chiunque dei rivoltosi avesse osato avvicinarsi alla porta d'ingresso.

Muniti di eccellenti carabine, che caricavano a pallottole spezzate in quattro quadrelloni, si erano messi ciascuno di essi dietro una feritoja, e così con i più fidi famigli erano in dodici i difensori di quella casa, il di cui incendio era stato indarno tentato dai reazionari.

Penetrarono alfine nell'interno del paese i bersaglieri italiani, tanto sospirati dai pochi liberali, ed il popolaccio che aveva unito la sua sorte a quella dei nemici della patria, ormai da assediante era divenuto assediato; questa volta toccò a lui l'intanarsi nei suoi luridi tuguri.

I due fratelli Lo-Russo che erano i ricchi proprietari della casa fatta segno all'ira antiliberale di quella popolazione, si sentirono sollevare nell'avvertire il suono delle trombe che annunziavano prossime le tanto desiderate milizie, e dai spiragli delle feritoie,

dietro le quali notte e giorno erano rimasti vigili sentinelle, scorsero con gioia agitarsi all'aura i mobili pennacchi dei bersaglieri italiani.

Infelici, chi avesse mai detto loro, che il suono di quelle belliche trombe sarebbe stato per essi il lugubre preludio che doveva precorrere il loro immeritato eccidio?

Si fecero entrambi quei sventurati a spalancare le finestre onde acclamare le truppe liberatrici.

Vedi crudele fatalità?!

I bersaglieri prendendoli per reazionari, che avessero in animo di far fuoco contro di essi, con dei bene aggiustati colpi di carabina gli uccisero tutti e due, e così quegli infelici martiri della patria da chi speravano salvezza ebbero morte.

A tanto marcata maledizione che colpiva quelle vittime ed a tale jattura, le spose, le sorelle, e la vecchia madre di quelli, con le chiome sparse sugli omeri, scesero nella via, ed inginocchiatesi avanti il maggiore, con voce interrotta dal pianto gli fecero palese il tremendo equivoco.

Quelle infelici donne, rese furibonde dal più acerbo ed improvviso dolore per tanta perdita = Noi siamo colla nazione — gridavano = non ci uccidete ancora i nostri piccirilli, che noi siamo stati sempre con voi = Ed in cosi dire pianto dirotto e riso convulso misto allo strapparsi di capelli.

Era purtroppo vero che quella patriottica famiglia aveva sempre parteggiato per la buona causa italiana.

Il maggiore Bossi, accertatosi di ciò e penetrato del fatale inganno, si fece con bel modo a consolare le derelitte, e ricondottele in casa, avanti i cadaveri dei due sventurati fratelli, ordinò ai suoi sottoposti l'incendio e lo sterminio dell'intero paese.

Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione.

I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gl'impauriti reazionari dell'ieri, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette di scendere per la via,

ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro.

Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati di prendere ogni specie di strame per incendiare con quello le loro stesse catapecchie.

Questa scena di terrore guerresco durò una intiera giornata; il gastigo fu tremendo ma fu più tremenda la colpa.

Facemmo una piccola sosta sopra un altipiano che si trova dirimpetto a Pontelandolfo, questa volta però molta gente venne ad incontrarci, e mi fu dato osservare che  le più erano donne tuttavia vestite in lutto; a quella vista pensai, che le nere vesti di quelle femmine orbate di spose o di fratelli formavano un tetro accozzo con le pareti delle case ancora affummicate pel consumato incendio.

Da Pontelandolfo a Morcone giungemmo in poche ore, ed erano appena le undici del mattino, quando ci venne incontro il maresciallo dei carabinieri, per avvertirci che poco o nulla potevamo fidarci di quella popolazione, la quale ei ci asserì essere invasa da manifesto spirito reazionario; di più ci raccomandò di non fare avvicinare i soldati a quei popolani se non volevano avere delle diserzioni dei fatti di sangue isolati a carico di qualche milite sorpreso alla spicciolata.

Questo salutare avviso della benemerita arma indusse il capitano a far bivaccare la truppa in una piazza che si trova prima di entrare in paese, ed a mettere una buona guardia all'uscita di Morcone con. la consegna di non far da quella sortire borghesi nò entrare soldati durante il tempo del nostro grande alto.

Fra i brontolìi del sindaco e di altri della borghesia morconese, che erano venuti a pregarci di entrare pure liberamente, cosi fu irrevocabilmente stabilito, ed ottenuti viveri per fare il rancio, dopo due ore di allegro bivacco, ci rimettemmo in cammino alla volta di Campobasso.

Gli sbandati avevano fatto un cambiamento in meglio da sbalordire; nessuno di loro esternò più il minimo segno di scontentezza e marciavano baldi come vecchi legionari romani.

Durante queste ultime ore della nostra marcia Squillace mi raccontò tutti i più minuti particolari della sua vita romanzesca, mi informò circostanziatamente e delle peripezie sofferte, e dei momenti di gaudio, che aveva a lui procurato una tale passione.

Mi citò circostanze e nomi, che mi fecero restare sbalordito, e mi mostrò alcune lettere ed altri pegni d'amore scoloriti dal tempo e consumati dai baci.

Se dovessi qui ripetere alla lettera tutto quanto mi narrò in dieci ore di marcia l'appassionato Squillace, dovrei fare costare il mio lavoro di almeno mille pagine.

Furono dei lunghi e particolareggiati racconti dettati da una mente innamorata alla follia, furono bizzarri episodi di un'esistenza battuta dai fati.

Io nel riconoscere in quell'umile caporale un carattere fermo e nobile ed un'anima espansiva, penetrante e sensibile, nonché una vasta coltura letteraria, lo esortai a calmarsi nella sua passione amorosa, e dedicarsi piuttosto alla carriera militare, ove ero certo che avrebbe fatto una splendida riuscita.

A tale esortazione egli così mi rispose:

— Signor mio, nell'armata borbonica io fui più volte retrocesso dal grado, o per troppa vivacità, o per avere esternato sentimenti di patriottismo — brutto difetto in quei tempi — e posso dire che se non fossi stato ritenuto per un cospiratore ed avessi potuto fingere o mascherare le mie convinzioni politiche, a quest'ora sarei stato un vecchio ufficiale; ma cosa importano a me i gradi, cosa l'avere una brillante posizione in società, se non mi è dato ottenere il solo oggetto dei miei desideri!

Io non ho alcuna ambizione — soggiunse Squillace — all'infuori di quella, che mi assicuri di essere in silenzio riamato da lei, e tale è tutto il bene che Iddio può concedermi in questa vita, al di là di questo, ogni altra cosa è nulla per me!

Poi riprese:

Veda, o signore, io non mi sono ancora ucciso perché non voglio abbandonare questa terra finché ella vi respira, ma posso assicurarla che nessuna lusinga mi offrono le seducenti attrattive della più brillante posizione.

D'altronde io era agiato e non lo sono più; ero felice ed ora sono immerso negli affanni, ero riamato e vidi possedere da altri colei che mi amò, a quale scopo adunque dovrei andare in traccia di lustro e di agiatezza?

Si, sono sventurato: ma ancora la sventura — soggiunse Squillace — ha la sua voluttà, ed il pianto dell'abbandono in amore, vale la gioja del trionfo quando una segreta voce ne assicura che l'anima di colei che si è amata è tuttora nostra.

Checcosa è mai il possesso materiale di un essere, che volga ad altri l'irrefrenabile pensiero?

Checcosa è mai un amore, quando è subordinato alla condizione o di titoli o di ricchezza, e di ibrida venustà di forme?

L'affetto vero è nato avanti di noi, ed a noi deve necessariamente sopravvivere!

E se si ammettesse che l'amore di un mortale verso di un altro, dovesse avere la sola origine, o dalla perfezione dei lineamenti, o dalle lusinghe dei gradi e della ricchezza, in questo caso egli sarebbe posto all'incanto nel quale rimarrebbe sempre aggiudicato a quell'offerente, che fosse meglio fornito di tali requisiti.

Ma questo tema produceva nell'animo di Squillace una certa eccitazione che gli si dipingeva sul volto, onde è che dopo essere rimasto qualche minuto pensoso ed a capo basso, con energici accenti così riprese:

— Si, vivaddio, sì!

Rimarrò povero per tutta la mia esistenza, e quando avrò finito la mia ferma di servizio, ritornerò in patria a lavorare.

Se ella mi ha veramente amato — mi disse Squillace con convinzione — ritenga pure che non mi dimenticherà per essere io divenuto misero, seppoi ha sempre finto un'affezione, allora tornassi pure come sovrano, sarei tuttavia mistificato dal cuore di una donna più mobile e leggera che non lo sia una piuma.

E se così fosse? — risposi io.

Se così fosse!? — riprese Squillace, guardandomi in modo come se avesse voluto rimproverarmi la spietata ipotesi — quando ciò fosse io saprei renunziare all'idea di essere riamato, ma non potrei adattarmi a non amarla più ed affezionarmi ad un'altra.

Povero caporale Michele mi faceva compassione, era un' anima ardente, gentile, e disinteressata, che aveva tutto sagrificato ad una donna cui unicamente amò del più casto affetto per tutta la vita.

Ma era un angelo o un'erinni questa signora?

Lo vedremo nei venienti capitoli, intanto sappiamo, che da due o tre giorni la speranza si era in Squillace rinverdita col di lui arrivo a Napoli.

Cammina, cammina eravamo presso al termine della seconda ed ultima tappa, e Campobasso, luogo della nostra nuova destinazione, si preannunziava a noi coi suoi vigneti e con i radi casini di campagna, che ci appari, vano e sparivano con tarda vicenda.

Avvertimmo in lontananza un attruppamento di persone che ci veniva incontro, le vedette mi mandarono a dire per mezzo di un soldato, che venne a noi a passo di corsa, essere alle viste un distaccamento di truppa regolare, io supponi che cosa poteva essere, e fatto fare alto all'avanguardia, mandai un altro soldato al capitano per informarlo dell'incontro; infatti il grosso del battaglione in pochi minuti ci raggiunse per formare con noi  una sola colonna su quattro righe.

Dopo brevi istanti giunse al nostro orecchio il suono di una fanfara militare che si partiva da. quel drappello, il quale pervenuto ad incontrarsi con noi riconoscemmo essere un mezzo battaglione del 36° nostro reggimento in testa al quale erano lo stesso colonnello e molti ufficiali.

In mezzo degli evviva all'Italia ed al Re fu fatto delle due colonne una schiera sola, ed al suono della bella gi gu gi entrammo in Campobasso alle ore 7 di sera.

Il capitano Dimier, che sebbene severo in servizio, nonostante era fornito di un cuore eccellente, non volle fare rapporto al Colonnello del tentativo di rivolta avvenuto prima di giungere a Solopaca, e dopo avere passato la parola a noi ufficiali, ed ai sottufficiali di non tenerne proposito con alcuno, si presentò al Colonnello, e colla sua solita franchezza, proprio di un vecchio soldato, cosi gli disse: — Perdurante la marcia nessun inconveniente. —

Egli mentiva, è vero, ma a Solopaca aveva promesso di perdonare tutti (ciocché non sarebbe potuto avvenire se egli avesse minimamente fatto menzione del fatto successo) onde piuttosto che vedere puniti alcuni di coloro ai quali per quel motivo aveva promesso impunità, rischiò subire una qualche punizione, se per caso l'accaduto si fosse potuto scuoprire.

Quella di Dimier, fu nobile, e se vogliamo pietosa bugia, che scongiurava tutti i funesti effetti del rigoroso intervento della disciplina nel deplorevole episodio!

D'altronde il contegno degli sbandati dopo la severa punizione inflitta loro, in modo talmente sommario, aveva dato a dimostrare che lo scandalo del primo grande alto, era avvenuto per nissun'altra ragione all'infuori della mollezza o pigrizia meridionale.

Forse alcuni pochi, e più specialmente quelli che in seguito disertarono per passare nelle file dei briganti, e che su seicento, non arrivarono mai al numero di quaranta, avevano in animo di promuovere una vera e propria rivolta in favore del brigantaggio e della reazione, ma il patriottismo e la buona indole dei più, resero inutile tale biasimevole tentativo.

Pochi curiosi di quella città erano a vederci arrivare, e quei pochi ci dimostravano la più fredda indifferenza, eppure eravamo andati colaggiù per difendere le loro persone ed i loro averi molto pericolanti.

L'illustre colonnello Mazé de la Roche, appena arrivati sul piazzale della caserma, ci fece fare un grande circolo intorno a lui, e dopo di ciò con poche, ma succose parole ne fece osservare, che grandi sacrifizi si aspettavano da noi il paese e la Dinastia, e che l'Europa civile si sarebbe fatto un bel concetto dei soldati italiani se fossero riusciti ad estirpare la cancrenosa piaga del brigantaggio ed a domare la reazione.

Fra gli evviva all'egregio ed amato colonnello furono rotti i ranghi.


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CAPITOLO III

Odio fra padri ed amore fra figli.

Se la bianca magia fosse tuttora conosciuta, e ad un novello Simone, riuscisse, far trasportare sulle ali spiritiche dei demoni, alcuncchessia da qui a Castropignano, quello aereo viaggiatore colà improvvisamente trovandosi, non crederebbe mica di essere nell'Italia meridionale, ma stimerebbe piuttosto di essere stato condotto a godersi la vita in uno dei più ameni angoli delia montuosa Svizzera.

Cielo purissimo, piante rigogliose, aere balsamico, ed accigliate rupi, che t'innalzano fino alla patria delle tempeste, formano del territorio castropignese il più poetico soggiorno.

Qui il fragore del Biferno (1) a cui fanno da chioma, miriadi di virenti ontani, ed il muggito delle procelle che si dipartono dal nevoso Matese, (2) imprime alla natura quel certo orrido-leggiadro, che ne dà a pensare.

Era terra del Sannio Castropignano, ed ivi prima delle forche caudine, i fieri sanniti seppero rintuzzare le vincitrici coorti, che dalla città eterna contro di loro movevano.

(1) Nome del fiume più prossimo a Castropignano.

(2) Nome di una delle più alte montagne che si trovano in quella provincia.

Oggi è piccolo capoluogo di mandamento, conta appena tremila anime, e vive di risorse produttive tutte locali, ché vigneti di stupende uve bianche fruttiferi, oliveti che somministrano olio non inferiore a quello di Nizza, e canapi e mèssi copiose, nonché innumerevoli armenti, che si arrampicano sui greppi di quella alpestre campagna, offrono agli abitanti, quasi tutti agricoltori, inesauribili fonti di ricchezza agricola.

In mezzo a quell'unica piazza che si trova in quel paese erano una volta tre secolari piante di quercie, al di cui intorno furono, molti anni addietro, praticati sedili e tavole di travertino che servirono dì poi a riunire nelle serate estive le classi elette di quel popolo.

Propriamente in quello stesso punto re Carlo di Angiò, famoso in guerra, nel sessantesimo anno del tredicesimo secolo ordinò ad uno dei suoi più agguerriti capitani di ventura, di organizzare una legione mista di italiani e francesi, per rivolgerla a suo tempo contro Manfredi di Svevia, che maledetto da Papa Clemente quarto, dopo che ebbe perduto il trono delle Due Sicilie, accennava di rivendicarlo colle armi.

Infatti alla sanguinosa battaglia di Benevento, dove il poderoso esercito 'di Manfredi, fece sforzi titanici per vincere l'importante giornata, la legione italo-franca, condotta dal battagliero De-Champs, fu quella che decise della vittoria di re Carlo e della disfatta dello svevo.

In benemerenza di tanto servigio, l'ipocrita angioino (1) investì De-Champs del titolo di duca di Castropignano, e gli donò vaste possessioni che per lo avanti erano appartenute alla manomorta, ed oltre di ciò gli conferì diritti feudali sulle campagne e paesi di Sepino e di Prosolone, quali da allora in poi vennero dichiarati terre tributarie di quel feudo.

(1) Ipocrita, perché mentre fingeva credenza religiosa era invece ateo.

In quell'anno stesso l'avventuriere De-Champs si fece costruire un comodo e merlato palazzo da feudatario di. rimpetto alle surrammentate piante, ed ivi si dette a godersi in santa pace quel ben di Dio, che gli era piovuto addosso dalla munificenza del Re conquistatore.

Da allora in poi ripudiò il suo vero nome, facendosi chiamare senza altro appellativo all'infuori di quello di Duca di Castropignano, ed apparso come tale nel gran mondo ed alla corte di Napoli, si mostrò sempre ligio, così al primo suo benefattore, come a quel monarca, che lo successe nel trono, lasciando ai suoi nipoti la vantaggiosa divisa di servire sempre i potenti.

Per tal modo durante jl periodo di trecentoquaranta anni, cioè dal tredicesimo al diciassettesimo secolo, i duchi di Castropignano, seguirono sempre la prospera fortuna delle dinastie dominanti, fossero Angiò o Aragona.

A quella casa ducale bastava il potere tosare di seconda mano i propri vassalli, ché poi rovinasse pure il mondo intiero, sempre nel di lei ereditario egoismo soleva trincerarsi.

Ma coll'andare dei secoli e col progresso della civiltà si abolirono le decime feudali, ed i diritti di fodero nonché mille altre simili porcherie furono soppressi siccome i più detestevoli avanzi del barbarismo.

Per tali ragioni, e sotto l'impero di una più giusta e civile legislazione, molti dei possessi feudali furono rivendicati dai comuni o dall'opera pia, ai quali enti mo» rali erano stati tolti senza le volute formalità, e così all'epoca cui si riferisce il principio del mio romanzo, cioè nel 1855 l'ultimo dei duchi, che aveva nome Carlo, se era ricco di blasoni e di pergamene, era però molto decaduto in fatto di dovizia pecuniaria e di lati fondi.

Nonostanteciò a Napoli ed a Castropignano stesso il duca Carlo era sempre ritenuto dai più pel primo archimandrita di quella provincia.

La gente bene si accorgeva della meschinità del treno col quale il duca voleva affettare fasto principesco, ma i mezzi essendo scarsi, talvolta l'erede della famiglia,

che per tanti anni aveva tenuto il dominio di quel castello, trovavasi ad essere supplantato da un qualche bottegaio arricchito, che agli occhi del nobile spiantato, era sempre plebea nepotanza di un qualche servo degli avi suoi.

Non anderei errato se dicessi che gran parte della popolazione di Castropignano, malgrado della decaduta posizione economica di quella famiglia, conservava sempre reverenza air unico superstite della medesima. .

Nel consesso municipale, nel capitolo, e nel ristretto fòro di quel paese la parola dell'immiserito feudatario era in ogni circostanza accolta con una certa deferenza, quale i figli del popolo sogliono sempre avere per la dignitosa sventura dei grandi.

Ma ancora in quella appartata località era tuttavia una classe intelligente, che lavorava alacremente per preparare i tempi di civile eguaglianza fra gli uomini, e che si ribellava in nome di Dio a tanto vieti privilegi di casta, ed a simili immeritati omaggi.

La famiglia Squillace da più generazioni si era messa alla testa di questo occulto movimento sociale, ed il padre di Michele, l'avvocato Maurizio Squillace, che era uomo di forti propositi e di non comune dottrina, era divenuto a poco a poco (come suol dirsi) la bestia nera del duca.

In consiglio comunale bastava che un progetto si partisse da Carlo perché Maurizio lo contrariasse, e gli era facile il farlo, poiché il più delle volte le proposte del duca sapevano di medioevale anticaglia.

Così accadeva in tutte le altre cose, ed era sufficiente pecca che una cosa fosse fatta sotto gli auspici del nobile ottimate perché l'erudito democraticone tenesse lontani tutti i suoi amici che come lui si piccavano d'indipendenza.

Insomma senza essere fra loro  né guelfi né ghibellini,  né bianchi  né neri, per sola antipatia personale avevano da più anni esercitato l'uno contro dell'altro tale accanito dualismo che finì col produrre il più implacabile odio, da cui ispirati si detestavano.

D'altronde non erano del tutto impari nella possibilità e nei mezzi di combattersi e soverchiarsi a vicenda.

Se il duca aveva in suo favore il prestigio di un nome grande, l'avvocato aveva dalla parte sua il sapere, se il duca colla sua influenza aveva potuto ottenere dal regio governo di Napoli concessioni vantaggiose al paese, Squillace aveva dato vita in esso alle più utili e filantropiche istituzioni: infine il parallelo dei meriti di questi due uomini era tale. che dovendo scegliere avrebbe messo in serio imbarazzo quella popolazione, la quale non poteva mettere in non cale alcuno dei due rivali senza peccare di sconoscenza.

Ma al punto in cui trovavansi le cose, il duca Carlo aveva un mezzo sicuro per sottomettere il suo competitore, e questo mezzo era la di lui figlia Costanza, che per essere un vero bottoncino di rosa, ed un'anima superiore (siccome ne correva la fama) avrebbe potuto aggiungere col di lei matrimonio risorse effettive al suo casato.

Infatti un bel giorno quando era a pranzo dal duca, certo don Tommaso Aliprandi, canonico preposto a quella parrocchia e penitenziere della famiglia del duca, fra un bicchiere e l'altro dello stupendo vino malvagia, questo dialogo in proposito ebbe luogo fra loro.

Cominciò il duca.

—Quell'indemoniato di Maurizio mi tormenta sempre con dei sarcasmi e mi osteggia in tutti i miei progetti, ancora stamane, quando in consiglio ho fatto la proposta di sopprimere dal nostro ginnasio il maestro di storia, mi ha detto che io era sempre stato il più gran fautore dell'ignoranza del popolo. — Dite voi se questo può essere mai vero?!

Il sacerdote Aliprandi, che dal proboscidale naso tutto tumido pell'affluitovi sangue, si capiva che ormai aveva trangugiato una buona quantità di bicchierini, dopo averne sorseggiato un altro mezzo, così fecesi a rispondere:

—Ma non si è accorta l'eccellenza vostra che Maurizio è un vero demagogo ed uno scomunicato rivoluzionario?

—Ma non sa che egli tira a rovinarci tutti, e che se non si trova il mezzo di renderlo all'impotenza, o prima o poi saranno guai per noi!

—E come fare? — rispose il duca — se in paese costui da molti è portato in palma di mano? '

Allora il furbo prete con aria di mistero cosi riprese:

— Io stesso sarei per suggerire all'eccellenza vostra un mezzo. sicuro di ridurre a nulla l'influenza di Squillace, ma temo di essere troppo entrante nelle cose di famiglia e...

—Via, via — rispose il duca — non abbiate riguardi di sorta, dite su: quale sarebbe il mezzo?

Allora il rubicondo sacerdote forbitesi col tovagliolo le labbra ancora umide del biondo liquore, così fecesi a dire:

—È inutile illudersi, o eccellenza, coi tempi che corrono oggi, chi ha è, e chi non ha non è; e dopo avere sciorinato questo pratico aforismo, fissando sulla faccia del duca due occhi di basilisco per scrutinarne l'impressione ricevuta dalle dette parole, il malizioso prete così soggiunse:

—E vostra eccellenza converrà che se la posizione economica fosse più florida, tantoché potesse offrirle il modo di rendersi utile con dei fatti al paese ed al contado, nessuno più si curerebbe dello scapigliato Squillace, i di cui compagni, ad esso oggi deferenti, in gran parte lo abbandonerebbero per schierarsi dalla parte della agiatezza.

—Potrebbe anch'essere — rispose il duca — ma quando non ce n'è quare conturbas me?

—Ehee ehee — soggiunse don Tommaso — se non ci sono adesso ci potrebbero essere fra qualche tempo.

—E come — dimandò il duca — che forse la risorta casa di Angiò ritornerebbe a conquistare il reame di Napoli?

—No, no — riprese il canonico — non si tratta di ritorno di case regnanti, si tratterebbe invece di un matrimonio.

—Mio forse? — rispose il duca, che per la morte della sposa Aurora dei conti di Oratino, aveva fatto voto di perpetua vedovanza.

—Niente affatto, o eccellenza — soggiunso il prete — il matrimonio di cui intendo parlare riguarderebbe vostra figlia.

—Matrimonio di mia figlia con chi? — dimandò il duca con una certa impazienza.

—Col figlio unico del commendatore Lo-Giudice di Sepino, erede di un ricco patrimonio, e che sposando vostra figlia assumerebbe il titolo di duca come se fosse primogenito dell'eccellenza vostra.

Poi soggiunse:

— Colle grandi ricchezze di cui dispone questo giovane, le quali, divenuto egli vostro genero, sarebbero di pertinenza comune della famiglia, l'eccellenza vostra potrebbe ricomprare gran parte di quei fondi che un giorno erano proprietà della nobil casa, e ciò fatto diverrebbe cosa facile lo abbattere l'effimera potenza dell'avvocato Squillace!

In così esprimersi il furbo prete accentuava l'espressione per sempre più colpire nel vivo l'animo di Carlo in balìa dell'odio.

Il duca Carlo a questo inatteso progetto di matrimonio si fece da prima muto e riflessivo; pensò all'oscura origine della famiglia Lo-Giudice, e quest'idea a primo intuito lo allontanò dall'annuire; ma riflettendo poi che quello sarebbe stato l'unico mezzo che gli rimaneva per potere sfogare il suo malanimo contro Maurizio, preferì di sacrificare il decoro della sua prosapia al desiderio di vendetta che lo agitava: onde rialzato il capo dai tavolo, ove lo aveva tenuto ripiegato fra le mani, come chi è in procinto di prendere una seria risoluzione, fece al prete tale domanda.

—E credete voi che la famiglia Lo-Giudice desideri un tale imeneo a segno da accettare le condizioni che voi stesso avete formulate, cioè cambiamento di nome e comunione di beni?

—Altro che — rispose il sacerdote. — S'immagini l'eccellenza vostra, che domenica mattina il commendatore Antonio venne a bellaposta a trovarmi, e giudichi se è, o no desiderato da quella famiglia un tale parentado; anzi, per quanto potei raccapezzare dai discorsi del vecchio Lo-Giudice, potrei asserire che è nelle di lui mire il vedere effettuato un simile matrimonio a qualunque costo.

—Quando cosi stiano le cose, rispondetegli pure che accetto, e che quanto prima andrò io stesso a Napoli per ritirare dal conservatorio la mia Costanzina.

Così prese a dire il duca dopo avere per qualche tempo pensato sopra alle conseguenze di una tanto seria risoluzione; indi in tal modo soggiunse:

—Badate bene, don Tommaso, che ad una sola condizione aderisco, ed è quella che il matrimonio sia fatto entro 1 anno corrente.

Il duca temeva già che tirando alla lunga le trattative matrimoniali, nascesse un qualche imprevisto accidente.

Non aveva tutti i torti!

Don Tommaso Aliprandi, come era rimasto d'accordo col commendatore Antonio, l'indomani si condusse a Sepino presso la famiglia Lo-Giudice, composta del padre, uomo che varcava la sessantina, e del figlio Giacomo, un elegante giovane che passava di poco i venti anni.

Da Castropignano a Sepino per certi viottoli dirupati, chiamati scorciatoie, il tragitto è appena di sette miglia, ma Don Tommaso anziché andarsene apostolicamente a piedi, preferi farsi condurre dalla Nena (così chiamavasi la sua mula baia, che divideva l'appellativo con la vecchia governante). Montato in sella, non senza una qualche difficoltà, il grosso prete, si faceva lentamente portare sul dorso della sua cavalcatura lungo quel tramite scosceso e fiutando l'aria col cicciuto naso, si scacciava le mosche con un ramoscello d'albero, pallida e lontana somiglianza della palma del Redentore.

In meno di due ore giunse a Sepino in casa dei signori Lo-Giudice, ove ebbe quella accoglienza che si meritava il di lui carattere sacerdotale, e l'altro di messaggiero della più gradita novella.

Ma quali si erano gli ospiti di Don Tommaso?

Don Antonio Lo-Giudice passava per un uomo, che (come suol dirsi) non aveva avuto paura del diavolo!

Aveva fatto nella sua prima gioventù il mestiere di ombrellaio in Sepino, occupazione che gli rendeva appena da sfamarsi; ed a Napoli dove ai suoi vent'anni si era condotto in traccia di fortuna, collo stesso lavoro di ombrelli rotti campò onestamente la vita, riuscendogli altresì di mettere assieme alcuni risparmi per circa mille ducati.

Allora mise su una botteguccia in via Toledo, dove dette un certo incremento ai negozi del suo mestiere dimodoché potè fare dei guadagni relativamente considerevoli. E fino a questo punto arrivò il periodo onesto della vita del commendatore.

Un bel giorno giudicò che il lavorare ombrelli per tutta l'esistenza, era meno lucroso e più faticoso del fare lo strozzino; per il quale giudizio, sotto lo specioso nome di scontista, cominciò a fare l'usurajo con tanta passione che in meno di dieci anni mise assieme meglio che centomila ducati.

Allora messosi in treno di gran signore e di banchiere, sposò Chiara Giannattasio, unica figlia di un pizzicagnolo di Foria, e dalla quale ebbe di poi il figlio Giacomo, che per parto immaturo costò la vita alla madre.

Divenuto ricco e padre, e volendo nascondere la sua oscura provenienza sotto il fasto più smagliante, bisognò che si mettesse in un certo lusso di casa di servitori e p di vestiario, ciocché gli assorbì quasi tutto il reddito delle usurarie fatiche.

Dall'altro canto, in quel lungo periodo di pace e di prosperità materiale, che ebbero sotto il Borbone i napoletani, la sozza industria della banca usura divenne un affare non troppo lucroso, onde, don Antonio, che in fatto di mettere assieme quattrini, poteva dare dei punti al più esperto giudeo, pensò di rivolgere i propri capitali ad imprese governative, essendogli riuscito di potere avere una certa entratura nella amministrazione dello stato,  mediante la raccomandazione di una sua parente, della quale erasi molti anni addietro invaghito l'ex-ministro Carascosa.

Con tale appoggio di dispotico statista il nostro ombrellaio, fuggito da Sepino per fame, divenne pel pubblico un uomo ragguardevole, e per quanto dal suo impuro fraseggiare si capisse che, se non era del tutto analfabeta era però illetterato, nonostanteciò a molti arrise l'idea, che fosse uomo dotto e dagli assennati consigli.

Occorrendogli fare breccia nella stima degli uomini del commercio napoletano, volle sempre più adornarsi delle penne di pavone, e da astuto corvo facendosi bello di un sapere preso a prestito per l'occasione, si mise a parlare d'economia politica, come se ne avesse fatto un lungo corso di speciali studi all'università di Oxford.

Non vi è dubbio; egli ebbe assortito della natura un certo ingegno commerciale, ma di quel tal commercio disonesto dove quando fa d'uopo, non manca mai di entrare un tantino di truffa o di stellionato.

Per lui tutti gli affari riuscivano a bene, ché, se a caso una qualche impresa pencolava in male, con un poca di coda del diavolo che vi frammetteva, la riduceva pel suo interesse privato, eccellente speculazione.

Con l'appoggio degli uomini di stato che avevagli procurato la raccomandazione dell'ex-ministro Carascosa potè farsi capo di colossali società per azioni, e potute ottenere dal governo concessioni edilizie, nonché forniture in abbondanza, per tal modo coi capitali di tutti potè fare considerevoli guadagni per sè solo, rubando al governo, coli' elevatezza delle mercedi, che per mancanza di concorrenza stabili a suo beneplacito nei capitolati, ed agli azionisti, col mettere nei rendiconti il doppio e qualche volta il triplo delle spese occorse.

Quando in questa ladra guisa ebbe messo assieme più milioni di ducati, cominciò a predicare morale, e gli riuscì di farsi nominare commendatore, per tentare di entrare ancora egli nel patriziato napoletano.

Ma l'aristocrazia di Napoli, che a quei tempi teneva alto il proprio decoro, sapeva i di lui illeciti guadagni e conosceva la vile sua provenienza,  né illudendosi dei stemmi inventati, o dei costosi cocchi, con i quali interveniva ai pubblici passeggi, lo tenne sempre in disparte come il più oscuro ed inonesto parvenus.

Accortosi di ciò ed invecchiato siccome era il commendatore Lo-Giudice, nell'anno 1852 risolvette di ritirarsi a Sepino sua patria, ove fece costruire un comodo casamento in mezzo alle di lui vaste possessioni, che aveva acquistate a poco prezzo da alcuni impoveriti nobili napoletani.

Nel tempo stesso mandò suo figlio (che era ormai un giovinetto) a Parigi ed a Londra, per vedere se, facendogli fare vita chiara in quei grandi centri, gli fosse riuscito fargli perdere una parte di quel cretinismo che per natura lo distingueva.

O inutile lusinga!

Egli intanto si trovava bene a Sepino dove furono dimenticati gli ombrelli da lui rattoppati quarant'anni addietro, ed ove fu acclamato, come il primo e più riverito signore del paese.

Poteva tanto il fascino della ricchezza su quelle menti volgari, che vi era persino chi diceva non essere lui l'ombrellaio arricchito, cui appellavano le novelle della nonna, ma altro suo omonimo, e che egli, proprio egli, era nato ricco, nobile, ed aveva studiato per tutto il tempo della sua vita almeno quanto Aristotile.

Però don Antonio Lo-Giudice bene si sovveniva, cosi dei giorni di miseria e di lavoro, come dei modi poco leciti che aveva adoprati per scongiurare l'una e l'altro; perciò è che allora, quando si sapeva ricchissimo gli era venuta l'ambizione. di inoculare nelle vene dei suoi futuri nepotini un poco di sangue bleu.

Vedi incontentabilità dei desideri umani!

Ed ecco perché era andato dal sacerdote Aliprandi a fargli premura di iniziare pratiche per questo nuovo parentado, la di cui idcfe riempiva di consolazione i tardi e vecchi giorni del milionario.

Le prime domande è risposte fra i signori Lo-Giudice e don Tommaso, come ciascuno può prevedere, furono pressappoco le seguenti: — È contento? — Sì! — Ma quando si farà? — Presto — e così di seguito; fatto fu che il giorno appresso l'Aliprandi ritornò a casa del duca con carta bianca per le trattative matrimoniali, le quali fu convenuto che verrebbero stipulate in atti, appena che i futuri sposi si fossero reciprocamente conosciuti, avvicinati e piaciuti.

Quindici giorni dopo questa gita a Sepino dall'Aliprandi, Michele Squillace, ignaro del tutto, aveva trovato presso la siepe divisoria del suo giardino la giovane duchessa Costanza di Castropignano, alla quale si. era già vagamente parlato di un progetto matrimoniale fra lei ed un giovane bello e ricco sfondato — parole testuali del prete mediatore di matrimoni e factotum di casa. —

Ma l'incontro con Michele e la scena della farfalla, nonché il ricordo di avere spesse fiate riveduto nei puri ed innocenti di lei sogni, l'onesta e simpatica faccia di Squillace, avevano fatto nascere nell'anima candida di quella fanciulla, un sentimento che rassomigliava assai ad amore nascente, ed il vivo desiderio di potersi daccapo avvicinare all'amico fantasmatico delle beate notti d'infanzia.

A Michele ancora, punto da, prepotente ansia di bearsi nei languidi occhi della sorella o amica sognata pria, ed incontrata poi, premeva assaissimo il potersi riaccostare a lei, non fosse per altro che per mantenere la fattale promessa di donarle la sua bella collezione di alati insetti.

D'altronde nissuno aveva potuto penetrare che quei due giovani avessero avuto un casuale convegno, quale avrebbero avuto l'agio di rinnovare quando meglio fosse loro piaciuto.

Ed è però che l'indomani del primo incontro all'istessa ora del giorno precedente, e nel medesimo punto, i due innamorati convennero assieme allo scopo di proseguire una conversazione, che incominciata per le ali di una farfalla, doveva poi prolungarsi sui vanni dell'amore.

Michele era dietro la siepe ad attendere il suo ideale, e mentre si stava infanatichito per la dolce aspettativa, si passava da una mano all'altra l'elegante cartoncino ricoperto di bianca carta rasata, e su del quale per or. dine di specie e di colore erano fissate con dei piccoli spilli alcune varietà di colorite farfalle.

Con questo piccolo ma pur gradito presente, di cui l'entusiasta giovane sentivasi altiero farne offerta alla donna de suoi pensieri, era là mestamente impaziente per il ritardo di lei.

Tutti i minuti che passavano senzaché apparisse l'angelo vero dej 8ogni suoi, erano eternità di pianto interno, erano immani devastazioni del di lui cuore, fremente già di mai provato affetto.

Gli uccelli stormivano fra le fronde degli alberi, ed ei sentivasi invadere da un senso misto di gioja sconfinata e diffidente dolore, o il vento agitava con qualche violenza le verdi foglie del rosajo ed — eccola — esclamava più felice di Attalo (1).

Dopo pochi falsi allarmi, ed una breve ma spasimosa aspettativa era proprio lei, Costanzina di Castropignano, che, come la più bella fra le Amadriadi, pareva che scaturisse dalle glauche piante del viridario.

Aveva di bionde trecce una confusa mole, dietro la nuca accolta in serica rete, e dalle fluttuanti pieghe della veste chiara, attillata alla taglia, fra i moti del suo spigliato incedere, si manifestavano forme divine.

Come era leggiadra!!

Negli occhi suoi del colore riflesso dall'azzurra volta celeste, era la passione dei cherubini quando adorano Iddio, l'estasi dei santi in contemplazione, e la voluttà maliziosa dei demoni tentatori.

Nelle gonfie labbra ravvisavi il carminio della porpora, nei denti lo smalto delle perle orientali, e nel mento la fossetta del piacere, che è sovente nido a sovrumane voluttà.

(1) Attalo era ritenuto il più ricco ed il più felice Re dell'Oriente. Vedi Orazio.

O Michele, o Michele, come era sublime l'amica dei sogni tuoi;  né Fidia,  né Botticelli,  né l'artefice di Sicione (1),  né Tiziano stesso, colle loro artistiche creazioni avrebbero potuto eguagliare tanta armonia di linee, tale espressione di concetto.

Solo Iddio potrebbe sbizzarrirsi con tanta perfezione di lineamenti creandone una seconda.

Bella e svelta, si moveva lievemente come se ali avesse avuto ai talloni; e con due sottili piedini da silfide, sfiorava il suolo col volgere dei passi suoi.

Giunta così gioiosamente al puntò dove l'impaziente Michele già si trovava ad attenderla.

— Sia il benvenuto — gli disse — e poi sorrise.

Michele a primjintuito rimase sbalordito allo scorgere tanta leggiadria nell'oggetto da lui sì prepotentemente amato, ma quell'invisibile giovanetto dalla faretra, che gli antichi chiamavano Cupido, lo punse più profondamente con dardo dalla punta dorata, cosicché divenne animoso ed ardito ancora di troppo.

Per un innamorato che veda avanti di sè l'essere del suo amore, non può servire di ostacolo una virente siepe viva; per giungere fino a lui, gli sarebbe appena d'impedimento il muraglione della Cina, figuriamoci adunque se poche piante di bossolo collegate fra loro in forma di facile barriera avrebbero mai potuto arrestare il di lui slancio giovanile.

Michele come il più ginnastico fra i giovani del suo paese, ed anche della provincia, senza fatica e con un salto solo si calò nel giardino e nel preciso punto ove trovavasi Costanza, la quale a tale inopinata sorpresa pronunziò un lungo oh, oh, oh!

Il giovane a questi motti di disapprovazione, tutto tremante e supplichevole si inginocchiò a lei dinanzi perché gli perdonasse tanto ardire, e nel tempo stesso fissando gli occhi al suolo

(1) Colui che sognò le muse e le modellò in Sicione. Vedi C. Agrippa. — Filosofia occulta.

come se avesse avuto pentimento di aver fatto tal passo inconsapevole, le presentò il cartoncino delle farfalle, che fu dalla giovinetta accolto. con vero trasporto infantile.

La Costanzina tutta commossa in ricambio gli offri un grazioso mazzolino di fiori tutto contornato di larghe foglie di dittamo!?

Amore soltanto sa insegnare il muto e molto significante linguaggio dei segni, e Costanza con quel lusso di larghe foglie di dittamo si rilevò maestra in sematologia. (1)

Ma la posizione dei due innamorati per verità era un poco troppo compromettente, e, per essere la seconda volta che si conoscevano, assai azzardata, onde la contegnosa damigella col pianto in cuore cosi disse a Michele:

—Si ritiri, o signore, si ritiri nel suo giardino, altrimenti  né dimani,  né nei giorni venienti tornerò più a rivederlo.

—Intanto gli faceva capire che aveva intenzione di avvicinarlo tutti i giorni. —

A tali detti pronunziati con vocina soave e commossa da quella cara fanciulla, Michele comprese tutto il segreto e nascente affetto del di lei cuore, onde trascinato da forza irresistibile, applicò un lungo bacio di fuoco sulla fronte di Costanza, bacio che galvanizzò tutte le membra di quella coppia beata.

Costanzina allora, fra il tormento del proprio dovere, e l'ebbrezza della passione soddisfatta, si fece pallida in viso, tantoché, avrebbe voluto chiamar gente, ma la voce le si arrestò nelle fauci; avrebbe desiderato fuggir la lotta, ma i suoi piedi erano divenuti immoti pell'incanto d'amore, onde fra l'adirato e il supplichevole:

(1) Sematologia vuol dire scienza dei segni.

— Si ritiri — ripeté — si ritiri o amico mio, ché non mi sento bene. —

Poveretta; per un primo bacio che col suo fuoco tutto incendiava il sensibile corpicino, il di lei giglio piegò il vergine calice verso il più voluttuoso languore.

Michele allora nel vedere scolorarsi in viso la metà dell'anima sua, pianse dal pentimento, e sollecito di obbedirla si ricondusse nel suo giardino febbricitante di idolatria per lei.

O suprema emanazione, o sentimento che viene a noi Ss. vergine di vizi da più eccelsi mondi, o fonte di ogni bene, o sovrumana voluttà del cuore, o vita imperitura delle anime gentili, o amore, deh tu mi guida nel descrivere la fervida lotta che agitare dovea la mente ed il cuore a quelle care creature.

Separati dall'antipatia di famiglia, diversi di condizioni, muti spettatori del più diabolico odio fra i loro padri, vicini e lontani nel tempo stesso, pure si amavano a vicenda senza doppi fini, senza scopo, senza vedute, senza avvenire!!

Non una speranza possibile confortava i primi palpiti del loro cuore, eppure si amavano di gran lunga più, che non si odiassero i respettivi genitori.

Che cosa produceva questo miracolo psicologico?

La connivenza forse? No!... I ricordi dell'infanzia? Nemmeno! La consentaneità dei sentimenti? Neppure!...

Che cosa adunque causava tale originalità fisiologica?

0sogni di entrambi, quei sogni che furono le libere esistenze delle anime loro.

Ma perché erano avvenuti tali sogni?

Per legge suprema di Dio, o se vuoi, della deipara natura!!

E Prati dice — son questi i lievi stami che annodan l'avvenir.

Maurizio e Carlo uomini, e padri entrambi, di una sola terra figli, dal medesimo sole riscaldati, perché mai dovevano senza una forte ragione detestarsi in quel modo?

Le colpe dei padri si puniscono nei figli, e quel poetico imperituro amore doveva procurare ai figli ed ai padri espiazioni e dolori.

ché l'odio continuato ed ingiustificabile è colpa d'innanzi al cielo, ed esso, giudice severo, ed immistificabile delle nostre azioni, con tanto infelice amore dei figli, volle mostrare ai padri che nella vita degli uomini ogni mal fatto o prima o poi ha il suo gastigo.

 


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CAPITOLO IV

Chi era il Sacerdote Aliprandi?

Nell'anno 1861 una compagnia del 36° Reggimento fanteria (quella che in seguito ebbi l'onore di comandare io stesso) si portava per misura strategica a Colletorto, pie. colo ed appartato paese del Molise, da dove per la sua elevata posizione, si poteva facilmente accorrere nei punti più funestati dal brigantaggio.

All'arrivo della milizia italiana, quella popolazione, che annoverava fra le bande brigantesche, un rimarchevole numero dei suoi cafoni, si era ritirata nelle proprie catapecchie temendo una qualche rappresaglia.

Appena il sindaco ed il bidello comunale, per aver veduto in lontananza la truppa furono dal loro disparato ufficio obbligati di andarle incontro, per stabilirne l'alloggio degli ufficiali, e l'accasermamento dei soldati, la conturbata coscenza degli abitanti di Colletorto induceva loro a nascondersi, per quel certo sentimento di terrore misto' a sinderesi, che si suscitava in essi alla vista delle italiche bajonette.

Quella popolazione comprendeva bene quanto si sarebbe meritato un gastigo all'uso di quello che in appresso fu inflitto ai reazionari di Pontelandolfo, avvegnaché a Colletorto ancora gli inferociti briganti erano entrati rei di eccidi, ed acclamati siccome biblici eroi della più santa fra le cause.

Non tutti venerano le gesta dei guerrieri di Omero, dei strenui difensori delle Tefmopili, dei crociati di Geru. salemme, o delle vittime di Legnano; sonvi nel mondo genti che riputano eroismo maggiore dei quadrati delle Piramidi, del passaggio sul ponte d'Arcole, o dei martiri di VillaGlori, una buona imboscata all'uso calabrese, cioè dieci archibugi contro due braccia inermi.

In questo caso il fine giustifica il mezzo, e come loro la pensano dieci briganti, che all'agguato abbiano sorpreso, e trucidato un solo inimico impossibilitato a difendersi, hanno messo in pratica portenti di astuzia guerresca, che a loro giudizio innalzano quegli assassini alla stregua dei più illustri guerrieri.

Per tali ragioni, e per queste massime di educazione tutta meridionale, in alcuni di quei paesi, a quell'epoca, il mestiere di brigante era ritenuto in concetto di onorevole.

Infatti le madri del Molisele più specialmente quelle del versante adriatico, quando facevano posarsi sulle braccia loro i figlioletti, ed ebre di materno affetto facevano loro saltare sulle palme — ve lo brigantiello — esclamavano — ecco lo brigantiello — ripetevan con enfasi cordiale.

Le intesi io stesso soventi volte, e non si vergognavano a ciò dire palesemente, anzi era con un certo orgoglio che proferivano un tale augurio per la sorte avvenire ai figli loro; onde, il darsi alla campagna, come costoro usano dire, e che equivale al farsi brigante, era per quella gente semibarbara e religiosa nel tempo stesso il complemento più certo e meglio eroico di ogni umana industria.

A dimostrare che in quei paesi sono religiosamente p convinti che il fare parte dei briganti, non solo sia morale ma cosa accetta a Dio, voglio qui citare a guisa di sodio il seguente fatto.

Nel gennaio 1862 un pelottone del 49° Reggimento fanteria comandato dal già sottotenente Mugnes andò nel tenimento chiamato Calderoso sul monte Gargano per dar la caccia ai renitenti della leva che ivi bazzicavano.

Era giornata piovosa ed una fitta nebbia impediva di scorgere ancora a breve distanza chi per quegli uliveti si aggirasse.

Ad un tratto l'ordinanza del prelodato sottotenente (che montava un ottimo cavallo) potè scorgere come un globo nero che rompeva l'uniformità di quei gerbidi dove signoreggia l'ulivo salvatico.

Il sottotenente ordinò al suo soldato di correre verso quel punto per vedere meglio che cosa era l'avvertito globo nero.

Infatti quando quel milite fu a pochi passi pervenuto, trovò che quel punto scuro altro non era sennonché un brigante che si ascondeva sotto il suo mantello, e con esso riparava dalla pioggia insieme al di lui corpo, quello della druda.

Quando lo svelto milite si accorse di ciò gli spianò contro il fucile così dicendoli: — se movi le braccia ti freddo. —

Frattanto accorse ivi con pochi lanci della sua cavalcatura ancora il sottotenente Mugnes, ed in tal modo avvenne che il brigante Giuseppe Nardella della banda di Angelo Maria Del Sambro rimase preso unitamente alla sua dulcinea.

Questa dichiarò di essere stata da lui presa per forza, e se ne sortì con due mesi di prigione; il feroce brigante invece fu tradotto a San Marco in Lamis ed ivi fu fucilato.

Ebbene, sembra incredibile a dirsi, ma in mezzo alla molteplice popolazione che assistette alla di lui fucilazione circolavano ripetute voci che passato per le armi il sanguinario Nardella erano scesi gli angioli dal cielo per portarne in trionfo l'anima.

Andate in quei paesi a parlare di aspirazioni liberali, andate a discutere di doveri, di diritti, di possibili costituenti, o di progresso politico che tenda a sopprimere la tale o tal'altra monarchia; eglino non vi capiscono, ché non sanno qual cosa sia un Re, sanno solo che ciascheduno di essi quando meglio gli si offra il destro, può addivenire monarca assoluto delle selve natie, ribellandosi ad ogni legge sociale.

Il merito dell'azione, la poesia del contrasto son per costoro delle vere e proprie utopie, ed il contendere la vittoria nella lotta la ritengono per epica debolezza: essi apprezzano il vincere ad ogni costo, con qualunque mezzo e senza rischio, e non il combattere ad armi eguali.

Sanno bene che è contro di essi la intiera società, comprendono che se capiteranno fra le unghie della giustizia o sommaria p istruttiva, saranno fucilati, ciò non cale loro; — una volta si deve morire — dicono, — e la gloria del Paradiso, che sentono essersi acquistata colle pratiche religiose, è Tunica speranza, l'unica ricompensa che si ripromettevano dopo una lunga vita di stenti.

Quando poi si sono dati alla campagna sempre in nome della Madonna del Carmine, per la quale hanno una devozione speciale, si scapricciscono come meglio possono, e si rifanno lautamente dei lunghi tempi di miseria.

Quei devoti masnadieri, quando siansi costituiti in disciplinata banda esigono dalle soggette popolazioni di quei boscherecci paesi le vergini più belle, le più rilevanti somme di denaro, le migliori armi e cavalcature, i frutti più squisiti dei giardini, i più grassi agnelli dell'ovile, i vini prelibati delle cantine dei ricchi, e talvolta gli amplessi delle loro mogli.

Solo a tali condizioni lasciano vivere i benestanti, e rispettano le loro proprietà, in caso diverso incendio delle case ed esterminio delle persone.

Tali furfanti qualche volta stentano, qualche altra godono a seconda se siano, o inseguiti da forza armata, o tollerati da pacifici cittadini, ma o affrontino, o fuggano sono sempre rapaci come aquila alpina, quando spicca il volo dalla rupe altiera e si avvia a far preda nella convalle.

Prima di essere tradotto all'estremo supplizio, mi confessò un brigante, che in vita sua non aveva provato soddisfazione maggiore di quella che in lui produceva il sentirsi bagnare le mani dal caldo sangue delle sue vittime.

A tale confessione fatta da un morituro che non aveva ragione di più mentire, convenni con Fiacco, che quando Iddio creò l'uomo, nel formarlo trasse una particella da tutti gli animali, e che dal leone prese la rabida schiuma dello stomaco, per comunicare alla pervertita creatura umana, ferocia maggiore a quella della stessa fiera.

Per mancanza di caserme e di altre adatte località, la sopraggiunta compagnia di fantaccini, forte allora di soli sessanta individui di bassa forza, e di tre ufficiali, fu accasermata nella chiesa parrocchiale di Colletorto, dove don Tommaso Aliprandi, in quell'epoca funzionava da parroco.

Questo sacerdote amava la sua chiesola, quanto un trovatore provenzale avrebbe potuto idolatrare la diva delle sue canzoni; pure aveva dovuto assoggettarsi a vederla tramutata in caserma di soldati, Tra i quali la imprecazione e la bestemmia non erano cose rare.

Il capitano Crema comandante quella compagnia, meno cortese di un capo-brigante, si rivolse con mal garbo all'Aliprandi, e gli ordinò di sgombrare gli altari dei sacri arredi avendo destinato l'ara maggiore a scrivania per il foriere.

A tale inatteso ordine don Tommaso supplicò Crema di volergli risparmiare una simile profanazione, e lo pregò di attendere brevi momenti che egli di persona avrebbe a tutto provveduto, ancora a fargli recare ivi una comoda scrivania per i bisogni dell'amministrazione.

Ma il capitano — so bene che scherza, — rispose, — e dopo avergli fatto conoscere in modo villano, che egli non era là per fare il comodo di un prete, si fece presso all'altare maggiore, ed apertone il ciborio, si provò ad afferrare lar piside per gettarla via come un oggetto qualunque.

Don Tommaso Aliprandi non gli dette tempo, ché divenuto paonazzo dalla collera — lascia stare Cristo — gridò — e preso il pizzo della barba al capitano, lo trascinò lungi dal sacro altare con apostolico disprezzo della propria vita.

Ma il prete Aliprandi era solo ed inerme, onde sopraffatto dal numero, nel liberare il capitano dalla di lui stretta fu da più pugni percosso sul viso.

La forza bruta vinse l'eorismo religioso!

In onta a Dio ed al diritto delle genti la sacra piside. fu rotolata per terra, ed il ministro del culto preso a pugni ed a schiaffi fu cacciato fuori della sua chiesa, tutto pesto e contuso; nel tempo stesso in cui gli arredi liturgici vennero ammonticchiati in un canto della cappella, meno quelli che vennero gettati sul fuoco col quale si coceva il rancio.

Tutto ciò fu ingloriosa opera di Crema, e di pochi militi eccitati dal di lui malo esempio.

La notizia dell'accaduto si diffuse con rapidità per il paese e pei dintorni, e la popolazione giustamente indignata per sì barbaro contegno della truppa, nel vederp il proprio pastore così malmenato, come nell'apprendere che in tal guisa si vilipendeva il segnacolo della religione avita, reagì in massa, e come un solo uomo corse tosto ad armarsi.

— Vittorio non vuole questo — gridavano i più — ed intanto cento archibugi dalle finestre delle prossime case si spianavano contro le porte del tempio ove era la milizia.

Le campane delle vicine chiese di campagna furono dal popolo suonate a stormo, ed a quel suono mille cafoni, quali con forche, quali con falce fienaje, accorsero a circondare la profanata casa del signore, gridando — Vendetta! —

Il capitano Crema tremava, i soldati erano già in ordine per sortire fuori ed aprire un vivo fuoco di riga, ma il loro condottiero non aveva il coraggio  né voce bastevole per proferire il comando avanti.

Fu allora che il luogotenente Carlo Patriarchi si rivolse al capitano chiedendogli il permesso di prendere egli il comando della compagnia.

Crema però non sapeva risolversi, e come se un improvviso gastigo del cielo gli avesse paralizzato la lingua, di fronte a sì incalzante pericolo, se ne stava ivi pallido e silenzioso senza sapere quale risoluzione prendersi.

Intanto qualche colpo di moschetto si sentiva dal di fuori, e gli urli minacciosi delle reagenti turbe si facevano avvertire come muggiti di procelle; sarebbe senza dubbio avvenuto il massacro di quei sessantatre soldati italiani, se, come Dio volle, Don Tommaso Aliprandi, ispirato da sentimenti di conciliazione, non si fosse presentato di bel nuovo alla porta della chiesa, e non avesse dimandato il permesso di poter raccogliere i resti dei sacri arredi per ripararli in luogo consacrato.

Questa volta il burbanzoso Crema fu gentilissimo verso il povero prete, e tutto gli concesse con cavalleresca cortesia; poco mancò, che non gli chiedesse il permesso di confessarsi da lui.

Appena quella popolazione ebbe visto l'amato parroco rientrare da padrone in chiesa e confabulare amichevolmente col comandante della milizia, e saputo che ebbe, essere disposte le cose in modo, che, malgrado V occupazione temporaria della chiesa, per parte della truppa italiana, nessuno ulteriore sfregio sarebbe stato fatto ai simulacri di Cristo, la si calmò tosto, e si dedicò daccapo alle varie sue occupazioni felice di esserle stata risparmiata la colpa di una civile rappresaglia.

Intanto la notizia dell'accaduto arrivò a cognizione del prefetto di Napoli, ed il superiore governo ordinò una apposita inchiesta, il di cui resultato fu, che tutto l'inconveniente era dipeso dalla stolta provocazione del capitano Crema, il quale venne allontanato' da Colletorto; come pure resultò dall'inchiesta il fatto che se nulla di serio era avvenuto, lo si doveva allo spirito conciliativo del cacanonico Aliprandi, il quale in benemerenza del suo operato fu traslocato alla parrocchia di Castropignano, dove ebbe a godersi una più lucrosa prebenda.

Infatti, lo meritava egli?

L'Aliprandi aveva, è vero, il difetto di essere un poco troppo sibarita, ma era religioso per convinzione, e possedeva molte delle doti evangeliche che tanto distinsero i primitivi sacerdoti dell'Era cristiana, allorquando dai ministri della nostra religione fu tantomai avvantaggiato lo sviluppo dell'allora nascente civiltà.

Del resto nego che una storia esista, la quale veridicamente possa affermare essere stati i ministri del cattolicismo sempre avversi al progresso.

Tenero siccome io mi professo verso chiunque eserciti

10bene per il bene, non faccio distinzione di abito ó di forma religiosa: qualunque sia il mezzo di prodigarla, io venero la carità e chi si voglia eserciti caritatevole ed umanitaria religione, trovo che è rispettabile qualunque siasi la regola del suo culto.

Adorare un Dio, o dalla chiesa evangelica, o da quella cattolica, o dalla scuola degli ebrei, o dalla pagoda degli Indiani, pel mio modo di vedere, è opera meritoria sempre eguale, ché se una causa prima esiste, non può ella avere preferenze per religione alcuna.

Iddio non può avere per beniamini, altroché i popoli meglio costumati.

Che cosa otteneva il Crema collo spargere al suolo dei frammenti di ostia consacrata, ove milioni di credenti opinano misticamente accogliersi il corpo del Signore Iddio?

Sia pure meschina l'idea di dare albergo alla grandezza di un Dio in un pezzo di materia corruttibile come è l'ostia.

Sia pur vero che nessuna casa o tempio possa essere dai mortali non solo costruito, ma nemmeno ideato in modo, che sia condegna magione di chi fece roteare le stelle peli' infinito, quando qui in questo basso punto del cielo materiale, Histaspe sire di Persia (1) ebbe consacrata smisurata reggia, dalle scale di ambra, dal tetto di avorio, dalle pareti di argento, intralciate da preziosi giacinti, e dalle volte laminate d'oro, sorrette da colonne di porfido ove erano a profusione incastonati smeraldi e zaffiri.

(1) Storia degli antichi Persiani. — Vedi Hyde.

 

Qui dove Nerone abitò la magione aurea nel di cui vestibolo furono disposte cinquecento statue di bronzo tolte a Delfo, e dove macchine di avorio, ingegnosamente costrutte, spargevano sui convitati fiori e squisiti profumi.

E Nerone era tale un tiranno che malgrado la sua furbesca maniera di piaggiare i quiriti nei pubblici spettacoli colla triplice pioggia d'oro, d'argento e di porpora, pure tali e tante scelleraggini commise, che il giorno della ignominiosa sua morte, scrosci di pioggia sanguigna si versarono sulla terra di Albano (1) e si spalancarono i sepolcri dei Cesari, dai quali sepolcri orrevoli voci di oltre tomba sorsero ad imprecare contro l'anima scellerata.

Se a questo delittuoso mortale, e se allo stupido» Hisiaspe ebbero innalzato gli uomini tanto ricche e sontuose magióni, qual tempio potrà mai erigersi dai viventi che sia all'altezza dei meriti inconcepibili e della immensità del Nume?

Nessuno al certo! E per ciò che riguarda il mio modo di vedere, opino che il tempio unico della divinità, sia quello che ha per tetto l'infinito.

Ivi, soltanto, credo, che possa spaziare il genio increato, il regolatore delle leggi eterne, lo spirito di Dio; mentre in pari tempo ò mia convinzione, che nei luminosi tramonti, nelle promettenti aurore, contemplate dalla vetta dei più alti monti, possa lo strano pensiero dell'umana creatura meglio avvicinarsi al suo Creatore.

Infatti i magi precursori della preistorica civiltà mondiale, evocavano gli spiriti angelici dalle più alte montagne, e Mosè si scopriva la faccia soltanto sul monte Sinai alla presenza di Iekovak.

Ad un filosofo parlano del Nume le stelle, le piante, i sconfinati mari, l'ecclissi, i bolidi, gli aereoliti, le comete, i miraggi, e le nebulose; a lui lo spirito degli spiriti, ossia l'anima creatrice dell'universo, si manifesta irata coi fulmini e colla voce degli abissi, dolce cogli archibaleni e coi sereni occasi.

(1) ZIPHILINUS ex dlon.

Ma al volgo profano, che non ebbe il tempo ed il modo di addentrarsi nei misteri dell'indefinita natura, trovo che la chiesa, è la più vera e sana scuola di morale, ed il luogo più adatto per il di lui raccoglimento.

Ivi infatti molte derelitte madri sfogarono con inosservato pianto l'interno corruccio per la perdita dei cari figli; ivi, in suffragio del defunto marito, salì al cielo la prece della sconsolata vedova, ivi il riconcentramento e la fede consolarono di speranza le conturbate coscienze, ivi infine fra i primi nostri vagiti, il vecchio parroco a tutti noi impose un nome in nome di Dio.

Tanta celestiale corte di appello alla fede, alla speranza, ed al perdono degli afflitti, mi riempie di mistica ma pur sentita venerazione, sia casa di Dio, o no!

Perché dunque profanarcela chiesa?

Ogni popolo della terra (ce lo insegna e conferma la storia) fu meschino se non ebbe in venerazione i proprii tempii, e non difese quelli dai sacrileghi violatori.

Deve esservi per convenzione religiosa ancora per la fede cattolica una stanza, o un luogo di ritrovo, e questo non può essere altroché la chiesa del Nazzareno.

Riflettano i moderni atei che in nome di Cristo i primitivi frati (fratres) salvarono dagli incendi dei barbari invasori, le più preziose pergamene ed i libri più rari; e che il monaco Valmachio con in mano il segno della redenzione, prima di ogni altro si slanciò in mezzo ai ludi gladiatori del Colosseo, stigmatizzando quei passatempi inumani, per i quali in un solo giorno furono sacrificate cinquecento vittime umane.

Valmachio, per tanto slancio umanitario, a lui ispirato dai dettami della civilizzatrice religione di Cristo, fu fatto trarre al supplizio per ordine del pretore Alipio, ma dopo il martirio di questo monaco, l'imperatore Onorio abolì quei barbari giuochi, e cosi fu fatto il primo passo verso la civiltà che onora oggi i nostri tempi.

Se è vero adunque che tanto contribuì la religione cristiana a richiamare i barbari a costumi più miti e civili, se è vero che sotto l'apostolato di questa religione si proclamò l'eguaglianza fra i viventi, si cementarono i principii di nazionalità e di patriottismo, se è vero infine, che a Pontida le acque lustrali del vicario di Cristo, benedissero la lega lombarda, perché oggi gli analfabeti del pensiero, si chiamino scettici o razionalisti, vogliono vilipendere la secolare religione del Nazzareno?

Ma tregua alle digressioni.

Siccome il lettore dal testé narrato fatto di Colletorto, si sarà di già avveduto, prima che l'Aliprandi fosse stato destinato a parroco di quel paese, noi lo abbiamo di già incontrato a Castropignano nell'anno 1855, allora appunto quando era in via di intavolare le prime trattative di matrimonio, fra Costanzina ed il giovane Lo-Giudice.

In quell'epoca don Tommaso era l'amico intimo del duca Carlo, il quale per i sentimenti morali e schiettamente religiosi di lui, lo stimava a segno che per esso non aveva segreti di sorta.

Ma il sacerdote Aliprandi non era del solo duca il fido amico, ed il consigliere più ricercato; altri signori del Molise lo acclamavano siccome il più accetto fra gli ospiti, onde quel buono uomo di prete si era spesso trovato a benedire la mensa alle famiglie più rispettabili di quella provincia

E se lo meritava, che, non tralignando dalla sua missione di cristiana carità, era riuscito soventi volte a comporre i più inveterati dissidii fra parenti o fra amici, cosicché, ritornati in pace gli animi esacerbati dei dissidenti, sentivano di poi il bisogno di richiamarlo presso di loro siccome il più benaffetto apostolo della conciliazione.

L'Aliprandi era prete e dotto, e mentre trovava doveroso il consacrarsi alla penitenza nei giorni comandati dalla Chiesa cattolica, nell'altro tempo dell'anno gli andava molto a genio

un buon pranzo ed il vuotare una caraffa (1) di gustoso vino.

In conversazione era faceto e spiritoso, ed il servite domino in laetitia era per lui massima praticabilissima.

Le linguacce del paese andavano dicendo che qualche anno addietro era stato molto propenso per certe maddalene pentite, colle quali il saltem caute di S. Paolo lo avrebbe salvato nella opinione pubblica.

Ma all'epoca di questo racconto, atteso i suoi sessanta anni suonati, aveva già chiuso il cuore a tutte le sensuali velleità, contento che non gli si chiudessero in faccia le più accreditate cantine della sua diocesi.

Nonostante questo suo difetto di epicureismo, don Tom. maso era una buona pasta d' uomo, abbastanza caritatevole verso i poveri del suo popolo, e da vero buon pastore procurava in tutti i modi che le pecorelle affidate alla sua cura spirituale fruissero del massimo benessere sì morale che materiale.

In fatto di principii politici, era un poco troppo visionario, e mentre in cuore si sentiva inclinato ad essere suddito di una grande ed indipendente nazione, dall'altro lato temeva quelle tali convulsioni sociali, che sogliono succedere alle rivoluzioni, onde è che credeva travedere in Squillace e compagni le ombre reincarnate di Marat, di SaintJoust e Robespierre tornate a rivivere per terrorizzare l'umanità.

Spinto dall'idea di lavorare per la felicità di due famiglie, egli si dava molta premura perché avesse effetto il da lui progettalo matrimonio, ed ignorando che la Costanzina così presto fosse arrivata a quel punto di affezione per un altro, desiderava che ella si fosse ravveduta coll'acconsentire al di lei sposalizio col Lo-Giudice; e ciò era ne' suoi desiderii un poco per fin di bene ed un poco per puntiglio e per amor proprio.

(1) Caraffa, è un recipiente da vino di oltre un litro.

Onde è che in uno dei giorni di estate del 1855, vale a dire una ventina di giorni dopo il secondo incontro di Michele con Costanza, il prete Aliprandi si condusse presso la signora Anna Alena, moglie di uno dei più ricchi proprietari di Castropignano.

Prima di entrare in casa dei signori Alena, don Tommaso si soffermò sulla porta d'ingresso, aperta per metà, e dato a questa una leggiera bussatina col battente, così esclamò:

Deo Gratias. (1)

Benedicite — fu risposto da una voce di donna.

Allora il prete entrò nella casa dell% sua penitente

signora Alena, dove alcuni pesanti mobili di noce indigeno palesavano comodità, pulizia, e stabile eleganza.

Donna Anna Alena, amica della famiglia del duca ed intrinseca di Costanzina, godeva la meritata fama di saggia moglie e di ottima madre che ritrovava tutte le sue gioie nel disimpegno delle cure domestiche.

Era una brunotta di circa a trenta anni, dalla chioma corvina, dalle ciglia arcuate, e dalle tumide labbra, che di sovente si posavano sulla baffuta faccia di suo marito don Lorenzo Alena, una volta di lei cugino paterno.

—Qual motivo qui lo conduce — disse la signora Anna nel vedere l'Aliprandi.

—Il ricordo della nostra buona amicizia — rispose don Tommaso.

—Quando così sia si accomodi pure.

Intanto apparve un servo per assestare l'una presso l'altra due pesanti scranne intorno al tavolo da lavoro della signora; e così sedutosi famigliarmente, dopo che il servo si fu ritirato, si intavolò fra loro la seguente conversazione.

—E molto tempo, dacché non ha veduto la duchessina Costanza? — cominciò don Tommaso. —

(1) Cosi usano dire in quei paesi per chiedere il permesso di entrare in casa.

—Domenica decorsa, siamo state più di due ore assieme.

—Le è sembrata allegra... contenta di sè?

—Non troppo!

—Le ha raccontato nulla del progettatole matrimonio?

—Mi ha detto tutto.

—Ebbene, cosa pensa di fare?... lo prenderà alla finfine?...

—Quanto Costanza pensi di fare, mi sembra che lo abbia chiaramente espresso nella risposta che dette al padre... — non vuole maritarsi e...

A questo punto don Tommaso interruppe la signora Alena, e, fattosi a lei ancora più vicino, le fece col pollice il segno della croce sulla fronte, come se avesse voluto scongiurarle i demoni della menzogna; e dopo di ciò così soggiunse:

—Donna Anna, donna Anna, nella mia qualità di suo direttore spirituale, la ho sempre riconosciuta come la più saggia delle mogli e la più morale fra le donne del mio popolo; ma ella ancora è stata zittella, ed è però al caso di insegnarmi che il rispondere di una damigella — non voglio marito— quando le si offra un ricchissimo giovane, ed elegante sposo, significa che gatta ci cova, e che...

Questa volta fu la signora Alena cho interruppe il prete con tali parole.

—Io non so di gatte che covino; so soltanto che la buona Costanzina non vuole per ora maritarsi: così mi ha detto e così le ripeto.

—Mi permetta che io le faccia osservare — riprese insistendo don Tommaso — che non può essere ciò soltanto quello che deve averle detto la duchessina; le avrà invece fatto capire che lo sposo propostole non è il suo ideale, e che ella in cuore si sentirebbe trasportata per altri, ragione per cui dice di non volere maritarsi. — Non è vero che è così?

No no — rispose la signora Anna.

—Sì sì — replicò don Tommaso, già convinto di aver colto nel segno.

Tale interrogatorio che era solo tollerabile perché fatto dal di lei confessore, cominciava a stancare la pazienza. della signora Alena, la quale, accortasi che il furbo prete voleva strapparle di bocca un segreto, si mise a cantarellare allo scopo di far deviare la conversazione da così delicato argomento.

Ma il prete che si accorgeva di esercitare neir animo della sua penitente un certo potere, in tuono di predicozzo, cosi riprese:

—Si rammenti o figlia diletta che la bugia colposa è nociva al buon andamento delle famiglie, è un grosso peccato mortale; si ricordi inoltre, che il contribuire ancora indirettamente, a che una figlia riesca disobbediente al volere dei propri genitori, è una forte trascuratezza del più santo dei cristiani doveri: e la carità del prossimo, nonché l'onestà della coscenza nostra, ne insegnano a procurare con tutti i possibili mezzi, il bene vero dei simili e molto più degli amici.

A questo sermoncino cosi sottilmente architettato da don Tommaso nell'animo della religiosa sposa, alla quale stava molto a cuore il pensiero della eterna salvezza, si suscitò un combattimento di opposti sentimenti, quali erano quelli di amicizia e di scrupolo religioso, onde è che, sopraffatta da tale interno trambustio, ruppe il silenzio nel quale si era raccolta, con qualche significante sospiro.

A tale non dubbio segno di transazione, il furbo prete si accorse, che nell'animo della sua penitente, si agitava una certa lotta, fra il dire o no, quel di più che aveva saputo di Costanzina, onde da vero filosofo si fece a calcare le tinte del lugubre quadro, già da lui tracciato a riguardo della compromessa coscenza della signora Alena.

Per la quale ragione così riprese a dire:

—Qual rimorso avrebbe lei. o anima pura, se per causa del suo silenzio la buona giovane si perdesse in una occulta e riprovevole passione?

Mi dica tutta la verità, e ritenga pure, che in ciò fare ella offre al sacro pastore il mezzo di richiamare all'ovile della santità la più candida agnella, che oggimai accennerebbe incamminarsi per la via della perdizione.

— Faccia tuttociò e ne avrà bene da Dio!

—Ma checcosa desidera sapere? — rispose allora, tutta spazientita la signora Anna. —

—Se vi è il caso che Costanzina sia innamorata di un altro.

—Potrebbe anche essere — rispose la signora Alena.

—E chi è mai il fortunato?

— Questo è ciò che io non sò, e sapendolo non direi mai!

—A nissun patto?

—A nissuno.

—Nemmeno sotto il sigillo della confessione?

—Nemmeno!!

Don Tommaso Aliprandi, contento di avere scoperto il segreto per metà, si accingeva a lasciare la casa dei signori Alena, e dopo avere vagato fra i soliti complimenti, che sono usati da chi è per congedarsi, si avviò verso la propria abitazione, dove la vecchia Nena era ad attenderlo con una certa impazienza per potergli consegnare un urgente biglietto portatole poco prima da un servo del duca.

La canonica del parroco Aliprandi, era situata nel mezzo di un giardino, dove copiosi alberi da frutto, projettavano fitta penombra, ancora nelle ore più calde.

Prima di entrare nella propria stanza gli fu consegnato dalla Nena il biglietto del duca, ma il prete, anziché aprirlo, lo posò sul tavolo di abeto, standogli a cuore il recitare, innanzi tutto, le vespertine preghiere onde inginocchiatosi su di un elegante oratorio di ebano, con voce sommessa si mise a recitare i salmi.

Ma se la bocca pronunciava automaticamente i versetti dell'uffizio, in quella occasione eccezionale, il di lui pensiero invaso da cura profana, era tutto rivolto ad indagare, chi mai potesse essere colui, che in sì poco tempo, aveva potuto fare invaghire a tal segno quel fiore di virtù che era Costanzina.

Era ansioso altresì di leggere quanto il duca avevagli mandato scritto, ma qualunque fosse stata l'urgenza che avesse potuto incalzare il suo più grande amico, non poteva ad alcun costo derogare dal suo antico sistema di recitare l'uffizio della Madonna appena rientrato in casa.

Questo scrupoloso adempimento ai sacri doveri sacerdotali, riempiva di rispetto e di venerazione la vecchia Nena, la quale perché troppo attempata, e perché il lupo non fa mai guasti intorno al covo, aveva sempre avuto per lui una vera opinione di uomo santo.

In tale circostanza però, l'osservatrice governante avvertì che l'uffizio del suo padrone fu recitato con maggior sollecitudine, poiché dopo appena quindici minuti di orazione, ritornò, contro il suo solito, ai pensieri mondani e preso il biglietto si mise a leggerlo attentamente.

Tale ne era il contenuto.

«Don Tommaso, amico carissimo

«Iddio mi punisce nel mio più tenero affetto; in quello di padre!

«La mia Costanzina persiste ad essere malinconica, e nella determinazione di non volere marito: oggi, per la prima volta mi ha esternato il desiderio di farsi monaca.

«Io sono desolato nel vederla così afflitta, e deperita in salute — Gran Dio!? — Temo dei giorni di lei!!

«Se avessi potuto supporre che a mandarla in conservatorio, le fossero venute simili ubìe, l'avrei sempre tenuta presso di me.

«Ecco l'effetto di una educazione troppo monacale!

«Questa sera vi attendo un poco più presto del solito perché ora più che mai sono ansioso di consigliarmi con voi.

«Tutto vostro

«Carlo»

Appena don Tommaso ebbe letto la frase — ecco l'effetto di una educazione troppo monacale — riconobbe la pochezza di mente del duca, e sentì in sè quella certa superiorità che il filosofo sa di avere sui profani alla scenza, onde dato posto fra le carte del suo scrittojo al biglietto, così esclamò:

— Pover'uomo, come sei semplice. —


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CAPITOLO V

Sposai un altro ma amai sempre te solo

La città di Campobasso, capoluogo della provincia di Molise, trovasi poco lnngi da un monte isolato, in cima al quale è situata l'antica Mélae (1) che a tempo del Sannio dette il suo nome a quel distretto, e che oggi trovasi negletta e separata dal commercio, con appena seicento abitanti.

Le nazioni come le metropoli e gli uomini sono costretti dalla suprema legge di compensazione a seguire le fasi della loro buona o cattiva stella, ed i punti infimi o culminanti degli apogei o perigei, descritti dalla volubile ruota della fortuna.

Le prime compiono tali loro evoluzioni durante la vita dei secoli, le seconde e gli ultimi colla vita degli anni» e talvolta dei giorni.

E tu, o vetusta città di Mélae, che dalle tue secolari torri, desti norma e vita alla civiltà sannitica, oggi sei costretta a veder fiorire sotto i tuoi stessi piedi la moderna Campobasso, che ti ha rubato il nome per darlo alla provincia, che fu di te nella tua prospera ventura.

(1) Mélae oggi Molise, paese piccolo ma ricco di vetusti resedi — conserva ancora il titolo di città.

Oggi nei tuoi suburbii, è lamentevole contrasto di passata grandezza e di moderno avvilimento, ed il bifolco del soggetto convalle, nello smovere coli' aratro la gleba, trova l'elmo sannita, a cui è adesa la civica corona di oro, guadagnata forse da uno dei tuoi prodi figli sul monte Taburno, quando il fiero popolo caudino fe' passare i consoli di Roma sotto il giogo di ignominia.

Lo seppe quinto Fabio come eri forte! (1)

Ormai riposa in pace o gloriosa memoria di Mélae bene stà che i tuoi pastori coi suono echeggiante delle loro zampogno, cantino la ninnananna al suono d'oblio del tuo splendido passato.

Così vogliono le vicissitudini di tutte le cose create!?

Del resto, Campobasso è una città di circa diecimila anime, a sufficienza commerciale, e però provveduta di comodi alberghi, di caffè, e di vari fondachi, cose tutte, che rendono quel soggiorno preferibile a molte altre località del napoletano.

Eranvi, in quell'epoca, un tribunale, una prefettura, una collegiata, molti conventi, un avanzo di fortilizio, ed un capace nonché ben costruito stabilimento penitenziario, munito di ponte levatojo, e di profondi fossi all'intorno, e diviso in quattro sezioni bastionate, dalle alte vette delle quali, con poche sentinelle potevansi sorvegliare tutte le aree esterne, dove allora si ammucchiava una folla di circa millecinquecento detenuti, fra briganti, manutengoli e reazionari.

In tale città noi fummo accantonati, ché il nostro quarto battaglione, destinato alla repressione del brigantaggio, per metà andò distaccato nei diversi mandamenti della provincia, e per l'altra metà rimase a disposizione del comando di quella zona militare tenuto allora dal chiarissimo colonnello Mazé de la Roche, quello stesso che nel 1860 organizzò in Firenze la brigata Pistoja.

(1) Quinto Fabio fa più volte respinto dagli abitanti di Melae. — Vedi Tito Livio.

La missione dei distaccamenti era quella di perlustrare ogni giorno il territorio mandamentale, e tutta la viabilità di quei dintorni, meno il caso che si fosse fatta vedere una qualche numerosa banda di briganti, nella quale ipotesi tutti i diversi. e più limitrofi distaccamenti dovevano in un dato punto convenire per combatterla.

L'incombenze della divisione rimasta a Campobasso, erano quelle di tutelare la interna ed esterna sicurezza della città, montare la guardia alle carceri, scortare le diligenze ed i traini (1) da li a Morcone, a Baranello, a Baselice, a Santa Croce di Magliano, ad Ielsi, a Sepino, ed a Trivento, paesi tutti coi quali il commercio campobassano era in continua attività.

Questo gravoso, rischioso e mai interrotto servizio era disimpegnato da soli cent'ottanta individui (numero complessivo della 15a e 16a compagnia), da sei ufficiali subalterni, e da dieci carabinieri, che sui primi tempi; come già pratici dei luoghi ci facevano da guide.

Avevamo diviso il turno di servizio fra sei pelottoni di circa trenta uomini l'uno, e ciascuno dei quali, comandato da un ufficiale subalterno, accompagnava un giorno sì ed uno no i diversi convogli nel tale o tal'altro paese: i soldati appartenenti allo stato maggiore del battaglione, compreso i musicanti, gli aggregati, ed i convalescenti disimpegnavano il servizio di guardia allo stabilimento carcerario.

Quando poi avveniva il non raro caso che qualche paese si desse alla reazione, o che qualche banda brigantesca minacciasse prendere il sopravvento in un dato punto, allora si aggiornava la partenza dei convogli, e le nostre due compagnie partivano in colonna mobile per ripristinare l'ordine.

È facile arguire da tutto quanto ho detto, che non potevamo mai avere una sola giornata di riposo,  né il tempo necessario di fare un poco di scuola del tiro, tanto utile in quelle guerriglie.

(1) Così chiamano in quei luoghi i grandi barrocci che servono per il trasporto delle merci.

Ma come fare?

Bisognava sfruttare tutta la vigoria dei nostri giovani anni, e moltiplicarci per poter vincere le mene legittimiste.

Gli sbandati, al nostro arrivo in Campobasso, furono equipartiti fra tutte le sedici compagnie del reggimento, delle quali dodici cioè i primi tre battaglioni all'epoca di cui adesso si tratta erano già partite per l'Italia centrale.

Come avevogli promesso, mi riuscì di far passare Squillace effettivo alla mia compagnia, ed egli con la sua buona condotta si mostrò così riconoscente, che tanto il capitano Crema quanto io stesso ci trovammo d'accordo di farne la proposta per l'avanzamento al grado di sergente: ed in verità lo meritava, sì per i suoi zelanti servizi, come per la sua nota capacità, superiore a quella che si poteva esigere da un bassoufficiale.

Egli però, appena glie ne detti sentore, mi pregò di fare in modo che venisse revocata tale proposta, inquantoché gli sarebbe dispiaciuto di togliere il posto ad altro suo collega di grado, che aveva in animo di far carriera, mentre egli ci assicurò di avere determinato di ritornarsene borghese, appena finita la sua ferma di servizio, che andava a scadere verso la fine del 1863.

Il capitano ed io apprezzammo questo suo gentile riguardo pel camerata, e valutammo la sua abnegazione, accrescendo sempre la nostra stima per lui.

Inquanto al fargli ottenere un mese di licenza, non ci fu possibile, ché vi era allora una circolare del ministro della guerra, colla quale veniva esplicitamente proibito ai capi di corpo il concedere licenze per qualsifosse motivo.

Quando Squillace, tutto sconsolato, e quasi fuori di sè venne a sapere, dalla mia bocca, avere il colonnello respinto la sua domanda di licenza, vi fu un momento, in cui temetti della di lui ragione.

Vidi i suoi occhi sconvolgersi in strano modo, le sue labbra contorcersi pell'interno sussulto nervoso, e due grosse lacrime solcargli le smorte guancie. Ma io fui premuroso di consolare quell'infelice con queste poche parole.

—Rasserenatevi — gli dissi — ché alla fine del trimestre in corso la nostra compagnia sarà distaccata fra Spineto e Castropignano, e così, invece di un mese, potrete rimanere in patria per tre mesi.

A tale annunzio, egli si fece tutto ilare, e congedatosi da me, mi accorsi che per improvviso trasporto di indicibile contentezza, si mise a ballare corno un folle, per la corsìa della caserma.

Ed aveva ben ragione di essere allegro, ché appena una sessantina di giorni lo dividevano dal sospirato momento di una felicità, da lui sognata per sei lunghi anni, e sperata soltanto da un mese o poco più, cioè dal di lui arrivo a Napoli.

Ma lasciamo per il momento l'innamorato Squ llace, e riprendiamo il corso del racconto.

Un giorno dei primi di Settembre, io transitavo per la via massima di Campobasso; là dove sono i più ricchi negozi, i caffè meglio serviti, e le trattorie più di lusso.

Passai davanti al ristoratore piemontese, che era al pianterreno del grandioso stabile confinante a quello dove aveva sede il comando della zona militare.

Mi avviavo passo passo alla mia dimora, ché allora appunto ero rientrato dal servizio di scorta insieme alla mia compagnia, la quale dopo un mese di mai interrotte fatiche, avrebbe avuto diritto a qualche ora di riposo ed a qualche poca di libertà.

Ma pare che cosi non volesse il destino, inquantoché, quando di pochi metri avevo sorpassato la porta di ingresso di quella trattoria, un servitore mi raggiunse e così mi parlò:

—Il signor colonnello, che trovasi a pranzo nelle nostre sale, desidera di tosto vederlo. —

Sapevo di già che il conte Mazé de la Roche era solito pranzare in quel ristoratore, il quale poteva ritenersi per il migliore della città, e lo sapevo per prova, dappoiché quel perfetto gentiluomo, rigoroso in servizio, ma amico dei suoi ufficiali nella vita privata, più di una volta ci aveva invitati al suo desco, per vuotare insieme a lui una qualche bottiglia di squisito sciampagna.

A tale chiamata fui sollecito di portarmi presso di lui, che, in vedermi, colla sua solita affabilità scherzosa, così mi domandò.

—Che cosa cerca in queste vie ed in ore sì calde; forse qualche smarrita figlia di Pandemia?

Tutt'altro o mio colonnello — risposi io — cerco invece la via di condurmi a casa per refocillarmi lo stomaco, e fare qualche ora di dormita della quale sento gran bisogno.

Dipoi immaginandomi che egli mi avesse fatto chiamare per parlarmi di qualche servizio straordinario, cosi soggiunsi.

—Bene inteso però quando la signoria vostra illustrissima me lo permetta.

—Refocillarsi sì — replicò il colonnello — ma di andare a dormire non posso permetterglielo o mio giovane ufficiale.

—E perché? — domandai io. —

—Perché se lei va a riposare non ha il tempo di trovarsi fra due oro colla compagnia in tenuta di brigantaggio, presso la chiesa, che è sullo stradale di Morcone, per poi da lì accompagnarmi in una notturna passeggiata che mi è venuto in testa di fare.

Dopo essersi così espresso, e dopo avermi pregato di accettare un colmo calice di bordeaux, in tal modo soggiunse:

—D'altronde non le ho già dichiarato che la 16a compagnia è la mia guardia imperiale?!

—Sarà una guardia imperiale un poco stanca ed assonnacchiata — risposi io. —

—Perché, domandò il colonnello.

—Perché abbiamo marciato tutta la notte decorsa.

—Non importa — disse in tuono secco il conte Mazé — penserò io a fare sortire di dosso a quei bravi fantaccini il sonno e la stanchezza.

Per tutta e definitiva risposta io misi la mano destra alla visiera del bonetto e cosi conclusi coi dire.

—Se il signor colonnello me lo permette, vado a dare gli ordini opportuni.

—Alle 6 e mezza di questa sera nel punto convenuto.

In tal modo finì col dire il conte Mazé de la Roche,

mentre mi allontanavo da lui.

Addio o sospirate ore di sonno tranquillo, ruzzolato sugli alti, spaziosi, e soffocanti letti del Molise; addio o ripromessami scorpacciata di vita orizzontale; addio o desiata spensieratezza di poche ore, nuovi travagli mi attendono, io non sono per voi.

Così dissi a me stesso appena giunto a casa, dove S ntomena mi aveva preparato una semispecie di Bau con i proverbiali maccaroni (come lui diceva, e come a lui piacevano).

Dopo avere finito la mia breve e parca refezione, insieme al sottotenente Bacci, mi condussi alla caserma per disporre la mia compagnia ad una seconda marcia.

Il capitano Crema, che come più anziano, fra i capitani funzionava da capo di battaglione, aveva cedu to a me il comando della sedicesima.

Non essendo ancora giunta l'ora della sortita, feci suonare. a raccolta dal tromba di guardia, ed all'istante l'intiero personale venne in rango per attendere i nuovi ordini.

Quando spiegai ai soldati che un turno straordinario di servizio ci era toccato, e che bisognava rimettersi in tenuta di brigantaggio per una ulteriore perlustrazione, molti dei militi si misero a brontolare, perché non si lasciava loro un sol momento di respiro — ed in verità avevano ragione; — ma quando feci comprendere loro che si trattava di scortare il nostro colonnello, tale idea toccò l'amor proprio di essi in modo, che si mostrarono visibilmente lieti di sottostare a questo soverchio, ma pure onorevole turno di fatica.

E cosi nella tenuta prescritta, novantaquattro uomini, me compreso, alle ore 6 ed un quarto di sera ci trovavamo al punto stabilito, cioè mezzo miglio fuori di Campobasso.

La tenuta di brigantaggio era la seguente — bonetto e cappotto di panno — pantaloni e uose di tela — armamento completo — coperta da campo portata a bandoliera — borraccia e tasca a pane,

Il personale della 16a compagnia era eccellente, tantoché non ebbe mai a retrocedere nemmeno di fronte a forze triple,  né a subire il minimo agguato nei tre anni che corse dietro ai briganti.

Era quella piccola frazione dell'esercito italiano il terrore di Caruso, e dell'altro capobrigante Nunzio di Paolo, i quali colle loro numerose bande erano sempre stati dalla medesima respinti, non senza qualche perdita: era altresì il terrore dei sindaci reazionari, perché il capitano Crema, comandante della medesima, loro bastonava senza misericordia.

La ridetta compagnia si costituiva, per un'ottava parte di sbandati napoletani, per tre ottavi di vecchi soldati del piccolo esercito toscano, e per l'altra metà di soldati lombardi che avevano già servito nell'armata austriaca, di piemontesi, e di romagnoli; infine erano dei robusti e validi uomini scelti in mezzo a cento col vecchio sistema delle leve e dei surrogati.

Avevo sotto i miei ordini dei giovani bassi ufficiali mingherlini ed imberbi sortiti, dalla scuola di Racconigi, ma che pure erano pieni di spirito ed animati dalla più spiccata buona volontà; avevo all'incontro dei vecchi sergenti dai lunghi mustacchi, che per mancanza di sufficente istruzione letteraria avevano percorso più anni di servizio per ogni avanzamento, ma che nei casi i più difficili tenevano fermo, così di fronte al pericolo, come ai seri disagi.

Insomma era una bella e buona unità tattica la 16  compagnia, simile alla quale ne augurerei molte all'Italia nostra.

All'ora convenuta giunse il colonnello, che caracollava sul suo focoso destriero bajo, già uso a fiutare il fumo del cannone.

Comandai il presentatami, e dopo di ciò, egli duce, ci avviammo verso una destinazione a noi ignota.

Il conte Mazé de la Roche era allora un uomo sotto la quarantina, di hello e militare aspetto.

Apparteneva ad una delle più aristocratiche famiglie della Savoja, ed il suo lustro genealogico era stato sempre pedissequo a quello dell'attuale Casa regnante.

Non era un mestiere per lui la carriera delle armi, ma era invece un ereditario distintivo di stirpe.

Non poteva dirsi un mestiere, inquantoché prodigava in spese di rappresentanza e di sovvenzione ai poveri, forse più di quanto gli avesse potuto rendere lo stipendio; era un distintivo di stirpe, perché nella sua famiglia contava molti antenati che lo avevano brillantemente preceduto nella gloriosa palestra militare.

Il suo nome, come quello dei Robilant, dei De Sonnaz, e di molte altre notabilità del vecchio esercito piemontese, aveva echeggiato più volte sui campi di battaglia, e fino dai primi tempi aveva seguito tutte le fasi avventurose o no della guerra nazionale italiana.

Gentiluomo perfetto, e distinto in tutte le sue azioni, era sempre di una eleganza irreprensibile, sia che la sua maschia figura spiccasse nei saloni dell'aristocrazia, sia che egli uscisse dal fangoso bosco di Romitello.

Quel giorno però il beneaffetto ufficiale superiore aveva una tale aria di mistero, che gli si leggeva in volto.

D'altra parte, militarmente argomentando, un' escursione così improvvisamente ordinata dallo stesso capo di corjfo, semplicemente ad una compagnia già stanca, non poteva derivare da altre cause che non fossero i segreti ordini di un qualche movimento combinato con altre frazioni; e facemmo presto a capacitarci, che cosi stavano le cose, quando, dopo averci fatto percorrere il quarto miglio lungo la via provinciale, ci fece traversare boschi e gerbidi, il di cui disagevole cammino, non aveva niente di una amena passeggiata.

Dalla strada che conduceva a Morcone, traversando campi, boscaglie, e burroni, ci fece prendere la direzione del Matese (1), onde, dopo aver fatto per più ore la ginnastica sul suolo così frastagliato, ci trovammo traversata la via dal melmoso fiume Tammaro, nei di cui selvosi margini erano solite nascondersi intiere bande di briganti.

Giunti che fummo ad un trottojo (2) che aveva il suo termine nel lido più basso, non vedendo avanti di noi alcun ponte che ci offrisse il mezzo di traversare le cupe acque del Tammaro, domandai al colonnello che cosa dovevamo fare.

— Guadare quel fiume — mi rispose in modo conciso il colonnello — guadare quel fiume procurando di conservare asciutte le munizioni più che sia possibile.

Allora ordinai a tutti i soldati di legarsi al collo o sul capo la giberna e la tasca a pane entro le quali erano i sei pacchi di cartucce, e dopo di ciò presisi l'uno con l'altro per la mano, facemmo una specie di vivente catena che dalla riva ove ci trovavamo doveva giungere fino all'opposto lido.

Il primo della catena e per conseguenza il più esposto ad annegare fu Squillace, il quale, messosi ad armacollo il suo fucile e munitosi di un lungo bastone da lui improvvisato con un ramo di albera, si avanzava cautamente, tastando il fondo del fiume.

Per fortuna in quel punto le acque erano basse, e deboli i gorghi, diguisaché, meno un collettivo bagno fino alla cintura potemmo tutti sani e salvi raggiungere la prospicente riva

Alla coda della catena vi era il colonnello, che col suo cavallo potè come noi traversare il fiume bagnandosi appena la metà dei suoi stivaloni di bulgaro; e giunto che fu sul margine opposto mi offri una sorsatina del suo eccellente cognac, allo scopo (come lui disse) di levarmi l'umido di dosso.

(1)Matese, alta montagna che sovrasta la valle di Bojano.

(2)Cosi chiamano alcune viuzze a sterro poco o nulla rotabili.

Era vicina l'ora in cui suole dar volta il carro di Boote, ed un autunnale agglomeramento di nubi rendeva più oscura la notte.

Il colonnello con pochi lanci del suo destriero si spinse nel punto più elevato di quel suolo, ed ivi sceso di sella mi chiamò a sè e mi dette una carta topografica affinché l'aprissi mentre egli levava dal portamontò una lanterna cieca colla improvvisata luce della quale si mise a rintracciare un dato punto della carta.

Dopo avere in tal modo ricercato un pezzo mi domandò:

—Come è lei forte in topografia?

—Così così — risposi. —

—È al caso di orientarsi su questa pianta topografica, del punto che adesso noi occupiamo?

—Non sono tanto avanti in tale studio, perché mi riesca fare quanto non è riuscito alla S. V. illustrissima — risposi io. —

—Le pare almeno che la direzione dei nostro tragitto, sia quella che conduce a Sepino?

—Non potrei assicurarlo — risposi — ma è qui con noi il caporale Squillace, che essendo nativo di questi stessi luoghi, ed abbastanza còlto, potrebbe indicarcelo con maggior sicurezza.

—Lo interroghi — mi disse allora il colonnello. —

Io allora proferii ad alta voce il di lui nome, ed egli volò a noi dinnanzi, mettendosi alla posizione e pronunziando tali parole.

—Ai loro comandi. —

Il colonnello era sempre intento ad indagare quale si fosse il punto da noi occupato, cercando di orientarsi su quella carta, io intanto così mi espressi con Michele Squillace.

— Caporale, il signor colonnello desidererebbe sapere da voi come pratico del sito, quale sia adesso il nostro zenit?

A questa domanda Squillace cominciò a bene osservare intorno a. sé, e dopo un minuto secondo, coll'agilità di uno scoiattolo, montò sull'albero più alto da dove appena disceso così venne a favellarmi:

—Per quanto sia molto oscuro, nonostante mi sono accorto, che siamo nella direzione di Sepino, ed abbiamo lasciato sulla nostra destra la via che conduce a Guardiaregia.

Ripetei il tutto al colonnello, ed egli allora mi incaricò di domandare a quel caporale, se era alla portata di calcolare approssimativamente, quante miglia distavamo ancora da Sepino, e quale strada avremmo potuto incontrare più a noi prossima.

Feci come il colonnello mi aveva ordinato, e Squillace colla più assoluta convinzione mi rispose:

—Siamo ancora distanti cinque miglia dal paese, e marciando lungo il margine del fiume, sulla nostra destra troveremo la scorciatoia del cisternone, che ci condurrà al punto richiesto dal signor colonnello.

Infatti così bagnati come ci trovavamo, ci rimettemmo in cammino nella direzione indicataci da Squillace, e dopo una mezza ora di marcia, incontrammo una strada mulattiera, che era appunto quella, di cui aveva parlato Michele, e che indarno cercava sulla carta il nostro duce.

Aveva un bel come rintracciare quella viuzza; poteva bene ammattire il nostro ufficiale superiore, chi aveva tracciato quel lavoro topografico, aveva dimenticato la strada che dovevamo percorrere.

Il conte Mazé fattasi allora una chiara idea della nostra posizione, dopo una buona ora di cammino lungo quella via mulattiera, ci raccomandò di non fare rumore col tintinnio delle armi e di non parlare a voce alta.

Da tali raccomandazioni ci accorgemmo, che eravamo prossimi a fare qualche sorpresa ai briganti, onde un cupo silenzio accompagnava i nostri passi che suscitavano sordo rumore sullo sterro di quel sentiero.

La muta falange resa oscura dalle dense ombre notturne, si avviava compatta alla pugna, finché il nostro condottiero, ad un dato punto con voce sommessa ne comandava l'alto;

quell'alto, che precede la lotta, e che quando non ci fa vibrare le corde dell'animo, per lo meno, tronca il corso alle più nutrite speranze. Pertanto, saliti che fummo sul margine destro della via, ci apparve una vasta pianura, nel di cui mezzo rompevano le fosche ombre, alcuni fumicanti caseggiati di bianco cemento costrutti.

Quel gruppo di casamenti colonici formava un quadrangolo, delineato dai quattro casolari che erano ad ogni angolo di quella figura geometrica, nel centro della quale si ergeva maestosamente un principesco palazzo di stile medioevale.

Dal tetto del nobile ostello sporgevasi una grossa lanterna di cristallo, fatta per dare aria all'interno dello stabile, ma che in quella circostanza, colla sua luce, a lei rifratta dalle sottostanti faci, dava a vedere, ancora ai lontani, che persona di alto lignaggio ivi vegliava.

A questo punto dove noi eravamo, il colonnello mi ordinò di prendere con me una trentina dei soldati più risoluti, raccomandandomi di eseguire tale precisa consegna.

1° Avvicinarmi con circospezione verso quel caseggiato finché non fossi giunto a cento metri di distanza, ed ivi attendere un di lui segnale di tromba per eseguire allora l'assalto alla bajonetta contro i briganti che ivi supponeva trovarsi.

2° Che appena impegnata la zuffa facessi dare dal mio tromba il segnale appoggiate a destra, o appoggiate a sinistra, a seconda del punto ove più fosse stata viva la difesa e meglio asserragliato il nemico.

3° Che, se non avessi trovato in detto luogo alcuna banda di briganti, procurassi di rinchiudere tutti i coloni in una stanza, e poi mi fossi dato a rovistare per tutti i nascondigli, ed ultimate le più accurate e minute ricerche, avessi fatto suonare il segnale sciogliete le righe, cioché sarebbe stato a dimostrare che la consegna datami era stata eseguita a puntino.

Intanto mi fece capire che egli insieme al sottotenente Bacci avrebbero fatto distendere il resto della compagnia in cacciatori, allo scopo di circondare quella località, dalla quale, se a caso fossero fuggiti i briganti, avrebbero in essi militi trovato chi si sarebbe presa la briga di arrestare la loro fuga.

Come il colonnello mi aveva ingiunto fu eseguito il movimento; e dieci minuti dopo che eravamo arrivati al punto designato, cioè cento metri circa dal più prossimo casolare, udimmo un forte squillo di tromba, al quale fece eco un nostro collettivo grido di Savoja e dopo di ciò a righe aperte ci precipitammo tutti e trentuno colla celerità possibile sul già indicato ridotto.

Appena fatti da noi circa venti passi, una fitta scarica, che si partiva dalle finestre del palazzo ci venne diretta contro, ma i projettili di quella si spersero nei vacui delle nostre file solcando il terreno con lunghe strisce, e guardandosi bene dal procurarci alcun male.

Noi alla nostra volta, senza fermarci, rispondemmo con una scarica verso la direzione d'onde erano venuti a noi i projettili, ed al nostro fuoco di moschetteria fece immediatamente seguito, quello della truppa che veniva dietro di noi, la quale tirando da piè fermo potè meglio indirizzare i propri colpi.

A questo improvviso e continuato fuoco di riga e di fila che affummicava tutti quei dintorni, un razzolio di vetri infranti, un urlio generale, ed un incessante abbaiare di cani, accompagnò la scena di quel notturno assalto.

Noi a bajonetta spianata penetrammo nel primo casolare, che ci fu dato incontrare, e messe le punte delle bajonette alla gola dei pochi cafoni che vi ritrovammo impauriti e piangenti, chiedemmo loro ragione della scarica fatta contro di noi e del dove si fossero acquattati i briganti.

Quei villici esterrefatti per l'accaduto ci chiesero grazia della vita, in tal modo gridando — Madonna dello Carmine issi songono partiti.

— Chi mai è partito — domandai io. —

—I briganti — mi risposero in coro quei dieci disgraziati. —

—O i colpi di fucile che ci sono stati tirati? — seguitai a domandare. —

Songono li guardiani di sua eccellenza, che avendovi presi per i briganti della landa di Morgante vi hanno scoppetteato.

Appena scambiate queste brevi. domande e risposte presi in ostaggio quei dieci individui di sesso diverso, ed insieme ad essi mi diressi agli altri casolari dove trovai ancora una trentina di pacifici coloni, parte bifolchi e parte pastori, questi ultimi erano allora appunto intenti a fare il cacio cavallo.

Condussi quei quaranta prigionieri nella più capace stanza terrena, ed ivi, accertatomi dalle pesanti inferriate delle finestre che sarebbe loro riuscito impossibile lo evadere, ve li rinchiusi tutti come ne avevo ricevuta l'ordine; dopo di ciò con venti dei miei soldati, stabilii un cordone attorno al palazzo, e coi rimanenti mi feci a rovistare per ovunque di quei casolari.

In una ampia stanza terrena ad uso di stalla rinvenni una grande caldaia di rame con entro dei pezzi di agnello Bollito nell'olio, e due barili di vino, uno dei quali del tutto asciugato, e l'altro che conservava ancora qualche litro della gradita bevanda; tali avanzi di una mensa brigantesca stavano a comprovare che, come ci avevano detto i coloni, i briganti vi erano già stati, ma che all'ora non vi si trovavano più.

Rimaneva a vedersi se coloro che si erano chiusi entro il palazzo erano i guardiani, ovvero qualche squadriglia dei soliti ladri, ma per vedere meglio entro il maniero, volli attendere lo stesso colonnello, il quale, appena ebbi fatto sonare sciogliete le righe, venne a noi col resto della compagnia per compire l'operazione.

Il conte Mazé ordinò di rafforzare con altri trenta uomini, il cordone che avevo già messo intorno al palazzo, e dopo di ciò si fece ad esaminare il più vecchio di quei villici, ai quali aveva fatto rendere la libertà.

Questi che era un ottuagenario pastore dal bizzarro costume vestito di pelle di agnello e panno scarlatto, assicurò sulla sua vita il colonnello, che i briganti vi erano stati, ma che da un' ora erano partiti, e che coloro che si trovavano entro la casa padronale rinchiusi, erano gli otto guardiani di sua eccellenza.

Il portare a termine tali operazioni, aveva occupato un certo tempo, onde i primi, albori del nascente mattino, ci resero palese l'equivoco preso dai famigli di sua eccellenza nell'aprire il fuoco contro di noi.

Infatti non appena fu chiaro il giorno potemmo scorgere alla finestra del palazzo una fianca bandiera, segno di sottomissione, nonché le verdi uniformi dei guardaboschi nei di cui cappelli di incerato potemmo vedere il principesco stemma d'argento dove su di un plinto era scolpito un ippogrifo.

Quella foggia di vestiario, ed il sereno aspetto di quegli uomini d'arme, che tranquillamente stavano a guardarci dalle finestre, chiaramente dimostravano che nulla eglino avevano di comune coi feroci difensori del legittimismo.

I fieri guardiani di un incognito Signore, pentiti di aver fatto fuoco contro la truppa italiana, e gastigati perché uno di essi ebbe fracassato un braccio dai nostri projettili, ed un altro poco mancò che non rimanesse accecato da una scheggia della persiana, domandavano al colonnello il permesso di potere scendere abbasso; al che il colonnello rispose:

— Aprite pure le porte del palazzo, ché tocca a noi ad entrare e non a voi di fuggirci. Non siamo mica dei briganti noi perché ci toniate chiuse le porte in faccia!

A tale risposta tanto giusta quanto imponente, fu calato il ponte levatojo, e le pesanti porte ferrate dello ostello medioevale, scricchiolando, girarono sui cardini per dare adito alla stanca truppa ed ai suoi ufficiali.

Allora il padrone di casa si fece incontro al nostro colonnello per accoglierlo come si doveva, ed in pari tempo lo pregò di fare entrare ancora la intiera compagnia che fece comodamente alloggiare nel piano terreno dopo avere fatto fare una distribuzione di eccellente vino.

Appena entrati in quel recinto avevamo dimandato ai villici quali si fossero gli abitatori di quella ricca e comoda magione, ma essi non seppero risponderci altro che queste parole: — È uno ricco proprietario colla sposa.

Infatti a quei tempi era ben naturale che i ricchi procurassero di mantenere l'incognito, inquantoché i ricatti erano all'ordine del giorno, ed i nobili viaggiatori che in quella circostanza abitavano tale campagna erano stati già richiesti dalla piccola banda di Morgante, della somma di dieci mila ducati.

Ma pare che quella volta i ricchi ospiti della boschereccia dimora facessero, (come suol dirsi) orecchio di mercante, essendo stati già troppo aggravati dall'imposizione della banda di Caruso, il quale a prezzo di copioso oro lasciava loro vivere in pace, e prometteva una specie di salvacondotto. perché non fossero molestati da altre bande.

Onde si spiega bene come i guardiani in quella notte oscura avessero sbagliato noi per i briganti del bosco della grotta, ogniqualvoltaché per la partenza della banda Caruso e per il diniegato ricatto si aspettavano da un momento all'altro una sorpresa o una vendetta per parte del famigerato Morgante.

Quella fattoria che colle sue estese terre si distingueva pel nome di Abbadia di San Severo, da molti anni era stata amministrata dal signor Giovanni Giancoli di Sepino, per conto dell'opera pia, alla quale era da lungo tempo appartenuta; ed agli occhi dei coloni della medesima, che sempre con quell'amministratore avevano regolato i loro interessi, appariva egli solo, il proprietario di quei lati fondi.

Infatti appunto in uno di. quei giorni di settembre giunse al capo dei cafoni un ordine del Giancoli, col quale ordine gli si ingiungeva di ricevere coi dovuti onori due personaggi che l'indomani sarebbero arrivati in quella

Abbadia, il di cui palazzo padronale doveva essere messo completamente a loro disposizione.

E cosi avvenne, ché appunto il lunedì di quella stessa settimana in cui noi facemmo la notturna sorpresa in quella campagna vi era apparsa una portantina da due persone esteriormente dorata, e trasportata da due grosse mule bianche, ciascuna delle quali era condotta a mano da un servo vestito di panno verde, con ghettoni di panno nero e bottoniere di argento, con cappello di feltro bianco a larghe tese, e con panciotto di panno rosso scarlatto.

Precedevano la portantina due guardiaboschi calabresi che montavano dei superbi cavalli sferrati, dai larghi petti, e dalle lunghe e voluminose code.

Due altri guardiani su di simili cavalcature galoppavano da destra a sinistra della lettiga, e gli ultimi due si mantenevano di qualche passo indietro, facendo fare spesse giravolte ai loro cavalli, tanto per potere indagare se fossero stati fatti segno a qualche malandrinesca sorpresa.

A pochi passi di distanza, altri due cafoni tiravano dietro di loro alcune giumente cariche come si deve delle suppellettili e dei bagagli dei nobili viaggiatori.

Questa carovana bene armata e così disposta, dalle dirupate vie che si trovano appena usciti da Castropignano doveva condurre e scortare fino a quella Abbadia dei grandi personaggi; infatti appena quel bizzarro convoglio fu ivi giunto, i conduttori delle mule deposero il prezioso fardello, facendo vedere agli accorsi cafoni, due giovani ed eleganti sposi, ai quali, il vecchio custode del palazzo e tutta la servitù si fecero incontro siccome a padroni.

Ed ecco come tutti i pastori e coloni ai quali avevamo già dimandato chi fosse l'ospite o il signore di quel castello, non potettero darci altro ragguaglio all'infuori di quello che era la famiglia di una eccellenza.

Non fu così quando entrò nel palazzo il nostro colonnello; egli ancora giovane ed elegante, un poco pel desiderio di fare la corte alla gran dama, che signoreggiava su quelle terre, ed un poco per vedere bene se dentro a quel misterioso e ricco romitaggio, vi fosse ascoso un qualche capo reazionario, chiese di parlare coi signori di casa chiunque essi si fossero.

A tale domanda si presentò al colonnello un giovane ed elegante gentiluomo, il quale non solo palesò il suo nome senza reticenze, ma invitò noi ufficiali a voler prender parte al di lui gustoso e prolungato asciolvere che fu ordinato per le ore undici, dandoci così il tempo di passare qualche ora di sonno. .

Prima di sederci a tavola, il colonnello Mazé de la Roche fece la nostra presentazione ai giovani padroni di casa, i quali erano niente altro che il signor Giacomo Lo Giudice, divenuto duca di Castropignano, e la duchessa Costanza ormai da qualche anno di lui consorte.

A tali nomi ed alla vista di quella mesta, bionda e pallida bellezza, mi risovvenni della dolorosa storia di amore del povero Squillace, e riconobbi tutta la ragione che egli aveva di esserne così pazzamente innamorato: però ancora in quell'angelico volto, seppure in mezzo alla più soddisfatta e briosa esistenza, mi sembrò ravvisare i segni di una occulta passione.

I discorsi si raggirarono da prima sulla stranezza del fatto successo, dipoi caddero sulla politica interna del Rattazzi, che sotto gli occhi della legge aveva permesso che si preparassero gli infausti giorni di Aspromonte.

Io che un pochino mi occupavo di politica mi trovavo imbarazzato nel rispondere alle varie domande che mi venivano fatte in proposito; e come poteva essere diversamente allora quando i miei pensieri erano tutti rivolti alla coincidenza del caso, e all'infelice Michele, che pochi minuti prima mi aveva accennato di un inesplicabile turbamento dell'animo suo?

Nissuno infatti avrebbe potuto immaginarsi che in quella località così esposta alle visite dei briganti potessero soggiornare tanto ricchi signori, e molto meno poteva supporlo Michele, il quale sapendo che lo sposo di Costanza possedeva a Castropignano stesso amene campagne mai più avrebbe potuto credere che per la sua villeggiatura avesse avuto bisogno di ricorrere ad un possesso appartenente all'opera pia di Sepino.

Nonostante tutte queste giustificanti ragioni che escludevano il caso che il di lui turbamento spirituale avesse origine dalla vicinanza dell'oggetto amato, mi aveva detto Michele sentire nel suo interno che qualche cosa doveva avvenirgli di fenomenale.

Era niente altro che una libera manifestazione dell'animo suo veggente, e penetrante della materia che faceva ostacolo agli organi visuali ma non alla potenza psichica.

Michele come tutta la bassaforza avrebbe dovuto essere a riposarsi nel piano terreno, il di cui suolo era ricoperto di verniciati quadrelli in terra cotta, e le pareti erano rivestite di una quantità di preziosi quadri e di trofei antichi.

I nostri fantaccini se ne stavano ivi sdrajati su tante e diverse materasse che il duca aveva fatto loro apprestare come giacigli, e dopo una dormita di cinque o sei ore, quasi tutti quei militi allora appunto erano ivi intenti a confortare senza risparmio lo stomaco.

Michele solo si aggirava come un mentecatto per le stanze ove erano i guardiani a domandare loro notizie del suo ideale, quelli però che lo credevano un curioso, nulla rispondevangli di consolante, e figuravano di nulla sapere; tale era stato l'ordine che avevano ricevuto dal padrone prima di aprire le porte del palazzo.

Povero Michele, non riposava, non si refocillava, era solo, sconfortato, ed inconsolabile in mezzo a tanti esseri felici.

Io sarei stato smanioso di far sapere a Squillace che 11 complemento dei suoi desiderii era avvenuto, ma due forti ragioni me lo vietavano; l'una che sarebbe stato sconveniente l'alzarsi da tavola e scendere al pian terreno ove egli si trovava; l'altra che, conoscendo il di lui carattere espansivo, e i sommi gradi della sua follia amorosa, temevo in lui qualche imprudenza.

Provavo, è vero, un certo rimorso a far passare quella fortunata occasione di rendere felice quel bravo e sventurato mortale, ma come fare?

Chiamarlo io stesso non poteva, mandarlo ad avvisare, sarebbe stato lo stesso che mettere un altro alla confidenza di si delicato segreto: come fare? come fare?

Però è vero che quando i destini si maturano, gli accidenti i più imprevedibili avvengono colla massima spontaneità.

Infatti pervenuti che fummo alla fine di così gradita refezione, il colonnello che aveva a quell'ora già formato una certa amicizia col duca, per tante altre conoscenze che avevano in comune, con quella certa confidenza che nasce fra amici degli amici, così disse al marito di Costanza.

—Potrei io chiederle un favore, ancora in nome della pubblica sicurezza?

—Disponga pure — rispose il duca — di me e di tutte le mie cose.

—Ebbene, io avrei estremo bisogno di uno dei suoi guardiani per mandare alcune lettere di premura a Campobasso.

—Si serva pure — replicò il duca gli darò Franano (così aveva nome uno dei guardiani) — sono sicuro che in meno di tre ore quell'indemoniato sarà qua colla risposta. — Ha un così bravo cavallo!!

—Non occorre risposta — rispose il colonnello — a me basta che tali lettere abbiano immediatamente il loro recapito.

—Di questo ne sia sicuro — rispose il duca.

—E adesso mi occorrerebbe scrivere — chiese il colonnello.

—Passi pure nell'ultima stanza che è qui in fondo alla corsia, ivi ho lo scrittoio, e vi troverà tutto l'occorrente per la sua corrispondenza. — In così dire il duca si alzò per andare ad accompagnare il conte la Roche.

A questo punto il colonnello si rivolse a me, e mi domandò chi era fra i graduati della compagnia quello che avesse una migliore calligrafia, e che fosse più corretto nello scrivere a dettatura.

—Il caporale Michele — risposi io — quello stesso che la notte decorsa ci ha spiegato la posizione da noi occupata.

Di quanti colori divenne il viso della duchessa all'udire il nome di Michele non saprei decifrarlo; il repentino apparire e sparire del colorito dalle sue guance mi fece capire che ormai più ché un presentimento essa aveva la certezza che ivi fosse il sospirato Lui.

E non era cosa strana, ché non aveva mai perduto di mente la circostanza nella quale lo. aveva potuto rivedere in Napoli vestito da caporale di fanteria, ma il non aver potuto distinguere per la lontananza il numero del reggimento l'aveva resa incerta e perplessa se quello appunto poteva essere il corpo dove egli militava, allora specialmente quando a Napoli transitavano le diverse frazioni di quasi tutti i reggimenti italiani.

Ma ancora la sentimentale Costanza in quella giornata non sapeva rendersi ragione di un certo interno turbamento molto al di sopra dello spavento che in altra occasione avrebbe in lei prodotto la scena notturna avvenuta intorno al suo palazzo.

Tali ricordi, questo psichico presentimento, nonché la magica parola da me proferita nel nome di Michele, resero intuitivamente certa la duchessa, che egli, il perduto oggetto del suo unico amore, sarebbe fra pochi istanti passato per il corridoio sul quale comunicava la porta della sua stanza da lavoro, perloché fattasi animo chiese il permesso di momentaneamente assentarsi dal luogo della nostra conversazione per andare nel suo gabinetto a finire (come lei disse) un lavoro di ricamo, che aveva urgenza di ultimare per l'onomastico di una sua amica.

Il duca contento che la di lui moglie trovasse sollievo alla sua abituale malinconia nei prediletti lavori femminili preso da tenerezza coniugale le disse:

—Vai pure, o amica mia, vai alla tua gradita occupazione, se questi signori te lo permettono, che io penserò a tener loro compagnia. —

Dopo aver ciò detto, si rivolse a noi, e soddisfatto della sua felicità soggiunse.

— Che gioja di moglie!

Nè aveva torto.

Era una bella giornata d'autunno la di cui splendida luce di un cielo puro ed azzurro, aveva sconfitto le invadenti nubi della notte antecedente; la stanza da pranzo dove eravamo rimasti momentaneamente soli il sottotenente Bacci ed io aveva le sue finestre spalancate che davano sul sottostante piazzale, su di cui i nostri soldati dopo avere bene mangiato e bevuto se ne stavano alla solina.

Il colonnello nello avviarsi allo scrittojo insieme al duca, che non cessava dal parlargli di politica rattaziana. mi aveva ordinato che gli mandassi Squillace, del quale, appena finito di fumare il suo eccellente avana si sarebbe servito per fare il carteggio ufficiale con le autorità di Campobasso.

In quel frattempo mi affacciai alla finestra, e dissi ad un soldato che avvisasse il caporale Squillace di venire su dal colonnello, che aveva bisogno di vederlo.

Il dado era ormai gettato; ma non supponevo mai che la duchessa avesse avuto tanto coraggio civile da andare incontro al suo amante ivi a poche spanne di lontananza dal marito: credetti invece che si fosse realmente ritirata nel suo gabinetto per la ragione che ci aveva esternato, onde me ne rimasi spensieratamente a fumare nella sala da pranzo, certo che alcuno dei servi avrebbe insegnato al caporale Squillace la stanza dove il colonnello era ad attenderlo.

Michele in un attimo sali le scale colla sua solita sveltezza ed un cameriere gl'indicò la corsia che ei doveva traversare per giungere presso il signor colonnello.

Ma nel fare quel breve cammino il cuore gli batteva fortemente, e senza sapere il perché i suoi occhi erano attratti per forza irresistibile verso una portiera. — La portiera della sua felicità. —

Non appena fu arrivato a quel punto dove comunicava la porta d'ingresso del gabinetto da lavoro di Costanza, una inopinata visione, come per incanto gli apparve: ei scorse ebro di gaudio l'angelo suo che a sé lo chiamava.

Fu un urlo, un duplice urlo di disperata contentezza, che risuonò per le volte di quell'appartamento, e che andò a perdersi fra i silenzi affannosi del nuovo santuario del loro amore.

Io solo compresi tutto il significato di quell'urlo improvviso, e corsi sollecito a riparare l'imprudenza di due esseri accecati dalla passione.

Avanti di giungere colà, dove Michele e Costanza mischiavano castamente le prime loro lacrime di consolazione, queste parole si fecero da me intendere:

Sposai un altro ma amai sempre te solo!

Era Costanza che le proferiva mentre Michele la baciava in fronte e singhiozzava.

Io entrai ratto nella stanza, e preso per un braccio Squillace lo strappai da quell'innocente ma pure pericoloso amplesso, dicendogli in tuono di superiore:

—Meno fanciullaggini, andate a fare il vostro dovere.

Michele ubbidì, e ricompostasi la scarmigliata chioma

s'incamminò verso lo scrittoio, incontrando per la corsia il duca, che appunto allora si recava dalla consorte.

Pochi minuti più che si fosse prolungato quel breve abbracciamento, tutto sarebbe stato scoperto dal marito, e l'onore di Costanza sarebbe divenuto giuoco di avverso destino.

L'inconscio marito invitò anche me ad entrare nel gabinetto della duchessa, e nel ritrovarla abbattuta e scomposta nelle sembianze, temendo qualche di lei improvviso malore, si fece a colmarla di premure e di carezze.

Io dal canto mio, nel vederla pallida in viso come una statua di alabastro, temetti che, peli' impressione ricevuta le minacciasse qualche deliquio, onde fui premuroso di offrirle ad odorare una piccola fiala con entro acido fenico ed essenza di rose.

Infatti le di lei guance presero di bel nuovo le abituali rosee tinte, ma il suo seno non cessò dal tramandare prolungati sospiri,  né gli occhi, per il momento, poterono sottrarsi dal pianto.

(Convenimmo io ed il marito che era pianto isterico!?)

Nel restituirmi la fiala odorosa, Costanza mi ringraziò e nel tempo stesso mi fulminò con due occhiate come se avesse voluto annientarmi.

Era stato io il crudele che aveva troncato il di lei incanto amoroso, ma aveva torto di malvolermi, perché nel tempo stesso, ero stato io solo che l'aveva salvata.

Sentivo già di volerle io pure un bene fraterno, non fosse altro che per la di lei si rara fedeltà in amore, propria del nome che portava.

Il caporale Squillace fu poco buono di scrivere a dettatura, la di lui mano tremava ancora, come quella di un paralitico, onde il colonnello lo redarguì, ma egli trovò la scusa di un forte mal di capo, perocché dopo avere alla meglio ultimata la corrispondenza, fu congedato.

Io stavo ad attenderlo nel corridojo mostrando di ivi ammirare alcune dipinture, ma in realtà mi trattenevo per impedire che Squillace commettesse una seconda imprudenza.

Al contrario di quanto mi sospettavo, egli ripassò da quella corsìa in modo riservato, e quando mi fu accanto gli dissi:

— Giudizio, ché le montagne stanno ferme, e gli uomini si rincontrano.

Egli capì il significato di quelle parole, ed a testa bassa passò avanti la porta del salottino di Costanza, che questa volta era chiuso.

Vi era il marito!

Poco tempo ancora noi rimanemmo all'Abbadia di S. Severo, ché si partì in quello stesso giorno, e in quelle poche ore, Costanza rimase sempre alla finestra per vedere sul piazzale il di lei amato Michele.

Michele ancora era ivi a contemplare l'amica dei sogni suoi, che era l'oggetto del suo unico eterno amore.

Si facevano continuamente dei segni, si tiravano dei furtivi baci, e di tanto in tanto si asciugavano qualche lacrima che spuntava loro dal ciglio in ripensare alla brevità di tanta gioja.

Quei fidi e sventurati amanti, due minuti soli, non più di due minuti si erano riveduti, avvicinati, parlati, ed abbracciati, dopo sei anni di dolorosa lontananza, ma quei brevi momenti, valevano per loro quanto la voluttà di molti secoli per altri, quanto la felicità complessiva di tutti gli eletti del paradiso.

Squillace come guidato da una sopraggiuntagli idea sparì per un momento dal piazzale, dove non a guari ritornò con in mano una lettera.

Costanza che era sempre alla finestra a ricercare cogli occhi il suo Michele, si accorse della medesima, e stando bene attenta dove l'avrebbe nascosta, seguì collo sguardo ogni atto di lui, immaginandosi che egli avesse in animo di celarla in qualche luogo.

Dopo avere un pezzo indagato, egli trovò un mattone del suolo che era stato smosso; lo sollevò del tutto, e vi pose in luogo del calcinaccio, la lettera, sopra alla quale ricollocò il mattone in modo che non sembrasse sconnesso. '

Costanza, che dalla finestra aveva attentamente assistito a quella operazione, fatta da Michele cautamente ed in un angolo appartato del piazzale, fece segno col capo di aver tutto ben compreso, e pensò che in quel fragile pezzo di foglio, abbandonato così alla ventura si compendiavano tutte, le di lei speranze di un più felice avvenire.

All'una dopo il mezzogiorno ci ponemmo daccapo in marcia alla volta del Matese, dopo esserci congedati dai signori dell'Abbadia che ci colmarono di attenzioni

I cortesi padroni di quel nobile ostello dal verone assistettero alla nostra partenza, agitando all'aria dei bianchi fazzoletti, ed i coloni tutti vollero accompagnarci un pezzo in là gridando entusiasmati viva lo Re, viva Garibalda.

Michele era in serratile del secondo pelottone e marciava macchinalmente rivolgendosi un passo sì ed uno nò verso la finestra di Costanza, da dove un capo biondo esposto ai raggi solari ne ripeteva i colori dell'iride, ed un bianco panno coi suoi ondeggiamenti segnava nell'aria prolungati addio.

Il caporale Squillace mi chiese il permesso di legare al suo fucile una candida pezzuola, io glie lo concedetti, ed in tal modo la significante stoffa agitata da una frizzante aura montanina, faceva gli ultimi saluti alla cara sua, che come lui spasimava per la brevità di un gaudio così lungamente desiderato.

Camminammo ancora tutta la giornata veniente e tutta la intiera notte, passammo da Guardiaregia (1) nei cui dintorni facemmo prigioniero un disertore dello stesso nostro reggimento, e nativo di Sepino.

Questo giovane soldato, istigato dai parenti, non aveva voluto partire per l'Italia centrale, dove era stata man. dato la di lui compagnia, onde è che si era reso latitante, commettendo altresì l'imprudenza di vestire l'uniforme.

Per l'appariscente color turchino del suo cappotto fu potuto sborniare allora quando si stava nascosto sotto un cespuglio; il fiancheggiatore che fu il primo a vederlo, con pochi passi di corsa gli fu addosso, ed arrestatolo, lo consegnò al colonnello.

Quel disgraziato milite di appena ventitré anni confessò la sua mancanza, ma giurò di non aver mai fatto male ad alcuno, e di essere vissuto ramingo fra i boschi, cibandosi di frutti d'albero e di radiche di erba, onde implorò dal conte Mazé de la Roche, la speciale concessione di essere riammesso in servizio.

Il colonnello mi ordinò di tenerlo alla coda della compagnia ben guardato a vista: strada facendo quel disgraziato mi domandò qual gastigo gli verrebbe infitto, ed io gli risposi che molto facilmente lo avrebbero mandato alla reclusione militare.

(1) Piccolo paesetto che è a metà della montagna il Matese.

M'ingannai, ché appena arrivati a Sepino, dove egli aveva genitori vivènti, fratelli, ed amici, ivi sulla piazza più popolata ed in giorno festivo, fu fucilato d'ordine del colonnello Mazé, il quale in quella circostanza fu inesorabile.

Faceva d'uopo dare qualche terribile esempio, che ormai trenta erano stati i disertori del 36° reggimento,

L'indomani dopo esserci incontrati con la 13a compagnia, e con una divisione del 45° reggimento, dalle vette del Matese ritornammo a Campobasso, da dove si era detto di partire per poche ore.


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CAPITOLO VI

Gli Sponsali

Quando i monelli si posano sui ginocchi della nonna ad ascoltare la novella delle fate, e se ne stanno con tanto d'occhi spalancati a sentire lo scioglimento del favoloso racconto la buona vecchia suole spesso dire loro queste parole:

— Per tornare un passo addietro. —

Così dirò io al cortese lettore.

Bisogna ritornare sette anni indietro per giustificare la causa dell'apparizione di Costanza all'Abbadia di San Severo, e per riandare allo svolgimento dei fatti, che resero quella amabile donzella sposa di altri, anziché dell'amante Michele.

Dopo l'abboccamento avvenuto nel giardino del duca tutti i giorni quei due innamorati si erano, nel solito punto, veduti.

La vita di beatitudine, che allietò loro il tempo succeduto al momento avventuroso, in cui, col primo bacio si dichiararono imperituro affetto, non ha l'eguale fra le presenti e passate felicità umane.

Si amavano per amarsi soltanto!

Felici di vedersi tutti i giorni e dirsi i propri pensieri, le speranze ed i più intimi segreti delle anime loro, non aspiravano a cose materiali, che il di costoro affetto, era un nuovo genere di idealismo forte ed appassionato, che non aveva altra mira, al di là che quella d' interessarsi l'uno della felicità dell'altra.

Ciascheduno dei due amanti esigeva di sapere appuntino, come l'oggetto amato impiegava il proprio tempo, e se per caso qualche minuto di ritardo, si frapponeva al combinato abboccamento, ognuno dei due era premuroso di giustificare il perché era avvenuto.

I fiori più fragranti e rari, le rime le più malinconiche ed affettuose, nonché il ricambio di affettuosi baci fraterni erano state le sole marche colpevoli durante la loro innocente relazione di un amore che guidava i soli spiriti indiati di quelle sventurate creature.

Si volevano bene come due onesti se lo vogliono, cioè senza turpi fini, e con rispetto reciproco, onde nessuno atto, che accennasse ad impurità sensualista, lordò mai le limpide acque della loro passione, ché i baci sulla fronte, e lo stringersi l'una coll'altro al seno furono i passi più avanzati della costoro ebbrezza amorosa.

Sapevano bene, che unione legale fra loro sarebbe stata difficile, ancora se i respettivi autori non si fossero vicendevolmente detestati} ma poiché la furia demoniaca degli odii paterni, avevano fra essi imposta una insormontabile barriera, si avvedevano pur troppo che il loro matrimonio sarebbe stato impossibile.

E. che perciò?...

Speravano in un meno rigido avvenire, ed intanto maledivano il destino dei padri; e quando silenziosi assistenti alla mensa delle rispettive famiglie, sentivano che le rampogne dei loro cari andavano a colpire l'autore dell'essere amato, ricevevano nuove disillusioni sulle concepite speranze, e nuovi tormenti frangevano i loro cuori.

Insensibili a tutto il mondo che circondava loro, eglino, divenuti ormai di un sol cuore, e di una mente sola, niente curavano all'infuori del loro affetto.

All'alba qualche romanza, cantata da Michele con. mesta melodia di amoroso lamento, andava ad inebriar il cuore della dolce Costanza, la quale, appena finite quelle elegiache note, rispondeva ad usura, facendo vibrare le corde del suo cembalo, con mille frasi di incantevole musica.

Era di paradiso l'esistenza loro, e gl'invisibili spiriti angelici gioivano per tanta sublimità di affetti, dubbiosi se quell'appartato angolo di terra fosse divenuto di due loro simili il beato soggiorno.

Costanza — già lo dissi — era bella e gentile di forme, ed aveva un cuore più benfatto del suo divino sembiante: paragonarla ad Elena la preferita di Paride, a Sulamita del Cantico dei Cantici, alla mesta Neera di Tibullo, sarebbe stato lo stesso che avvilire la di lei sovrumana beltà; tanto era superiore alle altre bellezze conosciute, nelle sue angelico sembianze.

Da tutto ciò è facile arguire, che quel peregrino giglio del silvestre Sannio, era ormai divenuto, la poetica ammirazione di tutti i giovani di quella provincia, della quale i meglio eletti formavano i loro sogni dorati, sulla di lei conquista.

Ricchi, belli, titolati, romanzieri, poeti, artisti, e baldi lottatori, tutti in grande quantità si aggiravano intorno alla di lei casa per solo vederla, nel tempo stesso che aspiravano all'ambita fortuna di essere a lei presentati, e quando ciò potevano ottenere, presi dalla di lei bellezza si stempravano in amorose occhiate, ed in proteste di ricevute impressioni.

Ella però era indifferente verso tanti pretendenti, e senza parzialità per alcuno, ricuopriva tutti con eguale noncuranza; quella tale noncuranza che non eccede i limiti della convenienza.

E come poteva essere diversamente se ella amava Michele?

Ma Michele ancora non viveva più che per lei; a lei pensava, per lei pregava Iddio, e lei cercava ovunque col desiderio, coll'opera, con tutta la potenza dell'anima sua.

Squillace era stato per lo avanti un abile ed attivo procuratore legale, ma a quel suo punto estremo di passione, gli affari erano divenuti la minima delle sue preoccupazioni, ché andava allo studio con animo di lavorare, ma ivi giunto, anziché occupare le sue ore sui codici, le passava alla finestra per origliare un possibile passo, un sospiro, un detto, o un canto della sua metà psichica, la di cui immagine gli si era esclusivamente fissata in cuore.

Appena giunta l'ora deir inoltrato pomeriggio, Michele abbandonava ogni sua occupazione, qualunque fosse stato l'interesse che ivi lo avesse trattenuto, inquantoché la prevalente premura di quel desiderato momento, era lo andare al convenuto abboccamento, che procurava a lui felicità superiore a tutte le altre che gli avrebbero potuto procacciare la fama di valente giurista, o la facilità di vistoso lucro. .

Quando poi, al sopraggiungere della sera, Costanza si ritirava nei di lei appartamenti, Michele passeggiava intorno alle di lei soglie, pago di ammirare il contenente, non potendo più contemplare il caro contenuto; allora soliloqueva a riguardo della sua affezione verso Costanza, della di cui fedeltà andava ad interrogarne gli astri inghirlandati di luce, le mute selve, ed i pescosi rivi.

Era troppo innamorato il nostro Michele, perché potesse abbandonarsi a lunghi sonni, e ne brevi ed incantevoli sogni che gli avvenivano durante i pochi momenti del suo dormire, vi cercava ansioso un qualche significante segno del suo avvenire di amore.

Non era cura affettuosa, ma delirio di cuore quello che si era impossessato di lui.

Egli era sempre stato di un carattere dolce e remissivo, ma gli ostacoli che si frapponevano a lui nella sua gigantesca passione, lo avevano reso di un umore risentito ed intollerante.

Imprecava giustamente contro le cause che avevano suscitato l'animavversione di suo padre verso il duca Carlo; ma, ciò che è peggio, malediva la sua nascita e l'ingiustizia sociale, che stabilisce le differenze di casta.

Insomma rampognava i destini avversi, e sebbene deista, non voleva riconoscere in essi la ragione delle espiazioni.

Spesso diceva a se stesso:

—Se è ricca, buona, bella, e nobile, se non può essere mia, perché dovevo io sognarla?

—Incontrarla perché?

—Perché sentire tanto bisogno di amarla?

Da un punto di vista avrebbe desiderato di vederla felice, potente, sinanco regina; da un altro punto, avrebbe ambito di saperla povera operaja, vestita di sajo, ed attendere alle più basse cure, onde cosi argomentava.

—Se misera popolana, se oscura ancella fosse ella in questo paese vissuta, e la avessi in rozze vesti veduta come da duchessa la sognai, quale ostacolo adesso si frapporrebbe alla nostra unione?

—Percfct duchessa, perché duchessa ella mai, cui io col mio assiduo lavoro, da povera l'avrei resa. agiata, e da ignobile campagnola, la moglie di un onesto legale?

—Otto ore del giorno io avrei avuto la fermezza di occuparmi per procurarle tutti i comodi di una felice esistenza: e sempre al di lei fianco, nell'inverno rigoroso l'avrei riscaldata col mio alito, o fattale della mia veste un secondo strato al di lei letto, e quando il sole sferza prono sul di lei capo, le avrei commossa l'aura refrigerante.

—Se tanta grazia mi avesse concesso il cielo, la vita per me sarebbe stata un incanto, la morte un lusinghiero viaggio: come sarei stato felice!

Cosi fantasticava Squillace nella sua mente rapida, indi in un nuovo slancio di generosità, in tal modo riprendeva:

—Ma io sono troppo egoista a voler rendere una donna comune, colei, che è un essere talmente privilegiato?

—Ne ho il diritto di pretendere, che per appagare la mia folle passione, ella dovesse ridursi a vivere come l'infima delle borgesi.

No, no — disse Michele a se stesso — ciò non può essere ché, quando Iddio fece nascere su questo basso punto del cielo materiale, che chiamaci la terra, un essere, che ai profani rammentasse gli angeli del cielo, ed agli artisti o ai poeti, l'ispirazione e l'architipo delle arti loro, ciò significava che, quell'essere preferito dalla creazione doveva brillare nel mondo più elegante, e non romitare fra i silenzi di una vita da popolana.

—Io solo — finì col dire Michele — io solo deggio consacrarmi all'oscurità e forse al diuturno corruccio: ella non deve dividere la mia sventura.

Simili strani ed opposti giudizi si erano successi nella mente di Michele esaltata per l'amore e per il timore di rendere Costanza non del tutta felice, quando ad un dato punto sentì per intuizione, che la di lui felicità era presso ad avere il suo termine.

Mi servo delle stesse genuine espressioni, delle quali egli si valse, nel raccontarmi il fatto.

Così parlò Michele:  — Era un giorno di venerdì, quel giorno sacro a Venere impura, e che segna il giro delle stree o lemuri perdute, accanite persecutrici degli onesti sventurati.

Mi trovavo al solito posto del giardino per attendere da qualche tempo la mia Costanza: arrivava allora, per la prima volta, un così lungo indugio di lei, onde si erano in me destati cento sospetti.

—Fosse mai indisposta!? — pensavo. —

—Fosse a caso partita;?

Si fosse scoperto il nostro convegno e la tenessero

rinchiusa!?

Tali e siffatti dubbi si affacciavano sinistramente all'animo mio, allorché mi sopraggiunse un'intima voce che così mi disse — niente di tutto ciò. —

Allora un timore, dei primi mille volte più straziante, conturbò tutte le mie facoltà mentali, e mi procurò un funereo gelo nel cuore.

—Si fosse mai dimenticata di me per dar luogo ad una seconda affezione?...

Tale era il dubbio che incominciava a tormentarmi lo spirito, al punto tale che, reso debole dall'eccitamento nervoso, mi fu giuoco forza sedermi nella più prossima panchina del giardino, convinto ormai che ella più non giungesse.

Stavo ivi afflitto e pensieroso riflettendo alla instabilità degli umani affetti, ed ancora a riguardo di Costanza, facevo i più ingiusti apprezzamenti.

Ad un tratto, certo insolito muover di foglie, mi tolse da tali riflessioni, e mi fece volgere il capo verso la parte d'onde era a me pervenuto quel rumore.

Propriamente lei si avanzava verso di me; era scarmigliata nel crine ed aveva gli occhi cerchiati di rosso pel lungo pianto.

Prima che io avessi avuto il tempo di sollevarmi dal mio sedile, ella corse ad abbracciarmi e posò languidamente il suo fianco presso il mio, fissando i suoi sguardi nei sguardi miei.

Così rimanemmo muti ed estatici per qualche momento, io cercavo una traccia di colpa nel suo bel viso, ma non ve la ravvisavo; pur nonostante il pensiero del di lei abbandono, non so il perché seguitava ad angustiarmi e...»

A questo punto Michele, per la troppa emozione, non potè proseguire il suo racconto, e. quando si fu rasserenato potei raccapezzare da lui le seguenti fasi della sua leggenda d'amore.

Ormai, al punto in cui erano, si davano del tu, che amore, quando è vero, tutto pareggia, ancora le differenze di posizione sociale, onde, dopo pochi minuti di quella tacita scena, con tale confidenziale sortita. Michele per lo primo così ruppe il silenzio:

—Mi hai già dimenticato a segno tale da farmi qui attendere invano per oltre un'ora?

Costanza a tali detti che suonavano rimprovero, ravvolgendo colle sue bianche e seminude braccia il robusto collo di Michele

—Ingrato — disse— e come puoi tu fare tanto temerario giudizio?

Non è un giudiziorispose Michele — è invece un gran timore che mi assale. Il fare giudizi è proprio di una mente calma; io all'opposto mi sento adesso alquanto sconcertato nelle facoltà mentali; onde ti prego a volermi perdonare se le mie parole furono poco gentili. — Non è vero che mi perdonerai?

—Se ti perdono — rispose Costanza — se ti perdono?— ma può mai anima che ferve del più sacro fuoco di amore negare il perdono a colui che ama?

Dopo tali espansivi detti, ella si fece a tergere novelle lacrime dai di lei occhi, raggianti di glauco splendore, ed indi così soggiunse.

—Se sapessi o amico mio quanto ho sofferto da che non ci siamo più riveduti!

—Se tu lo avessi mai potuto immaginare, sono certa che avresti risparmiato a me quell'ingiusto rimprovero, ed a te il nutrire in petto dubbi indegni di noi.

Mortificato da tali parole Michele, ridivenne affettuoso verso di lei, onde così si fece a domandarle:

—Tu hai sofferto o anima pura? Tu, così buona e gentile hai sofferto? Ma chi fu mai quel mostro che osò conturbare la serenità dell'animo tuo?

—Il destino o mio Michele; quel rio destino che mi vuole vittima delle sue inique leggi!!

—Ma pu re che ti avvenne? Parlami chiaramente, raccontami tutte le tue dolorose vicende; e tu ben sai, che il tuo cordoglio è ancora il mio — replicò con premura Michele. —

—Ebbene tutto ti dirò o mio diletto, ma promettimi di essere calmo,  né di volerti scoraggire per quello che mi accingo a raccontarti. —

Dopo tale premessa così cominciò a narrare la buona Costanza:

Rovistando fra i libri di mio padre ne trovai uno che trattava di fisiologia delle passioni umane, e nel capitolo consacrato all'amore tali parole io lessi: Non è bello l'amore se non ha contrasti.

—Persuaso di tale filosofica verità, mostrati animoso o Michele, e mantienti fiducioso in me.

Così esordì la sennata Costanza, e poi in tal modo riprese:

Ieri sera, dopo che ti ebbi lasciato, mi ritirai più che % sempre felice nel mio salottino da lavoro, per ultimare alcuni ninnoli di crochet

Ripensando a te palpitavo, ed un'orizzonte dorato, r orizzonte del nostro avvenire, si spiegava troppo lusinghiero, davanti la mia immaginativa.

Ad un tratto avvertii il passo di due persone che dalla parte dell'andito, accennavano venire verso di me: il loro incedere era lento, sordo, e misurato, quale è quello di coloro che sono dietro a spiare, o a sorprendere alcuno.

Devi premettere, che ieri stesso, al mio genitore, il quale insisteva nel propormi il matrimonio del giovane Lo-Giudice, io avevo costantemente risposto di non voler maritarmi, e di preferire piuttosto il mio ritiro in un convento; cosa che lo aveva fatto montare su tutte le furie.

Or bene, poiché nel corso della giornata, egli mi aveva tenuto il brctficio, cotesta sera mai più non mi aspettavo la di lui visita.

Pensai allora, che qualche sospetto cadesse su di me, o che almeno fosse da lui dubitato, che io mi stessi in salotto, intenta ad esarare una qualche clandestina corrispondenza amorosa.

Laonde, tranquilla del fatto mio, finsi di essermi avveduta di nulla, e continuai il mio lavoro.

All'improvviso una voce commossa, ma in certo modo vibrata, e che si partiva dall'attiguo andito, pronunziò queste parole:

— Costanzina, venite nel mio appartamento, che ho bisogno di parlarvi.

Era la voce di mio padre.

Io tosto ubbidii, e passata che fui nel di lui salone da veglia, vi ritrovai il sacerdote Aliprandi seduto su di un seggiolone di faggio in stile del quattrocento, e poco discosto dal medesimo, mio padre che se ne stava adagiato sulla sua solita poltrona ricoperta di velluto color cremisi.

Entrando, cosi dissi:

—Pappà, sono ai di lei comandi. —

Ed egli in tuono austero, del tutto nuovo per me, così si fece a rispondermi:

—Sedete, o figlia mia, e rispondete a questo buon sacerdote (che è pure il vostro confessore) come se fossi io che vi interrogassi. —

Non capisco perché, ma tale paterna ingiunzione, lì per lì, mi fece fremere: sapevo bene che quel prete non aveva su di me autorità alcuna, nonostante, nel vedere quella flsonomia furba e sardonica nel tempo stesso, si risvegliava in me un brivido di terrore.

—Signorina — cominciò a dire il prete — sappia che nel mondo vi sono delle male persone, che per fini indiretti guastano la mente alle fanciulle, e seminano discordie fra le famiglie.

Non so di discordie che esistano nella famiglia — risposi io.

Il prete allora in tal modo soggiunse:

—Sono più che discordie, quelle che oggi avvengono fra lei ed il suo signor padre; sono invece (mi permetta il dirlo) vere disobbedienze.

—Disobbedienze di che genere — domandai io.

—Disobbedienze al volere paterno — rispose don Tommaso — a quel volere che cerca di procurare la felicità del di lei avvenire, e che ripone in lei tutte le speranze di una famiglia nobile sì, ma che non è troppo prospera nei mezzi di fortuna.

—E come potrei io contribuire — chiesi allora — al miglioramento economico della mia casa?

—Coll'accettare il matrimonio propostole.

—Ed è certo, che accettandolo, migliorerei le condizioni finanziarie di mio padre?

Certissimo — rispose il prete — perché in tal caso le immense ricchezze del giovane Lo-Giudice, diverrebbero ancora della S. V. e di sua eccellenza il signor padre.

—Diguisache — ripresi — sarebbe mio compito quello di soffocare le più sentite tendenze, ed i miei meno condannabili trasporti, per dell'oro a josa, che verrebbe versato nelle esauste casse della mia famiglia? — sbaglio o sarebbe questo un' affare?! — così soggiunsi ironicamente. —

—Ma quali sarebbero questi suoi meno condannabili trasporti? — domandò il furbo prete accentuando le parole meno condannabili.

—Prima di tutti quello di non maritarmi, — risposi io — secondo l'altro di consacrarmi al chiostro ognivoltaché dovessi rimaner sola nel mondo.

E nessun altro? — insinuò malignamente il prete

— che sia propriamente la tendenza al monachismo la vera causa del di lei rifiuto?

—Questa, e la contrarietà al matrimonio — risposi io.

—Non vi sarebbe a caso qualche altro addentellato? Per esempio, un amore romantico, un idealismo poetico, ohe rimonti ad epoca remota, o che so io?

Coli' avere colpito nel segno, quel prete mi spaventò — tale breve digressione fece Costanza mentre Michele non batteva palpebra per bene intenderla. —

Dopo di ciò in tal modo Costanzina riprese il filo del suo racconto.

Alla maligna insinuazione di don Tommaso non potetti arrestare un vivo rossore che sentivo salirmi al viso, ma riflettendo poi che egli avrebbe potuto buttarsi all'assalto per scuoprire terreno, mi ricomposi alla meglio ed un poco risentita così finii col dirgli:

—Reverendo don Tommaso, ne mio padre che mi ha dato la vita, ne la superiora del conservatorio, che ha formato la mia educazione, hanno mai usato di così pertinacemente costringermi a confessare colpe che io non ho; ella solo, o mio signore, esercita su di me tali fiscalità, che non dovrebbero farsi a ridosso di chi non ha mai dato ragione di far dubitare di se.

Però, io le protesto una volta per sempre, che nessuna idea preconcetta mi ha indotto nella risoluzione di monacarmi, e che r avversione che provo per il matrimonio, quando non sia un effetto della mia fragile costituzione, è certamente una volontaria estrinsecazione dell'animo mio, il quale si sente piuttosto proclive ai silenzi di un monastero, che non ai rumori ed alle bugiarde passioni di una corrotta società.

Don Tommaso non si aspettava una risposta cosi stringente e filosofica da parte mia, ma egli ignorava che quando il nostro spirito è nobilitato da sentimenti elevati, possiede di sua stessa natura, veri tesori di scibile umano.

Mio padre — riprese Costanza dopo che ebbe ricevuto un bacio da Michele — fino a questa mia dichiarazione, era rimasto muto assistente al sermone di prete Aliprandi, e mentre avvalorava coi gesti le di lui incalzanti domande, nel tempo stesso mi accorgevo che alle mie risposte, il povero vecchio cambiava di colore.

Onde è che, dopo che io ebbi svolto la mia ultima tesi, egli finì la sua parte di giudice statogli imposta dall'Aliprandi, e ritornò padre per riabbracciarmi con tutta quella espansione, che in ogni tempo, mi ebbe dimostrato.

L'affezionato mio genitore mi ricuopri allora la faccia di baci, e come se si fosse pentito di avere frammesso nella nostra affezione la insensibilità di un terzo. — Vieni figlia mia — disse — vieni da tuo padre che ti vuole tanto bene. —

Indi rivoltosi a don Tommaso così si espresse:

—Non si parli più di matrimonio, Costanza non vuole saperne, e se così fa, ciò vuol dire che ne ha le sue buone ragioni.

E quindi, indirizzata da capo la parola a me, così soggiunse:

—E tu, o mio bene, anziché pensare a farti monaca, devi promettermi di restare sempre con me per chiudermi le pupille al sonno eterno. — Non è vero che farai cosi, o figlia mia?

Io provai tanta emozione a tale spontaneo trasporto di affezione paterna, che un nodo alla gola mi impedì di rispondere con parole e fui obbligata a limitarmi di fare un cenno col capo.

Indi ricoperta di baci la veneranda destra di mio padre, in tal modo secolui mi espressi:

—Tutto farò, o padre mio, menoché quanto possa essere causa della tua infelicità!!

A tali miei detti vidi che don Tommaso si rallegrò visibilmente, battendo, di sue mani, palma con palma, e nel congedarsi da noè mi accorsi che col condurre in disparte mio padre gli sussurrò alcune frasi all'orecchio, alle quali il padre mio così rispose:

—Lo farò per contentarvi, ma sarà tutto inutile. —

Finalmente avevo ragione di credere — prosegui Costanza — che il mio genitore, stante la mia giovane età, si: fosse messo l'animo in pace, e non si dovesse più parlare di quel malaugurato progetto di matrimonio, onde, datagli la felice notte, mi ritirai nelle mie stanze del tutto soddisfatta di me.

Ivi fui felice di ammirare ancora una volta quei fiori che mi donasti, legati con serico nastro vermiglio, dove è stampata a caratteri d'oro una tua ode sull'amor nostro.

Io gli appressai alle labbra quei cari ricordi di un poe. tico incanto, ne cercai la fragranza, ma la fragranza era da essi sparita; possa il nostro amore durare sinché il primitivo profumo non ritorni a quei vizzi fiori!

Michele fuori di sé dalla contentezza sembrava inebetito nel contemplare la sua cara Costanza che dopo breve pausa così proseguì a dire:

—Ma non ti ho detto tutto, o amico mio — e dopo un lungo sospiro così soggiunse: —

La notte decorsa è stata tranquilla per me, quando cessavo dal pensare a te, mi addormentavo per la stanchezzza, e nel dormire te solo sognavo.

Ma era troppa quella mia contentezza d'animo perché potesse durare.

Questa mattina a ore sei è venuta la cameriera a svegliarmi, ed a comunicarmi una dolorosa notizia.

—Signorina — mi ha detto — si alzi che sua eccellenza il di lei padre è alquanto indisposto. —

Come puoi supporre mi sono levata dal letto in fretta ed in furia, ho raccolto e raccomandato ad un pettine la mia chioma, ed indossata questa mia veste da camera, mi sono condotta dal mio genitore che ho trovato effettivamente ammalato.

Già il medico De Angelis era al suo capezzale a prodigargli cure ed a somministrargli calmanti; a tale vista io mi sono allarmata, ed ho provato straziante rimorso di essere stata forse involontaria causa del di lui male, onde con la più viva premura ho cercato al medico notizie della di lui salute.

L'uomo della scienza, mi ha risposto:

—Si tranquillizzi, o signorina, non è che un semplice svenimento, che a mio modo di vedere, per ora, non può avere serie conseguenze.

Io gli ho domandato da che poteva derivare tale insolito di lui deliquio.

—Credo da un qualche ricevuto dispiacere — così mi ha risposto il medico. —

A tale risposta io ho provato tutto il rimorso della mia poca condiscendenza verso il padre, ed in quel momento mi è sembrato che lo spirito della mia defunta genitrice, dalla sede dei giusti, me ne facesse aspro rimprovero: quanto ho penato allora non so esprimertelo.

11mio vecchio genitore era scolorito in volto, e l'argentea sua capigliatura, pareva che accrescesse lo squallore dei smorti suoi lineamenti.

Aveva il respiro affannoso, e nel prendermi la destra, ho inteso che la di lui mano era divenuta di gelo.

In tale istante ho provato tutta la intensità della filiale affezione, e, te lo confesso, allora soltanto, per la prima volta dacché ti conosco, non sei stato tu il mio predominante pensiero.

Dopo poche ore la improvvisa malattia del duca mio padre accennava ad un miglioramento, e le pozioni medicamentose che gli erano state fatte prendere, ridestavano novella vita in quel sessantenne corpo, esausto di forze.

Appena ha egli riacquistato la favella mi ha stretto fra le sue gelide mani la mia e con stentòrea voce così mi ha domandato:

—È vero figlia mia che non ti farai monaca?

—Nò — risposi io — mai più lo penserò, e sempre con te starò, o mio buon padre.

Poi riflettendo che in confronto a quanto egli aveva dimostrato di desiderare da me, si limitava a ben poco la sua richiesta, volli in quel solenne momento dargli una più forte consolazione; consolazione in vero che poteva decidere della sua completa guarigione; perloché così soggiunsi:

—E per provarti che non ho più la minima idea di farmi monaca, procura di guarire, ché appena tu sarai rinsanito tenterò di vedere se, avvicinando il signor Lo-Giudice, mi venisse fatto di vincere la ripugnanza che provo pel matrimonio.

Qui Michele cominciava a stralunare gli occhi, ma Costanza fingendo non avvedersene o non avvedendosene di fatto, in tal modo proseguì il suo racconto:

A tale proposta l'ammalato mio genitore ha tratto dal petto un lungo e rauco sospiro, indi mettendomi la mano sul capo sì mi ha parlato:

—Che Iddio ti benedica, o figlia mia; l'ho sempre detto che tu eri, per bontà, la vera fenice, fra tutte le fanciulle da bene.

Tale mia dichiarazione o Michele — soggiunse Costanzina, — era necessaria per far recuperare la salute e la calma al mio vecchio padre, ma in verità debbo assicurarti, che non era una leale promessa quella che io gli avevo fatta.

Bel resto sono bastate tali mie assicurazioni di non farmi monaca, e di parlare con Lo-Giudice, per ridonare novella vita all'autore dei giorni miei.

Adesso che sai la causa del mio ritardo, son certa, che non mi starai altrimenti in sussiego. — Non è vero o amico mio?

In così dire, l'angelica fanciulla immetteva le sue rosee dita fra i folti capelli di Michele, e lo fissava in viso con tali sguardi, che reclamavano un abbraccio infinito.

Michele invece si mostrò freddo ed insensibile: era geloso ancora di quello che poteva succedere o no, e quanto gli aveva sinceramente narrato la sua Costanzina, ispirava in lui diffidenza a segno, che alzatosi bruscamente dal sedile, ove sino ad allora erano stati in un amoroso assieme, si scostò da lei, e divenuto spietato per furibonda gelosia, così si fece a dirle:

—Amica mia, avevo già in me un sinistro presentimento, che in tal modo dovesse finire l'amor nostro, ma che avesse tanto presto il suo fine, non lo avevo mai dubitato perdio!

Tu hai promesso di vedere, ed avvicinare il ricco Lo-Giudice?!

Hai promesso tanto?...

Ebbene, fino da questo momento ti dico, che tu lo sposerai!

—Non mai — gridò Costanza. —

Si, e presto — rispose Michele; — e dopo molta pausa soggiunse:

—Conosco troppo le fini arti dei gaudenti, per non dubitare che sarai vinta nella ripugnanza a sposare altri che io non sia; conosco altresì, ed assai bene, i misteri del cuore umano, per non ignorare, che amor talor, di vicinanza è figlio.

—Ma non dubitare, o mio diletto — si fece a dirgli Costanza — il si dell'altare, vivi sicuro, non lo dirò mai.

—Ma intanto parlerai con questo giovane epulone, e quando egli sarà al tuo fianco da vigile pretendente, io non potrò più avvicinarti, o almeno dovrò attendere che egli rinunzi a te. — Oh si che questa idea è terribile per chi, come me, tanto ti ama!

_ Ebbene, che ti cale se io lo vedrò, quando puoi essere certo, che il mio pensiero e la mia persona saranno sempre per te o per nissuno?

Così protestava l'onesta Costanza con la più nobile fermezza d'animo.

—Ma le sue galanterie — soggiunse Michele — ma i suoi ricchi donativi, nonché il frasario galante, che tali fannulloni imparano a comodo nei saloni del vizio dorato, eclisseranno l'amore che tu nutrì per me, ed a tuo malincuore, dovrai abbandonarmi per sempre.

—Non mai — rispose la religiosa Costanza — questo non lo sarà mai, dovessi renunziare alla mia eterna salvezza.

Michele allora pallido, stravolto nei lineamenti ed oscillante pel tremito convulso di tutte le fibre, rimase pochi istanti silenzioso, indi si mise una mano sulla fronte, quasi avesse voluto raccogliere tutte le sue idee, e dopo di ciò, cosi domandò a Costanza:

—Quando verrà a vederti questo signore?

—Adesso non saprei dirtelo precisamente, ma presto io credo; forse domenica prossima.

—E verrà dalla via di Campobasso; non è vero?

—Senz'altro, lo penso anch'io.

—Ebbene; io andrò ad affrontarlo, e gli proporrò tale un duello, che quando non gli costi la vita, gli renderà assai caro il suo trionfo.

—Non lo fare, non lo fare, per pietà di me, o mio adorato Michele, poiché sarebbe lo stesso che a tutti svelare la nostra segreta corrispondenza d'affetti: per l'amore della tua defunta genitrice — soggiunse Costanza che tremava in cuore pei giorni del suo diletto — togliti dal capo una simile idea e fidati di me, che, saprò io indurre Lo-Giudice a rinunziare alla mia mano di sposa.

— Ma dunque tu vuoi vederlo ad ogni costo, dunque l'ami già?.. O donna infida, ed è così che corrispondi all'immenso amor mio.

In un eccesso di furente gelosia, Michele, ormai fuori di sè, in tal modo si era espresso, onde la derelitta Costanza a tali immeritate rampogne così esclamò piangendo:

—Angioli del Signore, egli di già mi accusa!!...

Ma Michele ossesso dal demone della diffidenza, nemico giurato dei casti amori. — Addio — disse — non mi rivedrai mai più.

Fuggì l'indemoniato!!!

L'appassionata e malcompresa Costanza, vittima della sua stessa forza di amare, dilaniata nel cuore ed abbattuta per tanto improvviso dispiacere, ebbe appena la possibilità di ricondursi ai suoi appartamenti, dove giunta, come priva di sensi cadde sulla dormeuse della propria camera da letto.

Poveri innamorati, l'Angelo della giustizia e della fede si era allontanato da voi........................................................................

…...............................................................................................

Questo episodio, fatale a due care esistenze, avvenne il giorno dopo a quello, in cui don Tommaso Aliprandi era stato dalla signora Alena per attingere notizie circa le più segrete mire di Costanza.

Siccome il duca col suo biglietto lo aveva pregato, don Tommaso codesta sera, anticipò di qualche ora la sua visita, ed infatti Carlo stava ad attenderlo colla stessa ansietà, che avevano gli apportatori di voti donarii, quando facevano centinaja di miglia, per andare a sentire di persona il responso dell'oracolo delfico.

Il previdente prete, era già convinto, che, se la duchessina Costanza rifiutava il partito del Lo-Giudice, ciò dipendeva dall'essersi ella invaghita di un altro, ma per quanto andasse a fantasticare chi potesse essere costui, mai più credeva che l'uomo da essa preferito fosse appunto il figlio di colui che era tanto diabolicamente odiato dal di lei padre.

Appena don Tommaso entrò col duca su tale argomento, gli fece capire, che, 1 avversione di sua figlia pel matrimonio, non poteva essere altroché un pretesto, onde egli si sarebbe preso l'impegno di estorcere dalla bocca di quella ingenua fanciulla la completa confessione di come stavano le cose: ecco perché avvenne l'interrogatorio che già il lettore conosce.

E quando Costanza rispose al padre — tutto farò, o padre mio, menochè quanto possa essere causa della tua infelicità, — il sagace prete capì a perfezione, che pigliando quell'eccellente damigella dalla parte del di lei affetto figliale, tutto si sarebbe potuto ottenere da lei, ancora il sacrifizio del proprio cuore.

Per tale giusto apprezzamento quando don Tommaso, prima di congedarsi dal duca, lo chiamò in disparte per favellargli all'orecchio, fu allora che lo avvertì, come l'indomani avanti giorno gli avrebbe mandato una boccetta, con entro una bevanda, che da lui trangugiata senza alcun timore, gli avrebbe procurato quel tale disturbo fisico, che di fronte a Costanza doveva avere la apparenza di una convulsione vera e propria; cosa che avrebbe indotto la docile ed affezionata figlia ad ubbidire in tutto e per tutto ai paterni voleri.

Il medico edotto del simulato scopo della di lui visita, con straordinario apparato di innocui soccorsi della medicina, sempre più fece risaltare la verità del mistificato fatto, e la semplice Costanzina rimase, in tal guisa ingannata del pretesco artifizio.

Don Tommaso riteneva per cosa moralissima il vincere ad ogni costo l'ostinatezza della fanciulla nel rifiutare il propostole matrimonio, e la riteneva per tale inquantoché pensava, che se un altro occulto pretendente vi fosse stato, non poteva essere altro che una persona indegna di lei, ognivoltaché non si serviva di mezzi palesi e leali, per arrivare al possesso legittimo della donna amata.

Guidato da tale convinzione, quel prete avrebbe messo in opera qualunque espediente ancora il più illecito, per giungere ad uno scopo, che, a suo modo di vedere, era tre volte lecito.

L'indomani mattina la sventurata Costanza, dopo aver passata una intiera notte di pianto, e di febbrile angoscia, si alzò dal letto pria che il sole nascesse, e si condusse al verone che dava sul giardino, sperando di sentire, come per lo addietro, la voce simpatica del suo Michele, inviarle note di rabbonito amore.

Indarno o anima straziata tu speri il ritorno a te della consolante melodìa; egli non interpetra più la sua passione con musicali accenti, ma geme invece fra le strette di una irragionevole diffidenza di te.

Ve' che silenzio di tomba ha rimpiazzato i musicali ricambi di affetto; ve' qual funereo panno ha la natura imposto sui tuoi beati ricordi!

Piangi o Costanza, piangi ché ne hai ben ragione: il tuo generoso e nobile cuore non raccolse che disistima da colui che non ti ha potuto comprendere, se pure tanto ti abbia adorato.

Così vuole il crudele svolgersi di un rio destino!!

E Costanzina, smarrita ormai di mente, e tutta scorata, guatava coi suoi begli occhi gonfi di lacrime il punto del giardino, ove ebbe culla il suo primo amore, eppoi, come trasognata, sorrideva convulsa per la disperazione.

O anima sensibile chi mai sì ti affligge?

Sono i demoni del male, che ti tormentano perché sei troppo buona!!

Ma tutti i grandi dolori hanno sovente la necessaria crisi, e quando l'anima nostra, ingiustamente tartassata sa di non meritare i mali che l'affliggono, come Anteo della favola dal tocco della terra, ella acquista sempre nuove forze dalla sua stessa disperazione, e diviene ognora più atta a sopportare il peso della propria disgrazia.

Costanza pensò all'ingiuste rampogne di Michele, ne pianse nel silenzio della sua camera lo sleale abbandono, ma poi mitigò il suo dolore, col dire a sè stessa: — è segno che non mi amava. —

Nonostante, ansiosa di sapere, ove egli fosse, e che cosa pensasse a mente fredda di lei, si condusse più volte giù nel giardino, e si affacciò più volte ancora alla finestra del piazzale, sperando di vederlo al passeggio, ma tutto invano, ché il suo primo, il suo unico amore, senza buona ragione, si era involato da lei.

Tale inesplicabile contegno di Michele indispettì Costanza in modo, che senza toglierle dal cuore i radicati germi di sì potente affezione, purnonostante a poco a poco la induceva a rassegnarsi al fato, col dare la mano di sposa ad un altro.

Poveretta, nel non rivederlo più, e coll'associare la di lei esistenza a quella di un uomo che sinceramente la amasse, sperava che si sarebbe dileguata la sua passione per il più ingrato fra gli amanti.

Questa nutrita speranza fece sì che la mattina della veniente domenica, quando la cameriera andò ad annunziarle che il signor duca, insieme a don Tommaso, erano andati ad incontrare il suo futuro sposo, lusingandosi ella, che un possibile affetto avrebbe potuto rimpiazzare il vuoto lasciato nel di lei cuore dall'inqualificabile sparizione di Michele, volle rendersi ancora più bella, e desiderosa di piacere, volle tutta abbigliarsi con gusto di squisita galanteria.

Ma nel tempo in cui era intenta alla sua toletta, il di lei cuore tremava per l'emozione, e nell'adattarsi al viso un'onda dei suoi biondi capelli, con bianco lino si asciugava un'importuna lacrima,  né prima  né l'ultima pel suo amore perduto.

Nell'impartire ordini alle ancelle, che erano preste a compiere il di lei abbigliamento, ella balbettava incerta, quasi avesse dovuto commettere il più empio sacrilegio col voler piacere ad un altro, ma ogni momento di più la sua ferma volontà prendeva il predominio sul cuore, onde credeva sentirsi ornai abbastanza forte per affrontare gli orrori o i piaceri di un novello affetto.

Alle ore undici di quel mattino, da dietro le damascate portiere, che adornavano le finestre del suo gran salone di ricevimento, Costanza potè scorgere cinque cavalcature, che per tortuoso e ripido cammino, si dirìgevano verso il di lei palazzo.

Riconobbe suo padre su del solito cavallo morello, bardato di ricca e stemmata gualdrappa, e di sella ricoperta di velluto in seta celeste, e provveduta di larghe stoffe d'argento massello (sella storica, che rammentava i fasti guerreschi degli avi suoi).

Vide il prete Aliprandi sulla sua mula baja, e che ri. posava tranquillamente a cavalcioni di una grossolana sella di bulgaro a doppio sostegno, come usano i pastori delle nostre maremme: ed appresso del prete, potè scorgere su di un magnifico cavallo inglese con bardèlla di bianco cuojo, certo vecchio più. che sessantenne, dalla lunga e brizzolata capigliatura.

Per ultimo gli apparve un elegante giovane biondo nel crine. e dai larghi occhi cerulei, il quale cavalcava a sella inglese un focoso figlio del deserto arabico, ed a pochi passi di distanza da lui uno staffiere in completa livrea, che con speciale a plomb montava un brioso pony.

Tostoché la comitiva ebbe messo piede a terra, i servitori del duca aprirono il pesante portone, che dava adito alla larga scala, la quale, colle sue laterali serre fiorite, era destinata per le sole grandi occasioni.

Inuovi venuti, appena arrivati nel salone ove si trovava Costanza, furono a lei presentati dal sacerdote Aliprandi. il quale, preso per la mano il giovane Giacomo Lo-Giudice, a lei lo condusse colle forme della più ricercata etichetta.

Il galante giovane, che aspirava al possesso della bella Costanzina, appena che don Tommaso ebbe terminato di fare la sua parte di cozzone, si inginocchiò a lei dinnanzi, e dopo di averle applicato un bacio di ossequio sulla mano per metà ricoperta da guanto di filo di seta gialla, le offrì ancora una superba camelia bianca, che in quei luoghi, ed a quei tempi poteva ritenersi per fiore il più raro.

Avvenuto, con rito si cavalleresco, il primo incontro di Costanza col suo promesso, fu fra loro parlato delle coso più insignificanti, ed intantoché si attendeva l'ora del pranzo, il duca volle far vedere ai nuovi ospiti e futuri parenti tutto l'interno del suo maniero.

Sì il padre che il figlio Lo-Giudice, rimasero sorpresi nel mirare i preziosi affreschi, ed i ricchi fregi, che adornavano le spaziose pareti di quelle camere: ivi il lussa edilizio della buona epoca quattrocentista, aveva lasciato indelebili tracce della fastosità ducale. ,

Terminato che ebbero di visitare tutto quel laberinto di comode stanze, e di ampi salotti, alcuni dei quali servivano ad uso di biblioteca, ed altri di armeria, scesero tutti nel giardino.

Quivi arrivata la povera Costanza, fu daccapo punta dalia memoria di Squillace, onde si fece visibilmente pallida, tantoché fu temuto un di lei improvviso travaglio.

Al suo futuro, ed a tutti i premurosi che le si fecero intorno per soccorrerla, cosi disse l'angustiata fanciulla:

—Non è nulla, credo che l'aria fresca del giardino mi abbia un poco urtato i nervi.

Frattanto furono imbandite le' mense con sfarzo e buon gusto, e fra i tonfi che i tappi compressi delle diverse bottiglie, facevano sentire ai convitati, per la prima volta Giacomo Lo-Giudice, con pessimo e studiato frasario, parlò d'amore alla sua promessa.

—Quale fortuna — incominciò a dirle — mi fu oggi riservata, nel sedere accanto alla più bella e gentile signorina, che io abbia mai conosciuto!!

—Tale fortuna — rispose Costanza — è ancora la mia.

—Ella forse non lo crederà — soggiunse il giovane milionario — ma sono già più mesi che io sento in me un forte trasporto per lei, e dal quadro del suo bel viso che mi fece don Tommaso, io divenni cosi innamorato di lei senza conoscerla, che come il più inurbano dei cavalieri, ho trascurato tutte le mie splendide conoscenze colie più distinte e vezzose donzelle napoletane.

A questa ampollosa di lui dichiarazione, Costanza, concisa ed incisiva, così rispose:

—Che si duole forse di tale trascuratezza? Se ciò fosse, debbo dolermi anche io di esserne stata la involontaria causa!

—Ma le pare — soggiunse Lo-Giudice — che cosa importa a me di tutte quelle belle ed eleganti signorine (si rammenti il lettore che Giacomo era un buon cretino) se ormai nutro per lei sola quel tal duraturo affetto che deve unire per sempre la sua sorte alla mia!?

—Chi sa — rispose Costanza. —

—Perdoni signorina — riprese Lo-Giudice — in che modo ha detto chi sa, che forse non le vado a genio per dubitare di divenire mia sposa?

In così dire gli occhi del gióvane si spalancavano in modo strano, ed un rimarchevole rossore gli saliva alle guance.

Don Tommaso, accortosi allora che i ferri s'infocavano, intavolò una rumorosa conversazione con i respettivi padri, tanto per dare al suo protetto Giacomo, tutto l'agio di sciorinare il repertorio delle sue galanterie.

Ma Costanza non rispose alla incalzante domanda del pretendente, onde egli premuroso di ricevere un belo un brutto no, così riprese:

—Signorina, al punto in cui siamo è inutile ostentare fra noi una semplice conoscenza. Come ella deve già sapere, ho avuto l'alto onore di esserle presentato a solo oggetto di potere ottenere la di lei mano di sposa, e poiché dopo la nostra partenza da qui, che sarà questa sera stessa, si devono intavolare dai nostri genitori serie trattative per tale matrimonio, oserei pregarla a volermi schiettamente dire, se posso lusingarmi di essere da lei riamato tanto da poter divenire, quanto prima, suo sposo.

—È troppo recente — rispose Costanza — la nostra conoscenza, perché io possa dirle con convinzione se mi senta o no inclinata ad amarlo, e per conseguenza, a sposarlo: oggi sola una cosa posso confessarle, e questa colla massima segretezza.

Nel pronunziare tali frasi, Costanza si servì di un tuono di voce più sommesso.

—Ed è tal cosa? — domandò con uguale voce l'ansioso Lo-Giudice.

—Avanti di farle simile rivelazione, esigo dalla di lei gentilezza, che ella, sulla sua parola d'onore, giuri di non palesare ad altri quanto sono per dirle — così si esternò Costanza. —

—Lo giuro — rispose Giacomo — sul mio onore di gentiluomo, e sulla memoria della defunta mia madre.

—A tal giuramento io non posso più dubitare della di lei segretezza — rispose Costanza — e poi a fronte alta soggiunse:

—Ebbene, o signore, poiché vuole saper tutto quanto io penso in proposito, le dirò francamente, che non posso prometterle di amarlo, perché sino a tutto ieri ho amato un altro.

Lo-Giudice a tale inattesa rivelazione Inalzò sulla seggiola, come per scatto di molla, di poi ricompostosi alla meglio, così proseguì a dimandare:

— Ella mi dice che ha già amato un altro e

Costanza non lo fece finire, e con tali parole lo interruppe:

—Sì, ho amato un altro, ma di quell'amore puro ed incolpevole che non macchia l'onore di una donna a segno t che ella non possa più addivenire la sposa di un secondo.

—Ebbene — domandò allora il disilluso giovane — si compiaccia almeno di dirmi dove si trova adesso l'uomo da lei sinora riamato.

—Non lo so — rispose veridicamente Costanza.

—È egli morto o ammalato?

—Lo ignoro!

—Fuggito forse da qui?

—Nemmeno questo lo so.

—Ma ovunque egli sia, questo fortunato sconoscente, promette ella fino da questo momento di dimenticarlo?

—Non posso prometterlo! — rispose Costanza, accompagnando l'espressione con un lungo sospiro, dipoi in tal modo riprese:

—Ed è però, che chiedo alla di lei gentilezza il volere procrastinare l'effettuazione di tale imeneo, finché non venga il giorno in cui io possa lealmente dirle — l'ho dimenticato!! —

Lo-Giudice già innamorato cotto della bella duchessina, del di lei nobile casato, dei suoi storici blasoni, e più di ogni altra cosa, della di lei lealtà, riflettè un momento

poi così rispose:

— Lo farò, o mia eccelsa speranza, lo farò quando ciò le piaccia impreteribilmente.

Costanza non si poteva aspettare una migliore pasta di marito, e tale di lui eccessiva condiscendenza faceva nascere nel di lei animo un sentimento favorevole al suo nuovo pretendente; ma quel repentino sentimento non era effetto di cuore, bensì calcolo di mente.

Finito il pranzo, la comitiva si condusse sul belvedere del palazzo a prendere il caffè, ivi fu rotto il ghiaccio, e si incominciò a parlare sul serio del come e del quando si sarebbero fatti gli sponsali.

Il commendatore Lo-Giudice, il duca Carlo, ed il prete Aliprandi si erano trovati tutti e tre d'accordo, nello stabilire per il primo di novembre il giorno delle nozze, ma a questo punto sortì fuori Giacomo, e cosi disse:

—Per novembre è troppo presto, bisogna prima meglio affiatarci, carteggiarci, ed intimamente conoscerci, onde

10sarei del parere di sospendere per ora l'esecuzione dei sponsali, ed in questo frattempo, se il signor duca me lo permette, desidererei tenere un carteggio colla sua signóra figlia.

—Che cosa ne dici Costanza? — domandò allora il duca alla figlia. —

—Dicoche il signor Giacomo ha perfettamente ragione, e che il soprassedere non può riuscire a male, come non troverei malfatto il rispondere alle lettere del mio promesso, quando queste si limitassero ad una amichevole corrispondenza!

Se così vi piace, scrivetevi pure — in tal modo rispose il duca — e dopo di ciò rivoltosi a Giacomo cosi si espresse: —

—E lei, o mio bel giovinotto, potrà venire a visitare la sua promessa tutti i giovedì della settimana; se le piacerà.

—Adesso va bene — risposero in coro gli astanti, e dopo di ciò tutti e cinque si avviarono fino fuori del paese per accompagnare i signori Lo-Giudice, che alle ore sei di sera, dopo replicati baciamani, ripartirono alla volta di Sepino.

Il tempo a risolversi, che Costanza aveva dimandato al suo pretendente, le era stato consigliato dalla nutrita speranza che Michele potesse ritornare pentito al suo primo amore, ma per quante ricerche avesse ella potuto fare in segreto, nissuna notizia aveva potuto attingere sul conto di lui.

Ella rimase nella lusinga di un di lui ritorno per circa un mese ancora, durante il quale si era più volte incontrata colla suà fida amica signora Aléna; ma neppure da questa potè sapere dove si fosse Michele, ché Squillace, sul di lui conto, si era fatto un certo mistero atteso alcune differenze che si erano verificate fra padre e figlio.

Un giorno, il venticinquesimo dopo la dolorosa scena avvenuta fra lei e Michele, la bella Costanza vagava pel suo giardino, ormai disingannata nella primitiva speranza: fu allora quando una contadinella, di appena dieci anni, dal giardino dei Squillace entrò in quello del duca, e si avvicinò ad ella, mentre che si era fermata all'ombra di un platano, per ivi riconcentrarsi e riandare col pensiero alla perduta felicità.

La vispa villanella, vestita del costume delle campagnole di Frosolone, consegnò a Costanza una lettera, e veloce come una rondine si allontanò da lei, internandosi fra le fitte piante dell'attiguo parco Squillace.

Costanza esaminò quel foglio, e vi lesse in fondo la firma di Michele.

Allora, come se si fosse svegliata da un lugubre sogno, si stropicciò ben bene gli occhi, eppoi, sospeso il respiro, e tremante la mano, si accostò al viso i tanto sospirati caratteri per leggerli.

Era momento che doveva decidere di tutta la sua vita, onde, quasi non avesse riconosciuto in sè tanto coraggio da affrontare il fatale messaggio, alzò la pura fronte al cielo invocandone il soccorso.

Alfine lesse tutte le frasi in quel foglio vergate, e poiché per tale lettura n ebbe scolorato il viso e straziato il cuore, dal suo bel seno, ansante di dolore, mandò fuori un tale oh Dio, che avrebbe fatto piangere un tiranno di pietra.

Così Michele scrivevate:

«Costanza!

«Fui un illuso a lusingarmi del vostro affetto!

«Può amare, come noi del popolo amiamo, chi sino dall'infanzia, provò l'orgoglio di appartenere ad una razza preferita dalla fortuna?!

«Voi sapete, o signorina, se vi adorai, e se vi fui sempre fedele, ma poiché non vidi in voi, né eguale trasporto, né pari fedeltà, io vi rendo al pos-tutto la vostra fede.

«Michele. »

A tanta infamia, a così nera sconoscenza, la buona fanciulla sorrise di dispetto, e tutta compresa della più nobile indignazione, fece in minati pezzi quel biglietto, in tal modo esclamando:

— Uomini bugiardi!! —

Le varie lettere, che già avevale scritte Giacomo, le più delle quali copiate dal Segretario galante, non avevano fatto impressione alcuna nell'animo di Costanza, ed anzi avevano sempre più accresciuto la stima del suo Michele, per la ragione che, poste in confronto l'espressioni studiate di Giacomo, con i caldi e spontanei accenti adoprati da Squillace nei di loro colloqui, vi ravvisava un abisso in fatto di elevatezza di concetti; ma l'insolente lettera di Michele, suscitò nel di lei cuore tale una recrudescenza d'affetto, che ad un tratto, non solo credette di averlo dimenticato, ma sì pure di odiarlo.

Laonde per il momento non pianse più, non riguardò più i ricordi del di lei primo amore, ma fattosi forza d'animo, come se già fosse sicura del fatto suo, l'indomani mattina mandò scritte a Giacomo tali precise parole:

«Caro signor Giacomo

«Posso assicurarlo che alfine ho completamente dimenticato chi per me non vive più — il mio primo  amante. — Adesso che sento di amar lei davvero, lo attendo con ansietà per effettuare il nostro imeneo.

La sua

«costanza.»

O povera illusa, ti credevi di essere del tutto guarita dalla tua morbosa affezione per Michele, ma avevi torto, ché fu semplice crisi la tua e non completa guarigione.

Il palazzo del duca Carlo ai primi di novembre dell'anno 1855 rimbombava di plauso: da Napoli, da Campobasso, da Foggia, e da Sepino tutti i parenti e gli amici degli sposi si erano condotti a Castropignano per assistere a tanto illustri nozze.

Giacomo, fuori di sè dalla contentezza, fece venire da Parigi, da Napoli, da Roma e da Firenze, principeschi giojelli e finissime trine per la sposa, nonché una vera valanga di poesie, di nastri, di confetti, e di fiori, tutte cose destinate a rendere sempre più splendidi i suoi sponsali.

Altri preziosi presenti di occasione, consistenti in monili, ricami, ed in abiti costosi, furono portati in dono dagli amici e dai parenti alla gentile Costanza, la quale in mezzo a cosi ricchi ed artistici donativi rimaneva incerta a chi di questi dare la preferenza.

Il confettiere Ferrone di Napoli aveva fatta una spedizione de' suoi più squisiti lavori di confettureria, nonché di mostaccioli e cioccolatini, specialità europea di quel negozio.

Insomma niente mancava a rendere sontuoso il trattamento, ed il banchetto nuziale degno di reale connubio.

Doney di Firenze coi suoi prelibati vini, Spillmann di Roma coi suoi gustosi liquori, Bernard di Firenze colla sua accreditata pasticceria concorsero tutti a gara nel rendere piuttosto unico che raro il nuziale trattamento.

La sera della scritta don Tommaso era di un umore così allegro che fu creduto ebro prima dì libare, il duca ed il commendatore erano parimenti raggianti di felicità, l'uno perché veniva con quell'imeneo ad assicurare una nobile parentela, ed un titolo lusinghiero al suo unico erede, l'altro perché si era posta in essere fra le due famiglie dei sposi, la comunione dei beni, che lo rendeva partecipe alla colossale fortuna di circa venti milioni di lire.

Giacomo poi, (l'asino d'oro di Apulejo) sentiva in quel giorno appagarsi tutta la sconfinata sua ambizione, quale era quella di farsi chiamare col sonante ed aristocratico appellativo di duca.

Vi era una sola persona che gemeva occultamente per tale avvenimento, e che in mezzo a tante felicità, sentivasi in cuore un abisso d'infortunio. — Era Costanza. —

Quando da uno dei più affezionati di lei servi, le fu offerto un qualche confetto, ella ne prese uno di quelli parlanti, e ne estrasse la piccola striscia di carta ove era stampato il seguente motto: — Non vi è gemma, che in amore, possa Todio tramutar. —

Costanza assaporò nel suo interno tutta l'amara ironia, e la verità di tali espressioni, onde di bel nuovo il suo fazzoletto, ricamato in finissima tela di Fiandra, si accostò ai belli e gemebondi occhi.

Il giorno di tutti i santi, dopo che furono fatte fare da Don Tommaso copiose elargizioni di denaro ai poveri del paese, ed ordinate feste profane, come luminarie e giostre al saraceno in onoranza del fausto avvenimento, alle ore dieci dei mattino, e nella cappella gentilizia del palazzo ducale, fu celebrata messa solenne, dopo della quale, su di un oratorio ricoperto da ricco arazzo di velluto in seta amaranto e con frange d'oro, la coppia coniugabile, posò i ginocchi per compiere il sacro rito matrimoniale.

Costanza aveva in dosso una elegante veste di finissimo raso color cielochiaro, e sopra il velo bianco, che dal biondo capo le scendeva sino agli omeri, le coronava la fronte il diadema d'imene, ossia il poetico ma non sempre odoroso tralcio di fiori di arancio.

Le madrine o testimoni di Costanza furono la duchessa De-Capua e la signora Anna Alena.

Questa fedele amica fu quella che la vestì da sposa; essa fu colei che le compose il crine, e che dalla sposa ricevette tutta l'espansione di un ultimo abbraccio, prima di immolarsi.

Tale affezionata amica della sua infanzia, la confortava col dirle all'orecchio — su coraggio: fu Michele che ti lasciò — ma Costanza le rispondeva con dei sguardi smarriti, come se fosse stata in procinto di andare al supplizio.

La sposa, nell'approssimarsi all'ara nuziale, sentivasi vacillare le gambe, sicché accortasene la signora Alena, la sostenne, e quasi ve la trascinò; ivi giunta, l'incompresa damigella piegò sui cuscini le ginocchia, e ad un momentaneo oblio l'angustiato cuore.

Quando il sacerdote domandò a Giacomo se era con. tento di prendere per sua legittima sposa la signorina Costanza dei duchi di Castropignano, quell'egoista ambizioso rispose con un sonoro Sì.

Allorché poi lo domandò a Costanza, ella rimase muta per oltre dieci minuti secondi, ed in mezzo ad un dirotto pianto, con debile voce potè appena pronunziare un Sì, che pochi degli astanti poterono udire.

Tale freddezza di Costanza fu dai più attribuita alla idea che ella aveva di cambiare stato, ma la signora Alena ne capì la vera ragione, e l'avrebbe sospettata ancora lo sposo, se Costanza non gli avesse già detto, che colui, che per il primo l'aveva amata d'innocente affetto, oltre esserle divenuto antipatico, era già partito per l'America, da dove non sarebbe mai più ritornato.

La cerimonia venne eseguita come i sacri canoni prescrivono, e la buona Costanzina fu da un avverso destino resa per sempre consorte di colui cui meno amava.


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CAPITOLO VII

Il Complotto.

Nel 1850 dopo due anni di libertà, l'Italia era ritornata schiava dello straniero, e malgrado le continue lotte che durante quel glorioso periodo di goduta indipendenza, costarono molto sangue ai di lei più generosi figli, l'Europa reazionaria, mercé della forza e calpestando il diritto delle genti, con tre poderosi eserciti (1) represse gli inutili conati del popolo italiano, seppure fervente fra i palpiti del più nobile patriottismo.

Il pontefice Pio IX, che ebbe per il primo dato l'esempio di un santo risveglio nazionale, spaventato dipoi dalle intemperanze e dagli eccessi dei partiti (2) si consacrò ai principii assolutisti e chiamò in permanenza due eserciti ausiliari, per far valere i propri diritti e per ritornare dal suo volontario esilio, sul trono dei papi.

In pari modo tutti gli altri Stati della penisola furono soggiogati dalle bajonette straniere, meno il Piemonte, che dopo l'abdicazione di Re Carlo Alberto, stipulò un trattato di pace con l'Austria a condizione che fosse riconosciuta la di lui esistenza politica, e rispettata la sua integrità territoriale.

(1)Tre spedizioni armate contro Roma furono fatte, la Francese, l'Austriaca, e la Spagnola.

(2)L'assassinio dì Pellegrino Rossi.

Ma se tanto fu concesso a quel reame subalpino, lo dovette alla fortunata di lui posizione geografica, che gli aveva posto ai suoi confini l'allora temuta Francia.

La sola Toscana avrebbe potuto perseverare a dare esempio di civiltà e di progresso, pur serbando l'impronta di libero Stato italiano, se Leopoldo di Lorena non avesse commesso gli errori di abolire la promessa Costituzione, e di chiamare a puntello del di lui trono un presidio di milizie austriache.

Ma forse tale marrone politico dovette essere da lui preso per viemmeglio far maturare le sorti dell'unità italiana (1).

Onde è che questo piccolo granducato di Toscana, il quale per le sue savie leggi, e per la sua equa e liberale amministrazione, sembrava predestinato a dare norma agli altri Stati d'Italia, per un imperdonabile sbaglio del suo principe, fu poi assorbito dal Piemonte che in fatto di benintesa amministrazione pubblica, era molto al disotto dell'etrusco granducato.

E come mai potrebbesi negare ciò che io adesso ho affermato, se a quei tempi in Toscana, ricca di prodotti industriali ed agricoli, nonché di tesori artistici, era civile e tranquillo il vivere, ed i moderni delitti, cioè i suicidii, le maffie, le camorre, i dolosi fallimenti, e tutto quanto attiene allo scetticismo del cuore erano cose sconosciute?

Come, ripeto, se per mantenere un esercito di circa quattordici mila uomini, bene nutriti e meglio equipaggiati, una intelligente ed imparziale magistratura, una degna rappresentanza all'estero, e numerose sovvenzioni ai tanti istituti filantropici, e di incoraggiamento alle arti

(1) Se il granduca di Toscana non si fosse reso un pretore austriaco, certamente l'egemonia piemontese nell'Italia centrale sarebbe divenuta impossibile.

come negli altri corpi dell'esercito, e se procurava di farsi vedere, il più delle volte, solo, lo faceva per allontanare da sé sempre più i sospetti e la sorveglianza dei superiori.

Così stavano le cose quando in un giorno verso la metà di settembre dell'anno 1856, Agesilao Milano si avviò ad un'osteria di Bassoporto, dove ai più diceva di andare a far merenda.

Altri suoi compagni, per diverse vie e tutti alla spicciolata, si erano parimente ivi diretti; alcuni di essi appartenevano al 3. ° cacciatori, ma i più facevano parte di altri reggimenti.

Appena entrati nell'osteria, e ricambiatisi fra loro il segno di carbonari, chiesero al padrone della medesima, un piretto (1) di vino, e l'uso di una terrena stanza appartata, che dava su di un piccolo orto.

Ivi introdottisi e serviti del richiesto liquido, Agesilao richiuse la porta della stanza dalla parte interna, e si condusse insieme ai compagni in un angolo di quell'orticello, rinchiuso fra due alte e spesse muraglie, che corrispondevano con un andito oscuro e disabitato.

Rinchiusi così, e senza tema di essere spiati i giovani cospiratori, Agesilao si mise a leggere un bollettino settario, che diretto ad un suo amico tipografo in Napoli, per la via di mare, gli era stato spedito dal comitato della Giovane Italia di Genova.

In quel bollettino ed in un altro della loggia massonica di rito scozzese residente a Palermo, fra le altre cose si deplorava l'inerzia dei liberali delle due Sicilie.

Eccitato allora da tali rimproveri, cosi prese a dire ai suoi compagni l'entusiasta Agesilao:

«Amici, voi ben vedete che le popolazioni del nostro regno, sono ormai fossilizzate dalla apatìa, o dalla paura del tiranno.

(1) Il piretto è una misura contenente dai quattro ai dodici litri di liquido.

«Occorre un grande fatto, un esempio romano, per  risvegliare novella energia nei figli dell'Etna e del Vesuvio; questo formidabile esempio non si può dare altroché col sacrificio della vita di alcuno di noi. »

E come? lo interruppero con tale domanda i cospiratori. —

«Coll'uccidere il Borbone — rispose Agesilao. —

—Un regicidio?! — esclamarono sorpresi i compagni di cospirazione. —

«No, un tirannicidio!» — riprese vivacemente Agesilao. —

Allora avvedutosi egli, che tutti i suoi commilitoni erano rimasti perplessi nell'abbracciare questo estremo rimedio politico, in tal modo riprese a concionare:

«È colpa, vituperevole colpa, è, se volete, mostruoso delitto lo uccidere un Re, che viva e regni in armonia coi propri sudditi, e che ne procuri con ogni mezzo, il loro benessere; ma nel tempo stesso è opera meritoria l'uccidere chiunque siasi l'oppressore di un popolo. »

A questo punto Milano fece breve pausa ed indi così soggiunse:

«O fratelli, voi tutti conoscete i delitti consumati per la mentita grazia di Dio dal despota borbonico; gli vidi io, l'uno dopo l'altro cadere per morte sanguigna i forti patriotti di Calabria, ed ognuno di voi, udì i gridi di dolore che si partirono dagli ergastoli e dai luoghi di relegazione, dove tanti nostri fratelli gemono fra le ritorte ed i tormenti dei poliziotti, soltanto perché amarono la patria. » —

—Dubiteresti adunque che Ferdinando sia oppressore?!

«Nò!! non è colpa spengere la vita di un oppressore, ché se tale fosse mai stata, la storia non ci avrebbe decantato le gesta di Scevola, di Bruto, di Cassio, di Dione, e di Timoleonte;  né quando Aod uccise Eglen, re di Moab, e Giuditta tagliò la testa ad Oloferne, sarebbero stati chiamati nelle sacre carte l'uno liberatore del popolo di Israele, l'altra eroina di Betulia.

«Se è vero inoltre — finì col dire Agesilao — che ogni autorità venga da Dio, la tirannide non può derivare da esso, che Iddio non può essere autore di male.

«Dunque annientiamo un potere, che non emana dal cielo. » —

Dopo questa breve ma energica arringa, tutti i congiurati si strinsero intorno ad Agesilao, ed in tal modo simultaneamente gli dissero:

—E sia, come tu vuoi, effettuato il regicidio. —

Fu bevuto sin l'ultimo sorso del giretto, e poiché i bicchieri furono posati sulla tavola con strepito carbonaresco (1), si incrociarono le destre, affinché sulle medesime Agesilao pronunziasse la formula del giuramento, consistente nei seguenti articoli:

1.° Giuro di uccidere Re Ferdinando I, avanti che spiri il corrente anno, se a ciò mi destinerà la sorte.

2.° Giuro che non paleserò mai, nemmeno sotto i tormenti della tortura, alcuno dei miei complici

3.° Tuttociò lo giuro sull'onor mio e sulla verità dell'esistenza di un Dio; e protesto sino da questo momento, che, chiunque di noi si renderà spergiuro, sarà dichiarato traditore della patria, bruciato in effigie se captivo o assente, ed ucciso nel proprio letto se libero e presente.

Dopoché Agesilao Milano ebbe terminato di proferire tale solenne giuramento, tutti gli altri cospiratori esclamarono con voce sommessa:

—Lo giuro. —

Erano in trenta, ed un bel giovane di circa 26 anni, il più mesto e cogitabondo di tutti, scrisse su tanti piccoli pezzi di foglio i nomi dei congiurati, ed indi ripiegatili li pose tutti entro una panierina in forma di fiasca, di cui la famiglia dell'oste era solita servirsi per l'estrazione dei numeri nel giuoco della lotteria.

(1) Uno dei segnali dei Carbonari era quello di battere sul tavolo il culo del bicchiere.

Posciaché fa da tutti e trenta ben bene agitata la fatale paniera, venne incaricato il più giovane di loro ad estrarne uno dei contenuti foglietti.

Quando la mano di quel milite penetrò nel ventre della cestina per cavarne fuori il nome di colui, cui la sorte condannava al capestro, tutti quei maschi volti erano divenuti degni del pennello di Salvator Rosa.

Non alitavano, ed a giudicare dalle loro faccie, si sarebbe detto che nelle di costoro vene non scorresse più il sangue, pareva che fossero pietrificati o esterrefatti come chi all'improvviso veda spalancarsi un abisso avanti di sè; solamente negli occhi spiritati e vaganti fra le più tremende idee, si leggeva tanta vita.

Il foglietto fu estratto, e tutti e ventinove si strinsero più dappresso al giovane che lo stava spiegando; in quel frattempo un'ansia volente e paurosa nel tempo stesso, faceva battere in senso opposto quei caldi cuori, che, ognuno di costoro avrebbe voluto essere il prescelto, e nel tempo stesso temeva di esserlo; insomma orrore ed amore assieme di campiere un atto, che poteva costare una morte vituperevole, un assassinio a sangue freddo, una riparazione. politica, una gloria, o una eterna ignominia, erano gli opposti sentimenti che occupavano quelle fiere anime di soldati.

Ma la fortuna fu saggia nello scegliere; si posò su di Agesilao Milano, e più nòbile sicura, e dignitosa ostia, non poteva consacrare sull'altare della patria la volubile Dea.

Il giorno otto decembre del 1856, come tutti gli anni era solito, Ferdinando Borbone, Re di Napoli, passava in rivista sul campo d'istruzione, uno dei suoi corpi d'armata.

I sacri bronzi suonavano come per festa, ad onore e gloria di sì fausta circostanza, ed il vasto campo era tramutato in un ampio anfiteatro, al di cui intorno tutta l'aristocrazia napoletana ed estera faceva atto di presenza su dei ricchi equipaggi, Tda dove tante avvenenti dame, fulminavano coi loro binocoli quelle lunghe righe di soldati.

La borghesia, rappresentata da meglio che cinquantamila persone, si accalcava in tante gradinate o palchi appositamente eretti da speculatori, ed il popolo minuto, quando non si serrava presso i banchi degli acquajoli o dei pulcinelli ivi improvvisati, vagava più qua e più là del bel mezzo di quel recinto, ove ogni lezzo sociale cambiato in sbirraglia governativa, obbligava gli astanti a scuoprirsi, non appena un qualche segno preannunziasse l'arrivo del sire borbonico.

La giornata era bella, ed uno splendido sole d'inverno, forse l'ultimo della stagione, come celeste autocrate, esso ancora assisteva a quell'accozzo di umane miserie.

Il tenente generale marchese Del Carretto, comandava tutta la truppa schierata su quattro fronti di battaglia, e consistente in sedici battaglioni di fanteria, in nove squadroni di cavalleria, ed in quaranta pezzi di artiglieria.

Un colpo di cannone, sparato dal forte Sant'Elmo, annunciava l'arrivo dell'augusto personaggio, uomo ravizzo, aitante della persona, cinico nell'aspetto, e raggiante di terrena ma pur feroce felicità.

Seguito dalla numerosa sua casa militare entrò nel campo d'istruzione, salutato dal popolo perché ossequente al principio di autorità, applaudito dalle classi elette come di loro patrono, ed esecrato dai più indipendenti dei suoi sudditi o dei soldati.

Le fanfare mandavano pell'aere suoni marziali a guisa d'inno reale, i tamburi rullavano, ed i battimano dei napoletani echeggiavano, per ovunque strepitosi; cosicché sembrava che quel regno fosse il promesso dalle sacre carte.

Intanto il dispotico monarca vuole che il di lui esercito faccia il défilé a pochi passi dalla testa del suo cavallo: ed ecco che ad un sol comando del generale in capo tutti i manipoli si dispongono in colonna di manipoli per sfilare in parata.

Sfilano anzi tutti i cacciatori; il primo battaglione fa bella mostra di sè, e come tanti giuocattoli messi in moto da una sola molla, quei pettoruti soldati passano avanti il sire a lui volgendo la faccia: in eguale ordine ne segue il secondo battaglione;

il terzo pure è bello ed unito nel marciare, ed il tiranno ne gongola, ma dalle file di questo sorte fuori un uomo che a passo ginnastico si avvicina al re, e gli lancia un colpo di baionetta al fianco sinistro.

La reale tunica, la cintura, la sottostante maglia tutto è forato dalla punta dell'arme riparatrice, ed anche un lembo di carne del corpulento sire, rimane ferito.

Ma quel cacciatore si avvede che la lesione non è mortale, e fermo il braccio come il cuore, ritira a sè il fucile per ripetere più esiziale il colpo.

Invano, che — un certo colonnello Latour, a carriera spiegata, gli fuga addosso il suo cavallo, e lo stramazza a terra.

Allora cento brandi fanno mortai corona alla testa dell'audace regicida; egli ride in vedere vicino ai suoi occhi quelle minacciose punte, e si rialza da terra così dicendo:

—Non son riuscito, ma ho compito la mia missione. —

Il fatto si propaga, l'allarme si pronunzia, si mistifica una calma prosecuzione della rivista, ma i cuori battono, celeremente, gonfi di sinistre prevenzioni.

Re Ferdinando si rianima alla piccolezza del suo infortunio, e riconosce nella sua incolumità un decreto della Provvidenza.

Agesilao Milano aveva effettuato quanto aveva giurato due mesi avanti, ormai era un uomo perduto che sapeva di dover morire, ma volle finire da forte.

Pochi giorni dopo l'attentato fu composta un'apposita corte marziale, presieduta dall'attuale duca di Rignano, e destinata a giudicare il colpevole: in questo improvvisato tribunale vi fu incluso quanto l'armata offriva di più austero, e primo nonché più efferrato fra quelli che dovevano condannare non solo, ma seviziare l'infelice Agesilao Milano, spiccava un certo tenente Fiore Cacace.

Invano quei giudici, degni del Borbone, impiegarono la tortura per strappare dalla bocca del calabrese la denunzia dei complici; egli subì tutti i possibili tormenti senza mai proferire una sola parola,

che stesse a dare il minimo indizio della cospirazione, e quando gli domandavano il perché avrebbe voluto uccidere il suo sovrano, egli rispondeva seccamente — perché è un tiranno, — come quando insistevano a chiedergli conto dei suoi compagni di cospirazione, egli in tale modo rispondeva — non ho altri complici, che la mia mente ed il mio cuore. —

Nelle poche ore in cui Agesilao era lasciato in pace dalle sevizie di tutti i generi, fattegli non solo dai suoi carnefici, ma dagli stessi generali, fra i quali primo un certo Tecca, ancora esso calabrese, egli da rassegnata e nobile vittima si riconfortava lo spirito colla lettura dei libri di San Tommaso d'Aquino, dei quali uno gli fu trovato in dosso quando commise l'attentato.

Durante l'interrogatorio i giudici gli domandarono come mai egli, anelante al regicidio, legger poteva libri ascetici; al che esso cosi rispose:

— Mi sono sempre sforzato di adempiere tutti i precetti della religione, e di vivere da buon cristiano (1). —

Sorpresa da tale stranezza di idee la Commissione giudicatrice, volle fare una specie d'inchiesta fra tutti gli individui appartenenti al battaglione di cui faceva parte Agesilao, e resultato ne fu, che non solo si era egli mostrato di continuo religioso, ma che usava spesso redarguire coloro che erano dediti al vituperevole vizio della bestemmia, mentre egli in ogni circostanza ebbe esternato concetti di credenza in Dio ed in una nostra vita futura; infatti alcune sue rime da lui scritte per un innocente amore (unico della sua vita) accennano ripetutamente a tali suoi sentimenti a riguardo di religione.

Ciononostante non vi fu pietà per lui, ed anche tale martire colla propria vita pagò il fio dei suoi elevati pensieri che lo condussero a quel passo estremo; ma se il di lui sangue per quella volta innaffiò inutilmente la vulcanica terra, sterile allora di civile vendetta, col tempo il di lui sacrifizio ritornò a quelle infocate glebe, il prisco principio fecondatore di libertà.

(1) Vedi apologia di sé stesso da lui scritta prima di morire e pubblicata per conto di I. S. D. I.

Fu condannato a morte ignominiosa, e quando gli fu letta la capitale condanna si mostrò calmo e rassegnato al punto, che, saputolo il Borbone, ordinò che si affrettasse l'esecuzione della pena per non dare agio al colpevole di spiegare tutto quell'eroismo, di cui era capace.

Laonde una bella mattina gli fu assegnato un frate col quale egli pacatamente ragionò della nostra religione, nonché della futura grandezza d'Italia, e poscia lo pregò di leggergli la vita e morte del buon cristiano.

Ciò eseguito gli furono bendati gli occhi e messo su di una carretta, fu trascinato fin fuori porta Capuana, dove fa consegnato agli esecutori della giustizia.

Ivi giuntò il paziente con in mano un piccolo crocifìsso, il boia gli tolse l'uniforme, che fu bruciata sulla via alla presenza delle truppe, e dipoi gli furono imposti, una veste nera sulla persona, un nero velo sul capo, e tale leggenda sul petto — L'uomo empio. —

Mentre il carnefice gli adattava la corda al collo per la impiccagione, si trastullava a seviziarlo in cento modi, ma uno della Confraternita chiamata dei bianchi, gli applicò un ceffone, cosi dicendogli: — sbrigalo canaglia — allora il sinistro ceffo dei carnefice sogghignò per dispetto e finse di affrettare il suo scellerato lavoro, ma non tanto da tenerlo meno di quindici minuti penzoloni dalla forca prima di ucciderlo.

Agesilao non curante delle pene fattegli soffrire dal di lui assassino legale, aveva montato intrepido la scala del patibolo, ed arrivato in vetta con ferma voce cosi aveva gridato:

— Viva Iddio, viva la libertà, viva l'indipendenza. —

Ma tali gridi urtarono la suscettibilità del boia al punto tale che gli urlò all'orecchio —muori carbonaro, — ed in così dire gli percosse il viso per dileggio.

Però il vile e scellerato esecutore della giustizia dileggiava un cadavere, ché a quell'ora, gloriosa morte gli aveva già tolto dalle grinfie la grande anima di Agesilao Milano, patriotta calabrese.

L'ira e la vendetta tirannica non cessò di perseguitare la memoria, e tutto quanto sapeva dell'esecrato nome del regicida.

Tutti i di lui parenti furono incarcerati, gli amici ammoniti e relegati, ed un buon numero di cacciatori del 3° furono o imprigionati o sottoposti a stringente interrogatorio.

Alcuni dei veri complici di Agesilao l'indomani della di lui esecuzione si suicidarono nelle stesse loro caserme per timore che si scoprissero le fila della cospirazione, ed un cacciatore, quello che aveva scritto i trenta nomi sui pezzi di foglio destinati all'estrazione del mandato pel regicidio, fu messo sotto processo per complicità, solo perché fra le carte di Agesilao furono trovati alcuni frammenti da quel milite scritti con linguaggio allegorico e che avevano apparenza di un gergo politico.

Così era espresso in quei pezzi di carta:

«Oh giorno benedetto, che liberata la terra dai mostri che la opprimano, e la corrompono, ricondurrà in essa l'innocenza e l'eguaglianza, e la pace e la giustizia abiterà cogli uomini! Quanto esulteranno i santi del cielo! Ed io con loro canterò nuovo cantico all'eterno in rendimento di grazia. Allora le crudeli armi saranno converse in strumenti di pace, e la spaventosa voce  della guerra non sarà più udita dalle madri,  né scorrerà più l'umano sangue a far rossa la terra. »

Tali pensieri furono riconosciuti siccome copiati dal libro dell'Apocalisse, ma nelle parole = che liberata la terra dai mostri ché la opprimono = vi fu ravvisata un'allegoria all'uccisione del monarca, onde il mesto giovane per avere spensieratamente scritti tali vaghi concetti, vide schiudersi innanzi a sè un'orrida prigione da cui molto probabilmente sarebbe passato all'estremo supplizio.

Ma vi era un angelo che intercedeva per lui, e fu salvo quel nobile sventurato.

Oramai il lettore avrà capito che il giovane suaccennato di circa ventisei anni, abitualmente mesto e taciturno era lo stesso Michele Squillace.

Egli, appena ebbe saputo da Costanza, che era indispensabile un di lei abboccamento con il giovane Lo-Giudice, divenuto ossesso dal più astuto demonio della gelosia, dopo averla trattata in modo così brusco ed abbandonata, si era ritirato in una sua masseria presso Frosolone, dove a quella stagione autunnale la famiglia Squillace era andata in villeggiatura, lasciando l'abitazione in mano di una castalda.

Ivi, tutto disperato, e quasi fuor di sè, apparve Michele; quella campagna che un dì offriva a lui tanto gradito soggiorno, cotesta volta gli si presentò come il più sterile deserto, quanto la landa la più inaridita.

Appena potè parlare col proprio padre, e che lo senti inveire al solito contro il duca, gli ricacciò in gola le continue di lui offese e per la prima volta aprì ad esso l'animo suo, facendogli capire nei dovuti termini, che un odio, così invecchiato e pertinace, era colpa dinanzi ai cielo.

L'avvocato Maurizio rimase stordito a questa sortita apologetica del suo acerrimo nemico, fatta dal proprio figlio: ne fu addoloratissimo, ma vedendo che il suo Michele non era in uno stato normale di mente, la subì con rassegnazione.

Michele però sentiva allora tutto il peso del suo distacco dalla donna amata, e ripensando che il di lui più grave torto verso Costanza, era quello di essere il figlio del persecutore del di lei padre, provò in sè un momentaneo senso di avversione contro il proprio genitore, dimodoché, senza esternarne una ragione, non volle più assistere alla paterna mensa, standosene solo e sconsolato in una appartata camera della sua villa.

Maurizio si trovò umiliato ed afflitto a tale freddezza, ed alla inesplicabile condotta del figlio suo, ne divenne così addolorato, che, per la prima volta in vita, ebbe a piangere amaramente per causa di un vivente.

Incominciavano allora per Maurizio le prime espiazioni del suo odio!!

Michele si aggirava per i selvosi gioghi di Frosolone, dove nella sua prima gioventù tanto erasi divertito alla caccia, e come se fosse stato inconscio di quanto lo circondava, ruminava nella mente mille sinistri pensieri.

La prima idea che gli si affacciò, fu quella del suicidio e lusingato di ritrovare in questo un completo oblio, ed il totale abbandono de" suoi aspri dolori, carezzava le lucenti canne di due pistole, che con sinistra intenzione portava nelle tasche del suo soprabito; ma appunto allora una segreta voce così gli mormorava alla coscienza.

—Oh ingrato, e vuoi tu lasciare questa terra, dove un'anima candida piange tuttora il tuo abbandono? —

A tale voce, nuova speranza gli molceva il cuore, onde bandiva lungi da sè il pensiero di darsi la morte.

Poi riflettendo che Costanza, sposando pure Lo-Giudice, non avrebbe mai potuto amarlo davvero, si sentiva ansioso di vivere, non fosse altro che per vedere la fine del suo fatidico affetto. — Amano poco quelli che si uccidono per amore, e colui che ha la coscienza di avere, senza un fine turpe, o intercssoso, amato una donna per sempre, non perde mai la speranza di essere riamato!!

Per tale raziocinio nuove lusinghe ed una infinita serie di giocondi pensieri allenivano il cordoglio della di lui anima.

—Forse un giorno — pensava — quando Costanza avrà conosciuta tutta la dolorosa leggenda dei mali, che ebbi a soffrire per lei, quando interamente avrà calcolato la elevatezza dell'amor mio, e per conseguenza assaporato la dolorosa amarezza del nostro distacco, allora forse rimpiangerà il suo Michele ed i penetrali del di lei cuore saranno tutti di me ricolmi. —

Tali consolanti soliloqui mitigarono l'enormità della di lui disperazione, e lo salvarono da un deplorevole sconcerto nelle facoltà mentali, ma di cuore era sempre perduto, onde, giurato che ebbe di non amar più altra donna al mondo, risolvette di scrivere quelle poche righe che le inviò per mezzo della villanella, e che indussero Costanza a sposare Lo-Giudice.

Squillace provò una penosa sodisfazione nel rendere al suo ideale la libertà, e con essa il modo di divenire ricca e felice, perloché, contento di essere egli solo sventurato, in un eccesso di nobile abnegazione fece ogni sforzo di mostrarsi indifferente.

Sui primi giorni sperava di poter vivere nello stesso paese, dove il nome di Costanza bugiardamente risuonava siccome quello di sposa felice, ma il rivedere tuttodì il teatro di così disgraziato amore, lo straziava troppo nel cuore, perché avesse potuto avere la forza di ivi lungamente soggiornare.

Per quanto dubbioso della persistente benevolenza di Costanza verso di lui, tutti i giorni Michele si sentiva spinto ad andare in Castropignano, . dove sapeva vivere ella fra i tumulti di una briosa esistenza, e si incamminava verso quel paese mosso dal solo desiderio di vederla ancora, ma quando aveva percorso appena il primo miglio, un onesto pensiero lo arrestava, quello di non disturbare le di lei nozze.

Alfine la notizia dell'avvenuto imeneo di Costanza con Lo-Giudice arrivò sino a lui, ed a vero dire ne rimase insensibile: tanto forte era stata la spiacevole impressione, che 11 per lì produsse in quell'anima angosciata il solo senso di stupore.

Infatti, come già ho precedentemente avvertito, e fisiologicamente provato, che nei grandi dispiaceri che ci colpiscono, suole la previdente natura umana ispirare in noi quella salutare apatìa, che di subito ci salva, e che ci dà poi il tempo di freddamente esaminare il valore vero della nefasta vicenda che ci ha colpito.

E Michele per tale mistero psicologico, al primo annunzio si mostrò poco o nulla increscioso, ma col rapido succedersi dei giorni, si rinnuovarono in lui i più crudi ricordi del suo perduto amore.

Ormai non si sentiva più affezionato ad altra cosa vivente, che non fosse la memoria della sua Costanza, e divenutagli insopportabile la vita di famiglia, lo studio, ed ogni altra occupazione o passatempo di una volta, si trovava straniero ancora nelle sue stesse pareti domestiche.

Sempre serbando il dovuto rispetto al proprio genitore sentiva di amarlo assai meno di prima, perché riconosceva in lui la vera causa della sua disgrazia in amore;' e questo predestinato raffreddamento di affetti fra padre e figlio, riusciva a solo vantaggio di Leone Squillace primogenito della famiglia, il quale, sebbene esercitasse l'avvocatura in Campobasso, pur nonostante da rapace, ed interessoso, quale egli era, aveva sempre tirato (come suol dirsi) le acque al suo mulino.

In quell'epoca, l'idea di abbandonare quei luoghi, e di andare a vivere lungi, ove si lusingava di ritrovare la pace e l'oblio del passato, arrideva alla fantasia di Michele, e sperando di rimpiazzare la delusa affezione con altrettanta passione consacrata alla patria, ideò di dedicarsi alla carriera delle armi.

Ma prima di ciò fare, sentiva in sè un vivo ed irresistibile bisogno di rivederla, o almeno di sapere come si era presentata, se giuliva o no all'ara nuziale.

Ma a chi domandare tutto ciò? — ruminava nella mente. —

Ai parenti forse?

No, perché allora avrebbero potuto penetrare la causa della di lui tristezza e la ragione vera dei rimproveri da lui fatti al padre.

Agli amici?v

Nemmeno, perché dopo la sua improvvisa assenza da Castropignano, avrebbero potuto inferirne la conseguenza di un di lui trasporto verso la duchessina, e così compromettérne la fama di fronte allo sposo.

A chi dunque domandarlo?

Dopo avere vagato fra diverse ipotesi, decise di andare a domandarlo all'unica amica sincera che avesse avuto Costanza, e che era, come già si è detto, la signora Anna Alena.

Infatti in una delle venienti sere, Squillace, senza dire alcuna cosa in famiglia, si avviò a piedi verso Castropignano, ed ivi giunto, percorse le vie più nascoste e solitarie, per condursi in casa della signora Alena, la quale in vederlo, rimase sorpresa come accade quando si incontri un amico, già creduto lontano.

Michele entrando nella di lei casa, così le disse:

—Al solito onore di baciarle la mano.

—Sia il benvenuto — rispose la signora, ed in così dire gli presentò il dorso della morbida destra, sul quale l'afflitto Squillace depositò un bacio di leale amicizia.

Dopo di ciò sedutisi l'uno accanto all'altra, tale dialogo ebbe luogo fra loro: cominciò Michele.

—E così, la di lei sviscerata amica, a quest'ora può dirsi completamente felice!?

Per la signora Anna traspariva in tali parole un senso di così amara ironia, che la fecero trasalire, tantoché, se un'imprudente lacrima non si fosse affacciata ai suoi espressivi occhioni neri, si sarebbe detta che ella fosse rimasta muta per il dispetto e non per la compassione della domanda.

Michele comprese tosto l'arcano significato di quel silenzio e di quella lacrima, onde con enfasi selvaggia così riprese:

—Che!!... sarebbe forse tuttora infelice la mia Costanza?

A questa seconda domanda la signora Alena non potè trattenersi dal rispondere due soli detti, ma che pure tanto concetto racchiudevano in sè, ecco quali:

—Ed osa domandarmelo?

Tale rimprovero colmò di gioja il caro Michele, che tornato di già alla speranza di essere riamato, con indescrivibile premura così soggiunse:

Ma dunque posso lusingarmi sempre di essere idealmente corrisposto da Costanza? Ma dunque colui che me l'ha rapita non vale a fare vibrare le corde sensibili del di lei cuore, sino al punto di farmi dimenticare?

A tali entusiastiche e pur modeste domande dello sventurato giovane, la signora Alena, penetrata dalla nobiltà dei di lui sentimenti, e della grandezza dell'affetto, tutto volle raccontargli nella speranza di ricondurre la pace in quell'animo angustiato. )

Perocché gli narrò, che, egli partito, la desolata Costanza era più volte stata da lei per sapere di lui nuove — che la toelette di sposa fu tramezzata da lunghi sospiri e da lacrime — che affranta dal dolore non ebbe la forza di condursi all'inginoccbiatojo della cappella, dove si celebrarono le nozze — infine gli raccontò, che, quando il sacerdote le ebbe domandato se era contenta di sposare Lo-Giudice, ella esitò alquanto a rispondere, e che dopo avere a mezza voce pronunziato il fatale sì, scoppiò in un dirotto pianto.

Durante simili rivelazioni Michele si mordeva le dita fino a farne sortire il sangue, e divenuto inconsolabile, a ciocche intere si strappava i capelli.

Inginocchiatosi, dipoi, o per meglio dire, caduto sui ginocchi, volse la bella e lacrimosa faccia al cielo in tal modo esclamando:

— Mi perdoni Iddio, se io l'ebbi, tanto ingiustamente abbandonata!

La sensibile signora Alena, prendendo parte anch'essa al visibile dolore di Michele, da onesta moglie, come da amica affezionata, in dolce modo così gli disse:

— Si rassegni, o signor Michele, lei che è tanto buono, si rassegni al fato, e preghi Iddio per la felicità della sua Costanza, e per il ritorno della pace in lei medesimo.

Michele allora, alzatosi come per scatto di molla, rispose:

__ Ho pregato da molto tempo, e sempre pregherò Iddio per la mia Costanza!!

Quindi, avido di sapere tutti i pensieri della sua unica affezione, fece ali a signora Anna tante e sì diverse domande.

—Ma l'ha ella riveduta dopo sposata? — Che pensa? — Che dice? — Come si trova? — Mi ama sempre? — Che farà, resterà a Castropignano o ne partirà. — Mi dimenticherà, o penserà sempre a me?... dovrò io morire di dolore o vivere di speranza?

La signora Anna a questa sequela d'interrogazioni non voleva rispondere, per non alimentare nel cuore di Michele una fiamma, che al di lei modo di vedere doveva ormai spengersi, ma pressata con ripetute istanze, e direi quasi, con puerile insistenza, per quell'ultima volta, volle essere cortese di rispondergli nei seguenti termini alquanto sibillini.

—La ho riveduta, le ho parlato a lungo, e mi sono accertata, che i di lei pensieri non sono quelli di una sconoscente.

Che non dimenticherà mai colui che l'ha amata.

Che ubbidirà sempre ai giusti voleri di suo marito.

Che partirà per un lungo viaggio di nozze, e che poi anderà a dimorare in Napoli.

Infine che non farà mai morire di dolore colui che sia pago di un incolpevole idealismo.

Dal complesso di tali risposte, Michele capì, che il cuore di Costanza era sempre per lui, ma comprese altresì, che niente poteva sperare da quella donna, la quale, per essere di un'onestà senza pari, si sentiva in obbligo di soffocare i più intensi trasporti dell'animo suo.

Laonde si pentì di avérla, ad un tempo, ritenuta per incostante, e guarito siccome era della sua irragionevole gelosia, pianse la colpa di averla lasciata.

Al crescente tumulto di affetti che in cuor suo si suscitava, Michele sempre più si confermò nella risoluzione di abbandonare il paese natio, ma prima di congedarsi per sempre dalla signora Anna, gli venne un'idea, che effettuata, fu causa dell'infelicità di Costanza.

Onde, dopo quei pochi istanti di silenzio, che susseguirono alle risposte della signora Alena, Squillace riprese:

—Mia gentile signora, oggi è forse l'ultimo giorno, in cui mi sia dato parlare con lei della mia disgraziata passione; domani all'alba io partirò per andare ad arruolarmi nell'esercito, oggi borbonico, ma che un giorno potrà divenire nazionale italiano:

ormai ho renunziato a qualunque lusinga del mio avvenire, fui disgraziato nel mio impareggiabile affetto verso un angelo, e voglio perciò consacrarmi da ora innanzi a quello della patria.

—Benfatto cosi — rispose la signora Anna. —

Poi riprese Squillace:

—Ma prima di allontanarmi per sempre da ella, prima di renunziare del tutto a questi incantevoli luoghi, io mi sento in dovere di scusarmi presso la signora duchessa (ormai Michele non osava più di chiamarla Costanza).

—Scusarsi di che? — domandò la signora Anna. —

—Del mio inqualificabile contegno verso di lei.

—E come fare? — domanda di nuovo la signora. —

—Con una lettera aperta, che ella, tanto cortese, dovrebbe farmi il segnalato favore di passarle.

A tale richiesta, se vogliamo un poco troppo azzardata, la signora Alena aguzzò le labbra in segno di disapprovazione, ma calcolando poi che consegnando a Costanza la lettera aperta, non avrebbesi potuto in essa organizzare alcuna occulta corrispondenza o intrigo amoroso, tra per la compiacenza, che si sentiva inclinata ad accordare a quell'interessante giovane, tra per la speranza di poter mitigare con essa lettera il celato corruccio di Costanza, si adattò per la prima volta in vita sua, a fare la poco onorevole parte di messaggera d'amore.

È inutile il ripetere, perché sono troppo facili ad immaginarsi i ringraziamenti e le proteste di riconoscenza cordialmente fatte da Michele alla signora Alena; egli col cuore zeppo di gratitudine verso tanto impareggiabile amica, si congedò da lei per ritornare l'indomani colla lettera, eppoi partire.

La signora Anna non solo si raccomandò, ma subordinò la cosa alla condizione, che Michele non includesse nella dicitura epistolare, o espressioni lusinghiere, o frasi amorose, che potessero spingere Costanza a proseguire la loro relazione.

Ottenuta su di ciò la parola d'onore da Michele, la signora Alena allontanò da sè ogni scrupolo, e l'indomani mattina,

verificato che l'espressioni del messaggio erano tali quali ella desiderava, senza fare alcun rimprovero alla propria coscenza, andò a far visita a Costanzina, e le consegnò di soppiatto la lettera di Michele.

Cosi vi era scritto:

«Signora Duchessa,

«Ormai un abisso separa le nostre persone!

«Conosco troppo il vostro carattere di donna onesta, per facilmente persuadermi, che invano io oserei di riaprire il cuore a lusinghiere speranze; ma fra i dolori dell'amore perduto, vi è un'idea, che rassomiglia ad  una pallida consolazione, l'idea di esserci lasciati, se «non da amanti, almeno da buoni amici.

«Qual gioia è per me il sapervi felice!?

«Iddio voglia, che la serenità della vostra vita, sia per sempre l'antitesi del mio interminabile dolore; tale certezza sarà l'unico possibile conforto della mia lugubre esistenza.

«Se è vero che le anime pie si ritroveranno in migliore stella, è certo pure, che noi ci incontreremo: ivi almeno, prego il cielo di avervi tutta mia.

«Io parto, o signora duchessa, parto col pianto impietrito sugli occhi, e la vostra immagine fitta in cuore: ma innanzi di prendere da voi l'ultimo commiato, oso chiedervi una grazia che poco sarà per costarvi.

«— La grazia del vostro perdono! —

«Perdonatemi, o Signora, se vi costai qualche lacrima; possano queste irrorare la virente pianta della vostra felicità.

«Presto sarò soldato nel regio esercito: ivi, quel poco d'affetto, di cui ancora è rimasto suscettibile il mio cuore, sarà da me consacrato alla patria, ed alla vostra memoria.

«Addio, signora duchessa, amate vostro marito.

«Michele. »

Tanto affettuose espressioni fecero daccapo innamorare abbuono Costanzina di Michele, e dissiparono nel di lei cuore quel senso di dispetto e di indignazione, che vi si era momentaneamente prodotto nel leggere la brusca lettera consegnatale dalla villanella.

Sì, ormai l'occulto amore della giovane sposa si era ingigantito a segno tale, che mai più, e per nessun motivo, si sarebbe potuto smorzare; le costava troppo il suo Michele perché ella avesse potuto avere la forza di renunziare alla di lui affezione, e l'idea, che egli sacrificava il suo avvenire e la propria libertà individuale per non disturbare la di lei felicità, la legava per sempre alla memoria di lui, suo primo amore.

Intanto Michele verso la fine di novembre chiuse il suo studio di procuratore legale, e baciato ripetutamente in viso suo padre, parti per Napoli, dove arruolatosi nel 3° battaglione cacciatori, noi lo abbiamo incontrato, cospiratore, complice al regicida, e presso a subire la condanna nel capo.


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CAPITOLO VIII

Dalla Reggia al Brigantaggio

Dopo l'esecuzione capitale di Agesilao Milano, Squillace capì a perfezione, che fra giorni simile disgraziata fine, sarebbe molto probabilmente toccata ancora a lui, onde è, che, ai primi interrogatori, che gli vennero fatti, nel rispondere si tenne sulle generali, per non pregiudi, care i compagni di complicità.

Ma lo sciagurato giovane aveva avuto un bel dichiararsi estraneo al complotto, un bel destreggiarsi colle sue discolpe, un bel resistere ai strumenti della tortura; per la corte marziale egli doveva necessariamente essere correo di tentato regicidio, e nessuna valida ragione in contrario,  né la sua passata buona condotta,  né la mitezza dei suoi costumi,  né la specchiatezza del suo nome,  né infine l'assoluta mancanza di prove, valevano a salvarlo dalla probabilità di finire sulla forca.

Già il tribunale di guerra aveva fatto intendere a Squillace, che era questione di giorni, ma che presto il patibolo avrebbe avuto in lui una seconda vittima politica; ed in special modo il tenente Fiore Cacace, alter ego della tirannide governativa, si dilettava a fargli assaporare sorso a sorso, tutta l'amarezza di tale infortunio.

Perloché Michele, quando dovette convincersi, che per lui era finita l'esistenza, provò un vivo rimorso di aver preso parte al complotto e di avere scritto ad Agesilao i già riferiti pensieri;

e tutto ciò, non per la tema di morire, ché ormai la sua vita non aveva più attrattive di sorta, ma per la certezza che sentiva in sè di procurare col suo fine, apparentemente infame, dei forti dispiaceri alle uniche due persone che gli erano rimaste care sulla terra, cioè Costanza ed il di lui padre.

Ma da giovane fiducioso nella divina giustizia, e nel premio di oltre tomba, colla più sublime rassegnazione dei martiri, rimase per vari giorni in quell'orrida prigione ad attendere il compiersi del suo avverso fato.

A Napoli intanto, ed in ogni rimanente del suo regno, furono messe in moto tutte le palesi ed occulte polizie, tutte le alte e basse camorre, nonché l'interminabile famiglia degli ufficiali consumatori del pubblico erario per mistificare popolari dimostrazioni di gioja in occorrenza della provvidenziale incolumità del monarca.

In senso opposto i liberali raccolsero ingenti somme per suffragare l'anima del martire calabrese; e cosi queste due diverse manifestazioni di animi stavano ad indicare, che due opposte correnti di idee agitavano le masse popolari di quel vasto reame.

Laonde nella bella città partenopea, dopo una infinità di tridui, ordinati al clero dalle autorità politiche, ed una interminabile serie di rendimenti di grazia a Dio, incominciarono le feste profane, consistenti in luminarie, pubbliche, in cuccagne, in lotterie di beneficenza per i poveri del reclusorio, e nelle consuete amnistie per i lievi delitti comuni.

Il mondo ufficiale, ancora egli volle festeggiare il prodigioso scampo reale con una alternativa di balli, dove tante impure passioni vennero organizzate.

Si ballò al casino dei nobili fra aristocratici, si danzò altresì alle ambasciate d'Austria e di Toscana fra le famiglie dei generali e dei diplomatici.

Ancora Ferdinando I volle onorare sè stesso col dare una grande festa da ballo ai suoi fedeli sudditi; e questa volta il grande cerimoniere di corte, ebbe l'ordine di allargare gl'inviti sino agli ufficiali subalterni del regio esercito.

Il tenente Fiore Cacace, che sebbene superasse di qualche anno la cinquantina, aveva nonostante delle velleità da zerbinotto, lasciò per quel giorno di tormentare la sua vittima politica, e si acconciò il meglio che potè colla sua grave uniforme per intervenire al ballo.

Appena egli entrò nella gran sala dei specchi, divenne l'ammirazione di tutti i festanti. — Quello è il fiero giudice di Agesilao — dicevano alcuni aristocratici — Ecco l'incorruttibile tenente Fiore — ripetevano alcuni impiegati civili, che stavano ansiosi ad attendere l'apertura della saia del buffet.

Infine può dirsi che quell'umile ufficiale subalterno fosse segnato a dito, meglio di un famoso generale, solo perché era stato il più severo esecutore della dispotica volontà reale.

Ancora sua maestà Ferdinando Borbone, appena seppe che Fiore Cacace, braccio destro della sua marziale giustizia, era intervenuto alla festa, da uno dei suoi ajutanti di campo lo mandò a chiamare, e lo ricevette nella sala del trono con rara e speciale concessione.

Il corpulento tenente di subito si condusse ad umiliarsi presso il soglio del suo sire, beato di tale concessagli distinzione.

Appena il Borbone, colla sua solita famigliarità, l'ebbe dimandato in questa guisa — Ebbene, Nando (1) hai potuto raccapezzare nulla dal cacciatore Squillace? — egli sciorinò una infinità di proteste circa il di lui attaccamento alla sacra persona reale, e decantò le sue più assidue e minute indagini fatte in tutte le classi che avvicinavano il colpevole, nonché fra le file più sospette dell'esercito; insomma si vantò di essere una delle più accurate spie politiche di tutta l'armata.

(1) Nando diminutivo di Fiore, che nel Napoletano equivale a Fiordinando.

Il re sorrideva a tali sue proteste di devozione, ma gli premeva anzi tutto di sapere se, mercé il di lui operato, si sarebbero potuti impiccare in un sol giorno tutti i ribelli, e primo di ogni altro il detenuto Squillace.

Fiore Cacace non sapeva come rispondere al suo re: non voleva aggravar di troppo la posizione del milite sotto processo,  né tampoco voleva sbilanciarsi sino al punto di rispondere all'augusto personaggio, che Squillace fosse innocente; onde è che così si espresse:

— Maestà, finora nessuna prova certa si è potuta avere della colpabilità del milite Squillace, ma essendo egli stato amico dell 'empio, spero che alcuna ne troveremo per mandare ancora lui all'altro mondo.

Il despota re gioiva di ravvisare fra gli ufficiali della sua armata, un così affezionato satellite, e persuaso che, se vi era un mezzo di legalmente inviare sulla forca il cacciatore Michele, egli lo avrebbe certamente trovato, — vai — dissegli — vai a divertirti, ché sono tranquillo sul fatto tuo, ed anzi farò abbassare ordini alla Commissione giudicatrice, che, per ciò che riguarda questo secondo mariuolo, tutti i componenti tale Commissione si rimettano alla tua saviezza.

Quando si seppe per le sale della reggia, gremite di diplomatici e di generali napoletani ed esteri, che il tenente Fiore, aveva avuto l'invidiabile onorificenza di essere stato chiamato a particolare udienza da sua maestà, si convenne in quei crocchi di uomini usi agli affari di Stato, che, quell'umile tenente sarebbe stata la persona, che poteva col suo operato decidere il monarca, o a proseguire una caccia di immaginari correi, ovvero a confermarsi nell'opinione che V empio (con tal nome in quell'ambiente burocratico veniva chiamato Agesilao) avesse agito di proprio impulso.

Queste voci girarono di sala in sala, finché l'ambasciatore degli Stati Uniti di America, conte di Richemond, non le ebbe ripetute ad una giovane duchessa, alla quale quel diplomatico, con poco successo, faceva una corte accanita.

Quella giovane dama, di appena diciotto anni, si poteva ritenere per la più bella della festa, e tanto più appariva leggiadra, inquantoché aveva nel viso quella tinta di solenne mestizia, che la faceva rassomigliare ad una Maria sul Golgota.

Contornata da una folla di cortigiani, ella accoglieva le cavalleresche premure di tutti, e sorrideva, senza distinzione per alcuno, alle frizzanti marche di spirito, studiate da quei cavalieri, Dio sa per quanto tempo.

Quando Fiore Cacace entrò nel salone ove trova vasi la bella duchessa, l'ambasciatore Richemond, che era tornato allora dall'assistere momentaneamente alle conversazioni politiche di uno dei crocchi meglio informati, così le disse in modo riservato:

—Chi direbbe mai, che quell'omone li (accennando il tenente Fiore) doveva finire coll'essere l'arbitro della vita o della morte di un patriotta?

—E come mai? — domando la duchessa. —

—Vengo a spiegartelo — rispose il conte ambasciatore, e riprese: —.

—Quel corpulento e zotico ufficiale è colui, che ha avuto dal Re l'incarico di fare una minuta inchiesta nelle file dell'armata per scuoprire dei complici di Agesilao Milano; quindi è da lui che dipende il mandare sul patibolo, o lo assolvere un certo Squillace del 3° battaglione cacciatori, che ora è sotto processo, soltanto perché fu amico di Agesilao.

A tali parole la fisonomia della giovane dama assunse un aspetto più sereno, quasi le fosse arrivato al cuore un raggio di suprema consolazione; dipoi, come guidata da idea improvvisa, pregò il conte a volerle presentare qu el tenente, tratta ndosi (come lei disse) che il processato per complicità, era nativo del di lei stesso paese.

Già il lettore deve essersi accorto come la duchessa, ohe ha finora figurato in questa scena del mio racconto, era la stessa Costanza, la quale, ritornata dal bimestrale suo viaggio di nozze, era andata ad abitare Napoli, dove veniva accolta in tutti i circoli della più alta aristocrazia.

Quando l'infelice duchessa ebbe letto nell'unico foglio ufficiale che vi era in tutto il regno di Napoli, come il suo primo amore fosse sottoposto a processo per complicità al regicidio, si trovò disperata nel non poterlo salvare, onde afflitta ed angosciata siccome era nel suo secreto interno, affacciò la scusa di sentirsi poco bene in salute, e si ritirò nei suoi appartamenti per dare libero sfogo al pianto, e per pregare Iddio, che le prove a carico del suo Michele, fallissero completamente.

Il marito di Costanza, ignaro che l'oggetto del primo amore di sua moglie fosse stato uno di Castropignano, e sicuro che fosse invece il fratello di una di lei amica d'infanzia, già abitante a Campobasso, e dipoi partito peli' America del Sud, si era condotto nella camera della duchessa per darle la grata notizia, che il milite incriminabile era il figlio dell'avvocato Maurizio Squillace, quello stesso contro di cui si volgeva l'eterno odio del vecchio suocero e respettivo padre.

A tale notizia malignamente comunicatale siccome consolante, Costanza si morse le labbra, e col pianto in cuore, dovette ostentare una gioia, che era in effetto più aspra di ogni dolore.

Ella poco amava il suo giovane sposo, ma in quel momento le divenne ributtante, onde lo pregò di lasciarla sola, fingendo di essere sopraffatta da un forte mal di capo.

Il semplice marito le prestò fede, e si accingeva a ritirarsi, ma avanti di ciò fare, volle stabilire colla sua cara metà la intervenienza al prossimo ballo reale, e perciò così si fece a dirle:

—Domenica ventura andremo al ballo di sua maestà, non è vero? —

—Con tale emicrania! r rispose Costanza. —

—Eppure, mia cara, bisogna che tu faccia ogni possibile d'intervenirvi, ché altrimenti saremmo segnati a dito come frammassoni, e presi di mira dall'autorità politica: (Il giovane duca aveva una paura maledetta di compromettersi colla giustizia).

Costanza allora riflettè che poco le sarebbe costata una nuova ostentazione, quale sarebbe stata quella di andare al ballo reale, e sperando inoltre, che in mezzo a quel mondo burocratico, le sarebbe stato facile avere più fresche notizie sulla sorte di Michele, fece un animo risoluto, e così rispose al marito:

— Ebbene verrò. —

Ecco intanto spiegato come Costanza si trovava a quella festa apparentemente giuliva, ma con un vero inferno nel cuore.

Appena l'ambasciatore degli Stati Uniti ebbe ricevuto dalla duchessa 1 incarico di presentarle il tenente Fiore, quel diplomatico, colla disinvoltura che hanno propria i gentiluomini del nuovo mondo, si avvicinò all'ufficiale e lo pregò di volersi prestare all'alto onore di essere presentato ad una distinta dama, che riconosceva in lui il braccio più valido della giustizia punitiva.

Fiore credette alla sincerità dell'elogio fattogli da sì eminente personaggio, e si dichiarò fortunato di entrare in relazione con una dama della aristocrazia.

Molti uomini si illudono delle rimostranze di simpatia, che ricevono dalle signore altolocate, ma quanto più sono essi cretini, altrettanto più sono audaci e presuntuosi; onde il tenente Fiore, che, ingannato dai falsi specchi di casa sua, infatto di conquistatrici velleità, non l'avrebbe ceduta ad un don Giovanni, malgrado la sua faccia antipatica e bernoccoluta, i suoi capelli più bianchi che grigi, e nonostante la di lui volgare origine e crassa ignoranza, credette sul serio che la giovane e bella duchessa si fosse ad un tratto invaghita di lui.

Costanza cotesta sera era raggiante di celestiale beltà; la sua sfarzosa acconciatura da duchessa, la di lei fluttuante chioma d'oro, l'alabastrino e gonfio seno seminudo, i suoi occhi, di cui gli eguali il solo Fra Giovanni Angelico mise in fronte ai dipinti cherubini, la rendevano, per leggiadria, regina della festa

Ma se sempre era divinamente vezzosa la gentile Costanza, in quell'occasione, per riuscire nel di lei intento, mise in opera tutto il fascino dei suoi sguardi, tutto l'amore delle labbra, ed ogni altra risorsa della femminile civetteria, innata nelle belle donne.

Espressioni soavi, lusinghiere, ed intese della più inebriante tenerezza, furono scambiate dalla duchessa colle rozze fràsi del tenente; ed i di lei sguardi durante quel colloquio, pieni di bagliore, si posarono senza ritegno sull'antipatico volto per imprigionarne il cuore.

A tale oggetto ella gli fece sentire tutto il diapson della sua voce, l'esilarante alito delle sue labbra, e la soavità olezzante che si partiva dal promettente corpo gentile.

Il feroce giudice di Agesilao già era schiavo avvinto al carro trionfale di sì rara beltà, ma quando poi la giovane duchessa gli domandò la via ed il numero della di lui abitazione, egli allora andò fuori di sè dalla contentezza, e credulo come un collegiale, si stimò il preferito fra tanti adoratori.

La gente ammirava stupita l'apparente preferenza che la duchessa accordava a quel semplice ufficiale subalterno, statole presentato da pochi istanti; si gridò al capriccio, ed alcune dame, sedicenti caste Susanne, parlarono di scandalo; ma Costanza noncurante di loro perché a loro superiore in onestà, seguitò ad intrattenersi col vecchio ufficiale, rende odo così umiliato il conte di Richemond, e contento il duca di lei sposo, il quale nel vederla al braccio del giudice di un individuo appartenente all'odiata famiglia Squillace, ravvisò nella sua sposa l'ereditario e vendicativo odio di razza.

Un accenno di Valtser invitava le coppie danzanti pel Cotillon, allorquando la bella Costanza esternò al tenente Fiore il desiderio di dividere con lui quell'ultima danza.

E così, postisi entrambi in figura, tutte le più significanti sorprese, ed i più accentuati segni di benevolenza dalla duchessa furono usati verso il suo grave ballerino, dimodoché gli altri adoratori ne sentirono gelosia, ed il tenente Fiore, posto ormai da parte ogni riguardo, si credette autorizzato di fare alla bella dama una dichiarazione d'amore.

Costanza aveva raggiunto il suo scopo, ed infingendosi lieta per questo passo ardito del tenente, gli rispose che avrebbe preso tempo a dargli una risposta decisiva, ma che intanto avrebbe perseverato a tener seco lui un'amichevole relazione.

La festa reale ebbe il suo termine, e l'austero giudice di Squillace apri il cuore ai gentili pensieri, lasciando, per un poco da parte, quello di martoriare il povero giudicabile.

Il tenente di gendarmeria Fiore Cacace, era celibe, ed abitava in un decente appartamento terreno di via Egiziaca.

Ivi passava le sue ore libere, e quando il portiere gli annunziava una qualche visita, egli era felice di far vedere i mobili del suo salotto, ed i trofei della sua carriera militare.

La mattina susseguente al giorno in cui vi fu ballo a corte, il grasso ufficiale era a fumare nel salottino a ciò destinato, e riandava col pensiero alla duplice fortuna che gli era toccata, cioè quella di essere stato ammesso a particolare udienza dal suo Re, e l'altra di essersi guadagnato il cuore di una delle più brillanti stelle del patriziato napoletano.

Ad un tratto entrò il portiere e lo distolse da quelle grate sue riflessioni, col consegnargli una profumata carta da visita, dove sotto uno stemma sormontato da corona ducale, era scritto questo nome:

—Costanza di Castropignano. —

Il tenente allora, seppure poco svelto per la sua struttura fisica, colla rapidità di un ginnasta, si condusse fuori della porta d'ingresso, ed ivi, scopertosi il capo del bonetto, si fece a dare braccio ad una signora che con un fitto velo sulla faccia era testé discesa da un elegante Landau chiuso, e trascinato da un magnifico pony bajo dorato.

—Quale onore! — disse il tenente un poóo confuso.

Ed in così dire condusse quella signora nel di lui salotto di ricevimento, ché mai più si sarebbe creduto cosi altamente predestinato.

Era Costanza, che decisa a tutto azzardare, ancora la sua fama di donna onesta, per salvare Michele, si fingeva incapriccita di quell'ufficiale e si abbassava ad entrare nel di lui quartiere, dove un odore di processi politici, ed un ambiente di spionaggio, comunicavano a quella stanza l'apparenza di una vendita di mobilia ad uso di dispotica gendarmeria.

L'illuso Fiore offrì da sedere alla duchessa molto a lui da vicino, e credendo di averla da fare con una delle sue solite conoscenze di facile abbordaggio, sovrappose confidenzialmente il suo braccio alla spalliera della seggiola ove si era seduta Costanza.

Questo primo atto licenzioso del rozzo ufficiale, mise suY attenti la duchessa, onde tiratasi in disparte:

—Le mani a sè — dissegli — ché non sono arrivata al punto di autorizzarlo a tanto.

—Ma che cosa posso fare io per indurla di giungere a quel punto? domandò Fiore ritirando il braccio a sè.

—Cambiare la di lei stessa natura — rispose Costanza. —

—Ed in che modo?

—Col divenire più umano.

Gradirei sapere dove e come, ella, o amabile duchessa, mi sappia inumano?

—Le spiegherò il tutto — rispose Costanza, e poi così riprese: —

Il di lei fisico eccita in me un certo trasporto che mi potrebbe un giorno essere fatale, ché la prima impressione da me sentita al solo vederlo fu molto vantaggiosa per lei; ma ciò che esigo nell'uomo che è per diventare il preferito fra i miei amici, non è il solo requisito fisico, ma sibbene quello morale: insomma io pretendo da lei che più di ogni altra cosa, sia ricco di sentimenti filantropici ed umanitari.

—Difetto io forse di tali attributi? — domandò sfacciatamente l'ufficiale di gendarmeria. —

—Non del tutto, ma in parte — rispose la duchessa. —

Allora il tenente Fiore ansioso di andare completamente a genio a quella bella si gnora, riflettè per un momento e poi cosi proseguì a domandare:

—Ma come posso fare io per dimostrarle che all'occorrenza avrei il cuore di un filantropo?

Le sarà cosa facile se mi risponderà sinceramente.

—Suvvia adunque, mi interroghi pure, ché con lei sarò leale.

Costanza a tale protesta, prima di scendere alla esplicita richiesta di salvare Michele, sviluppò questo preventivo interrogatorio.

—Lei, signor tenente, ha fatto parte della Commissione che condannò a morte Agesilao Milano. Non è vero!

—Si! Ed ho forse fatto male?

—Non intendo dire questo, perché Agesilao era realmente colpevole; ma ella oggi stesso vuol trovare la reità ancora nel cacciatore Squillace, mentre non risulta di fatto reo.

—È vero; ma chi ci assicura che egli sia innocente?

—E che cosa ci prova che non lo sia?

—La di lui amicizia con Agesilao ed i suoi stessi scritti?

—Ma crede ella che l'amichevole relazione fra camerati, senzaché l'uno fosse stato obbligato a sapere che l'altro aveva in mira un regicidio, nonché qualche periodo copiato da un sacro libro, possano costituire prova certa di complicità?

—Prova certa no, ma molta induzione di prova si!

—E colla semplice induzione, lei, che deve essere il mio amico segreto, il mio confidente, e chi sa un giorno il mio(qui Costanza interruppe i detti con un sospiro) vuole mandare alla morte un'umana creatura, che ha tutta l'apparenza di un innocente, e la rassegnazione di un martire?

—No per tutti i diavoli — rispose il tenente — non vi andrà alla morte, se lei, o mia cara, me lo comanda

—Dunque mi promette d'indurre la Commissione ad assolverlo?

—Lo farò, o angelo mio — cosi disse il grosso tenente — lo farò solo per contentar lei, e perché me lo chiede

—Non solo glie lo chiedo, ma glie lo impongo in nome del nostro amore ed in quello della giustizia.

—E se lo farò ella sarà tutta mia? — domandò il borbonico gendarme ansante di bestiale passione. —

—Chi sa?! rispose Costanza — sia prima giusto ed umano, poi, chi sa, chi sa?!...

In così dire ella sì alzò per andarsene, vedendo che l'esoso ufficiale sempre più le si accostava con occhi scintillanti per lussuriosa cupidigia.

Il caro Fiore innamorato all'estremo stadio, e deciso a tutto fare per divenire il fortunato possessore di così incantevole bellezza, si alzò per accompagnarla fino alla di lei carrozza, e nel farlesi dappresso, tentò di darle un bacio sulla guancia destra, ma Costanza lo prevenne, e messa fra la di lui ributtante bocca ed il di lei viso la sua graziosa mano nuda del guanto, glie la offrì a baciare così dicendogli:

—Per ora si contenti di questa. —

Fuori la porta del salotto vi era di piantone uno staffiere che ad Un dato cenno di Costanza, aveva ordine di entrare aucora lui dove aveva luogo la loro conversazione, onde, non appena Fiore, dando braccio alla duchessa, fu arrivato ad un passo di vicinanza dalla portiera, questa venne dal servitore sollevata in mo$o che fece vedere sulla via il pittoresco palafreno, il quale in vedere approssimarsi la sua signora, inarcava il collo ruzzando in briglia.

La duchessa prima di rimontare sul Landau, vero astuccio di tanta gemma, cosi si espresse, parlando con Fiore in tuono sommesso.

—Se è vero che ella mi ami, prima di mercoledì lo attendo al mio palazzo coll'ordine di scarcerazione del milite Squillace.

Sì detto partì.

Il tenente Fiore Cacace, rimasto solo, in questa guisa cominciò a raziocinare.

—La duchessa poi non ha tutti i torti: infatti non è certo che Squillace sia colpevole, e giacché sua maestà ha rimesso in me il decidere della di lui sorte, che gusto, che guadagno avrei io a mandarlo sulla forca?

Eppoi mi pare che ci si debba sentire più tranquilli di animo a sapersi filantropi: me lo ha detto lei e deve essere vero!

Indi dopo avere per un pezzo pensato ai casi suoi in tal modo argomentò nel suo interno.

—Su coraggio, o Fiore, non farti scappare questa buona occasione di piacere a chi già ami, e lavora meglio che puoi per salvare quel povero diavolo: in fin dei conti sarà una fatica di meno per mastro peppe (1).

Mercoledì mattina all'ora una dopo mezzogiorno, il tenente Fiore, ritornato uomo per l'amore di una fata, si presentò al palazzo del duca di Castropignano, che era uno dei più magnifici stabili di Chiatamone, ed ivi, appena consegnata al portiere la propria carta di visita, senza il minimo indugio, fu fatto passare nel gran salone di ricevimento.

Dopo pochi minuti di aspettativa, durante i quali il fortunato tenente stava ammirando i preziosi capolavori di quel tempio di eleganza e di arti belle, apparvegli la vezzosa padrona di casa, smagliante della più ricca semplicità nel vestire.

Si poteva dire che ivi entrando, il cuore di Costanza marcasse i propri battiti fra la vita e la morte, fra la speme e la disperazione; ma poiché scorse il viso sorridente dell'ufficiale, ne arguì bene, e con voce emozionata pell'interno avvicendarsi di tanti speranzosi o sinistri pensieri, gli domandò:

—Che novella mi reca?

—Buona rispose Fiore, ed in cosi dire le mostrò un ordine del gran comando di Napoli, col quale veniva ordinata la scarcerazione del milite Squillace, ed il di lui trasloco al 5° battaglione cacciatori, che era allora di guarnigione in Sicilia.

(1) Nomignolo che nell'Italia Meridionale danno al boja.

Costanza precipitò la lettura di quel foglio, di cui ogni parola spargeva nel di lei angosciato cuore un salutare balsamo di conforto, e quando ebbe veduto la firma del generale in capo, ed il timbro del gran comando, abbandonò il suo bel corpo ai genuflessi ginocchi, ed alzando le braccia al cielo, esclamò: — Sia lodato Iddio, egli è salvo! — Indi rialzatasi sulla persona, riflettè che quell'uomo, tre giorni addietro a lei tanto esoso, era stato colui che aveva salvato il suo Michele, onde, in un eccesso di riconoscenza, gli baciò la bruna e rugosa fronte come a padre o a fratello.

Il tenente Fiore però, non ritenne quel bacio siccome uno spontaneo attestato di gratitudine, ma, insistendo sempre ad essere illuso, gli attribuì un significato d'amore, di che la duchessa avvistasi, dopo essersi a lui raccomandata di non palesare ad alcuno, e molto meno a suo marito, quanto ella aveva detto e fatto per salvare Michele, fece capire all'incapriccito tenente, che ella si sarebbe stimatà felice di annoverarlo fra i di lei intrinseci amici, ma che in fatto di corrispondenza amorosa, per rispetto a sè stessa, non era disposta di accordarla ad alcuno.

Il grosso e vecchio ufficiale rimase meglio che contento di essere divenuto uno dei più intimi della bella duchessa, e riabilitato al bene per dato e fatto di un vivente an. gelo sotto spoglie di donna, cessò di dare la caccia ai cospiratori politici, domandando di passare con lo stesso grado in fanteria (1).

Ecco come si trovò salvo Michele, senzaché, per allora, potesse nemmeno supporre chi fosse stato il di lui spirito tutelare.

(1) Per quanto sia onorevole l'appartenere ai tempi nostri all'arma politica dove adesso entrano i migliori elementi del popolo italiano, altrettanto era spregevole far parte della gendarmeria sotto il governo dispotico del Borbone, allora quando per quel corpo si reclutavano i peggiori individui della società ed i più adatti a vessare i pacifici cittadini.

E tempo di ristarci per un momento dal descrivere le vicende dell'avventurosa vita di Squillace, e di riprendere il corso della Storia politico-militare sul brigantaggio.

Nell'autunno del 1862 non erano i soli briganti, che coi loro delitti si opponevano al coronamento dell'opera unitaria italiana; ancora i nerorossi si agitavano in senso anarchico per più parti della penisola, dando a dimostrare come i germi internazionalisti, che dopo qualche anno radicarono in Francia, ancora in Italia erano stati seminati: ma noi italiani che abbiamo il vanto di possedere una certa serietà di propositi, non eravamo certa, mente il popolo più adatto per affogare nel sangue di una guerra civile aspirazioni politiche, le quali, se entrano nel novero delle giuste e sante ragioni delle genti, non mancherà modo di porle ad effetto con altri mezzi.

Infatti tutte le volte che un popolo si è dato a raggiungere meta qualsiasi con violenti mezzi rivoluzionari, ha finito sempre col peggiorare le proprie condizioni.

A che cosa condussero la Francia le sezioni, il terrore ed il sangue versato nel 1789?

Alla carestia, al discredito, al corso forzoso, agli assegnati, alla legge del minimum, e così, ridotta agli estremi quella nobile nazione, dopo che ebbe raggiunto colle armi un momentaneo trionfo, da ultimo dovette soggiacere all'isolamento, all'invasione, ed alla schiavitù.

Per errori non del tutto dissimili a quelli dell'80 nella terra dei vesperi si manifestarono i primi conati anarchici, quasi contemporaneamente ai generosi moti garibaldini, avvenuti perla rivendicazione di Roma; ma il b uon senso che aveva la maggioranza delle sicule popolazioni, fece sì, che gli anarchici tentativi rimanessero privi di ogni colore politico, e perciò fossero abbandonati alla sorte dei delitti comuni.

A Ragusa (popolosa città della Sicilia) nel settembre di quell'anno 1862 la bassa plebe, armata mano, insolenti va contro i possidenti, e ragunatasi in massa minacciava abbandonarsi a deplorevoli eccessi; però dopo breve combattimento, che colla peggio da parte sua quella ciurmaglia potè a mala pena sostenere contro le accorse milizie regolari, ella rientrò nell'orbita del suo dovere lasciando all'autorità costituita il mezzo di ripeterle ulteriori lezioni se per caso la si fosse ridata in braccio a nuove gazzarre comuniste.

Indi è che, malgrado le agitazioni del partito d'azione, v e ad onta del crescente brigantaggio, la grande massa dei patriotti italiani, nel tempo stesso che deplorava la ferita di Garibaldi da lui fatalmente ricevuta in Aspromonte, s'inorgogliva del valore e della fedeltà delle nostre truppe, le quali, non mai obliando il loro carattere liberale, erano sempre state pronte ad intervenire là dove fosse stato necessario tutelare l'ordine, o si trovasse una causa legittima da difendere.

Ancora all'estero il pacifico contegno della maggioranza degli italiani, di fronte alle serie perturbazioni di Sicilia, nonché il risoluto e fermo contegno delle nostre milizie regolari, ci guadagnarono sempre nuove simpatie, siccome quelle che il mondo civile doveva necessariamente avere per un popolo, che, sebbene sorto da poco tempo a nuova vita di nazionale indipendenza, in ogni occasione aveva dimostrato quel certo senno politico, per conseguire il quale altre nazioni impiegarono lungo periodo di anni.

E nel tempo stesso in cui il sangue versato dall'idolo popolare presso i forestali di Aspromonte, fruttificava calde lacrime di corruccio per parte dei liberali italiani ed esteri, dall'altro canto la universale democrazia riconosceva in noi sempre più indiscutibili i diritti sulla nostra necessaria capitale.

Intanto la corrente delle idee del popolo di Ausonia accennava di volgersi verso la parte dei sostenitori dell'ordine, ed in opposizione alle intemperanze politiche della interna progresseria, la civile Firenze con eloquente indirizzo, coperto da 6000 firme (che erano il fiore della nostra cittadinanza)

per mezzo del suo gonfaloniere Bartolommei, e dei deputati Fenzi e Cempini, invocava il chiarissimo general Fanti siccome interpetre dei di lei sentimenti di ammirazione e di plauso per il contegno tenuto in Sicilia ed in Calabria dal valoroso esercito italiano.

Dopo il doloroso e commovente episodio di Aspromonte fu agevole al general Cialdini (che in tal circostanza era stato rivestito di poteri discrezionali) il ristabilirò in gran parte l'ordine nell'isola di Sicilia e nelle Calabrie, onde si può dire che se non del tutto cessate, almeno molto smorzate le agitazioni garibaldine, 1 Italia intera in quell'epoca si dedicasse con animo più tranquillo al consolidamento dell'unificazione dello Stato ed al conseguimento della propria indipendenza.

Intanto il governo di Torino, per mezzo dell'abile diplomazia d'allora, intraprendeva una campagna di nuovo. genere, quale era quella della propaganda internazionale circa i nostri diritti su Roma, propaganda, che, sotto gli auspici del gabinetto Rattazzi, più facilmente faceva breccia nelle due Camere dei tre regni uniti, là dove lo intransigente partito cattolico aveva disposto gli animi in senso molto a noi contrario.

Contemporaneamente a ciò gli uomini politici di qualunque colore, ed indistintamente tutte le popolazioni del regno si interessavano al sommo grado dell'illustre ferito, che fu circondato da cure veramente filiali per parte degli uomini più celebri nella scenza medicochirurgica d'Italia e di Francia.

E se da un punto di vista il governo fu sollecito ad amnistiare tutti quei garibaldini, che in onta al divieto governativo avevano passato il faro di Messina, dall'altra parte fu giocoforza di ricompensare con onorificenze speciali coloro che in quella circostanza più si distinsero fra gli ufficiali superiori ed inferiori, nonché fra i sott'ufficiali e soldati della truppa regolare, la quale, volere o no, in Calabria aveva scongiurato i sinistri effetti di un ardire male impiegato quale fu quello dei coraggiosi ma sconsigliati seguaci dell'eroe Garibaldi.

Così, o presso a poco così, si passavano le cose d'Italia nostra sul declinare dell'anno 1862, e mentre per mezzo della pubblica stampa da Napoli si faceva istanza al governo per togliere dalle provincie meridionali lo stato di assedio (che veniva reputato inutile attesa la supposta fine del brigantaggio) quasi contemporaneamente nei boschi di Aragna e della Bardella alcuni distaccamenti di truppa attaccavano il fuoco con una nuova banda sortita fuori non si sapeva da dove, e che dopo accanito combattimento, dal capitano Festa e dal luogotenente Franco, con due drappelli del 47° e 48° di linea fu a stento scacciata dalla presa posizione. — A Bari due distaccamenti del 16° e 24° fanteria, validamente coadiuvati dai RR. carabinieri, si trovavano inopinatamente di fronte a nuove masnade di sconosciuti masnadieri. —Nella provincia di Aquila il capitano Bonetti del 6® reggimento con pochi militi e qualche carabiniere, dopo lungo, accanito e sanguinoso conflitto metteva in fuga la banda del famigerato capo brigante DalMonte, di cui si erano perdute le tracce e che nel veniente giorno venne catturato e passato per le armi insieme all'altro terribile assassino nominato CittoFante. — Ed infine a S. Croce di Morcone un drappello del 43° fanteria, coadiuvato come sempre da pochi, ma valorosi carabinieri, venne sorpreso ed attaccato da una banda di 34 briganti a cavallo, i quali, seppure bene armati e più numerosi della truppa, nonostante furono sbaragliati e messi in fuga.

Tali fatti briganteschi avvenuti in tre diverse provincie ove si credeva cessato il brigantaggio erano la più eloquente risposta che si potessero avere i primi articoli dei giornali che si facevano ad invocare dal parlamento e dal governo l'abolizione dello stato d'assedio, all'oggetto di far perdere alla forza armata quell'energia ed autorità cui tale legge eccezionale le aveva comunicato.

Ma i teneri del passato a ciò non riusciti nella camera elettiva, dove a tal riguardo il. governo di allora aveva una solida maggioranza, per mezzo di comitati clandestini cominciarono a stigmatizzare l'operato delle truppe mobilizzate e più specialmente di quelle che in Sicilia erano allora comandate dal general Brignone.

E tali spregevoli, nonché menzogneri gridi di immeritata disapprovazione, che primi scaturirono dall'isola di Sicilia, ebbero eco ancora nelle province meridionali di terra ferma, dove i sanfedisti rossi camuffati da liberali, facevano causa comune con tutti gli elementi sovversivi non esclusi gli adepti alle diverse camorre; ed avendo eglino per scopo precipuo quello di allontanare dall'animo delle patriottiche popolazioni meridionali i sentimenti di stima e di affetto, che queste incominciavano a nutrire a vantaggio dei nostri soldati, accendevano sempre nuove ire regionaliste, col dipingere i briganti morti in conflitto o fucilati, siccome martiri dalla legittima causa, e noi quali oppressori o come conquistatori della più bella parte d'Italia.

Nonostanteciò il popolo saggio siciliano, che aveva sempre avuto fede incrollabile nei destini dell'unità e della patria non sempre dava ascolto a tanto sinistri e vigliacchi agitatori del rosso sanfedismo, onde non potendo tacere di fronte a tali ingiuste recriminazioni, cominciò la calda ma patriottica popolazione di Palermo a protestare (1) e a dichiarare che il contegno del general Brignone come quello di tutti i componenti le truppe mobilizzate nella Sicilia, era stato tale quale potevasi attendere dal vero soldato italiano.

Ma i reazionari di Roma, e tutti i decorati dal nuovo governo d'Italia, siccome quelli che non erano estranei alle manovre degli occulti comitati, non si ristavano dal calunniare gli agenti della forza pubblica e dal tacciarli di eccessivo rigore usato nella repressione del brigantaggio, e se si aggiunga a tuttociò che cotesti malnati ne rappresentavano continuamente quali eretici e nemici della religione del Cristo, riesce facile farsi una chiara idea che l'occulto borbonismo unitamente ai legittimisti di Roma, contribuiva in molto a che i più insci abitatori del mezzodì d'Italia, che, o per pregiudizi di regione, o per ignoranza di storia patria, oscillavano nella scelta fra il vecchio e nuovo regime, fornissero le bande brigantesche di sempre nuove reclute.

(1) Vedi Giornale Ufficiale della Sicilia di quell'epoca.

— Ecco spiegato la ragione per la quale tuttodì il numero dei briganti si accresceva.

All'avvicinarsi del marzo dell'anno 1862 l'idra brigantesca sempre più fiera risorgeva colla sua opera demolitrice: quasi tutte le provincie, meno la Calabria, erano minacciate da grosse bande; il Molise e la Capitanata erano il teatro di orrendi fatti; nei pressi di Potenza non passava giorno senzaché la comitiva Ninco-Nanco o quella di Cavalcante non facessero ricatti o non imponessero grosse taglie ai ricchi possidenti; ed a Pietra Pertosa, a Monte Murro ed in altre località della Basilicata, varie squadriglie di briganti soventi volte si abbaruffavano coi bravi carabinieri e colle zelanti guardie nazionali, fino al giorno in cui un distaccamento di soldati del 13° fanteria comandato dal coraggioso luogotenente Giuisiana faceva costare ben cara a quegli assassini l'audacia di attaccare i piccoli posti di guardie nazionali o le isolate stazioni dei carabinieri.

Nel tempo stesso che in Basilicata, nel Molise e nella Capitanata più inferiva il brigantaggio, la setta dei pugnalatori di Palermo mieteva vittime fra i pacifici cittadini, e faceva affiggere alle cantonate di quella grande'  città due diversi proclami; coli'uno invitava i cittadini alla strage, al saccheggio ed all'incendio, coll'altro incolpava il governo di pagare sicari per far pugnalare i Siciliani, e così avere una ragione permanente per conservare lo stato d'assedio.

Ma il R. Commissario general Brignone a rimedio di tanti mali, dava opera al completo disarmo di indistintamente tutti gli abitanti di Palermo, pena la fucilazione per i più recalcitranti.

Il brigantaggio delle provincie del mezzodì d'Italia posso affermare che ebbe due diversi caratteri e due epoche distinte; nel 1861 era una vera guerra di partigiani che furono oppressi dall'eroismo delle truppe e dei carabinieri, come si racconta in un certo opuscolo ai tipi Barbèra intitolato Notizie storiche del brigantaggio.

In quell'anno le numerose bande di briganti avevano l'obiettivo di sostenere la reazione di quei paesi che non volevano riconoscere il nuovo regime di Re Vittorio e l'unità italiana.

Nè i piani orditi dai comitati reazionari di Roma sarebbero stati privi del tutto di base e della possibilità di una certa riuscita, se non fosse stato l'eroismo delle truppe italiane, che atterrì o meglio sbalordì gli animi degli insorti borbonici.

Mi limiterò a qui accennare alcuni fatti isolati del 36° reggimento avvenuti sul cominciare del brigantaggio, alla repressione del quale quel corpo prese più di ogni altro parte attiva; ed il lettore da tali dettagli potrà farsi una idea dell'accanimento e dell'ardire che guidava gli ufficiali ed i soldati tutti dell'esercito italiano, nel combattere quella specie di guerra sleale che fu poi chiamata brigantaggio politico.

Nel gennaio del 1861 già si parlava della venuta dei temuti briganti cui si dipingevano come aitanti della persona e valorosi in conflitto; si diceva in quei paesi che ogni brigante così agguerrito ed armato siccome era, poteva tener fronte a 3 dei nostri soldati, ma i fatti smentirono la nomea; ed invero nella primavera di quell'anno, mentre il tenente Enrico Giacomelli con soli 25 uomini del 36° reggimento si dirigeva verso Termoli, scorse in lontananza un polverio inalzarsi al cielo; capì da quello che un attruppamento di uomini a cavallo si avvicinava verso di lui per la via maestra; da prima credette che fosse un qualche reggimento della nostra cavalleria, ma poiché ebbe riflettuto come tali corpi non erano stanziati in quella zona, dovette convincersi che altro non potessero essere sennonché i tanto decantati briganti.

Aveva pochi soldati sotto i suoi ordini ed era al grado di giudicare che i sopravvenienti nemici dovevano esser in più centinaia: e che per ciò? Coraggiosi che vollero vincere o morire non contarono mai i nemici! Gli numerarono forse i 300 di Gedeone? — Eroismo recusa il calcolo!

Giacomelli con la sua esigua schiera si ritirò entro un bosco che trovasi alla foce del Saccione; ivi piazzò i suoi soldati dietro le più grosse piante, fece innastare le baionette ed a piè fermo attese i briganti per vender loro a caro prezzo la vita.

Comandava quelle bande riunite il feroce Crocco, e circa 200 masnadieri a cavallo ubbidivano ad i suoi cenni; e tostoché l'ardito capo-brigante ebbe veduto internarsi fra le piante di quel bosco i soldati italiani, mise ai trotto i cavalli dei banditi per attaccarli.

Ma quando furono a 200 passi di distanza dai primi cespugli, fu loro diretta contro una scarica che produsse nelle file dei briganti un certo scompiglio, perché tre di essi caddero morti ed alcuni furono feriti.

I briganti che non sapevano il numero preciso dei soldati e che si accorsero che questi tiravano abbastanza bene, incominciarono a dare in dietro ma Crocco scorrendo a carriera spiegata il retrofronte della sua masnada, gli eccitava alla pugna così gridando: — Dàgli addosso agli scomunicati piemontesi.

Però Giacomelli non gli dette tempo di rianimare la pugna, e con un generale grido di Savoja i suoi 25 eroi si slanciarono alla baionetta contro i molteplici briganti.

Appena gli atterriti masnadieri scorsero balenar fra le fronde l'italiche bajonette, si dettero a precipitosa fuga, lasciando nelle mani della milizia gli estinti compagni; e così un pugno di soldati italiani valse a distruggere la fama che scroccavano di valorosi i partigiani del Borbone.

Crocco che aveva molto coraggio individuale, capì allora che con gregari di quel genere non poteva affrontare soldati valorosi, onde condusse la sua masnada nel bosco della Grotta, dove si riunì alle bande di Caruso, di Schiavone, di Nunzio di Paolo e di altri.

Nello smisurato bosco della Grotta, che veduto dalla sommità del paese di Serracapriola, si presenta come un mare di fronzute cime di alberi, che quando vengono agitate dai venti arieggiano l'incessante avvicendarsi dei flutti, evvi un sentiero noto a pochi di quella provincia e che conduce in un ampio speco, che per parziale avvallamento del suolo vulcanico, trovasi nel mezzo di quella selva.

Immaginati o lettore un recinto cento volte più spazioso del Colosseo, circondato da rupi rocciose, dalle screpolature delle quali pendono secolari rami, e potrai farti un'adeguata idea di quella spelonca.

In quel luogo si eran date convegno quasi tutte le bande brigantesche, ché ivi copioso zampilla il fonte per alimentare una vasta pescina, che serviva per abbeverare i cavalli dei briganti, ivi incessante germoglia l'erba medica ed il trifoglio che valeva per nutriente pastura alle giumente dei medesimi; ivi infine sono capaci grotte che servivano di comodo alloggio ai sanguinari partigiani della reazione Borbonica.

Quando l'atra notte cuopriva col suo tenebroso velo tutte le cose create, ivi splendevano più fuochi, ché coi suoi crepitanti tizzi mandavano vampe perenni fino al cielo; alla luce di quelli si sarebbero potuti vedere i sinistri ceffi dei briganti, allora quando fra le gozzoviglie si dividevano il bottino o si ripartivano le scellerate attribuzioni.

Il nibbio, il lupo, ed il tassocane erano per solito i muti spettatori di tale strano spettacolo; ma una tal sera ancora un pastore dalla sua eccelsa collina potè discernere quel notturno convegno di briganti, che sulle prime sbagliò per una tregenda infernale.

Il coscenzioso conduttore di armenti, da vero patriotta, corse tosto a Serracapriola per darne avviso al maggiore Sommati, comandante allora il 1° battaglione del 36° reggimento.

Il cavaliere maggiore, che era uomo intelligente ed animoso, non mise tempo di mezzo, ed ordinò a tutti i distaccamenti da lui dipendenti di muovere ad un dato giorno e ad una medesima ora verso il punto accennato pèr attaccare e circondare quel posto, che potea ritenersi per il quartiere generale dei briganti.

Infatti il giorno veniente a quello in cui il pastore ebbe avvisato il comandante la milizia della presenza dei masnadieri, quattro compagnie del 36°, da diversi punti si dirigevano a marcia forzata verso il bosco della Grotta.

Era l'ora del pomeriggio ed i briganti già ebri per soverchie libazioni, si davano in braccio a gazzarre ed a ridde; quando ad un tratto la vedetta a cavallo che era stata piazzata da Caruso sulla più alta rupe circostante quel recinto, esplose all'aria due colpi di fucile che tale era il segno d'allarme al sopraggiunger della corte, come loro chiamavano la truppa italiana.

A tale avviso son tutti in armi, e barcollanti per l'ubriachezza montano in groppa ai satolli destrieri; però, tale operazione occupò un certo tempo, durante il quale i militi del 1° battaglione del 36° reggimento a passo di corsa guadagnarono le alture che dominavano quel ridotto.

Fu per oltre mezz'ora fatto fuoco da una parte e dall'altra; i nostri fantaccini erano in. 200 ed i briganti sommavano a 500, ma i tiri dei soldati erano efficaci, quelli dei briganti male diretti ed innocui perché male indirizzati da gente che trepidava.

Sarebbero rimasti tutti e 500 prigionieri se il comandante le milizie avesse potuto sapere che vi era un sentiero nascosto fra le alte e selvose piante, dal quale i briganti potettero evadere per ripararsi in luoghi da 11 lontani; nonostante 6 di loro vi lasciarono la vita, molti fuggirono sebbene malconci dai proiettili, e 40 forzute mule cariche d'ogni ben di Dio, rimasero in mano delle valorose milizie come bottino di guerra.

Appena che le bande furono uscite dalla cavernosa selva si suddivisero in tre comitive, la più forte delle quali composta delle orde di Caruso e di Crocco, si diresse verso l'alto Molise; il feroce Crocco potè appurare strada facendo, che alla masseria De Matteis vi era un distaccamento di cavalleggeri Lucca, ed a tale notizia divenne ansioso di prendere su quell'isolato drappello la sua rivincita.

È la masseria De Matteis un vasto fabbricato che ba un solo ingresso, sì per gli uomini, come per gli armenti e nelle muraglie laterali è provvista di molte ed anguste finestre.

Ivi avevano quartiere circa 30 uomini di cavalleria, i quali nel giorno facevano perlustrazioni in quei pressi e la notte si rinchiudevano in quel fabbricato.

In quell'epoca i soldati di cavalleria erano armati di moschettone e di sciabola, col primo rispondevano al fuoco dei briganti malamente, perché quell'arma non aveva una giusta traiettoria, colla seconda davano la carica se a caso si fossero imbattuti in qualche squadriglia di masnadieri.

Due giorni dopo a quello in cui avvenne il fatto del bosco della Grotta, pria che l'alba sorgesse, Caruso e Crocco coi loro 200 briganti circondarono la masseria De Matteis; quando il tromba di guardia ed il sergente di settimana aprirono il portone di quel casamento per suonare la sveglia, una scarica di oltre 200 fucilate dirette dalle suaccennate bande, rese loro cadaveri per cento ferite; questo nuovo genere di sveglia valse più del suono delle trombe, a che tutti gli altri soldati di cavalleria in un attimo fossero coi moschetti in pugno, per rispondere dalle finestre e dalla porta al fuoco dei briganti, ma il numero soverchio di questi e le armi più precise costrinsero quei cavalieri a rinchiudersi daccapo nella masseria, contentandosi di far fuoco addosso a quei briganti che si fossero di troppo avvicinati alla medesima.

Intanto quegli assassini accumulavano ogni genere di strame e mucchi di frasche per avvicinarsi nascosti dietro i medesimi, e per incendiare il casolare 0 almeno asfissiare i rinchiusi soldati, intimando loro di tanto in tanto la resa.

Sarebbero certamente rimasti vittime tutti, se dal vicino paese di Roteilo non fosse sopraggiunto il 1° plotone dell'8a compagnia del 36° reggimento, comandato dal valoroso tenente Acqua.

Quei pochi ma coraggiosi soldati, poiché videro da lontano i briganti che incendiavano la masseria, innastarono le baionette, ed a passo di corsa si diressero verso i briganti facendo loro fuoco addosso, ed avanzandosi in ordine di cacciatori.

Ai primi proiettili che colpirono alle spalle i briganti di Caruso e di Crocco, il solito spavento s'impossessò di quelle masnade, e senza riflettere, che fra i sopraggiunti fantaccini e gli assediati cavalieri, non sommavano ad un terzo del loro numero, rimontarono tutti in sella per darsi a precipitosa fuga; quattro dei briganti feriti a morte rimasero in mano del tenente Acqua, che rimasto padrone della posizione ed invitati i soldati di cavalleria ad aprirgli le porte, fu da essi acclamato come il loro salvatore.

A vero dire per essere i primi conflitti che avvenivano fra la truppa e gì' insorti borbonici, potevasi liberamente ritenere che la peggio toccò sempre a quest'ultimi, e come poteva essere diversamente se fra gli ufficiali di quei reggimento vi fu chi mostrò tale abnegazione della vita da ritenersi il di lui ardire come favoloso?

Così è, ché il tenente Fornaca, già ufficiale dei granatieri ed allora comandante una delle dodici compagnie del 36°, desideroso com' era di catturare un capo brigante, chiese il permesso ai colonnello di farsi crescere la barba.

Era strano in quell'epoca vedere un beli' ufficiale, come lui era, farsi allungare la barba; chi credeva che avesse in animo di chiedere la dimissione, altri sospettava che fosse affetto da una qualche flussione di denti, nessuno però poteva farsi una ragione del perché il comandante il reggimento avesse permesso soltanto a quel sig. ufficiale un tale abuso.

Vi si ravvisa però anche troppo la sua ragione, quando si venga a sapere che un bel giorno il tenente Fornaca, esercitatosi già nel dialetto di quei cafoni, si vestì da brigante e se ne andò a far parte della piccola banda di Cappelletti.

Si presentò a loro tutto vestito di panno nero con fettuccia bianca e rossa al cappello, e con in petto due o tre piastre d'argento coll'effige di Francesco II:

appena incontrò la banda in puro dialetto cafonesco disse che egli era un brigante del monte S. Angelo, il quale, in una disfatta toccata ai suoi, aveva smarrito la via; chiese di far parte di quella comitiva, offrì loro dei sigari di virginia, come lui disse spediti alla sua prima masnada dai comitati di Roma ed insieme a quei semplici assassini cioncò alla salute del pontefice e di Franceschiello.

Robusto, immaginoso, buon parlatore ed avvenente della persona siccome egli era, fece presto a divenire 1intimo del Cappelletti, ed un tal giorno che gli toccò per sua quota di bottino la miseria di 5 ducati, disse al capo brigante:

— Perché dobbiamo noi arrischiare la vita per tali inezie; se non si fosse in tanti, io saprei dove prendere un migliaio di ducati, che ci pagar ebbe senz'altro un signore che adesso trovasi in una data masseria.

A tale premessa l'avido Cappelletti spalancò tanto d'occhi e disse a Fornaca — Malora aggiamo a i nui soli da chisso signore —

Fornaca non sentì a sordo, e po iché vide che egli stesso gli offriva il destro di rimanere da solo a solo, in tal modo gli rispose, sempre in d ialetto — Questa notte quando i nostri saranno avvolti nel sonno, tu ed io anderemo alla masseria Crocco e domattina all'alba faremo il lucroso ri. catto.

Così avvenne e quando l'intera comitiva di quei bri. ganti a piedi si fu addormentata, Fornaca e Cappelletti si avviarono passo passo verso l'avvertita masseria. Il capo brigante marciava fiducioso e spensierato lungo l'angusto trottoio che conduce a S. Croce di Magliano ed a due passi dietro di lui lo seguiva Fornaca, che per distrarlo ed allontanarlo da qualunque, sospetto gli raccontava qualche immaginaria storiella delle sue gesta brigantesche.

Quando era vicino a farsi giorno e che furono giunti a pochi passi dalla masseria Crocco, Fornaca afferrò per le s palle il capo brigante, ed appuntatogli alle tempie un revolver, gli disse: — Getta via la fua carabina, o ti uccido.

Cappelletti allora, un poco per l'imminente pericolo della vita, ed un poco perché credeva, che Fornaca facesse scherzo, gettò via il suo archibugio e quasi contemporaneamente fu egli gettato a terra da Fornaca il quale con una cordicella che teneva nascosta nella carniera, lo legò ben bene e seco lo condusse alla vicina terra di S. Croce di Magliano, dove in quel giorno stesso fu fucilato.

1 briganti che ancora nei paesi avevano le loro spie, vennero a conoscenza di tale avvenimento, ed a un'audacia così spinta, sempre più si impaurirono dei soldati italiani.

È facile farsi una ragione che nel 1861, quando le bande affrontavano, ancora a parità di numero, le regie milizie, rimanevano le prime sempre sconfitte, e che dietro i pessimi resultati ottenuti dovevano in appresso cambiare tattica per raggiungere un qualche profitto.

£ così nell'anno 1882 si ripresentarono più numerose e meglio organizzate tutte le comitive e più specialmente le bande di Crocco, di Coppa e di Minelli.

Esse erano a cavallo, divise in squadroni, e suddivise in drappelli; avevano capi esperimentati, bravi ufficiali e scrivevano ordini del giorno. Il grosso della banda apparteneva alla reazione e 70 partigiani risoluti, inviati o almeno autorizzati da Francesco II erano venuti da Roma; ma più della metà di costoro caddero per via senza mandar lamento.

La seconda strategia brigantesca del 1862 era quella di non attaccare più in grosse bande i paesi per suscitarvi la reazione e così non dare altrimenti al brigantaggio un colore politico, ma fare invece spietata guerra a tutti gli ordini costituiti della società.

Nell'anno 1861 le bande armate erano penetrate a Melfi sotto Archi di Trionfo, a Pontelandolfo ed a Casalduni acclamate dalla popolazione; nel 1862 all'opposto si contentavano di soggiornare nei boschi, attendendo ivi 1 occasione di sorprendere un qualche plotone isolato, per massacrarlo.

Un altro mezzo potente a distruggere il brigantaggio fu messo in opera nella provincia di Capitanata dal generale Mazé de la Roche e dal prefetto De Ferrari, ed ecco quale.

Sino dall'ottobre del 1862 chi fossero coloro, che avevano fama di manutengoli e da qual parte fossero arrivati sempre nuovi briganti, si erano mantenute delle vere e proprie incognite, e però le autorità politiche e militari di quella provincia avevano sempre vagato nell'incertezza, nel buio e nel mistero, quando adottavano i necessari provvedimenti di repressione, cosicché spesse volte venivano tratti in arresto dei pacifici coloni e popolani nel mentre che si lasciavano liberi i veri fautori del malandrinaggio.

Intralciate siffattamente le misure prese per la pubblica sicurezza, i veri capi reazionari, che andavano e venivano da Roma, avevano avuto tutto l'agio di inceppare il regolare andamento del nuovo governo, senza esporsi ad alcun rischio.

Fu allora quando con apposita circolare del prelodato prefetto di Foggia, che dal comando generale della Capitanata venne trasmessa ai comandanti di distaccamento, si ingiungeva a tutte le autorità politiche ed amministrative di quei paesi, di esarare precise statistiche riguardanti coloro che da qualche tempo erano assenti dai nativi comuni,  dei loro aderenti — ed infine di tutti quelli cui supponevasi far parte dei briganti.

In pari tempo fu ordinato alle truppe, che erano in colonna mobile di arrestare chiunque avessero incontrato lungi dell'abituale sua dimora senza esser provvisto dell'apposita carta di via, che veniva rilasciata gratis ad ogni richiedente dal sindaco e dal comandante la stazione dei RR. carabinieri.

Organizzato in tal modo un attivo servizio di sorveglianza, in breve termine riuscì facile alle autorità politiche della Capitanata il conoscere come, dove e quando ripullulavano i famigerati briganti. Cosicché, quando da un dato paese spariva un qualche individuo sospetto di borbonica o brigantesca partigianeria, riusciva facile agli agenti della forza pubblica il giudicare dove fossesi riparato ed in qual banda potesse egli trovarsi, traendo logico argomento su ciò dalle pratiche o aderenze, cui quell'individuo anteriormente alla propria assenza era solito avere.

Tali giusti, ma sino ad allora inusitati rigori, da principio inasprirono gli animi dei briganti perché non era più loro facile l'essere provvisti di vettovaglie, e dei reazionari perché si accorgevano che in quella guisa il flagello del brigantaggio avrebbe presto avuto il suo termine.

Le ire malandrinesche irruppero allora a segno tale, che ai primi di ottobre del 1862 nella strada conducente da Campobasso a Napoli, una numerosa comitiva di inferociti assassini, non potendo in altro modo vendicarsi, trucidò l'infelice corriere postale, distrusse la corrispondenza, e tagliò in tre punti il filo telegrafico (cose ed eccessi ai quali nessuna banda era anteriormente arrivata).

Ma inseguita quella vandalica orda da due compagnie di bersaglieri e da altre due del 22° di linea, tutte sotto il comando del maggiore Kobau di, nei pressi di Nola fu stretta e circondata in guisa, che la sera veniente si arrese a discrezione del prelodato ufficiale superiore, il quale si limitò a fucilare un solo brigante, perché fatto prigioniero prima della resa.

Intanto che i componenti tale comitiva si arrendevano in seguito alla promessa fatta loro dal Robaudi di consegnargli al potere giudiziario, un'altra banda formata da un miscuglio di diversi gregari delle vecchie comitive e da nuove reclute brigantesche, si faceva a scorazzare nei pressi di Avellino uccidendo uomini e bruti (1) e tutto incendiando quanto non fosse servito ai suoi bisogni, ma attaccata a tergo dalle guardie nazionali mobili di Foggia, guidate dallo stesso generale Mazé de la Roche, ed incalzata di fronte dalle milizie regolari e cittadine,

(1) Quando volevano uccidere un grosso numero di pecore o di capre, le rinchiudevano tutte nel più vasto capannone, ed ivi, dopo aver serrate le finestre, per impedire la circolazione dell'aria, introducevano pochi fastelli di frasche, che accumulati sulla porta d'ingresso, ed incendiati, col loro fumo bastavano ad asfissiare oltre 1000 capi del belante armento.

condotte dal generale Franzini, ancora quella nuova banda fu battuta, sbaragliata e dispersa in modo, che riparando in piccole squadriglie più quà e più là delle vicine selve, si può dire che più non esistesse.

Ormai possiamo ritenere che col declinare del 1862 l'ultima ora del brigantaggio ivi fosse giunta: non solo lo zelo, il coraggio e la instancabilità delle truppe regolari, o l'intelligenza tattica del generale Mazé comandante quella zona, o la sagacia politico amministrativa del prefetto De Ferrari, ma eziandio la potente cooperazione di quella milizia cittadina valse a segnare la fine delle ultime speranze, che nel brigantaggio politico o socialista nutrivano i reazionari borbonici.

A dimostrare che nella cura radicale di quella piaga cancrenosa il concorso della guardia nazionale servi di farmaco potente, mi faccio qui a riferire un fatto, che tanto onora la milizia cittadina del paese denominato la Pietra.

Ai 17 ottobre 1862 un drappello di 38 guardie nazionali del prelodato comune faceva la sua solita perlustrazione, rimanendo a pernottare in una certa masseria, della quale non rammento precisamente il nome.

Non era ancora spuntata l'alba, quando quei valorosi militi cittadini, dalle finestre del casolare colonico si accorsero che erano stati circondati da circa 200 briganti, numero formato dalle ormai assottigliate bande di Schiavone, di Coppa, di Caruso e di Taranelli; ma tostoché giudicarono che quei masnadieri ai primi albori avrebbero mosso contro di loro per catturarli, fecero per i primi fuoco contro di essi, uccidendone due e ferendone altri colla portata delle eccellenti loro carabine.

A tale scarica la masnada brigantesca, che non si aspettava tanta resistenza, retrocedè di parecchi metri, ed intanto le più audaci guardie nazionali uscite fuori dalla masseria, a passo di corsa andarono ad impossessarsi dei cadaveri dei due briganti caduti, dei quali le armi, le vesti, il denaro ed i derubati oggetti preziosi rimasero in loro potere.

Quando furono rientrati nella masseria, tutti i bravi militi cittadini, si misero sulle soglie delle porte od al davanzale delle finestre per respingere a colpi di fucile gl'invisi briganti, i quali, accortisi che quei civici tiravano abbastanza bene, non si sentivano più il coraggio di arrivare a distanza dei loro fucili.

Al solito tentarono d'incendiare l'attiguo capannone, contenente grande quantità di paglia e di fieno, colla veduta che al bruciore di quell'incendio gli assaliti avrebbero sloggiato dalla masseria, ma i previdenti militi non dettero il tempo necessario agli assalitori di porre ad effetto tanto turpe disegno, e giù fuoco addosso a chiunque avesse osato di avvicinarsi al capannone.

Allora i capi briganti, persuasi che il prendere a viva forza quel pugno di militi era per essi (come suol dirsi) un osso duro, mandarono loro un parlamentario coli'incarico di patteggiare la resa e promettere salve le vite a tutti e 38, se avessero abbassate le armi.

Il tenente della guardia nazionale, signor Di Sabbato, che comandava quel plotone, dalla finestra della masseria così rispose al parlamentario che si era soffermato a circa duecento passi di distanza. — Volete le nostre armi? Ebbene venite a prendervele! ed in così dire gli sparò sulla faccia una delle due canne del suo fucile e precisamente quella carica a pallini che conciarono il brigante come si deve.

Esperimentato inutile ogni tentativo di capitolazione, i briganti, mantenendosi sempre lontani, fecero un circolo intorno alla masseria, ed accortisi che a tergo di quel fabbricato non vi era alcuna finestra o apertura che potesse dominare il sottostante suolo, da quella parte si fecero sin sotto le pareti, ed ivi giunti, il più' ginnastico fra loro, valendosi delle screpolature che erano nelle muraglie si arrampicò sino sul tetto all'oggetto di scoperchiarlo.

L'agile brigantiello era riuscito in tale difficile impresa, ma appunto quando per gli smossi canali aveva praticato un'apertura nel tetto, da quella fessura fu visto dalle guardie nazionali, ed il tenente Di Sabbato gli sparò contro un colpo della sua carabina tanto giusto che dal tetto lo fece rotolare e cadere cadavere addosso ai sorpresi compagni, che stavano ivi sotto aspettando da lui un mezzo di poter dare ancora essi la scalata.

Quei 200 masnadieri avevano già 4 uomini fuori di combattimento, e l'assediata masseria, coi suoi pochi difensori resisteva loro meglio di fortificata rocca; ma poche illusioni potevano farsi i mal capitati militi cittadini; o per fame, o per fuoco, o per soverchiale forza di assalto alla fine avrebbero dovuto cedere, ed offrirsi, loro buon grado o no, al più spietato e sanguinoso eccidio; sennonché il padre del Di Sabbato che era capitano di quella guardia nazionale, vedendo tardare il figlio, ivi sopraggiunse alla testa di altri 27 militi coi quali attaccava alle spalle gli assalitori.

Quelle poche sopraggiunte guardie non erano il cosi detto soccorso di Pisa, ma poco meno; nonostante, il loro inatteso arrivo servì a rallentare l'operazione d'attacco dei briganti.

Ancora questo esiguo drappello di guardie nazionali ingaggiò battaglia alla lontana con circa 60 di quei briganti che erano andati loro incontro, ma i residuali 140 masnadieri non abbandonarono la preda.

In conclusione quei militi cittadini tutti uomini sulla quarantina e provati al cimento, rinchiusi come erano entro quella povera e disabitata masseria da un cerchio di fuoco, alla fin fine avrebbero dovuto soggiacere al loro rio destino, se dal paese di Castelnuovo non fosse in tempo arrivata la 9 compagnia dell'80 reggimento linea, la di cui sola presenza bastò a mettere in fuga i briganti.

Onore sia dunque a quel pugnò di prodi che in 38 resistettero a 200 e distintamente onore al loro capo Gian Tommaso Di Sabbato.

Il lettore che, da ciò che io ho qui narrato, conosce ormai con quanto accanimento e valore la guardia nazionale di Capitanata osteggiava i briganti, potrà da sè stesso rendersi una chiara ragione del perché in quella provincia il brigantaggio era allora molto diminuito.

Non cosi avveniva nelle provincie d'Aquila (malgrado che a. quel capoluogo si fossero costituiti circa 170 briganti), degli Abruzzi, e del Molise, dove il mio 36° reggimento, come descriverò negli appresso capitoli, dovette subire più terrìbili peripezie.












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