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Buona lettura!

Webm@ster - 16 Novembre 2006

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Fonte:
https://www.lostraniero.net/ - Numero 72 - giugno 2006

Dioniso a Scampia

di Marco Martinelli, incontro con Maurizio Braucci

Da ottobre 2005 ad aprile 2006 si sono tenuti per la prima volta a Napoli i laboratori teatrali della non-scuola ideati da Marco Martinelli e dal Teatro delle Albe di Ravenna. Inizio di un progetto triennale prodotto dal teatro stabile Mercadante, dal titolo Arrevuoto, questa prima fase ha coinvolto sessantaquattro adolescenti della periferia di Scampia e del centro storico, favorendo l’incontro tra differenti realtà con lo scopo di mettere in corto circuito il teatro e la società. 

Ragazzi e ragazze di una scuola media, di un istituto superiore, di un liceo classico, di un centro sociale e di un campo rom non autorizzato sono stati coinvolti nella riscrittura de “La Pace” di Aristofane, secondo il criterio di riformulazione di un testo classico caratteristico della non-scuola. 

Lo spettacolo “Pace!” è stato così messo in scena per due sere nell’Auditorium di Scampia, riconsegnando al quartiere uno spazio chiuso da 15 anni, e per una sera al teatro Mercadante, con un afflusso di pubblico che ha registrato sempre il tutto esaurito, per un totale di circa 1.300 spettatori. Ma lo spettacolo è stato il punto di arrivo di una complessa fase laboratoriale e, al contempo, un’opera di persuasione sulla necessità di impiantare a Napoli un metodo che riavvicini arte e società, ceti bassi e ceti alti, istituzioni e attivisti. Si è trattato di un esempio di cooperazione tra diversità che si è riversata in un’opera finale di dilagante e incensurabile umanità.

Nel pomeriggio del 24 aprile, poche ore prima dell’ultimo spettacolo tenutosi al Mercadante, ho intervistato Marco Martinelli, dopo mesi in cui avevamo condiviso questa bellissima esperienza di “arrevuoto”, di rivolta agli atteggiamenti di indifferenza o di paternalismo verso adolescenti, teatro e marginalità. 

(Maurizio Braucci)

Puoi dare una breve idea di cosa sia la non-scuola?

La non-scuola è una pratica di lavoro teatrale con gli adolescenti che il Teatro delle Albe ha cominciato nei primi anni novanta a Ravenna. Siamo partiti lavorando con poche scuole senza essere veramente consapevoli di quello che andavamo facendo; solo col tempo ci siamo resi conto di quale grande ricchezza fossero gli adolescenti per il teatro e quindi per noi. Nello stesso tempo abbiamo capito che anche la nostra presenza poteva dare qualcosa agli adolescenti. Prova ne è che anno dopo anno la non-scuola è cresciuta in maniera esponenziale, all’inizio erano trenta, quaranta ragazzi, oggi sono quasi quattrocento gli adolescenti che ogni anno praticano i laboratori della non-scuola.

Adesso siete a Napoli. Com’è accaduta questa cosa? Che cosa hai pensato quando te l’hanno proposta?

La colpa è di un amico che, conoscendo il lavoro che facevamo a Ravenna ed essendo in relazione col Mercadante, ha messo insieme queste due realtà e ci ha chiesto se ci andava di fare una sortita a Napoli. Ninni Cutaia e Roberta Carlotto, in quanto rappresentanti del Mercadante, hanno accettato subito di sostenere il progetto, concordando sull’idea che fosse necessaria una particolare attenzione alla periferia napoletana. Io ho intuito che il metodo della non-scuola, in una situazione come quella di Scampia, avrebbe potuto innestare qualche cosa di utile, di interessante. La proposta di Goffredo ci ha entusiasmato fin dall’inizio, da poco avevamo fatto un lavoro simile a Chicago, nel quartiere africano, con ragazzi che vivono situazioni difficili anche lì, dove a scuola si entra passando per un metal-detector. Sentivo che, d’altra parte, questa di Napoli poteva essere una situazione più vicina a noi dove provarci in nuove relazioni, in nuovi incontri, a una temperatura socialmente più alta. Insomma, fin dall’inizio il progetto si è presentato rischioso, e a me piace questo rischiare, mi piace quando è vero, non retorico, quando affronti il pericolo reale di non riuscire a portare a termine il lavoro perché le condizioni in cui operi sono delicate e difficili. è questo tipo di rischio che ti tiene in vita e che rende il tuo lavoro una scommessa autentica, una sfida anche per te stesso, per la tua visione dell’arte, del mondo, della vita.

Nella tua produzione teatrale, come metti in relazione spettacoli pluripremiati come “L’isola di Alcina”, o “I Polacchi” con le rappresentazioni che vengono fuori dai laboratori della non-scuola? 

Sono tutte opere legate dal senso dello smisurato. Ermanna Montanari ne “L’isola di Alcina” non è un’impiegata della scena: è un essere smisurato, basta lei, così piccolina, con quella voce che è una caverna che contiene tante voci, per darti il senso dell’arte come qualche cosa che sa andare giù giù in profondo oppure salire molto in alto. L’arte non deve accontentarsi della mezza via, l’arte vera non galleggia a mezza strada: quello che io provo quando lavoro con Ermanna è quello che provo sempre guardando Carmelo Bene o Totò. C’è “qualcosa” che puoi trovare solo nel più che attore o nel meno che attore. è degli impiegati che non si ha bisogno. Ermanna, Danio Manfredini, Sandro Lombardi, Carmelo, Totò, erano e sono più che attori, sono spesso qualcosa di smisurato. Toccano un nervo scoperto, un nodo di emozione dove arte e vita bruciano insieme. Quella smisuratezza te la possono dare, sull’altra riva, gli adolescenti, i meno che attori: è come se tra la barbarie dei ragazzini e l’estrema raffinatezza degli esempi che ti ho citato ci fosse un ponte che li lega, ed è questo ponte che mi interessa.

Potresti definire quella della non-scuola un’esperienza pedagogica?

Io mi pongo prima di tutto il problema dell’ascolto, la non-scuola ha il suo fondamento nell’ascoltarci. Se non ci si ascolta, non si può lavorare insieme. è una questione di orecchie. L’ascolto è la base da cui parte il nostro lavoro verso la costruzione dell’opera. Questo fondamento vale sia per la non-scuola che per tutti gli spettacoli delle Albe: più ci sarà relazione, alchimia e simbiosi tra le persone che lavorano, tanto più ne scaturirà un abbraccio per lo spettatore. Lo spettatore, nonostante il rincoglionimento generale, nonostante il virtuale e i finti reality, può ancora percepire una rete di relazioni “vera”, percepisce che quel gruppo di persone sulla scena non è salito lassù per timbrare un cartellino ma sono persone che hanno condiviso un pezzo, più o meno grande, di tempo di vita insieme. Mi viene da dire “che sono comunità”, ma togliendo a questa parola ogni retorica, ogni senso vago di nostalgia. Quando questa alchimia avviene, allora si creano i legami invisibili che tengono insieme gli attori.

Da quando avete cominciato questo percorso con gli adolescenti, ci sono stati degli aggiustamenti, delle riflessioni, attraverso cui si è evoluta la non-scuola?

Abbiamo cominciato io e Maurizio Lupinelli, detto Lupo, con una bicicletta in due, uno stava sulla canna e l’altro pedalava, andavamo in giro così, da un liceo a un istituto tecnico, e per questo ci piace raccontare che la non-scuola è nata in bicicletta. Ci divertivamo a massacrare e reinventare i classici, senza un metodo particolare, solo il piacere ingenuo del gioco e dell’improvvisazione, i ragazzini ci spiazzavano, scoprivamo una strada fino ad allora del tutto inesplorata. Almeno per noi. All’inizio ce la si faceva in due, sdoppiandoci e triplicandoci per seguire tutti i laboratori che ci venivano chiesti, poi la partecipazione si è tanto allargata, per contagio, non per qualche direttiva dall’alto, si è allargata in maniera talmente imprevedibile che io e Lupo non bastavamo più, i ragazzi erano tanti e bisognava cercare altre “guide”. In una prima fase le guide che ci hanno affiancato sono stati giovani attori e registi di Ravenna e di Bologna a cui avevamo chiesto di darci una mano. Quella è stata una fase delicata, critica, i laboratori si stavano “normalizzando”, ognuno portava nella non-scuola questo o quel metodo, questo o quell’atteggiamento, c’era il rischio di perdere lo spirito iniziale “della bicicletta”. La fase critica si è conclusa in maniera direi “naturale”, quando sono passati gli anni sufficienti perché un gruppo di giovani, cresciuti nella non-scuola, potesse trasformarsi a propria volta in un gruppo di guide. Lo spirito della non-scuola è impalpabile e inspiegabile, non tutti sono tenuti ad avercelo, è una sensibilità di relazione. Per esempio, la guida non deve “mettersi in posa da regista”, ma come fai a spiegarlo questo? Alessandro Renda, Alessandro Argnani, Robertino Magnani, Cinzia Dezi, sono ragazzi cresciuti nella non-scuola, poi hanno cominciato a lavorare come attori nelle Albe; sono stati soprattutto loro, in quella terza fase, a diventare le nuove guide della non-scuola, perché sapevano cosa trasmettere ai ragazzi: si trattava delle stesse “cose” che avevamo trasmesso noi a loro, lo spirito di un giocare anarchico, barbarico e disciplinato al tempo stesso. Solo così, mi sembra, siamo riusciti a mantenere un legame con lo spirito originale, ad allargarci senza snaturarci. Un altro aspetto su cui abbiamo riflettuto molto negli ultimi anni è quello dell’improvvisazione, un nodo centrale, cioè lasciar “fare” ai ragazzi senza mettergli subito in bocca le battute dei classici. L’improvvisazione lascia venire fuori i loro corpi-pensiero, il loro immaginario: talvolta questo immaginario produce ricchezza e invenzioni, talvolta è appiattito su standard meno interessanti, talvolta ti tirano fuori le cose che hanno visto fare la sera prima ai comici in televisione. Nel momento in cui, com’è successo qui a Napoli, Mirko, Emanuele o Mimmo ti regalano delle improvvisazioni così belle e vitali, tu le assumi immediatamente e le incastri nello spettacolo, le monti, ne fai drammaturgia. Ma se ti arrivano delle robette insipide, cosa fai? è importante che una guida sappia dire di no, come un regista sa dirlo a un attore quando l’attore non produce materiali “propri”, personali, originali. è importante non accontentarsi, dirgli: “Scava un po’ di più, queste battute le hai sentite a Mediaset. Prova a tirarne fuori delle altre, pensa a quando sei per strada e dai calci ai barattoli o a quando insulti i tuoi compagni o a quando nella tua cameretta ti rimugini dentro quelle cose che ti interessano, quelle non decise dall’alto. Quelle sono nella tua pancia, per questo sono sorprendenti e singolari, perché sono quelle che ti bruciano le budella”.

E Napoli com’è stata da questo punto di vista?

Entusiasmante. Una volta a Bologna io e Enzo Moscato facemmo un incontro all’Università, durante il dibattito io sostenni che, non avendo avuto una tradizione, me l’ero sempre dovuta inventare, mentre lui disse che avendone avuta anche troppa aveva sempre cercato di allontanarsene. Credo di sapere bene quanto possa essere pericolosa una tradizione, ma per come sono fatto io, un vampiro che si nutre delle lingue degli altri, venire qui è stata una felicità. Qui avverti nei ragazzi il fantasma di una grande tradizione, ma il fantasma più vero, Totò non Salemme. Incontri modalità linguistiche e gestuali così antiche che ti portano dritto alle atellane, ci arrivano per viaggi misteriosissimi ma ci sono ancora, sono ancora vive, basta andarne in cerca col bastoncino, come dei rabdomanti. Tra i ragazzi romagnoli pochi conoscono veramente il dialetto, invece qui il napoletano è ancora una lingua, talvolta per molti è “la lingua”. Tutto questo crea una ricchezza potenziale enorme, in vista del lavoro scenico. Visti da un’altra parte, invece, gli adolescenti sono tutti uguali, a Chicago, a Ravenna o a Napoli sono tutte creature affamate di affetto, di relazioni, di amore, e da questa fame si può scatenare tanta creatività. Gli adolescenti sono fragili ma hanno anche una grande potenza, e noi, durante tutti questi mesi, nel nostro piccolo agire, abbiamo visto emergere il dionisiaco. Io non ho definizione più moderna di questa: Dioniso. Un’emergenza vitale che non cambierà il mondo ma che, nel momento in cui appare da un corpo, da una voce, allora fa luce, illumina.

Riguardo al fatto di aver lavorato qui a Napoli con un gruppo così trasversale, ragazzi e ragazze del centro e della periferia, puoi dirmi qualcosa? è già accaduta a Ravenna una cosa del genere? Hai notato qualcosa che ti ha colpito di questo gruppo così eterogeneo?

Anche a Ravenna ci sono state delle collaborazioni tra una scuola e l’altra, però lì le differenze non sono così inquietanti, a Napoli hai la sensazione di mondi molto lontani tra loro, vedi il sottoproletariato e l’alta borghesia, vedi quelle distinzioni di classe che altrove tendono ad annacquarsi in una sorta di piccola borghesia onnivora, che costituisce il corpo centrale della società. Fin dall’inizio sapevamo che sarebbe stato un rischio mettere insieme queste differenze, invece mi sembra che sia diventata una delle chance più belle, una delle scoperte più interessanti che abbiamo fatto. Tra questi adolescenti si sono già creati legami di ogni genere e tocca a noi, alla nostra responsabilità, riuscire a tenere in vita la non-scuola tra Napoli e Scampia affinché non si concluda con questo primo Aristofane ma trovi il modo di continuare. La continuità è fondamentale. Noi oggi non saremmo qui se non avessimo avuto una testardaggine asinina nel portare avanti per quindici anni la non-scuola a Ravenna. T’immagini se dopo tre anni avessimo smesso? Non ci sarebbe stato “Arrevuoto”. La continuità, quando non è ingessamento forzato, quando è un processo che fa maturare negli anni un linguaggio, una sapienza, un’arte, è importante. Viviamo in una società dove invece la durata se la riservano per sé solo certi potenti, il resto brucia in fretta: usa, consuma e getta.

In termini di teatralità, hai notato delle caratteristiche per ognuno dei quattro gruppi di adolescenti con cui hai lavorato?

Cito i due estremi: all’inizio al liceo classico Genovesi ci ascoltavano con grande attenzione, ma faticavano a far emergere l’energia, alla Carlo Levi di Scampia nessuno ci ascoltava, neanche cinque minuti, ma l’energia era travolgente. Con Lupo e Renda abbiamo ribattezzato la Carlo Levi “l’uragano Katrina”. La scommessa era semplice, imparare da quello-che-non-si-è: qualcuno nel centro di Napoli doveva imparare a scatenarsi, qualcun altro nel cuore di Scampia imparare che anche stare in silenzio e ascoltare è una bella cosa, ti può servire. Visconti era un aristocratico, Totò veniva dalla strada, però li incontri allo stesso punto, là dove volano alto o sprofondano. L’importante, ripeto, è lo smisurato, il non accontentarsi della medietà, della mezza misura, del compitino: il compitino ci ammazza tutti, nell’arte come nella vita.

Si possono individuare delle fasi nei laboratori che hai tenuto da ottobre a oggi?

Sono le tre fasi della non-scuola: la prima fase è quella senza testo, quella del gioco insieme, dell’osservazione e dell’ascolto, per creare il gruppo e inventare una comunità possibile. La seconda fase è quella in cui si inizia a raccontar loro, ad esempio, la favola di Trigeo scritta da un greco antico, per vedere come questa favola li può toccare oggi, in che misura diventa uno scalpellino che gli procura qualche ferita sul corpo: da lì emergono voci, storie, sguardi, emerge il loro mondo attraverso l’improvvisazione. Infine si arriva alla terza fase, quella in cui la ricchezza accumulata nelle prime due viene finalizzata alla costruzione dello spettacolo. Se i passaggi tra le fasi sono fatti bene, “bene” come lo direbbe un artigiano, un falegname, uno che ci tiene al lavoro fatto “bene”, allora la fase conclusiva succhierà tutta la ricchezza accumulata in precedenza. Non si esauriranno le risorse del gioco e dell’improvvisazione, al contrario, perché arriva il momento in cui tutte e tre le fasi si compenetrano e se a due giorni dal debutto salta ancora fuori qualcosa di forte, una nuova invenzione, si è sempre in tempo per metterla dentro. L’importante è tenere orecchie e occhi aperti a quanto d’imprevedibile può sempre accadere.

Avendo lavorato con te durante tutti questi mesi, io ho assistito al lavoro di un regista teatrale, di un artista alle prese con un pezzo di mondo, con un’energia vitale, e ho visto che tu hai trattato sempre questi adolescenti come attori. So, quindi, che questo progetto di mettere in scena ben settantatre persone, tra guide e ragazzi, è stato frutto di una tensione artistica e non meccanica o didattica. Vorrei che tu ti soffermassi sul fatto che i laboratori della non-scuola partono da un approccio artistico con la realtà.

Una guida della non-scuola è due cose in una: amore e affetto per le creature che ti trovi davanti, per gli adolescenti, amore e affetto per il teatro. Amore e affetto significa: mi sorprendono davvero, gli adolescenti e il teatro? Mi trapassano il cervello? Riesco a guardare Antonio o Rosa come se fosse la prima volta che vedo un adolescente, riesco a leggere Aristofane come se fosse la prima volta che lo leggo? Come se Aristofane fosse qui, in mezzo a noi, per la prima volta, con quello scarrafone mangiamerda, con tutte quelle battute oscene e divertenti, con quella Pace rinchiusa in una grotta lontano dal nostro mondo? è qui credo, il segreto, fare tutto come se fosse la prima volta. è poesia, questa? Sì, è poesia, e allora? Cos’è che fa “necessario” il teatro, la vita? Per anni le Albe hanno fatto la non-scuola a Ravenna senza che ci venisse un critico, non li chiamavamo proprio, non ci preoccupavamo che ci fosse un’eco al di fuori di Ravenna, eppure per noi era un alimentarci continuo, è stata, ed è tuttora, una sorgente di pura bellezza. Nel momento in cui abbiamo inserito gli adolescenti nei “Polacchi”, c’è stata una saldatura tra la non-scuola e il percorso della compagnia, quel lavoro è diventato uno spettacolo “manifesto”, un simbolo delle Albe, e da quel momento anche la non-scuola ha avuto più visibilità. La scommessa nella scommessa, a Napoli, è stata quella di proporci “per forza” a tutta la critica italiana, a Bassolino e al sindaco, sapendo che il Mercadante, uno Stabile pubblico, puntava su di noi. Lo abbiamo fatto però con quel senso di assoluta libertà con cui abbiamo sempre condotto la non-scuola a Ravenna, sapendo che non potevamo dedicargli il tempo “necessario”, quello che per esempio ci era stato necessario a costruire “I Polacchi” nel ’98, no, qui avevamo solo il tempo molto limitato della non-scuola, un incontro alla settimana in cinque, sei mesi di lavoro. Allora ci siamo detti: “giochiamocela anche così”, e ce la siamo giocata, cercando di tenere il cuore puro più che potevamo. Sapendo che prima di tutto c’erano gli adolescenti e il teatro, poi tutto il resto.

Quanti registi e compagnie teatrali affermate avrebbero accettato questo rischio? Di giocarsi il nome in un progetto con un numero così elevato di non attori, in un territorio nuovo, con poco tempo a disposizione, con gli occhi puntati addosso di chi è pronto a gridare alla strumentalizzazione o al fiasco solo perché magari hai invaso il suo ambito?

(Non risponde, apre le braccia, sorridendo, come a dire “Non so. Non tocca a me dire questo”.)

Con i tuoi tanti anni di non-scuola e quindi di incontri con gli adolescenti, vorrei che tu, se puoi, ci fornissi un quadro del loro immaginario, dei loro desideri, visto che oggi sembra che nessuno sia più capace di coglierli, tranne la pubblicità e la televisione con le loro corruttele.

Il mio è un punto di vista talmente parziale che non so se valga la pena dire qualche cosa. Non so parlare dei giovani come massa, in termini sociologici, non ne so parlare ed evidentemente non mi interessa. Al di là del Grande Fratello e della televisione di oggi, al di là del virtuale che è diventato reale, io non avverto una grande differenza tra quello che sono loro e quello che eravamo noi. Ognuno di loro è una creatura affamata, certo non parlo di cibo,  a forza di ipermercati di mangiare gliene diamo fin troppo, fino al punto di fiaccarli. è di un altro cibo che hanno bisogno, è un cibo fatto di relazione, di affetto, dell’esigenza di lasciar correre l’immaginazione. Questa dell’immaginazione è una cosa che mi ha detto Witney a Chicago, una quindicenne haitiana immigrata a Chicago: “Marco, io forse non ho capito niente di quello che abbiamo fatto, di questo Jarry, di questo Ubu... però la mia immaginazione correva ed è stata la prima volta che mi accadeva”. Quello che proviamo a fare con la non-scuola è il tentativo di rompere la colonizzazione dell’immaginario, di scavare fino a quel fondo, a quel sottosuolo dove esiste quel qualcosa che “corre”, che non parla la lingua grigia della televisione.

Secondo te perché c’è chi, invece, nega l’esistenza di questo sottostrato immutabile? Immagino che ti sarai trovato spesso a discuterne.

La metafora principale delle Albe è quella dell’asino, quella di allungare le orecchie per ascoltare le voci del mondo, le grida, i lamenti, i furori. Vengono tutti da là, da un punto imprecisato del sottosuolo. Perché ci sia chi si ostina a non sentire tutto quel frastuono, chi fa finta di niente… non me lo chiedere. Non lo so.

Tra poco andrà in scena lo spettacolo al Mercadante, i ragazzi ci tengono molto a fare bella figura. Ma parliamo delle prime due serate, quelle del 20 e 21 aprile, all’Auditorium di Scampia. Come sono state secondo te?

E' stato un bell’uno-due. La prima sera mi è venuto da pensare alla sceneggiata o all’avanspettacolo napoletano, quando Totò negli anni venti era un ragazzino come loro e cominciava a fare le sue prime esercitazioni, le sue prime maschere. Quella serata mi ha riportato a qualcosa di antico, il pubblico era quasi tutto di Scampia, era il popolo di quel quartiere, “popolo, popolino, popoluccio mio”, come lo apostrofa Trigeo una volta arrivato in cielo. Sin dall’inizio c’è stato un abbraccio, un riconoscersi a partire dal linguaggio. La sera dopo, invece, il pubblico era sicuramente più “misto”, si divertiva tanto, sì, ma non dilagava come la sera prima, c’erano tanti spettatori che non capivano tutte le battute e i retrogusti delle espressioni in napoletano. è andata ugualmente bene. Stasera sarà un’altra partita, un altro campo: nel teatro vero è come nel calcio, non c’è la “prima” e poi si replica, ogni sera è una “prima”, ogni sera è una partita da vincere col cuore in gola.

La seconda sera di cui parli è quella in cui sono venute molte autorità politiche, Capitta infatti su “il manifesto” ha scritto che c’era un certo sapore elettorale. Noi di questo aspetto ne abbiamo parlato nei mesi precedenti, sapevamo che sarebbe stato inevitabile col clima che si respira oggi in Italia. Come si relaziona un artista con il potere dal momento in cui decide di affrontare tematiche così scottanti da non poter evitare di coinvolgere gli amministratori e i politici?

Da quindici anni portiamo avanti uno Stabile di Innovazione che è in relazione con il comune di Ravenna e che da questo comune ha sempre ricevuto un sostegno importante. Se quello che fai ha un senso forte per te e per gli altri, per tanti altri, allora il fatto che qualcuno lo sostenga fa parte della ragnatela su cui si sostiene il mondo, al di fuori di questo c’è solo da ritirarsi su di un eremo a pregare Dio o il Nulla. Anche i teatranti più apparentemente schivi e solitari si scontrano e si incontrano prima o poi con le istituzioni, devono necessariamente farci i conti. Tutto però dipende da quanta fermezza, da quanta capacità hai di “camminare eretto”, per dirla con Ernst Bloch. “Ah, volete liberare la Pace? Ah? E tenite ’e palle ’a sotte?”. Così si esprime il nostro dio Ermes di Scampia, nello spettacolo, e lo chiede anche senza problemi di politically correct anche alle donne: “’e fesse ’a sotte ’e tenite?”. Sono frasi aristofanesche-scampiote per tradurre Bloch. Se sai “camminare eretto” puoi incontrarti con Bassolino, con il sindaco di Ravenna, con chiunque. L’anima non si vende per il mondo, non si trasforma perché glielo comanda il mondo, ma sa intrecciarsi col mondo per creare nuovi linguaggi.

Abbiamo realizzato questo progetto dopo che a Scampia mezzo mondo ha visto che si realizzava l’orrore, mi riferisco alla faida di camorra che ha fatto quasi sessanta morti in pochi mesi, alcuni solo per vendette trasversali. Lo spettacolo “Pace!” termina con una grande danza al ritmo di “Il ballo di San Vito” di Vinicio Capossela e io ho avuto l’impressione che si concluda con una specie di esorcismo, con un rituale della vita contro la morte. Possibile che quel Dioniso di cui tu parli abbia manovrato i fili di tutto questo a nostra insaputa?

(Annuisce, sorridendo.)












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