L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


1947

UNA VISIONE NUOVA DEL RISORGIMENTO ITALIANO di Gastone Manacorda

1957

Cariche e manganellate a Veglie e Carmiano Migliaia di viticultori protestano nei paesi  

1970

Chi sono i caporioni dei «moti» di Reggio di Andrea Pirandello


Fonte: L'Unità – Domenica 31 agosto 1947,  pag. 3

UNA VISIONE NUOVA

DEL RISORGIMENTO ITALIANO

di Gastone Manacorda 


(se vuoi,  scarica l'articolo in formato ODT o PDF)

UNA VISIONE NUOVA DEL RISORGIMENTO ITALIANO di Gastone Manacorda - L'Unità – Domenica 31 agosto 1947,  pag. 3

LA CONOSCENZA STORICA, è noto, ha a sua volta, una sua storia. Contrariamente forse a quel che crede la coscienza comune di cui potrebbe farsi interprete Pascarella (la storia, pe' Cristo, è sempre storia — E per questo m'ha sempre soddisfatto — Perché in qualunque storia ch'uno piia — Tu non legghi una storia: legghi un fatto). il fatto è invece che il passato, un qualsiasi periodo o episodio o personaggio, e interpretato, via via dai posteri, in forme sempre nuove. E, come diceva Cesare Balbo. Le storie «o bisogna spegnerle del tutto o lasciarle ritrarre insieme i tempi di che elle scrivono e quelli in cui elle furono scritte». Di qui, se non erriamo, un epigono agnostico dell'idealismo gentiliano venne fuori a mettere in dubbio la certezza della conoscenza storica elevata a dignità di vero da tutto il pensiero storico: «noi non sappiamo — diceva quel filosofo, non privo d'ingegno, — che rosa si penserà domani del feudalesimo o di Napoleone, perciò è evidente che quello che ne pensiamo noi è del tutto accidentale».


C'è qualcosa di vero in tutto questo, a parte l'accentuazione scettica: c'è di vero che ogni epoca ha la sua visione della vita e ad essa commisura, né potrebbe fare altrimenti. anche il proprio giudizio storico.

Non è difficile rilevare che ogni crisi della storiografia coincide con una più asta crisi del sapere, cioè con la ricerca di una nuova visione della vita. Nei momenti in cui si fa più ansiosa la ricerca di nuove certezze, l'insoddisfazione verso la storiografia dominante e verso le interpretazioni che essa diffonde di particolari periodi storici, si fa più acuta, tanto da essere avvertita anche dalla coscienza comune. E quanto accade oggi in particolare verso le interpretazioni correnti del nostro Risorgimento nazionale.

Di quella che fu, bene o male, la sua epopea, la borghesia italiana ha scritto essa stessa la storia, con quel tanto di apologetica che non può non condire il discorso di chi — s'intende in buona fede — parli in prima perenna. Oggi comincia, lentamente, come dev'essere per ogni serio «ripensamento», un movimento di revisione: lo si sente nell'aria. sebbene i fruiti siano ancora assai scarsi. E se è vero che il nostro paese attraversa una crisi di sostituzione della propria classe dirigente, questo ne è senza dubbio uno dei sintomi più notevoli e più degni di meditazione.

Due scritti preziosi, stranamente coincidenti, nonostante la distanza di tempo e la differenza di nazionalità, di metodo, di preparazione dei due autori, hanno richiamato oggi la nostra attenzione su questo problema: da una parte una vivace testimonianza contemporanea, dall'altra un saggio meditato attraverso la larga esperienza culturale di un postero. Da una parte la fugace esperienza del giovane scrittore russo Nicolaj Dobroljubov, venuto in Italia per poche settimane nel 1861 a curare la tisi che lo minava e che doveva in quello stesso anno portarlo alla tomba: dall'altra il maturato giudizio storico dell'uomo che più d'ogni altro aveva intimamente penetrato la struttura della vita politica e sociale italiana dell'ultimo secolo: Antonio Granisci. Eppure difficilmente si sarebbe potuto trovare un accostamento più felice e significativo, come questo che ci offre l'ultimo fascicolo di Società (a. III. n. 2. Leonardo editore, Firenze).

Dobroljubov capitò a Torino nel momento in cui iniziava i suoi lavori il primo Parlamento italiano, eletto pochi giorni prima dal Paese appena unificato. Comprese a maraviglia tutti i termini della situazione italiana: la dittatura praticamente incontrastata di Cavour e dei moderati, la nullità e l'inconsistenza dell'opposizione; e come il partito dominante, avesse condotto le elezioni e come esercitasse il suo predominio in parlamento. E, sotto a questo, la situazione del paese: il problema dei garibaldini (i reduci di allora), il Mezzogiorno in attesa. Una analisi rapida e perfetta che fa leggere ancor oggi, come una fresca e brillante corrispondenza giornalistica e insieme come una  rivelazione storica assolutamente originale. Non c'è negli scritti dei contemporanei italiani nulla che regga il paragone con queste pagine.

Prendete ora il saggio di Gramsci: Il problema della direzione politica della Nazione e dello Stato moderno in Italia, e vi troverete, per così dire, sistemata in formai riflessa e meditata l'intuizione di Dobroljubov:  «Tutto il problema, della connessione tra le varie correnti politiche del Risorgimento. cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati esistenti nelle varie sezioni (o  settori) storiche del territorio nazionale, si riduce a quel dato di fatto fondamentale: i moderati rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la loro direzione subì oscillazioni relativamente limitate e in ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo, mentre il cosiddetto Partito d'Azione non si appoggiava specificatamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d'Azione fu guidato dai moderati: l'affermazione attribuita Vittorio Emanuele II di «avere in tasca» il P. d'A. o qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i contatti personali del Re con Garibaldi ma perché di fatto il P. d'A. fu diretto “indirettamente” da Cavour e dal re.

 Questa enunciazione è argomentata da Gramsci con riflessioni metodologiche e con l'abbozzo di una larga sintesi storica che spazia sulle origini giacobine e poi mazziniane del Partito d'Azione, sui rapporti fra le classi nell'Ottocento Italiano, sul valore di singole posizioni democratiche (vedere p. es, le osservazioni sul Ferrari, i cui giudizi «paiono più acuti di quel che realmente sono, perché egli applicava all'Italia schemi francesi. i quali rappresentavano situazioni ben più avanzate di quelle italiane» sul Pisacane, sul Crispi. ecc.) e infine sulle ragioni, «da ricercare nel campo economico» che impedirono in Italia la formazione di un partito giacobino; cioè di un nucleo democratico conseguente che si imponesse alla borghesia come partito dirigente, conducendola. come avvenne per i giacobini francesi «in una posizione molto più avanzata di quella che i nuclei borghesi primitivamente più forti avrebbero voluto spontaneamente occupare....».

Il problema storico di Gramsci è appunto questo: dell'insufficienza della democrazia italiana. Ed è ancora oggi il problema del Risorgimento. La risposta di Gramsci è precisa: i moderati furono un vero partito, poiché rappresentarono ben definiti interessi di classe: i democratici non lo furono perché non rappresentarono mai gli interessi di quella classe (i contadini) che erano la classe naturalmente all'opposizione nel paese. L'opposizione politica e parlamentare si svuotava quindi di ogni contenuto e di ogni seria possibilità di sviluppo e i democratici finivano per estere una appendice propagandistica dell'unico partito liberale, cioè dei moderati. Di questa realtà storica Dobroljubov nella sua «Lettera da Torino» dà la rappresentazione, plastica.

A che punto è con la soluzione di questi problemi la nostra produzione storica sul Risorgimento? Essa ci ha già dato (dal Ciasca al Prato, al Greenfield, al Demarco, ecc.) preziosi contribuii di analisi dei rapporti economici e sociali. Ci ha dato, in misura ancora maggiore, studi seri e larghi di informazione sulle correnti e sui partiti politici (dall'Omodeo. al Salvatorelli. al Maturi, al Morandi. fra i più recenti e fra i primi che ci vengono alla memoria). Non ci ha dato finora quello che noi consideriamo il massimo prodotto della indagine e della riflessione storica: l'individuazione dei rapporti fra la struttura economica e sociale del paese e le forze politiche che agiscono in primo piano sulla scena governativa, diplomatica, parlamentare, militare o culturale. E perciò stesso, crediamo, a parte il valore, spesso assai elevato, delle opere e degli autori che abbiamo citato e di molti altri, non ci ha dato ancora della lotta politica in Italia quella interpretazione più profonda e quindi più convincente, sulla quale le pagine dì Gramsci e, — in diverso modo e misura — ci pare, anche quelle di Dobroljubov, aprono ora più che un spiraglio.










Creative Commons License
This article by eleaml.org
is licensed under a Creative Commons.







vai su






Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del web@master.