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I MISTERI DEL FERRARI di Zenone di Elea - Dicembre 2022

I

MISTERI D’ITALIA

GLI ULTIMI SUOI SEDICI ANNI

(1849-1864)

DI

A. FERRARI

_____________

VOLUME SECONDO

VENEZIA

PREMIATA TIPOGRAFIA DI GIO. CECCHINI EDIT.

1866

1865 01 I Misteri d’Italia - Gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864) di A. FERRARI HTML ODT PDF
1866 02 I Misteri d’Italia - Gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864) di A. FERRARI HTML ODT PDF
1867 03 I Misteri d’Italia - Gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864) di A. FERRARI HTML ODT PDF
CAPITOLO I
Anno 1857 - Gennaio
«Signori senatori, signori deputati
CAPITOLO II
Febbraio e Marzo
Prescrizioni pei viaggi di nazionali
CAPITOLO III
Aprile, Maggio, e Giugno
CAPITOLO IV
Luglio
CAPITOLO V
Dall'Agosto a tutto Dicembre
Corte d’assise della Senna
CAPITOLO VI
Anno 1858 - Gennaro e Febbraio
In Ponza Sapri Padula - Atto d’accusa
CAPITOLO VII
Marzo, Aprile
CAPITOLO VIII
Maggio, Giugno
CAPITOLO IX
Luglio, Agosto
CAPITOLO X
Settembre, Ottobre

CAPITOLO XI
Novembre e Dicembre
NOTE

LIBRO SECONDO

CAPITOLO I

Anno 1857
Gennaio

Tanto nel tramonto del 1856, quanto sull’alba del 1657 caracollavano in diverso metro sui campi della politica molte opinioni intorno al più o meno favorevole accoglimento da farsi nel Regno Lombardo-Veneto alle LL MM. l'imperatore e l’imperatrice d’Austria. Codeste opinioni scaturivano da differenti fonti, erano spinte da diversi conati, e racchiudevano ne’ loro intimi penetrali diversi corollarii, quali logici, quali paralogistici, quali di un aspetto affatto nazionale e quali di un carattere affatto austriaco. Ma di tutte quante le opinioni che in quei di animavano la stampa periodica, le società, i circoli, i convegni, le famiglie, le menti, i cuori, noi raccorremo le due più saglienti, le quali, cozzando fra di loro in un modo deciso e possente, non lasciavano alcuna via intentata, onde a loro favore attirare l’attenzione pubblica. I loro attriti ne figliarono una terza, la quale in breve tempo sali pur alto a contrastare il dominio delle altre due, dalle quali ebbe sorgente.

Debito di storici c’impegna a compendiare le due prime opinioni in que' sensi, nei quali vennero concepite e divulgate nel lombardo-veneto.

La prima opinione era tutta nazionale; partita dal Piemonte si diramava nel lombardo-veneto, ed in tutte le altre parli dell’Italia. Essa mostravasi quà senza velo e senza reticenza, là velata e con riserbo, altrove franca e risoluta, ed altrove timida e riguardosa. Questa opinione tutta contraria all’Austria ed alla venuta delle LL. IMM. nel regno lombardo-veneto poteva compendiarsi nei seguenti patriottici ricordi.

«Italiani! Le mille volte noi abbiamo dipinto la condizione della nostra patria con colori di una verità incontrastabile ancora grondanti di lagrime sotto una dominazione straniera. Voi vedete le nostre provincie, la nostra gioventù nell'avvilimento. Vi fu le mille volle promesso un patrio ristoro, e le mille volle mancato dai governi sotto cui cadeste vittime oppresse. Voi vi abbandonaste nelle loro braccia fidando nelle loro parole, nelle loro promesse, ma non trovaste che ambizione, che avidità per ispingervi nella desolazione. Rammentatevi che foste trascinati per più. anni sovra un cammino smisurato d’ambascie e di torture. Rammentatevi che foste proscritti dagli uomini che giunti nei vostri dominii, poco prima vi avevano abbracciato come il più tenero oggetto delle loro cure. Rammentatevi che per quei disleali, voi foste abbandonati, reietti, costretti a varcar mari e monti, in balia di voi stessi, inseguiti, perseguitali ovunque, senza cessa, senza un momento di respiro, sempre, sempre, da un inesorabile destino, il quale tenendovi la sua torcia del dolore accesa ai fianchi, camminale, gridava, camminato, o sciagurati, e pagare il fio de' vostri politici traviamenti! Oh! la vostra espiazione, la espiazione che voi soffriste o italiani, fu lunga, crudele, ed oltre misura angosciosa! Voi, incanutiti sotto una svariata congerie di amaritudini, vorreste ora blandire chi v’immergeva nel dolore. Ove sarebbe la vostra dignità? Ove la memoria delle vostre ferite, delle vostre piaghe? Ove il fuoco della vostra nazionalità? Vorreste ora, voi stessi, abbagliati da una luce che non può essere che fallace, creduli in promesse che non si compieranno mai, vorreste, ora, voi stessi, colle vostre stesse mani spegnere nel santuario della patria la lampana del vostro onore, della vostra indipendenza? Voi sareste gl’immolatori di voi stessi. Guai a voi se un sol plauso vi fuggisse dal cuore, voi sarete l’onta di voi stessi, l’onta della nazione! Voi distruggereste un glorioso passato, distruggereste un più glorioso avvenire, distruggereste l’opera di redenzione di 42 anni. Noncuranza dunque, calma e dignità! Italiani, all’erta! Fuggite dalle lusinghe de' potenti, fuggite dalle carezze degli apostati, fuggite dalle promesse degli apostoli dello straniero!»

Compendiamo ora nel suo vero senso la seconda opinione.

«Visto da un canto che, come non Io fu mai possibile per lo passato, cosi non lo si è al presente il conseguimento per opera nostra o d’altrui della nostra nazionalità, sola aspirazione nobile e sublime compatita da tutti, doverosa per ogni vero patriotta, sino a tanto che non ci giunga un mezzo insperato ed inatteso dalla divina Provvidenza che modera con equa lance i destini degli uomini; — Visto dall’altro canto che ribellandosi ai costituiti poteri che ci governano e fondendoci al Piemonte, se vincitori, con una probabilità di vincita di dieci contro mille, non si verrebbe altro che a cangiare di padrone e tramutare il nostro regno in provincie piemontesi, deviando dal magnanimo scopo della nostra nazionalità e se vinti, con una probabilità di perdita di mille contro dieci, si renderebbe a mille doppi peggiore la condizione di quelli che resterebbero ne’ loro paesi, mentre gli altri che compromessi darebbonsi alla emigrazione cadrebbero inevitabilmente in un pelago di dolori, di ambascie e di desolazioni; — egli è quindi giuoco-forza pensare da assennati, non esporre sconsigliatamente quello che abbiamo, e cercare il modo che valga ad ottenerci il nostro benessere sociale. Epperò noi facciamo appello ad un' altra via da seguirsi sinora non calcata, alla via della lealtà..

«Dal 1815 in poi noi abbiamo considerata l’Austria come nostra capitale nemica, egli è forza francamente confessarlo, e con ripetute rivoluzioni e con conati di ribellione fomentati dal vicino Piemonte, l’abbiamo in certo modo costretta contro il suo interesse a considerare e moderare il nostro regno come provincie di conquista. Laonde perpetuando le nostre ire, le nostre inimicizie verso"di lei si è dovuto mantenere la tranquillità e l’ordine pubblico con un poderoso esercito, mantenere la pace a mano armata e colla forza, e quindi si è resa la nostra posizione lagrimevole, perché gli eserciti sono di aggravio agli erarii e questi ai censi dei pubblici, e con ciò si vollero allontanale da noi quelle salutari riforme morali e materiali che sarebbero state si altamente da' nostri bisogni reclamate. Ed è molto se qualche miglioramento fulse sulle nostre società in mezzo a tante cittadine discordie, a tante turbolenze ed all’insorto sfiduciamento tra noi e il Potere, tra il Potere e noi. Codesta nostra lacrimosa posizione quindi peggiorando di giorno in giorno ci spinse nella impotenza dello esercizio dei nostri enti produttori morali, agricoli, industriali e commerciali si floridi e rigogliosi in altri tempi. Epperò piombando su di noi le fatali conseguenze abbiamo pagato gli effetti della rivoluzione del 1848, noi gli abbiamo pagati e non altri, noi colla nostra vita, col nostro sangue, coi nostri averi. A si caro prezzo, or che abbiamo ancora le ferite aperte, ancora le piaghe sanguinanti del passato, vorremmo rinnovate le vicende di quei giorni, a si caro prezzo, a prezzo della nostra vita, del nostro sangue, dei nostri averi? Ma è una storia quanto vera altrettanto spaventevole, egli è un fatto le mille volte accaduto gigantescamente sotto a' nostri occhi, che le rivoluzioni, colpevoli di leso ben essere sociale, lasciano dietro di loro, come acque paludose e fetenti, le calamità e le miserie sui popoli che le provocano.

«Noi ora non ci esponiamo a sindacare se nel 4815 il sinedrio europeo raccoltosi a Vienna per comporre il mondo messo in trambusto dalle guerre napoleoniche, abbia commesso un errore a danno dei popoli od una giustizia a loro favore dividendo l’Italia come ora è divisa; ma bensì egli è nostro dovere riconoscere, che se quel trattato vale per il Piemonte che gli accordò dominio sulla Liguria, deve anche valere pelle stesse ragioni, pegli stessi principii per l’Austria che le accordò dominio sul regno Lombardo-Veneto. Se noi giudichiamo, e con noi tutte le Potenze europee, quel trattalo come una cosa sacra ed infrangibile per il Piemonte, perché, senza rinunziare ad ogni principio di equità, dovremmo giudicarlo come una cosa rea ed arbitraria per l’Austria? Il nostro argomento sempre più incalzando, ne conduce alla legittima conseguenza, che noi, soggetti all’Austria, non avendo men mezzi che diritti di distruggere ciò che venne fatto in allora e che le Potenze unite ora vogliono mantenere nello statu quo, dobbiamo porre in opera ogni nostra cura, ogni nostro mezzo legale e dignitoso, onde inclinare l’Austria, nostra dominatrice, ad attivare nel nostro regno un sistema generale di riforme, che ci guidi al conseguimento di ogni nostro benessere morale e materiale, ed all’altezza di quelle sorti che in altri tempi ci formavano l'ammirazione del mondo. Questo mezzo, e queste cure sono la lealtà di procedimenti e di propositi. Questi denno essere le nostre patrie aspirazioni, i nostri conati, se siamo veramente accesi del santo amore di patria: tanto vuole da noi il nostro proprio interesse; tanto esige da noi la pace del mondo..

«Non pusillanimità, né bassa passione, né spirito di partito, né particolare odio verso il Piemonte, che noi abbiamo sempre compianto e che compiangiamo tuttavia perché trascinato egli pure a strane e dannose aspirazioni da pochi uomini senza amore di nazionalità, senza fede, senza carità per il prossimo, senza religione, e dai quali non seppe mai disvincolarsj per un destino fatale a tutta Italia, ci spingono in questi momenti ne’ quali saremo visitati dal cavalleresco nostro Imperatore, ad insinuare negli animi nostri sensi di tranquillità, di mitezza, di moderazione e di lealtà. Imperciocché voi che conoscete il passato, che conoscete il presente, vorrete pur anche conoscere la necessità, l’obbligo nostro di non nutrire sensi ignobili ed ingenerosi in questa solenne ed avventurosa occasione onde non menomare nell’Augusto Visitatore quella volontà di esserci profittevole che ha già concepita e che manda tanti lampi di luce e di conforto sulle nostre calamità. Questa debbe essere la nostra convinzione. Per questa convinzione noi ci dobbiamo tenere obbligati dalla coscienza, dalla religione, dal patriottismo ad ammonire e tempi e uomini onde non errino nella condotta da tenersi da essiloro, ma si conducano fuori dal periglio che loro sovrasta. A queste tre divine potenze, coscienza, religione, patriottismo, che infiammano di coraggio civile il petto degli uomini, noi dobbiamo obbedire. D’altronde che cosa si direbbe di noi se ci vedeste sul pendio di un baratro d’affanni, sull’orlo di un precipizio, sulla voragine di un torrente e non sollevaste nemmeno un grido per salvarci? Si direbbe che siete paurosi, pusilli, privi di ogni senso di compassione, di pietà, di cristiana carità e vili. E se voi foste già caduti altre volte in quel baratro, in quel precipizio, in quel torrente, e ne conosceste per una orribile esperienza, ad una ad una tutte le torture che colà dentro si soffrono, che cosa si direbbe di voi se a ciglio asciutto, iodifferenti, assisteste alla nostra rovina, e ci lasciaste precipitare in quel baratro, in quel precipizio, in quella voragine? Si direbbe che avete rinunziato ad ogni sentimento di umanità, di patriottismo, di religione, e che siete giunti all’epopea di una crudele, avara ed egoistica apatia. Che cosa si direbbe dunque di noi che abbiamo sofferto tanto e in tanti modi nelle sostanze, nella persona, nell’anima, che siamo caduti nel baratro della rivoluzione e della ribellione, nel precipizio dell’esilio, nella voragine della sventura, che cosa si direbbe di noi, se vedendovi percorrere la stessa via, vedendovi su quel pendio, su quell’orlo, su quella voragine, non avessimo ad alzare la nostra voce, e non vi avessimo a gridare: indietro, o sconsigliati'. Perciò, noi, come un padre sollecito che ama i propri figli, come un tenero fratello che ama i propri fratelli, non abbiamo potuto a meno di consigliarvi lo indietreggiamento da quella via rovinosa sulla quale v’incamminavate, e cercar tutti i modi che ci fossero possibili nei limiti della legalità, per condurvi nella vece sulla via che mena al vero amore della patria, all’onestà, all’equità, alla giustizia; virtù sublimi che costituiscono quella lealtà dì procedimenti e di propositi che vi inculchiamo. Né noi potevamo aspettare più oltre senza alzare il nostro grido, che stigmatizzando declamare e scongiurare contro la burrasca della rivoluzione quando il mare della società sia in calma egli è un vanto da cittadini d’animo debole; mentre il lottare contro la tempesta degli imperversanti sconvolgimenti politici per salvare dal naufragio il naviglio della patria, ella è una virtù da cittadini d’animo forte. Né noi pretendiamo lo ci si ascriva a merito codesto civico coraggio perché ci saremmo pentiti da sezzo con aspri rimordimenti di coscienza, se non avessimo corrisposto, come per noi lo si poteva migliore, al nostro mandato, ed al dovere di cittadini, di fratelli, di cristiani. Né una virtù ardua ed impossibile noi siamo venuti finora inculcandovi nel cuore; imperciocché il dirvi siate leali, egli è lo stesso che dirvi, siate onesti, siate galantuomini, fate il vostro dovere verso la religione, verso la società, verso le leggi, e ciò costituisce appunto un obbligo in ogni cittadino, in ogni suddito, la più rara pruova di amore di patria, ed il più possente talismano che tramuta le querimonie della discordia, le ignavie e le nequizie dei popoli e dei governi in tante leve operatrici, che unite tra loro in un solo intendimento di alacre fiducia e di sapiente attitudine apportano alle età presenti ed avvenire rigogliosi frutti di sociale miglioramento..

«Se ancora qualche nebbia di dubbio vi tenesse indecisi per il fascino nel quale vi avvolse il vampo menato dalla stampa subalpina, e credeste che dal 1848 le cose e gli uomini fossero oltre Ticino mutati, avendo veduto il Piemonte chiamato a sedere al banchetto delle Conferenze di Parigi, noi vi richiameremo alla memoria che i motivi che provocarono la guerra in Crimea furono appunto quelli che convocarono le Conferenze, e come il Piemonte prendeva parte al conflitto colle armi, cosi doveva prendere parte alle Conferenze colla parola. Del resto dal 1848 sino a noi in Piemonte cangiarono e cose e uomini, ma invecchiando peggiorarono. Imperciocché la floridezza di quello Stato, la vivacità de' commerci e delle industrie, la operosità della ligure marina, dai disastri atmosferici, dalle epidemie, dalle malattie delle uve, ma più di tutto dalle ingenti spese a cui Cavour assoggettò sconsigliatamente quel regno, decaddero cosi da doversi colà ricorrere a continui prestiti, da creare una passività enorme nell'erario, da rendere esauste con oneri sopravenuti le private finanze, da spargere lo sconvoglimento, lo scuoramento e lo spavento nel commercio e nella industria. E la libertà che nel 1848-49, era giunta ad essere un libertinaggio politico-sociale, ora poi divenne una intemperante fellonia, che, come condusse ogni ente pensante e produttore a connubiarsi con vincoli di stretta alleanza colla corruzione e colla depravazione, cosi guidò e popoli e regno nel labirinto dei partiti, che irreverenti ed avidi di pasto manomettono e saccheggiano il santuario di ogni domestica virtù e di ogni sociale benessere morale e naturale, tentando con ogni arte propagandista d’invadere, come fiamma elettrica, il morale dell’universa Italia. Sulla terra in cui tutto lice purché valga a fomentare le passioni ed il fuoco della rivoluzione, l’uomo onesto e conscienzioso non può che spargere lagrime di compassione e di cordoglio..

«Se infine con occhio diagnostico, imparziale e politico noi vorremmo osservare il Piemonte d’oggigiorno, trovaremmo che gli eccessi spasmodici e frenetici di sovversione, di ribellamento e di turbolenza ch’ei, propagandatore epidemico, tenta suscitare negli Stati italiani a proprio favore, sono di un carattere molto più allarmante e pericoloso di quelli del 1848; epperò la piaga che lo esulcera, la tabe che lo contamina, la malattia insomma di cui trovasi in preda per opera di medici che tentano condurlo all’ultima sua rovina, alla tomba, trovasi ormai destituita da ogni probabilità di guarigione, e giunta all’estremo di sua intensità e di sua perfidia. Laonde quelli che incauti si avventurassero ad accostarlo nelle sue contaminose intemperanze, ne resterebbero impreteribilmente infracidati per poi subirne, vittime deprecando, le immancabili conseguenze; le quali nelle pessime attuali condizioni dell’infermo non potrebbero essere che di una causticità apportatrice di sicura morte.

«Altro scampo non essendovi dunque su cui correre co nostri desiderii, egli è mestieri rispettare I voleri della divina Provvidenza e restare come e dove siamo, ma spronati da gagliardi sentimenti di patria operosità, onde migliorare la nostra sorte. Ricorriamo adunque a quell’arma possente ch'è la lealtà, a quella lealtà magnanima, franca e dignitosa che disarma ogni alito di ribellione, che dissipa ogni sospetto, che attuta ogni rancore, che propaga la buona fede, che crea la confidenza e che ottiene. Fate dunque, o patriotti, fate una solenne dimostrazione di lealtà ed ottenete ciò che con cento dimostrazioni ostili non avete mai conseguito. Vuoisi creata un èra di fiducia tra il trono ed i sudditi per ottenere delle riforme. Vuoisi una efficace, perseverante e disinteressata cooperazione in tutti noi che serva di egida al potere e che sveli sino dall’ultimo limo le piaghe che ci affliggono e che ne additi e consegua la loro rimarginazione, che animi al dovere i tiepidi, che avvalori le mediocrità, che dissipi le lungherie burocratiche, che spinga a sollecita soluzione gli affari dello Stato in qualsiasi dicastero pubblico, che tolga la stagnante remora negli uffizii delle istanze de' petenti cittadini col loro pronto esaudimento, che faccia piegare la imperiale temide là ove equità e giustizia additeranno. Epperò voi o vescovi, o parrochi, o preti, per quantunque ministri di Cristo, non cessando di essere cittadini italiani e sudditi dell’impero, ricorrete alla lealtà, e fattivi ausiliarii al trono nella grande impresa rigeneratrice, trovarete la vera guida onde condurre nel pelago delle passioni umane la nave di Pietro carica non di ambizione, di egoismo e di simonia, ma come lo era un giorno carica di umiltà, di abnegazione, di veneranda povertà e di magnanima fratellevolezza. Voi, o magistrati, o alti dignitarii, o impiegati, date un amplesso sincero alla lealtà, e stringendola incessantemente al vostro petto, trovarete nell’intimo della vostra coscienza e nella solerte vostra attività il modo salutare di togliere gli abusi di potere, i monopoli burocratici, le basse gare d’impiego, le invidie municipali e soprattutto gli oneri pubblici, cui le forze dei regnicoli non ponno sopportare per il soverchio loro gravame. Voi, o dottrinari!, o professori, o maestri, docenti od esercenti, voi o letterati e giornalisti, arricchite il patrimonio del vostro ingegno della bella virtù, la lealtà, e non sprecarete la preziosità degli studii e del tempo in vane diatribe accademiche, in odiose personalità, in polemiche disleali, in sediziose tendenze, in basse contumelie; ma sibbene sarete ora di scienze e di ammaestramenti utili al vostro paese, e fari al monarca risplendenti di salutari virtù che gli additeranno le vie da percorrere per il bene de' suoi soggetti.0 voi tutti affratellatevi dunque nella santa pruova e nel magnanimo intendimento di esercitare la bella virtù, la lealtà, e vincerete. Sta nell’interesse dell'Austria il volerci contenti, sta nella sua dignità, sta nella mente di Lui che ci governa. Fede dunque nella lealtà e sarete concordi e sarete uniti ed avvanzarete. Per la forza delle attribuzioni di questa virtù figlia dell’onestà, della probità, della giustizia e dell’amor di patria, rattamente del monarca, fermo il piedistallo del suo potere nel regno della confidenza e della fiducia de' suoi sudditi, conoscerà che noi italiani, come formiamo la più bella e la più ricca parte del suo impero, cosi meritiamo una migliore sorte, perché Dio ci diede la non concessa a tutti i popoli alta intuizione del bello, del grande, del sublime che ci spinse sull’ultimo gradino della gran scala della civilizzazione, e perché le nostre città, i nostri templi, le'noslie accademie, i nostri palagi sono santuari viventi di opere grandi che mostrano all’attonito straniero la potenza della nostra mente, e la forza di sentire del nostro cuore.

«Se nell’assembrarvi a questa nostra santa idea, a questa nostra gagliarda convinzione, emanataci da una lunga ed amara esperienza, foste ancora perplessi e dubbiosi, ricorrete a lavarvi alla fonte di espiazione, resa turgida di lagrime e di sangue sparso dalle nostre popolazioni parte nell’esilio e parte nei nativi focolari, e sarete mondi, rinfrancali e decisi.» —

Sotto gli influssi delle due opinioni pubbliche per noi descritte S. M. lo imperatore d’Austria giungeva a visitare il Regno lombardo-veneto. Quelle opinioni, cozzanti fra di loro, trovarono banditori, ciascuna nel proprio interesse, nel proprio colore, nelle proprie tendenze, nel proprio scopo, in ogni parte d’Italia e penetrando ovunque sgranellarono satelliti, ammiratori, adoratori. La prima scosse il partito liberale italiano e partorì effetti che miravano alla indipendenza e alla nazionalità; la seconda diede molto a pensare al partito conservatore e guberniale, e si captivò l’animo di una parte delle popolazioni, fidenti nelle risorse preconizzate allo splendore della nuova era che in Italia sarebbesi inaugurata, secondo quegli argomenti, dall'Augusto Visitatore delle nostre belle provincie.

Gli effetti tanto della prima quanto della seconda opinione dei due partiti nemici, noi li lasciamo interpretare altrui levando il velo che occultava i fatti speciali che si compirono in quel periodo. Noi, come cronisti riportaremo i fatti più saglienti che spargono una luce politica sopra il viaggio dell’augusto Monarca. I comenti da dedursi non possono essere che facili, dopo quel che dicemmo intorno all’opinare dei due grandi partiti italiani, da' quali originossi poi il terzo che paralizzò gli altri due.

Rovigo, primo a sollevarsi nel 1848 per unirsi sotto lo stendardo del Re di Piemonte, fondendosi, ad imitazione della Lombardia, ei pure a quel regno sabaudo, primo a sentire l’influsso degli amici dello statu quo, fu pure il primo fra i capiluoghi delle provincie venete a ricevere la visita di S. M. lo Imperatore d’Austria. L’accoglimento si fu assai vivace,anzi clamoroso. Vi concorsero i capi-distretti del Polesine, Badia, Lendinara, Polesella, Adria e vi mandarono le loro bande cittadine, e migliaia e migliaia dei loro abitanti. La stampa liberale della Liguria, del Piemonte e del Canton Ticino biasimò acremente la condotta dei compatrioti di Celso.

La Francia intanto chiedeva a Roma, chiare e precise notizie sulle condizioni di fatto dell'amministrazione temporale dello Stato della Chiesa, ma quelle non erano che domande. Le potenze protettrici di quello Stato non fecero mai che chiedere, investigare, raccomandare miglioramenti, dar consigli e talvolta anche minaccie, ma non dissero mai vogliamo che sia fatto. Con ciò davano a divedere che loro slava a cuore il benessere di quello Stato, ma che non intendevano di porvi riparo. Ma la santa Sede, obbliando tutto il resto si occupava delle rappresentazioni teatrali. La Censura colà era una dannazione d’anima pegli autori drammatici e per le compagnie comiche. Impercioché più ristretta, più materiale, più sospettosa, più ignorante, più maliziosa, più assurda di quella, era impossibile rinvenirla nei paesi i più barbari. Perfino la esclamazione: oh Dio! era proibita. Dio li liberi dalla tale sventura, non era permesso, perché quel concetto racchiudeva in sé il vocabolo Dio. Era proibita qualunque frase che potesse interpretarsi in doppio senso, oppure che fosse equivoca. Un uomo ed una donna non potevano trovarsi insieme in iscena se non fossero due antichità, ovvero marito e moglie, o fratello e sorella. Le illusioni anche le più innocenti venivano eliminale dai drammi: eliminali pur erano gl’intrighi amorosi, i fatti contemporanei, e tutti quei componimenti aventi una parte odiosa riflettente sopra un sovrano, un principe, un duca, un nobile, un funzionario, un magistrato qualunque, un prete, un frate. La forbice della Censura tagliava tutto, svisava tutto. Veniva tradita la storia per quei tagli, non importa, via tutto!

Ora che abbiamo una pallida idea della censura teatrale romana rimandiamo il lettore a leggere una Circolare spettante ai drammaturghi, che vedeva la luce in quel tempo pubblicata sul Giornale di Roma.

In quella premiavansi diversi componimenti teatrali inviati al concorso.

Il 1. gennaio 1857, mentre le città delle provincie venete» attendevano ai preparativi necessarii al ricevimento delle LL. MM. stanzianti ancora in Venezia, la banda civica di Milano indossava per la prima volta la nuova concedutale leggiera uniforme, e numerosa (42 suonatori) portavasi ad augurare il buon capo d’anno alle loro eccellenze il barone luogotenente ed il generale d’artiglieria co. Gyulai, ricevendo da quei due magistrati mille ringraziamenti ed allegrando co’ suoi festevoli suoni tutta la città.

La questione di Neuchatel insorta tra la Svizzera e la Prussia sui diritti da quest'ultima potenza avanzati, gli arresti che continuamente si operavano nelle due Sicilie dopo gli ultimi avvenimenti de' quali fu duce e vittima il barone Bentivegna, il contegno della Francia e dell’Inghilterra aventi navigli armati nelle rade di Napoli e di Sicilia per la interminabile ostinatezza di Ferdinando li, la istituzione del Tribunale ecclesiastico nella monarchia austriaca, fruito del concordato con Berna, intento a conoscere le cause matrimoniali dei cattolici, a ricordare l'indole del matrimonio, i canoni che lo regolano, i doveri e le incombenze dei membri di quel Tribunale, allontanavano l’attenzione della maggior parte dei popoli lombardi e veneti dalle dimostrazioni che ognuno doveva fare pelle visite imperiali. Le LL. MM-intanto partivano da Venezia il 3 gennaio con gran pompa e fasto. Grandioso fu lo spettacolo che offrì Venezia al loro arrivo, come lo fu alla loro partenza per cui la laguna era tramutata in un incantesimo.

Ai 2 un sovrano rescritto diretto al luogotenente co: Bissingen «condonava a Giovanni Cedron la pena di sette anni di carcere duro inflittagli per il crimine di offesa Maestà Sovrana e per la contravvenzione di offesa ad una pubblica guardia, ed a Filippo Barrei la pena di quattro mesi di carcere inflittagli per offesa alla Maestà Sovrana.»

Prima di partire da Venezia S. M. spediva alla Presidenza dell’i. r. Luogotenenza altre 6000 lire aust. da distribuirsi ai poveri della città; e S. M. l’imperatrice assegnava somme ragguardevoli a favore dei pii istituti.

Con sovrana risoluzione del 5 gennaio S. M. condonava il resto della pena a' seguenti condannati, degenti nella Casa di forza di Padova:

Magagnini Pietro.

Bertolozzi Elia.

Boarin Gioachino.

Angonese Cristiano.

Blas Lorenzo.

Bombonato Antonio Maria.

Grisoni Domenico.

Longhi Giuseppe

Cassi Giacomo.

Acquarolli Pietro.

Berretta Giuseppe.

Colnaghi Antonio.

Hauenschild Leopoldo.

Biliasti Giovanni Battista.

Franchini Giovanni.

Weber Vincenzo.

Modena Angelo.

Bussolli Luigi.

Rebaldini Giuseppe.

Frera Enrico.

Effestinoni Luigi Antonio.

Ferrali Giovanni.

Zaccheo Ferdinando

Martinoja Giuseppe.

Fagarazzi Vincenzo.

Bogon Angelo.

Melotti Luigi.

Saletti Vincenzo.

Berretta Luigi

Angioletti Angelo.

Boldoni Luigi.

Fracasloro Alessandro.

Montresor Luigi.

Badocco Giacomo Luigi.

De-Sordi Domenico.

Serafini Angelo.

Boliani Pietro.

Fontana Giovanni.

Zavanello Antonio.

Borghi Luigi.

La metà dell’intera pena ai condannati:

Cambiele Matteo.

Gruppi Achille.

Casatti Sante.

Un terzo dell’intiera pena a' condannati:

Bonente Giacomo.

Scampini Luigi.

Mazzin Antonio.

Valludari Giovanni Pietro.

Rizzi Gaetano.

Cornelli Francesco.

Galvani Massimiliano.

Albanese Luigi.

Pinchler Antonio

S. M. con sua Sovrana Risoluzione (20 dicembre p. p.) elargiva la somma di aust. L. 50,000 per il ristauro del teatro filarmonico di Verona; e con altro rescritto (del 43) ordinava che l’i. r. Erario militare si assumesse il debito di aust. L. 180,000 incontrato dal Comune di Serravalle verso la provincia di Treviso per prestito fattogli da questa per la riduzione dell'ex Monastero di S. Giustina in Casa superiore di militare educazione.

Anche il duca di Modena con due decreti (20 e 23 dicembre p. p.) condonava parte o tutta la pena ai seguenti condannati dalla Commissione militare per allo tradimento:

A Corona Domenico di Fosdinovo, condonazione di cinque anni dei dodici di galera, che gli restavano da scontare; a Pagani Antonio pure di Fosdinovo, condonazione della metà dei quattro anni di carcere che tuttavia doveva espiare; ed a Corona Francesco, Conti Giacomo, Piccoli Giuseppe, Spadoni Giacomo, e Torchiava Carlo, anch'essi di Fosdinovo, intiera condonazione della rimanente pena di due anni; a Briselli Bernardo di Carrara, condonazione di un anno e sei mesi dei tre anni di carcere inflitti per delazione di uno stilo dalla Commissione militare.

Nel giorno 5 le LL. MM. giungevano a Padova, nel 5 a Vicenza, ed il 6 pubblicavasi in Verona il seguente Programma che per la sua singolarità noi lo riproduciamo testualmente:

«Programma di Baccanale dei Gnocchi dell’anno 1857, richiamato a vita, dopo due lustri, nella faustissima circostanza che le LL. MM. II. RR. AA. Francesco Giuseppe 1. ed Elisabetta, onorano Verona della loro presenza.

«1. Mascherata dei maccheroni dell’antica parrocchia di San Zenone susseguita dai fornai, torcolotti, pizzicagnoli e mugnai a cavallo.

«2. Banda musicale del comune di Forni.

«3. Tommaso dott. Da-Vico, a cavallo, protagonista della festa, susseguito da n. 30 cavalieri sui somarelli.

«4. Banda musicale del Comune di Marselise.

«5. Carro dei pizzicagnoli e venditori di olio, cogli emblemi dell’arte.

«6. Carro municipale di cantori.

«7. Carro campestre del Comune di Quinzano.

«8. Banda musicale del Comune di Caprino.

«9. Carro degli osti, trattori, albergatori, e bettolieri, rappresentante il trionfo di Bacco.

«10. Coro di 24 cavalieri.

«11. Carro di bandai, calderai ed ottonai, rappresentante un’officina di loro professione.

«12. Banda musicale del Comune di Lavagno.

«13. Carro dei beccai, macellai e minuzzatoci rappresentante il ratto di Europa.

«14. Coro vestito alla turca.

«15. Carro dei fornai, prestinai, e biadaiuoli, rappresentante il trionfo di Cesare.

«16. Banda musicale del Comune di Povegliano in uniforme.

«17. Carro dei capi mastri e tagliapietre rappresentante l’antico arco di Vitruvio, detto dei Gavj.

«18. Banda musicale del Comune di S. Giovanni Lupatolo.

«19. Carro degli assuntori di pubbliche imprese, con emblemi allusivi.

«20. Banda musicale di Valeggio, in abito all'ungherese.

«21. Carro dei negozianti in seta, rappresentante l'industria serica e l'arte tintoria veronese.

«22. Banda musicale del Comune di Pozzone.

«23. Carro dei negozianti al dettaglio rappresentati te Mercurio.

«24. Banda musicale del Comune di Villafranca.

«25. Carro de' negozianti e speditori,rappresentante il commercio.

«26. Carro di venditori di cuoi, fornito di generi di loro professione.

«27. Banda musicale del Comune di Quaderni, in abito alla turca.

«28. Carro dei calzolai, rappresentante gli artisti al loro lavoro.

«29. Carro dell’i. r. privilegiata Raffineria zuccheri, droghieri, e venditori di cotonerie, rappresentante il battello a vapore Elisabetta.

«50. Carro dei negozianti di ferro, e fabbri-ferrai, rappresentante il trionfo di Vulcano.

«31. Carro dei caffettieri, cioccolattieri e venditori di liquori rappresentante una torre chinese.

«32. Banda musicale del Comune d’isola della Scala, in uniforme..

«33. Carro municipale della Clemenza, allusivo alle grazie, che il cuore magnanimo di Cesare recentemente impartiva.

«34. Banda civica musicale in uniforme.

«35. Carro municipale dell’Abbondanza, che getta pane.

«56. Carro municipale dei coristi del teatro filarmonico.

«Altri Carri e mascherate.

«Da tutti i carri, tirati a quattro bovi, verrà gettato pane, paste, dolci, ed altro.

«Dato dalla residenza municipale,

Verona 3 gennaio 1857.

Il Podestà Ferrare

Gli Assessori

RADICE — CANOSSA — SERENELLI — BETTA.

La Commissione

F. A. DE GIANFILIPPI — G. FERRARE — P. S. FASOLE

Prima di partire da Vicenza S. M. l’imperatore disponeva pei poveri della città la somma di aust. L. 5000 e la imperatrice considerevole somma pegli asili infantili e per l’istituto di S. Dorotea. Nello stesso tempo Radetzky accordava al profugo politico, Mauro nobile Cappellari della Colomba l’impune ritorno negli ii. rr. Stati e la riammissione alla cittadinanza austriaca.

In data del 6, S. M. ordinava dietro istanza del Municipio, la cessazione dell’occupazione militare del monte Berico, epperò vennero prese le misure relative per lo sgombro delle artiglierie colà collocate. Quei locali ritornarono al prisco uso di convento della Madonna del monte Berico.

Il giorno 7 entravano le LL. MM. in Verona, mentre in Torino aprivasi le Camere dello Stato. Fosse arte, fosse politica, fosse caso, la solennità d’inaugurazione della sessione legislativa celebravasi proprio nello stesso tempo che nel Veneto festeggiavasi la visita imperiale. La festa delle Camere sabaude, che in quell’anno si fece con pompa straordinaria, si fu come una protesta diretta a quelli fra i popoli delle venete provincie ch’entusiasti gareggiavano nello studiare ed inventare mezzi atti ad entusiastare gli altri affine l’imperiale ricevimento riuscisse magnifico, ed avesse almeno l’apparenza di sincerità e di spontaneità. Però il discorso di Vittorio Emmanuele pronunziato alle Camere giungeva opportuno mentre i liberali rinfrancati nella loro fede e nelle loro speranze intorno all’avvenire d’Italia, lo leggevano con pari entusiasmo, che i devoti al governo leggevano le epigrafi, e le poesie che pubblicavansi in onore dell’Imperatore. Contrasto altamente notevole che non poteva sfuggire alle nostre investigazioni.

Ecco il discorso del Re: .

«Signori senatori, signori deputati

«Quando io venni tra voi ad inaugurare la passata sessione, una gran guerra combattevasi in Oriente. La Sardegna vi concorse con vigore e disinteresse. I nostri soldati di terra e di mare, gareggiando d’ogni militare virtù coi più famosi eserciti del mondo, contribuirono alla pacificazione dell’Europa, crebbero la rinomanza del paese.

«Il congresso di Parigi ha posto fine alla guerra, rese più stretti i vincoli di alleanza, che ci uniscono a Francia ed Inghilterra, ristabilì gli antichi legami d’amicizia coll’imperatore delle Russie.

«La Sardegna ne usci con fama di politica prudenza, di civile coraggio. Per la prima volta in un consesso europeo gl’interessi d’Italia furono propugnati da potenza italiana e venne dimostrato ad evidenza la necessità pel bene universale di migliorarne le sorti.

«Il mio governo, sicuro del vostro concorso, confortato dal sentimento nazionale che non cessa di manifestarsi con grandi e spontanee dimostrazioni, proseguirà costante nella politica che abbiamo iniziala.

«Il ritorno della pace, più favorevoli raccolti, il progressivo sviluppo della ricchezza nazionale avendo migliorala la condizione del pubblico erario, discuterete per la prima volta un bilancio, in cui le spese e le entrate ordinarie si pareggiano pienamente.

«Meo preoccupati dagli argomenti di finanza, voi potrete, o signori, nella presente sessione, portare a compimento le riforme dell'amministrazione provinciale, dell’ordinamento giudiziario, dell’istruzione, non che di altri rami di pubblico servigio, sui quali già siete stati altre volte chiamali a deliberare.

«Signori senatori, signori deputati

«Le dure pruove, che coll’aiuto della Provvidenza abbiamo superate, le grandi opere ultimate in mezzo a straordinarie difficoltà finanziarie, la parte da noi presa nella politica europea, posero in chiaro l’efficacia e la bontà delle istituzioni, che il mio magnanimo genitore a' suoi popoli largiva. Rese più solide dal tempo, fatte feconde dall’unione intima del trono colla nazione, esse assicureranno alla patria nostra un avvenire di prosperità, e di gloria.»

Questo discorso, che venne fragorosamente applaudito in Torino, ed accolto, in generale, dalla nazione italiana con altissimo favore, contribuì grandemente ad ottenere a pro’ dell'augusto Visitatore al di là del Mincio un’accoglienza meno feconda, espansiva e cordiale di quella che, pei motivi suaccennati, riceveva, qua più, là meno, nelle città del veneto. Intanto spargevasi la voce che lo Imperatore avesse chiamato a Milano i suoi tre ministri, conte Buoi degli affari esterni, Bach degli interni, e Bruck delle finanze. Anche la venuta di questi tre personaggi aveva in quelle circostanze un’altissima significazione, ed i popoli si aspettavano concessioni tali che loro assicurassero il benessere sociale.

Laonde questi credevano, che come il Monarca appena giunto a Venezia aveva dato una sì larga amnistia, liberato dalle pene del carcere tanti condannati, e levalo i sequestri richiamando i profughi, così appena giunto a Milano avrebbe staccalo il regno lombardo-veneto dal resto dell’impero; ed accordata un’amministrazione propria; epperò essere indispensabile la presenza di quei tre ministri. Altri correvano più oltre co’ loro desiderii, e speravano, anzi tenevano per fermo, che non solo il regno lombardo-veneto sarebbe stato staccato dal resto dell’impero e quindi gli verrebbe accordata un’amministrazione tutta sua propria, ma ancora, che del lombardo-veneto creato un Regno a parte, con elementi tutti italiani, lo si avrebbe dato a S. A. I. il principe Ferdinando Massimiliano, che doveva giungere per accompagnare nel suo viaggio S. M. l’imperatore, onde egli lo amministrasse senza dipendere da Vienna, concedendo una costituzione, la stampa libera, la guardia nazionale e tutte le riforme acconce al benessere delle popolazioni, e distruggitrici dell’antagonismo già da gran tempo esistente tra i varii governi d’Italia con quello del Piemonte: antagonismo che provocò sempre le turbolenze ed i disordini che afflissero e popoli e governi. Ma quelli, i quali anche un mese prima dell'arrivo di S. M. avevano a piena gola cantalo in tutte le note le concessioni che sarebbono accordate ai lombardo-veneti, magnificandole e portandole a cielo con enfatiche grida, così da spargere nei popoli le maggiori speranze, incominciavano a ricredersi, a disdirsi; anzi gridavano nelle orecchie di tutti quelli che volevano ed anche che non volevano sentirli: «Che vi pare? Dove volete voi trovare tanta clemenza quanta la si fu quella del nostro Imperatore nell'accordare il perdono a lutti? Dove volete voi trovare tanta magnanimità quanta la si fu quella del nostro Imperatore nell’elargire tante munificenze e nel concedere tanti vantaggi a noi, che nulla abbiamo fallo per meritarli, a noi che fummo sempre in guerra col suo governo, a noi che colle nostre improntitudini gli costiamo tant’oro? Che cosa volete di più? Conviene accontentarci, ché è anche troppo quello che ci ha concesso. Nessun regnante farebbe per noi quello ch'egli ha fatto.»

A questo linguaggio, i liberali del lombardo-veneto rispondevano: che quel che egli ha fatto era ben poca cosa, e quelli del Piemonte gridavano sfrenatamente da un confine all’altro: niente ha fatto e niente farà! Ecco un’altalena fatale che teneva gli animi in sospensione, però senza che fossero ancor del tutto sradicate nei più le speranze.

Mentre parlavasi del ripristinamento a Vienna della guardia nobile italiana, stata soppressa nel 1848; e mentre la municipalità di Verona rivoglievasi a S. M. l'imperatore nello scopo di ottenere la somma necessaria al rasciugamento delle paludi veronesi, a cui avevano immediato interesse Mantova, Verona, Rovigo, usciva in luce l’undeci gennaio il seguente imperiale Rescritto:

«Caro feld-maresciallo co. Radetzky.

«Impartisco, in via di grazia, il totale condono della pena e responsabilità incorsa per legge ai 32 individui profughi, implicati nel processo di Mantova per alto tradimento, nominati nel qui unito elenco..

«Ella disporrà la pronta pubblicazione di quest’atto di grazia.

«Verona. 10 gennaio 1857.

«Francesco Giuseppe.

Chiasti Giovanni di Castelgrimaldo.

Cavalli Gaetano di Piubega.

Melegari doti. Giuseppe di Medole.

Vivanti Anselmo di Mantova.

Trabucchi Alessandro di Ostiglia.

Grioli Giuseppe di Mantova.

Fabbrici dott. Enrico di S. Benedetto.

Borella Giuseppe di Mantova

Cairoli dott. Benedetto di Pavia.

Cazaor Ettore di Treviso.

Fontebasso Fausto di Treviso.

Mora dott. Giuseppe di Milano.

De-Luigi dott. Attilio di Milano.

Gerii Alberico di Milano.

Porta Innocenzo di Milano.

Giudici Giovanni di Milano.

Sacchi Gaetano di Pavia.

Berretta dott. Luigi di Pavia.

Marlinazzi Giuseppe di Pavia.

Rogna doti. Giuseppe di Brescia.

Squinlani Giuseppe di Brescia.

Bisco Camillo di Brescia.

Ferrari Aristide di Mantova.

Siliprandi Francesco di Mantova.

Nuvolari Giuseppe di Gazzedole.

Angelini Battista di Villimpenta.

Sacchi Achille di Mantova.

Busato Giovanni di Venezia.

Pegolini Giovanni di Adria.

Binda Luigi di Cremona.

Borchetta Giuseppe di Mantova.

Giacometti dott. Vicenzo di Mantova.»

La voce che accennammo, che S. A. I. l’Arciduca Massimiliano Ferdinando, fratello di S. M. l’imperatore potesse venire nominato Viceré del lombardo-veneto, prendeva più forte radice e si diramava dappertutto colla rapidità del lampo. Già le Gazzette di Francia, dell’Inghilterra, della Russia, della Germania e di Vienna preconizzavano quella nomina come un atto sicuro e generoso di S. M. l’Imperatore.

Trieste si lamentava perché con quella nomina temeva di perdere il suo ammiraglio, e l’ammiragliato che le offriva tanti lucri e tante risorse. Venezia vedeva in quella preconizzata nomina il ristauro della sua marina, ed il ritorno di tutto ciò che era sparito da molto tempo, e che trovatasi a Pola ed a Trieste. Già veniva richiamato a Verona il gran maggiordomo di S. A. I. conte Hadik; già la stampa del Piemonte avversava quella nomina, la quale slava in istato di embrione nella mente di moltissimi, tranne forse di quella dell'Imperatore. Questa lusinga intanto contribuiva assai a rendere viemmeglio accetta la presenza del Monarca ai popoli del lombardo-veneto ed incominciava a spargere le sementi per la fondazione del terzo partito per noi già annunziato.

Un avviso veniva pubblicato in Milano che attirava l’attenzione del proletariato; il quale era concepito così:

Avviso

«Per festeggiare la presenza delle LL. MM. II. RII. nel Regno lombardo-veneto, S. E. il sig. Ministro delle finanze ha ordinato che a tutte le zitelle povere, fino ad ora inscritte nelle liste dell’I. R. Lotto del detto Regno venga pagalo tosto anticipatamente il premio di L. 45: 98 senza attendere che escano i loro numeri nelle successive estrazioni del Lotto.

«La surriferita benefica disposizione ministeriale viene col presente recata a pubblica notizia, avvertendo che per Milano la Cassa di questa Direzione del Lotto, e per le provincie le Casse provinciali di finanza sono abilitate ad effettuare l’anticipato pagamento dei mentovati premii, sotto la osservanza delle discipline in proposito vigenti.

«Milano, dall'1. R. Direzione del Lotto, li 9 gennaio 1857..

«Il Consigliere imperiale, Direttor.

«De Velzo.»

Quello che si operò a Venezia prima dell’arrivo degli augusti ospiti, si operò pure a Milano. La Congregazione municipale di questa città pubblicò il seguente

Avviso

«A segnalare con espressive dimostrazioni di civica esultanza l'imminente epoca della faustissima venuta e dimora fra noi delle LL. MM. IL RK., la Commissione incaricata dal Consiglio comunale ha disposto quanto la Congregazione municipale viene col presente programma annunziando ai proprii concittadini.

Un’apposita decorazione d’arco, d’emblemi e di trofei venne costrutta superiormente alla scoperta barriera di Porta Orientate, per la quale faranno ingresso le LL. MM. nella città di Milano la mattina del giorno 15 del mese corrente, dirigendosi in solenne corteggio, alla metropolitana.

«Nella sera del di medesimo dell’ingresso, s’illumineranno tutte le Porte della città, nonché tutti i caseggiati e stabilimenti municipali, invitandosi fin d’ora i cittadini ad illuminare contemporaneamente le finestre cd i balconi delle case prospicienti le strade o le piazze.

«Nella prima delle sere, in cui le LL. Mai. si degneranno di onorare di loro presenza l'I. R. Teatro alla Scala, verranno gli II RR Teatri illuminati a giorno per cura civica.

Nella sera del 18 corrente, si darà lo spettacolo di un corso notturno, mediante straordinaria illuminazione delle Piazze del Duomo e di Corte, nonché della Corsia del Duomo, del Corso Francesco, del Corso e del borgo di Porla Orientale, ne’ quali luoghi, come pure lungo le altre vie assegnate al giro delle carrozze, che sono, oltre il bastione da Porta Orientale a Porta Nuova, in quanto occorra, la Strada Isara, il Ponte di Porla Nuova, il Corso di Porta Nuova, la Corsia del Giardino, la Contrada di S. Margherita, la Piazza de' Mercanti, la Contrada di Peschiera Vecchia, vorranno i signori frontisti compiacersi di rinnovare l'esterna illuminazione degli edifizii.

«La notte del 21 corrente verrà contrassegnata, per cura della città, di una festa da ballo nell’L R. Teatro alla Scala, cui farà introduzione un ballabile espressamente composto, eseguito dall'attuale prima ballerina del Teatro stesso, in un colle alheve dell'I. R. Scuola di ballo.

«Sarà presentato a S. M. l'imperatrice un Album artistico, che le ricordi gli omaggi della città di Milano.

«È maturato fra i precipui propositi quello della beneficenza verso i necessitosi, la quale, mentre sta sommamente a cuore delle LL. MM., è pur caldamente vagheggiata dal comunale Consiglio di questa città, ed armonizza coi sentimenti costanti della milanese popolazione; si assegnarono.

«a) per l’Istituto dei ciechi L. 3,500.

«b) per gli Asili d'infanzia L. 3,500;

«e) pei Ricoveri dei bambini lattanti L. 3,500.

«d) pel Patronato dei liberali dal carcere L. 3,500.

«e) per l’istituto di S. Maria della Pace, comunemente denominato dei Discoli, L. 3,500.

«f) per le Scuole notturne di carità L. 3,500.

«g) per l’istituto di educazione de' sordo-muti poveri di campagna L. 3,500.

Queste somme saranno dal Municipio, nel giorno 12 del corrente mese, versale alle rispettive rappresentanze, lasciando al loro senno di provvedere, per le effettive erogazioni nei modi più convenienti, non senza curare possibilmente che la solennità del dì dell'ingresso delle LL. MM. in Milano venga particolarmente contraddistinta nei rispettivi stabilimenti. Si assegnarono pure in sussidio.

«h) alle pie Case d’industria e di ricovero L. 3,500.

«I) ai LL. PP. Elemosinieri L. 22,700 da erogarsi queste ultime.

«1.° per L. 6,700 nel di dell'ingresso delle LL. MM, in pro’ di que’ poveri, o per lo meno dei più bisognosi, i quali, avendo, anteriormente al primo novembre 4 856, giustificali i loro titoli all’elemosina settimanale de' LL. PP. Elemosinieri, ne sarebbero favoriti se non ostasse deficienza di fondo.

«2.° per L. 1,500 nella medesima giornata, in pro’ di quei poveri cosi detti vergognosi, o per lo meno dei più bisognosi, i quali, avendo anteriormente al novembre 1856, giustificati i loro titoli alla mensuale limosina de' LL. PP. Elemosinieri, vi sarebbero ammessi, se non l’impedisse difetto di fondi.

«3.° per L. 11,500 in conto doti da L. 4 4 5 cadauna, da assegnarsi, nello stesso dì dell’ingresso, ad altrettante zitelle povere ed oneste, aventi domicilio decennale, oppure, anzi preferibilmente triennale dimora abituale e non accidentale nella città di Milano, le quali poi, non più tardi della terza domenica dopo Pasqua di risurrezione 1857, contraggano effettivamente il santo matrimonio.

«La Congregazione municipale, cui riesce grato il sapere che anche altri Istituti di beneficenza concorreranno, mediante particolari provvedimenti, a celebrare il di dell’entrata delle LL. MM. in Milano, sente fiducia che la popolazione della città, corrispondendo alla solennità delle circostanze, si darà cura di manifestare per la Sovrana visita la generale esultanza, e sia coll'addobbo esteriore delle case lungo il passaggio dell’imperiale corteggio, sia colle illuminazioni degli edifizii, sia con ogni altra ossequiosa dimostrazione d’omaggio, coopererà colla civica Rappresentanza al decoro del pubblico accoglimento ed al lustro delle cittadine festività.

Milano, 10 gennaio 1857.

Il Podestà Sebregondi.


BOSSI VISCONTI.

VILLA PERNICE.
«Gli Assessori DE HERRA.
municipali BELGIOIOSO.

VALERIO.

DE LEVA.

«Silva, Secretario.

Avendo veduto che molte fra le più distinte famiglie della città, erano già da qualche tempo partite da Milano, e che molte altre stavano per prepararsi alla partenza; sentendo qua e là ne’ crocchi, nei caffè, nei convegni dei discorsi propagarsi de' malumori e discontentamento; leggendo quotidianamente la stampa subalpina e del Canton ticinese, la quale preconizzava un’accoglienza fredda da parte dei milanesi; la Congregazione municipale ed altre pubbliche Autorità davan opera ad insinuare negli abitanti migliore disposizione ed erogando somme ingenti a sollievo de' poveri, intendevano di cattivarsi almeno questa parte della popolazione. S’impiegò un numero immenso di operai, di artefici, di artisti di ogni genere che da quattro mesi lavoravano pei preparativi del palazzo imperiale, collo erariale dispendio di oltre a tre milioni profusi in suppellettili, in ornamenti, in tessuti di seta, in bassirilievi in legno ed in marmo, in dorature, in intagli ed in lavori di cesello tanto in legno che in bronzo. Epperò in Milano dagli uni si sperava bene, dagli altri si sperava male.

In Venezia nel palazzo patriarcale intanto aveva luogo la solenne apertura del nuovo Tribunale matrimoniale, il di 10 gennaio. Questo Tribunale era composto dei seguenti membri:

Presidente, nob. D. Federico Maria Zinelli, referente degli affari tanto di onoraria, quanto di contenziosa giurisdizione nella Curia patriarcale, direttore della Censura ecclesiastica, ecc. ecc.

Consiglieri:

Mons. nob. conte Camillo Benzon (ora vescovo d’Adria) canonico teologo e prof. degli studii biblici nel Seminario patriarcale, ecc.;

Mons. nob. conte dott. Francesco Falier. canonico penitenziere nella basilica di S. Marco, ecc.;

Mons. Antonio Visenlini, canonico della basilica di S. Marco, aggiunto alla Presidenza dei casi, ecc.;

Mollo rev. D Lodovico Manini;

Molto rev. D. Matteo Fracasso, prof, di teologia molale nel Seminario patriarcale, ecc;

Molto rev. D. Giovanni Saccardo, prof, nel Seminario patriarcale;

Difensore del Matrimonio:

Molto rev. D. Ferdinando de Medici, vicario in S. Benedetto, e segretario della Congregazione dei casi;

Protocollista del Consiglio:

D. Ignazio Zorzello, notaio ecclesiastico, vice-cancelliere della Curia patriarcale, e primo decano dei prebendati corali a S. Marco.

Questo Tribunale veniva poi istituito anche nelle altre provincie del Regno.

Addì 11 corrente S. M. con sovrano autografo condonava il resto della pena ai condannati degenti nelle carceri di Verona:

Giuseppe Ganassini,

Domenico Querella,

Luigi Zanolti,

Giuseppe Zentrini,

Vincenzo Signorini,

Domenico Dal Bon,

Domenico Rampon, detto Velata.

Carlo Lovato.

S. M. l’imperatore giungeva l'11 a Brescia ed accordava con sua Sovrana Risoluzione ai 119 comuni di quella provincia il totale condono dei residui importi dai medesimi dovuti per sottoscrizioni al prestito nazionale, in complessive L. 1,087,801:16.

Si spargeva (12 gennaio) la notizia frattanto che il Re di Napoli accordasse grazia a tutti i condannati espulsi dalla Sicilia per reati politici, quando ne facessero domanda e promettessero di assoggettarsi all'autorità del Re ed alle leggi del paese. Sembrava però che tale grazia non si estendesse anche a favore dei condannati politici imprigionati.

S. M l’imperatore d’Austria giungeva il 13 a Bergamo, ed il 16 a Milano.

Nella stessa data le due gendarmerie di Bologna e di Toscana arrestarono in Alpigella presso il castello di Spescia dei Gentili, il famigerato compagno del Passatore, Angelo Afflitti, dello Lazzarini: così venne distrutta o dispersa a poco a poco quella banda che commise tanti misfatti e che turbò per si lungo tempo la quiete di tante contrade.

Vociferavasi, che due ragguardevoli personaggi francesi giungessero a Roma nello scopo di dare benevoli consigli al Santo Padre, di attuare nello Stato Pontificio delle nuove riforme. Si declinava per fino il nome dei due inviati, Fremy e Bulatignier, ma, per vero dire, il governo papale faceva sembianza di occuparsi in riforme salutari, anzi, forse realmente si occupava, senza però attivarne alcuna. Il generale Govon nondimeno, occupa-vasi nella organizzazione della milizia pontificia, ed il tribunale della Consulta terminava le due cause di lesa maestà incoate da tanto tempo contro gli emissarii di Mazzini, membri dei Comitato democratico in Roma. Gli inquisiti erano

Mancini Adolfo, possidente della Riccia.

De-Micheli Luigi, tipografo.

Cardinali Domenico, stampatore. Francia Gaetano, intagliatore.

Galloni Vincenzo, gendarme.

Mancini Giuseppe possidente.

Mancini Adolfo possidente.

Zamboni Giuseppe, ex caporale dei cacciatori.

Corasi Antonio, verniciano.

Cortesi Giuseppe, stallino.

Caprara Antonio.

Gambalunga Marco, fa-cocchi.

Monti Girolamo, fa-cocchi.

Dionisi Angelo, fa-cocchi.

Lucen Giovanni, fonditore di campane.

Giacchi-Bernardini, scarpellino.

Faccini Adriano, macellaio.

Mezzoprete Domenico, albergatore.

Cardinali Achille, commesso.

Vaccari Virginio di Modena, scrivano.

In quanto alle riforme, a Roma dicevasi, non abbisognarne lo Stato Pontificio.

«Che cosa volete riformare se tutto è buono, è ottimo? La Santa Sede per le leggi organiche ha un Consiglio dei ministri ed un Consiglio di Stato; per l'amministrazione finanziaria una Consulta eletta dai Consigli provinciali; per la giustizia, Tribunali bene organizzali e procedure lodale da distinti giureconsulti stranieri; per l’amministrazione locale, Consigli, provinciali e comunali ecc. ecc. Che cosa volete di più?»

Questo era il linguaggio dei preti, questa la loro convinzione. Con tale retaggio d’idee e di persuasioni per parte dei preti, era inutile che le Potenze estere consigliassero riforme al governo papale.

Il governo napoletano indirizzava a' suoi inviati all’estero, ed ai ministri di Prussia, di Parigi e di Londra una Circolare, nella quale, egli pure, cantava gli osanna sul benessere, sulla gioia, sulla contentezza dei popoli del Regno delle due Sicilie.

Ecco la Circolare

«Mercé l’assistenza divina, i dominii del Re sono usciti intatti dalle tre ultime e terribili prove per le quali hanno dovuto passare in si breve tempo; prove che quasi tutte diverse, non erano però meno acconce a gettare l’intiero Regno nelle orribili conseguenze della costernazione e del disordine, se il coraggio, la perspicacia del Re, l’affezione e la fiducia del popolo nelle eminenti qualità del nostro Sovrano, e l’irremovibile fedeltà delle truppe, non avessero cangiato in gloria pel Re ed in gioia per lutti i suoi sudditi le catastrofi, che dovevano esporli alle più tristi calamità.

«Voi conoscete già i tre funesti avvenimenti, che si sono succeduti l’uno dopo l'altro: primieramente, il tentativo del movimento insurrezionale in certi Comuni della Sicilia; poi l’orribile allentato commesso contro la sacra persona del nostro amatissimo Signore; e finalmente l'esplosione, che ritiensi per accidentale, di una polveriera del porlo militare, saltata in aria senza tuttavia cagionare le disgrazie, che potevano risultarne, e a paragone delle quali quelle che sono accadute sarebbero affatto nulla, quando non fosse a deplorare la morte di alcune persone, che trovavansi sui luoghi per dovere di servigio.

«Le dimostrazioni, con le quali le popolazioni hanno spontaneamente attestato al Re la loro gioia, e la loro devozione, hanno dissipato fino all'ultima traccia del terrore provocalo da questo accidente nel momento; esse hanno aumentato il convincimento dell’amore dei sudditi pel loro paterno Sovrano tanto ammirato, ed assicurano che si tenterà sempre indarno di turbare la tranquillità degli Stati del Re, la quale riposa sulla clemenza, sulla saggezza e sulla fermezza di S. M.

«Questo stato di cose, non punto cangiato dai sopraccennati avvenimenti, offre al Regno la più sicura garanzia dell’avvenire, e conserva nell’animo del Re le stesse intenzioni di continuare per l'avvenire, come pel passato, i suoi atti di clemenza verso quelli tra suoi sudditi, che sono stati condannati, accordando la condonazione delle loro pene, o richiamando dall’esilio quel-)i? che, non essendo pericolosi per la pubblica quiete, ne facessero la domanda, mostrandosi pentiti e sommessi.

«Voi trovarete, signore, oltre quella che vi ho già inviato, una nuova lista di codeste persone, che ora v'invio, per poni in grado di contribuire, nella parte che vi concerne, all’esecuzione delle grazie accordate dal Re, ed affine possiate, quando ve ne sia offerta l'occasione, conformarvi il vostro linguaggio per ribattere le asserzioni menzognere, che sono sparse intorno alla pretesa tirannia del nostro Governo..

«L'incaricato del portafoglio degli affari esterni

«Carafa.»

Addì 3 arrivava a Milano il ministro dell’interno barone Bach, ed il 14 quello degli esteri conte di Buol-Schauenstein. Perciò la speranza che su vaghe asserzioni erasi dai lombardo-veneti concepita sulla possibilità che il loro regno potesse essere affidalo alle sollecitudini del principe Ferdinando Massimiliano, in qualità di Viceré con pieni poteri, quella speranza, dicemmo, per l’arrivo dei due ministri imperiali crebbe al grado di quasi certezza, e sotto l'influsso di tale credenza paralizzò le opinioni del liberalismo, e di tutti quelli che furono sempre per principii, per consuetudine o per deliberata volontà avversi al dominio austriaco. Diede spinta nello stesso tempo a suscitare il terzo partito, che dicemmo, il quale fecesi strada con larga messe di favore per il principe Massimiliano. Ma siccome nello spaziar sempre nell’astratto, oltre che nella metafisica delle idee non trovavasi che speranze, senza alcun punto d’appoggio, senza un centro sicuro, senza una meta, così stancavasi, direm cosi, lo spirilo col perpetuo accarezzamento di una passione, la quale restando sempre nello stadio d’idea, non tramutavasi mai in realtà, e manteneva la tensione or troppo compromettente ne’ suoi effetti, in tutte le opere della vita sociale. Tale era la situazione del liberalismo e di lutti quelli che, avversi all’Austria, propugnavano, in uno al Piemonte, la indipendenza e la nazionalità italiana. Ora, queste idealità si divagavano, si perdevano perplesse ed incerte al cospetto di una realtà vicina, quale sembrava essere quella della creazione del lombardo-veneto in un regno avente amministrazione sua propria, ed un Viceré con pieni poteri, giovine coni’ egli era il principe Massimiliano, svegliato, animalo, generoso, pieno di vita, e che fama dicea di principi! liberali. Laonde gli animi, specialmente di tutti quelli, ed eravene molti, che avrebbero in mancanza di meglio subita, ma non desiderala la fusione col Piemonte, alla vista di un tanto fatto, la cui attuazione sembrava imminente, stavano tranquilli attendendo la mutazione degli avvenimenti. Ognuno diceva in cuor suo: stiamo a vedere. Epperò, se si eccettuino le dimostrazioni municipali molti fra gli altri si comportarono passivamente, lasciando fare senza prendervi parte immediata ed attendendo calmi e dignitosi. Ma ci giunge opportunamente il destro di riportare un’ode del cav. G. B. Menini pubblicata in quelle circostanze, la quale ci sembra un felice componimento poetico:


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L'ingresso a Milano delle Loro Imperiali e Reali Maestà.

ODE

Prenci, solenne è il giubilo

Onde v'accoglie ed arde

La più leggiadra e splendida

Delle città lombarde.

Nelle paterne viscere,

Santificando il trono,

Scesero i rai benefici,

Sire, del Tuo perdono.

Quante d'affanni e lagrime

Famiglie hai Tu redente,

Che memori salutano,

La Maestà clemente!

Non fu giammai di nobili

Sensi l'Insubria avara:

Inni di grazie echeggiano

Dalla domestic'ara,

Dove piangenti oravano

Le madri e i figli intorno

Del prigionier, dell'esule

Al subito ritorno.

Fu assolto; ne dimentica

L'improvvido fallire,

E lo ridona libero

Al patrio tetto il Sire.

Ma ognun di lor, che all'intimo

Abbracciamento riede,

Nel ricordevol animo

Avvigori la fede.

Co' suoi, tra le ineffabili

Delizie del riscatto,

S'oda ricambio al Principe

D' indissolubil patto.

Il rito arcano inauguri

Corso di età propizia

Sposa, ministra ed auspice

Del Tuo favor la inizia.

Colei che, viva imagine,

D'ogni virtù più degna,

L'amor di padre ai popoli

Nel farti padre insegna.

Dalle vetuste origini

Il matronale esempio

Al venerando ossequio

Fa della casa un tempio.

L'Ercinia e il Lazio attinsero

D'alto pensier costume,

Onde a' muliebri oracoli

Solo il pudor fu nume. ((1))

Dal profetato Golgota

Scisso l'antico velo,

La santità del talamo

Rimaritossi al cielo.

Ma delle prische glorie

Nel longobardo sangue,

De' generosi aneliti

L'impeto ancor non langue.

Sente la donna un fremito

D'aura spirar divina;

Nel patrio tabernacolo

Ha seggio di reina.

Sublime ministerio,

Angelica parola,

Quando a viril proposito

È mansueta scuola.

Non è delle memorie

L'eredità divisa,

E n'hai Tu parte al cumulo

Dal nascimento, o Elisa.

Superstiti reliquie

D'ogni più nobil opra

(Né tanta ala di secoli

Che vi passaron sopra,

Ad allentar fu valida

L'accesa fantasia),

I segnalati additano

Trionfi della pia

Che Teco ha patria ed ordine

Di preminenze uguale ((2)),

E de' suoi vanti il pubblico

Grido Ti fa rivale.

Più non risuona il cantico

Per lei d'altar profano,

E la lombarda vergine

Adora il Vaticano.

Ogni natio d'Insubria,

Devoto al vero culto,

Col nome il benefizio

Di Teodolinda ha sculto ((3)).

O Tu, d'anni si giovane,

Ch'ampio tesor d'eventi

Festi alle dotte pagine

Dell'universe genti,

Ben sai quant'alto ascendere

Fu al visconteo colubro

Concesso, e infonder l'italo

Vigor del genio insubro,

Che propagato al soglio

De' Tuoi maggiori alberga,

E ch'allo scettro assunsero

Turingia e Witemberga.

Ben sai come salivane

A scorrer glorioso

Fin nelle auguste arterie

Del tuo Signore e Sposo ((4)).

Verde fu il nome: l'inclita

Figlia di un Tuo Visconte

Sorti del Sire austriaco

Il diadema in fronte.

A si preclari auspicii

L'orrevole matrona

Con patrio orgoglio inchinasi

D'Absburgo alla Corona.

Ripensando i magnanimi

Fasti di men lontana

Età, trasvola agl'idoli

Dell'immortal Sovrana,

Del nato a ordir la serie

Che ritemprò la vena

Imperïal nel florido

Germoglio dei Lorena.

Più che la storia, a dirtene

L'immenso, o Elisa, affetto,

Le ricordanze parlano

D'ogni Lombardo in petto.

Deh, se tu muovi al Portico

Tanto da lor nudrito,

Ti piaccia dell'orobio

Vate ascoltar l'invito.

Vedrai qual luce all'anima

D'ogni saper si spande,

Come la man dei Cesari

Fu liberal, fu grande.

In quell'aule spirarono

Un alito fecondo,

D'Italia a inestinguibile

Gloria, a stupor del mondo,

Questi che or qui V'intessono

Eccelsa Coppia, un serto,

E fan brillar più fulgido

Del trono avito il merto.

Te ad emularlo accolgono

Queste dilette mura;

In Te, suo Prence, esultane

Milano e s'assicura.

La importanza storica di questa ode meritava la sua riproduzione. Ma molte in verità furono le iscrizioni, le poesie, le epigrafi pubblicate in quella circostanza della visita imperiale nelle lingue italiana, latina, greca, tedesca e francese; molti gli album presentati alla Imperatrice, ma si le prime che i secondi in gran parte furono così rigurgitanti di adulazioni e di menzogne da renderli componimenti scurrili, bassi, e vergognosi; e se qualche perla poetica in essi ammiravasi che indicasse l’ingegno od il genio dei loro autori, anche quella perla, caduta nel fango della servilità, perdeva tutto il suo pregio. Essere cortesi, nobili e dignitosi verso Ospiti di tanto rilievo era dovere indeclinabile, ma essere adulatori e servili, era una viltà, ed una bassezza.

Or passando dalle regioni di Pindo a quelle della politica, ci è mestieri registrare uno sbarco di fuorusciti avvenuto in Sicilia, in quelle date, nello scopo d’insurrezionarla, mentre già il governo avvisato a tempo debito potè coll’invio colà di molta truppa tirare un cordone e sventarne lo scopo.

Il Bentivegna veniva fucilato con molti suoi compagni.

La esplosione del Carlo III, fregata da guerra che forse veniva spedila per sedare i moti insurrezionali in Sicilia, e l'attentato alla vita del Re operato dal Milano, attirarono in Napoli molte estere rappresentanze coll'incarico di felicitare quel regnante d’essere scampato dai pericoli che gli sovrastavano minacciosi. Uno di questi rappresentanti, per lo stesso scopo, fu pure mandato anche dal governo Sardo; epperò l’attenzione pubblica notò quell’atto senza trovarvi principii validi di giustificazione

Il governo sardo pure avrebbe spedito il Buoncompagni a Milano coll’incarico di felicitare la venuta di S. M. imperiale; ma per l’accorta politica di Cavour questa misura non venne presa. Ciò urlò la suscettibilità del governo austriaco, il quale coll’organo della stampa mostrò più volte il suo rincrescimento, facendo però sembianza di non essersi nemmeno avveduto di quell’errore diploma tico. Intanto in quella data nelle Camere subalpine l’avv. Angelo Brofferio deputato, interpellava la politica del governo intorno alla questione italiana. Le risposte furono soddisfacenti. Nondimeno le oscillazioni del ministero di

Torino riuscivano a far maggiormente apprezzare anche da una parte dei liberali la lusinga, ridotta quasi in istato di certezza, di un normale cangiamento di politica nell’Austria rispetto le popolazioni del Lombardo-Veneto. Imperciocché vedevasi a chiare note non esservi per allora alcuna speranza di altri migliori avvenimenti di redenzione italiana in quanto che l'Europa tutta accarezzava già la politica conservativa.

Il Re di Napoli intanto condonava o tramutava la pena di alcuni condannati di distinzione pei subbugli del dicembre 1855. Eccone i loro nomi:

Castrucci Luigi, condannato a 22 anni di ferri. piena grazia.

Castrucci Filippo, id. piena grazia.

Foca Aniello, condannato a 20, ridotti a 10.

Alberti Raffaele, a 25, ridotti a 10.

Alvieri Erasto, a 20, ridotti a 2 anni in un chiostro.

De-Grazia Giovanni, a 25, ridotti a 10.

Mauro Francesco, a 20, ridotti a 10.

Francia Roretto, a 25, ridotti a 11.

Galloni Giovanni, a 22, ridotti a 10 di reclusione

Galloni Salvatori, a 12, ridotti id.

Sticco Luigi, a 30, ridotti a 10.

Sicca Alvieri Matteo, a 7, ridotti a 4 di prigionia

Subatella Domenico Celestino, a 19, ridotti a 13.

Santomauro Pasquale, a 25, ridotti a 19 di ferri.

Cajani Carlo, a 9, ridotti a 4 di prigione.

Fazzolari Giuseppe, a 25, ridotti a 4.

Asciutti Clem. Antonio, id.

Memoli Antonio, condannato a 19 anni di ferri, ridotti a 4 di ferri.

Costantini don Andrea. id. ridotti a 7.

Di-Donato Carlo, a 7, ridotti a 6 di reclusione.

Bozzi don Giuseppe, a 19, ridotti a 7.

De-Camilis don Paolo, a 25, ridotti a 7.

D’Onorio Giuseppe, a 25, ridotti a 7.

Oliva Raffaele, a 24, ridotti a 13.

Giordano Emanuele, a 25, ridotti a 12.

Medaglia don Giulio, a 25, ridotti a 19.

Il padre Gian Antonio da Piatola e Giovanni Caruso ebbero la pena commutala nell’esilio perpetuo.

Furono graziati parzialmente:

Matarazzo Giuseppe.

De-Angelis Pompeo.

De-Battista Ermenegildo.

Lisi Domenico.

Coronati don Francesco, sacerdote.

Torricelli don Luigi, arciprete.

Buonomo Pasquale.

Giglio Esposito Vincenzo.

Melito Gaetano.

Cecarielio Raffaello.

Giniscalchi Gabriele.

De-Bonis Cesare.

Bronzo Domenico Antonio.

Cavallo Angelo.

Angelo Antonio, medico.

La polizia di Napoli, mentre il Re condonava od alleviava le pene a 10 condannati politici, ne catturava 100. Eccovene un esempio. La notte dell’8 gennajo scoppiava un incendio nella fabbrica dei tabacchi. Ritenuto appiccato a bella posta, la polizia prese le più severe misure; furono cangiale le guardie nell’interno del palazzo reale; furono spenti tutti i lumi a gas e sostituiti dei fanali ad olio; fu proibito gittar lettere nelle cassette chiuse della posta, ma invece fu ordinato di consegnarle agl’impiegati; nel giorno 9 di sera furono arrestate oltre a 500 persone, fra le quali i signori Avitabile, Mascilli, Mattino e Cozzolungo; vennero chiuse sette botteghe da caffè.

Anche il governo di Roma, ad imitazione di quello di Napoli, condonava o diminuiva la pena ai seguenti condannati politici:

Appoloni Gio. Ball, romano, condannato per cospirazione, diminuzione di pena;

Mazza Camillo, di Bologna, id. per allo tradimento, grazialo.

Cristallini Augusto, romano, id. per cospirazione, diminuzione di 5 anni.

Ferrari Domenico, di Velletri, id. id. graziato
Jaeler Michele, id. id. id.
Perini dott. Alfonso di Cevia, id. id. id.
Latini Gaetano di Ceccano, id. id id.
Busi Vincenzo di Bologna, id. id. id.
Mattioli Pompeo di Bologna, id. id. id.
Fiocchi Giuseppe id id. id. id.
Marchignoli Carlo id. id. id. id.
Cavallari Giovanni d’Imola id. id. id.

Ebbero diminuzione di pena i signori Fiorani Francesco di Monte Nuovo; Luzi Filippo di Camerino; Ferretti Giovanni di Camerino; Scliiavoni Paolo di Roma; Pieraccini Pietro di Ascoli; Bollelli Alessandro di Ancona; Fusaroli Cesare di Castel S. Pietro; Galavotli Giuseppe di Castel S. Pietro.

Dappoiché siam dietro agli alti di clemenza o spontanea o suggerita dalla politica, registriamo anche l’autografo sovrano datalo in Brescia 45 gennaio col quale condonavasi da S. M. Francesco Giuseppe il resto della pena ai condannati nelle carceri di Vicenza: Gio. Balt. Saccardo, Domenico Bernardi, Francesco Audioio, Orazio Missiaggia, Francesco Massaro, Francesco nobile Sesso, Antonio Pellanda, Giovanni Fracasso. Collo stesso autografo veniva diminuita la pena per metà ai signori: Antonio dal Ceredo, Giuseppe Michelletto, Angelo Rasia Calcaro, Giovanni Raggio; ed un terzo dell'intiera pena ai signori: Napoleone Geolato e Leopoldo De-Pretto.

Addì 25 gennaio pubblicavasi in Milano il seguente imperiale Rescritto:

«Caro feldmaresciallo conte Radetzky.

«Trovo in via di grazia di condonare a tutti gl’individui, appartenenti al Regno Lombardo-Veneto, detenuti tuttora in pena per crimini di alto tradimento, offesa alla Maestà, perturbazione della pubblica quiete, rivolta e sollevazione, l’intiera pena loro inflitta, e di ordinare che i medesimi vengano immediatamente posti io libertà.

«In pari tempo, trovo di sopprimere lutti i processi pendenti nel Regno Lombardo Veneto per i crimini accennati, ordinando la liberazione dalle carceri delle persone detenute per tali titoli.

«La Corte speciale, esistente a Mantova, cessa da quest'istante le sue funzioni, e sarà tosto sciolta..

«Milano li 25 gennaio 1857.

«Francesco Giuseppe m. p.

S. M. inoltre ordinava.

«Che per mezzo del professore di scultura presso l'I. R. Accademia di belle arti in Venezia, Ferrari, venga eseguita a spese dello Stato una statua in bronzo del celebre viaggiatore veneziano Marco Polo, e ch'essa venga data al Comune di Venezia, come un dono imperiale, onde sia collocata in un’adattata pubblica piazza, (Autografo sovrano 8 gennaio 1857).

«Che venga accordato pei ristauri da farsi in istile antico nella Basilica di S. Ambrogio di Milano, una dotazione annua di fiorini diecimila, ordinando in pari tempo che, qualora nel corso degli anni, tal somma, per intero od in parte, non fosse necessaria allo scopo suaccennato, sia capitalizzato il tutto o la parte restante impiegandone gl’interessi nella manutenzione della suddetta basilica, e dei monumenti ad essa appartenenti. (Sovrano Rescritto di Gabinetto 25 gennaio 1857)..

«Che venga aumentato a lire austriache trecento-mila la dotazione annua ilei Teatri imperiali in Milano. (Sovrano Rescritto di Gabinetto 22 gennaio 1857).

«Che venga acquistala per conto dell’erario militare la caserma di S. Prasscde in Milano, al prezzo di un milione di lire austriache da pagarsi al Comune in cinque rate annuali, colla condizione che tal somma venga impiegata esclusivamente per l’ampliazione ed abbellimento dei pubblici Giardini secondo il piano già predisposto. (Sovrano Rescritto di Gabinetto 25 gennaio Wol).

«Che venga accordato pei lavori progettati al porto di Como, la somma di fiorini centomila a carico dell’erario dello Stato, da pagarsi in tic rate, cioè fiorini 40,000 al principio dei lavori, che devono essere alacremente condotti. 50,000 fior, scorso un anno, e gli altri 30,000 al compimento delle opere progettale. (Sovrano Rescritto di Gabinetto 25 gennaio 1857).

«Che venga ristaurata a spese dello Stato la Cena di Paolo Veronese, quadro conservato nel Museo comunale, in istato danneggialo ed appartenente al convento dei Servili sul Monte Berico, incaricando del ristauro l’Accademia di belle arti di Venezia, (biglietto Sovrano in data dì Verona 7 gennaio 1857).

«Che venga aperto un Concorso scientifico dall’istituto lombardo di scienze, lettere ed arti, per investigazioni sulla malattia dei bachi da seta, e sui rimedii contro la medesima, destinando un premio di austr. lire 12,000. (Sovrano Rescritto, 27 gennaio 1857).

Ma alcuni giorni più lardi dell’arrivo in Lombardia dell’imperatore, giungeva a Milano S. A. I. il principe Massimiliano, e la sua venula in quella capitale diede compimento alla formazione già di molto inoltrata del terzo partito scaturente dal partito conservatore dello stata quo e da quello polla indipendenza e nazionalità d'Italia. Perciò le dimostrazioni a favore dell’imperatore, dopo l’arrivo di quel Principe assunsero, mercé l’opera del partito accennato, un carattere di espansività più naturale e più spontaneo che prima. Avvegnaché quel partito si faceva gagliardo e forte nella sicurezza di un favore vicino a vantaggio del regno. Epperò la influenza del Piemonte, che spargeva in quella circostanza in Lombardia a migliaia i proclami oppositori, e le opere dei radicali per la causa italiana venivano se non paralizzati certo a subire gli effetti di un’ultima fase nella quale cadeva la politica del momento.

Anche Nizza, quasi contracolpo alle feste di Milano, si abbelliva a gioia e tripudio per ricevere in un modo strepitoso, solenne ed entusiasta, S. M. Vittorio Emmanuele, che colà giungeva colla Corte e lo Stato maggiore affine di complimentare S. M. l’Imperatrice di Russia, S. A. I. la Granduchessa Elena, e S. A. I. il Granduca Michiele, colà da più giorni stanziati.

Una convenzione frattanto (13 genn.) veniva conchiusa e sottoscritta ira il Governo di Napoli e quello della Confederazione argentina, nello scopo di fondare nel territorio di quest’ultima una colonia di sudditi napoletani condannati o detenuti politici, a' quali il Re concedesse il permesso di emigrare in detta colonia, in mutazione della pena che stavano espiando. Una circolare veniva mandala dal governo in tutte le carceri del regno delle due Sicilie invitando i condannati politici a pronunziarsi se volevano o meno approfittare di sì grande risorsa com'era quella di venire esportati ai lavori in Argentina. Poerio e molti altri la rifiutarono. Questa regia determinazione di esportazione assumeva in quel regno il nome di riforme, di miglioramenti, di concessioni, di grazie sovrane!

L’attentalo del Milano alla vita del Re attirò castighi e pene morali e materiali a tulio il corpo al quale apparteneva, perché codesto corpo militare non seppe far la spia e denunziare le empie tendenze del reo assassino. Quel corpo volesse o non volesse, sapesse o non sapesse, potesse o non potesse, doveva conoscere la esistenza di celle carte che vennero trovale al Milano, doveva interpretare, supporre che il Milano nutrisse dei rei disegni, e denunziarlo. Quel corpo non interpretò, non suppose, non denunziò e quindi venne punito. Quanto non era egli reo quel comando militare che puniva così stolidamente e brutalmente?

Ecco l’Ordine del giorno del capo di brigata generale Nunziante del 22 dicembre 1856.

«Risultano dalle prove amministrate nel processo del giustiziato Agesilao Milano, le incolpazioni seguenti a carico degli ufficiali della sua compagnia.

«1. Ch'egli è sfuggito alla loro sorveglianza che, durante il tempo del suo servizio, Milano conservava nel suo portafoglio diverse carte e lettere che avrebbero provato ad evidenza, ch’era un uomo pericoloso; il che la credere che non si è data la minima attenzione alla mia circolare personale del 26 luglio 1855 n.° 75, ad una seconda circolare del 2 luglio 1856 n.° 186, e a' miei ordini dati verbalmente a questo riguardo.

«2. Che essi non mi hanno informato che, pochi giorni dopo la sua ammissione nel corpo dei cacciatori, Milano ha provato ch’era un uomo istruito, mentre gli si è presentato al corpo con vesti usate e lacere e voleva passare per un uomo di spirito debole. Finalmente non avrebbero dovuto ignorare quali erano le abitudini del Milano; quali persone vedeva mentre usciva, e che aveva anche staccato dalla sua arme la lettera R e l’ha confidato ai sottouffiziali ed ai soldati.

«Simili colpe e la negligenza che gli uffiziali e sottouffiziali suddetti hanno commesso nell’adempimento dei loro doveri, mi obbligano d’infliggere gli arresti forzati di 15 giorni al capitano don Ruggiero Festa; al sottotenente don Giuseppe Cassano ed all’insegna don Pietro Martano; una sospensione di 15 giorni al sergente maggiore d’Agatano, al sergente Miglio ed al caporale Muzzo, e il marcia pesante a tutta la compagnia; provvedimento che io avrei ordinalo più presto se l’onore della compagnia ch'essi hanno si indegnamente compromesso non mi fosse stato troppo caro per metterlo in sospetto. I due camerati di letto dell’infame Milano avrebbero ugualmente dovuto notare ch’egli conservava carte e ne avrebbero dovuto fare la dichiarazione; per questo motivo io infliggo loro 15 giorni di marcia pesante.

«Spero che gli ufficiali sieno avvertiti dal tristo esempio di un avvenimento che non può rammentarsi senza disgusto ed orrore, e che bisogna attribuire in parte alla disobbedienza e alla non esecuzione di ordini superiori. Amo credere che non sarò più obbligalo a prendere provvedimenti più severi per punire simili delitti..

«Nunziante, generale.

Può esservi legge più immorale in un regime militare di quella di sforzare l’ufficialità a far la spia cosi indegnamente e vigliaccamente? Indagare le intenzioni altrui, sospettarne le tendenze, perlustrarne le persone: uffizii bassi e vili che ledono altamente l’onore militare, e che non possono essere ordinati che sotto un governo corrotto e corruttore come quello di Napoli. Ma come subirono quegli uffiziali la pena loro inflitta? Con santa rassegnazione, perché chi di loro avesse osato un sol moto di disapprovazione o di risentimento non sarebbe più stato uomo: a tale giungeva la ferocia colà! Anzi, subita la loro pena, collo straccio il più fino nel cuore, e col viso sorridente, dovettero assumere l’atteggiamento di rei pentiti e ringraziare il generale Nunziante per la degnazione ch'ebbe di punirli e perdonarli dopo la punizione. Per un moto, per un detto, per uno sguardo che vi potesse sfuggire, per un sospetto concepito da una autorità su di voi, per una falsa accusa per non aver voluto avvilire voi stesso, la vostra dignità di uomo e di soldato, voi innocente, potevate in forza di quella legge venire condannato a -100 colpi di bastone, a quattro, a sei, a dieci anni di ferri, e poi subita la vostra ingiusta condanna, essere obbligalo anche a ringraziare chi vi avesse punito!... Come quella legge da un canto sottometteva ad un’altissima prova di grande virtù il paziente che la subiva se reo, e di una virtù sopranaturale se innocente, cosi dall’altro canto quella legge non era soltanto immorale, ma era barbara, truce, tiranna, feroce, maledetta, e contro natura. Pure quella legge era adottata non solamente nelle due Sicilie, mal in altri luoghi. Non è perciò da far le meraviglie se la corruzione pubblica, come nello Stato Pontificio, e cosi nel Regno delle due Sicilie invadesse i pubblici dicasteri; A questa corruzione pubblica devesi pure attribuire l’attentato alla vita di monsignor Rossini, arcivescovo di Acerenza e Molerà nella Basilicata.

Non era ancor cessato l’orrore che destò in tutta Francia, Italia ed il mondo cattolico, per l’assassinio contro la persona dell’arcivescovo di Parigi, monsignor Sibour, commesso dal prete interdetto Verger, ch'espiò il suo nefando delitto sul patibolo il 30 gennaio corrente, quando un altro simile attentato ebbe luogo (16 corr.) contro l’arcivescovo Rossini per opera di un altro prete. Costui, Ancona di cognome, s’appiattò di dietro dell’altare maggiore ed attese che venisse il venerando prelato.

Tutte le domeniche, monsig. Rossini scendeva dall'Episcopato alla Sacrestia della Cattedrale onde conferire su’ casi morali col clero di sua dipendenza che solea colà radunarsi. Lo accompagnava il Vicario' ed il cerimoniere, Bonsanto, canonico primicerio. Per giungere alla sacrestia era uopo passare davanti l’altare maggiore, ove monsignore inginocchiavasi sui gradini per recitare, come di costume, alcuna preghiera. L’ assassino colse di quel momento per uscire fuori armato di pugnale, e investito l’arcivescovo vibrò il colpo alla schiena, ma non riuscì che a traforargli la pellegrina, li cerimoniere prese subito per il braccio l’infame che stava già per replicare il colpo; il vicario fuggì spaventato e monsignore restò come perplesso. Ma l’assassino tirò fuori una pistola colla mano sinistra ch’aveva libera e la scaricò contro il misero cerimoniere, che cade estinto al suolo. Monsignore, trovatosi in libertà in quel momento fuggi per donde era venuto, ma il sicario lo segui correndo. L’arcivescovo, vedutoselo presso, svenne e cadde attraverso alla scala, e sarebbe rimasto vittima di quell’empio, se lo scoppio della pistola non avesse fatto colà accorrere un domestico di monsignore, che arrestò il reo e lo consegnò alla giustizia.

8. M. il Re di Napoli frattanto si chiudeva (28 gennaio) nella sua reggia di Caserta, ove prendeva grandi cautele, specialmente nella introduzione di visitatori, perciocché, correa fama, che il governo francese avesselo avvertito che due individui eransi posti in viaggio nello scopo di arrivare sino a lui per attentargli la vita.


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CAPITOLO II

Febbraio e Marzo

La questione politica napoletana ventilata dalle due potenze, Francia ed Inghilterra, sembrava nella data del l febbraio, volgesse alla sua ultima fase, essendo state tanto a Londra quanto a Parigi accolte favorevolmente le proposizioni sulle concessioni da farsi, colà indirizzate dal governo del re per mezzo degl'inviati prussiani. Ma quella non era che un’apparenza che si dileguò ben prestò.

Altre concessioni faceva S. M. l'imperatore d’Austria nella sua dimora in Lombardia. Innalzava la città di Monza a rango e titolo di città regia colle inerenti prerogative (6 febbraio); condonava il resto della pena a 25 condannati degenti nella Casa di correzione di Milano, la metà a 2 altri, e commutava ad un terzo la pena di due mesi di carcere nell'arresto domiciliare: sospendeva la procedura criminale pendente presso il Tribunale di Brescia contro 44 abitanti dei comuni di Gerola, Padiano, e Cremezzano per opposizione fatta alla gendarmeria il giorno 8 luglio 1855, come pure la preliminare inquisizione aperta contro altri individui implicati in quel processo, desistendo da ogni ulteriore procedura giudiziale contro i colpevoli ed indiziati; condonava il resto della pena a 13 condannati degenti nelle carceri criminali di Brescia, a 9 condannati dal giudizio criminale in Como, a 7 degenti nelle carceri di Pavia. (Tutte queste concessioni portano la data del 6 febbraio 1857). Condonava inoltre ai Comuni della Provincia di Sondrio il pagamento del residuo imporlo di fior. 110,082 e carantani 39 3|5 sulla somma da essi sottoscritta al prestito nazionale. (Ciò in data 18 febbraio). In data 22, condonava la pena a 4 condannati nelle carceri di Lodi, a 21 in quelle di Milano, e donava la raccolta di oggetti di storia naturale dell’Erario, custodita a S. Marta, alla città di Milano per essere aggregata ai Museo civico.

Procedeva intanto il carnovale anche abbastanza giulivo. Nello Stato Pontificio venivano finalmente accordate le feste da ballo e le mascherate di giorno e di notte. Le persone potevano comparire in pubblico travestite, ma però senza la maschera sul viso. Circolava a Napoli una moneta non falsa coll’effigie di Luciano I. così veniva designato il principe Murat. Quella moneta era un segno dei partigiani di quella dinastia per riconoscersi fra loro.

Quanto più le munificenze e le concessioni del-l'Austriaco Imperatore erano frequenti e splendide nella sua visita al Regno Lombardo-Veneto, tanto più la stampa piemontese loro si mostrava ostile, e già parlavasi di una Nola del gabinetto di Vienna arrivata a Torino (1 febbr.), che la condannava vivamente. Venivano pure condannate dagli austriaci le dimostrazioni continue che i popoli sardi facevano al loro Re nella occasione della sua andata e ritorno dai già, per noi annunziato, suo viaggio a Nizza.

Le provincia italiane, spedivano in Piemonte ori ed argenti per I acquisto dei cento cannoni per Alessandria. K vi furono di quelle città anche nel regno Lombardo-Veneto che inviarono somme considerevoli per tal oggetto Ho stesso giorno che l’imperatore entrava fra le loro mura. Con una mano ricevevano il loro sovrano, mentre coll'altra mandavano i soccorsi pei cento cannoni. Era insorta una gara fra provincia e provincia, tra città e città in tal soggetto ad onta delle veramente larghe. concessioni imperiali.

Ma l'attenzione pubblica veniva per alcun tempo rapita all’antagonismo delle dimostrazioni quà imperiali là regie, e portata sopra altri due soggetti di qualche importanza politica. Il primo si fu la tendenza dimostrata dalla Francia nel favorire la unione della Moldavia e della Valacchia (Principati danubiani), e la quasi sicurezza di far piegare in tal senso le potenze che si unirebbero nelle preconizzate prossime conferenze di Parigi. Lo atteggiamento del gabinetto francese in tale emergenza offriva la speranza nei liberati d’Italia e di altri paesi, che sarebbesi sanzionala la teoria dei fatti compiuti, e quindi se la si fosse applicata a favore dei principati danubiani, la si avrebbe potuta applicare, pei medesimi principii e per le stesse ragioni, quando si fosse, anche a favore di altri territorii. Formavano il secondo soggetto di distrazione le voci corse sopra una alleanza secreta conchiusa tra la Francia e l’Austria.

La prima di queste potenze avrebbe garantito alla seconda i suoi possedimenti in Italia. Tanto crebbero quelle asserzioni ed agitarono le menti, ed il giornalismo, che venne perfino fatta interpellanza su tal oggetto alle Camere inglesi, ed il governo della Regina fu costretto di smentirle formalmente. Poi, dietro altre interpellanze, smentì quanto disse prima, ed approvò l’esistenza di quell'alleanza austro-francese, ma assicurò nello stesso tempo ch'ella esisteva soltanto prima della guerra di Crimea, colla condizione che l’Austria prendesse parto a quella guerra. L’Austria noi volle, e però quell'alleanza non ebbe, né poteva più avere alcun valore.

Addì 7 febbraio 1857 pubblicavasi in Parma il seguente Atto sovrano:

«Noi Luisa Maria di Borbone, Reggente pel duca Roberto I gli Stati parmensi.

Risguardando alla condizione attuale dei condannati politici di questo Stato, e piacendoci confidare nel ravvedimento loro, e tener calcolo ad un tempo della gravità diversa delle colpe, del contegno durante la detenzione, della qualità e quantità di pena sostenuta, della età, della condizione personale o di famiglia, dei mezzi di fortuna, e del maggiore o minore pericolo di ricaduta.

«Volendo pure con atto di grazia confortare le famiglie de' medesimi, accogliendo per quanto ci è possibile le istanze loro.

«Sentito il nostro Consiglio dei ministri.

«Abbiamo decretato e decretiamo.

«Art. 1. È condonata la pena, che rimane da scontare ai condannati politici.

«Bacchi-Palazzi E va risto, Pagani Luigi, Morini Emilio, Varesi Pellegrino, Ghelfi Pietro, Bersellini Amadio, Zucchi Pietro, Pentolini Leopoldo, Bonazzi Leopoldo, Consigli Antonio, Pagani Ernesto, Isola Giuseppe..

«Art. 2. È commutata in altrettanto tempo di dimora fuori d'Europa la pena, che rimane da scontarsi rispettivamente ai condannati.

«Gelati-Siro Guglielmo, Capocchi Giuseppe, Ferrari Luigi, Papini Ferdinando, Burroni Andrea, Borretti Luigi, Crispo Giuseppe.

«Art. 3. Ove alcuno de' condannati, compresi nell’articolo precedente, o non si conducesse tosto fuori d'Europa o vi rientrasse prima dell’intiera decorrenza del tempo di assenza, a lui imposto, incorrerà nella perdita del favore della commutazione di pena, concedutogli coll’atto presente, e tornerà quindi ad essere sottoposto a tanti anni della stessa pena, da lui parzialmente subita sin qui, quanti son quelli di cui ora è graziato.

«Art. 4. Ai condannati medesimi, di cui nell’art.?, che non avessero mezzi pel loro trasferimento fuori d’Europa ed alle famiglie loro, che volessero seguirne la sorte, sarà indicato dal Governo conveniente luogo di loro dimora in America, e verranno dati dall'Erario dello Stato, in tutto o in parte secondo le circostanze, sufficienti mezzi pel loro trasporto e primo stabilimento.

«Art. 5. I ministri di Stato pei dipartimenti di grazia e di giustizia, degli affari esteri, e delle finanze, cureranno di provvedere i mezzi tutti speciali e straordinarii occorrenti, affinché questo nostro Atto ottenga io ogni sua parte piena esecuzione.

«Dato a Parma il 7 febbraio 1857.

«Luisa.

«Da parte di S. A. II.

Il ministro di Stato pel Dipartimento di grazia e giustizia.

«E. Salati.

Mentre in Torino ed in Genova vendevasi pubblicamente il ritratto del Milano, e stampavansi libri in sua lode magnificando ed apoteosando l’assassinio politico, mentre i lombardi, nello stesso tempo che fra loro stanziava Francesco Giuseppe, idearono di aprire una sottoscrizione per innalzare un monumento all’armata piemontese e a cento a cento correvano a sottoscriversi ed a depositare le loro somme a tal oggetto destinate; mentre Modena e Reggio ed altre città italiane coniavano medaglie, fondevano bronzi e scolpivano marmi in onore di Cavour, moriva in Roma (27 gennaio) il celebre artista Gioachino Barbèri mosaicista. L’Europa ammirò attonita i lavori di lui. Il famoso mosaico di Pompei, ossia la battaglia d’Alessandro Magno con Dario, e l’Aurora e il Crocefisso di Guido Reni, sono capolavori di tale pregio e rinomanza che attestano quanto ei fosse grande nell'arte sua.

Ma due Ordinanze, Cuna imperiale, l'altra ministeriale giungevano ad elettrizzare il partito austriaco in Italia e ad offrire ai viaggiatori una larghezza politica. Questa larghissima misura sui passaporti, come l’atto del-1 amnistia imperiale, vennero dovutamente encomiali anche dai fogli esteri di Francia e d’Inghilterra.

Ecco le due Ordinanze:

Ordinanza imperiale del 9 febbraio (contenuta nella puntata Vili del Bullettino delle leggi dell'impero, dispensata il 22 febbraio 1857, al n.° 34) operativa per tutti i dominii della corona e relativa all'introduzione di un nuovo sistema di passaporti.

«Nell'intenzione di dare alla circolazione delle persone del mio impero, le maggiori possibili facilitazioni, ho trovato, sentiti i miei ministri ed udito il mio consiglio dell'impero, di stabilire le seguenti norme a base del nuovo sistema di passaporti da introdursi.

«1. Tutte le revisioni dei passaporti si limiteranno in avvenire ai confini del territorio dello Stato. All'interno di esso cesseranno quindi le presentazioni, i visti ed i depositi in uffizio dei passaporti in determinati luoghi.

«2. Ai nazionali debbono essere falle tutte le compatibili facilitazioni per ottenere passaporti per l’esterno. Per la circolazione all’interno s’introdurranno carte di legittimazione.

«3. Per lo scopo della sorveglianza interna dovrà essere ordinato in modo corrispondente ed opportunamente mantenuto il sistema delle insinuazioni.

«Conforme a ciò, ho dato istruzione ai miei ministri, alle Autorità centrali cui spetta, e particolarmente eziandio al mio Comando superiore dell’esercito in riguardo al militare ed al confine militare, di emanare e di porre in esecuzione le prescrizioni di polizia dei passaporti occorrenti ad attuare questa mia Ordinanza.

«Vienna 9 febbraio 1857.

«Francesco Giuseppe.

Conte Buol-Schauenstein — barone di Bach — Cav. di Toggenburg — barone di Kempen, tenente mare sciallo — barone di Bamberg, generale maggiore.

«Per ordine Sovrano, Barone di Ranzonnet.

Ordinanza del Ministero degli affari esterni, di quello dell'interno e del commercio, del supremo Dicastero di polizia, e del Comando superiore dell'esercito del 15 febbraio 4 857 (contenuta nella puntata Vili del Bollettino delle leggi dell’impero, dispensata il 22 febbraio 1857, al n.° 32), operativa per tutti i Dominii della Corona, colla quale vengono emanate nuove prescrizioni di polizia dei passaporti. .

«In esecuzione dell'Ordinanza imperiale del 9 febbraio 1857, relativa ad un nuovo sistema di passaporti, i ministri degli affari esterni, dell'interno e del commercio, il supremo dicastero di polizia ed il comando superiore dell’esercito trovano, colla Sovrana approvazione, di emanare le seguenti prescrizioni, le quali entreranno in attività col 15 marzo 1857:


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Sezione I

Prescrizioni pei viaggi di nazionali all’interno

«§ 4. Nazionali per viaggiare all'interno, non hanno in regola (§ 24) bisogno di passaporti. Essi però deggiono munirsi di carta di legittimazione, che rilasciano per la durata di un anno i capi degli uffizii distrettuali (Giudizi! di sedia ed autorità che hanno l'attività di essi, Commissariati distrettuali), e dove trovansi II. RR. Autorità di polizia i capi di queste Autorità per persone che hanno il loro domicilio nel distretto d'uffizio di esse.

Il ministero della Casa imperiale e degli affari esterni rilascia egualmente per viaggi all’interno carte di legittimazione, invece dei passaporti ministeriali che rilasciava finora.


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SEZIONE II

Prescrizioni pei viaggi di nazionali alt esterno

Ǥ 2. Pei viaggi all'estero i nazionali abbisognano di passaporto regolare.

«Ne sono eccettuati gli abitanti ai confini, che ab bisognano soltanto di un certificato dei capo della rispettiva Autorità distrettuale politica onde poter oltrepassare senza ostacoli il confine austriaco per oggetti di comunicazioni giornaliere o per brevi gite di diporto.

«§ 3. Passaporti per l’esterno possono essere rilasciati al più per la durata di tre anni.

Ǥ 4. A rilanciare passaporti per l'esterno sono autorizzati:

«1. Il ministero della Casa imperiale degli affari esterni, conforme alla rispettiva sua speciale sfera di attività;

«2. I capi delle Autorità politiche provinciali (capi delle lezioni di Luogotenenza) a persone che hanno il loro domicilio nel rispettivo territorio amministrativo.

«3. I capi delle Autorità di Circolo (Volonità di Comitato, Delegazioni) in nome del loro preposto capo di Provincia, e persone che hanno domicilio nel Circolo, può soltanto in casi urgenti e col dovere di darne annunzio al capo della Provincia (capo della Sezione di Luogotenenza).

«§ 5. In via di eccezione, i capi delle Autorità politiche provinciali (capi delle Sezioni di Luogotenenza) sono autorizzali a rilasciar passaporti all’esterno a persone che dimorano temporariamente soltanto nel territorio amministrativo, quando non vi abbia dubbio sulla loro ineccepibilità, ma col dovere di darne tosto notizia al rispettivo capo della Provincia.

«§ 6. Le II RR. Legazioni sono autorizzate ad apporre il Visto, a prolungare agli austriaci che trovansi all'esterno i passaporti per ritornare in Austria, o per continuare a viaggiare all’esterno, od anche a rilasciare loro nuovi passaporti.

«Il Visto, od il nuovo passaporto per altra direzione o per paesi diversi da quelli pei quali si è rilasciato il ricapitò di viaggio portato dalla patria, non possono essere conceduti se non quando contro il viaggiatore non vi abbiano eccezioni. Di ciò, ed in generale di ogni prolungazione di passaporto o rilascio di nuovo passaporto, dee esserne data notizia al rispettivo capo di Provincia.

In quanto le IL RR. Autorità consolari sieno autorizzate ad esercitare attività d'uffizio dei riguardi della polizia dei passaporti, lo determinano le istruzioni speciali loro date per questo Caso.

«§ 7. Se le leggi dello Stato straniero, net quale vuol recarsi un nazionale, richiedono per entrarvi il Visto al passaporto della Legazione di esso accreditata alla Corte imperiale, il nazionale, onde non vedersene impedito l’ingresso, si procurerà quel Visto.


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SEZIONE III

Prescrizioni pei viaggi degli stranieri alt interno

§ 8. Ogni straniero, che si rechi nell'Impero austriaco, esser dee provveduto di regolare passaporto. Da questa prescrizione sono esenti Principi Sovrani, ed i membri di quelle Case regnanti, che godono onori regali, oltre alle loro mogli e figli che gli accompagnano, o che viaggiano da soli, il loro seguito ed i loro domestici.

«E con questa disposizione non vengono toccate le particolari prescrizioni esistenti intorno alla giornaliera circolazione a' confini, né le convenzioni stipulate con istrameri Governi relativamente alle cosi dette carte di passo.

«§ 9. Passaporti rilasciati da Autorità esterne, non possono essere riconosciuti regolari se non quando sieno rilasciati pel viaggio negli II. RR. Stati austriaci, ed estesi secondo la prescrizione del § 19 dalle Autorità competenti del paese, al quale lo straniero appartiene pe’ suoi rapporti di cittadino.

«§ 10. Il passaporto rilasciato da Autorità straniera, in quanto non ne faccia eccezione una convenzione stipulala col relativo Governo straniero, esser dee munito del Piste d’un’I. R. Legazione austriaca o d’un I. R Consolato,a ciò autorizzato..

«§ 11. Ove uno straniero, per aver perduto il suo passaporto o per altri motivi abbia urgente bisogno di nuovo passaporto per continuare il proprio viaggio all'esterna o per ritornare in esso, il capo dell'Autorità politica provinciale, solo però allorché manchi un’Autorità pei suoi rapporti di cittadino, può rilasciargli quel passaporto, facendo espressamente cenno del motivo e scopo di esso, e dandone notizia all'I. R. Ministero degli affari esterni pel veicolo dell'l. R. Dicastero supremo di polizia.

SEZIONE IV
Disposizioni generali

§ 12. Cessa l’obbligo, esistente finora, di regolarmente presentare, far vidimare e depositare in uffizio nell’interno dell’impero austriaco ricapiti di viaggio di Autorità nazionali od esterne; per lo che cessa eziandio il dovere, esistito finora, di ritirar carta di permanenza.

«Lo stesso vale in riguardo alle carte di legittimazione.

«§ 13. Soltanto ai confini dell'Impero austriaco i passaporti, sieno rilasciati dà Autorità nazionali o straniere, soggiacciono a revisione per parte dell'I. R. Autorità di sorveglianza al confine, la quale, ove non riabbiano obbiezioni, appone il suo Visto pel viaggio ulteriore. Senza quel risto non è permessa ai viaggiatori oltrepassare il confine.

§ 14. Non essendo il viaggiatore munito di regolare passaporto, o mancandogli il risto della rispettiva I. R. Legazione o dell’I. R. Consolato, ma legittimandosi egli tosto come non sospetto, II. R. Autorità di sorveglianza al confine può dargli una carta interinale pel luogo della più prossima Autorità di polizia, o seconda le circostanze, anche politica, che tocca nel suo viaggio. In questo caso il ritiratogli passaporto viene inviato, giustificando la procedura, alla suddetta Autorità. Simile carta interinale non ha se non validità limitata, o fissata espressa-mente, o che s intende da sé, ma che in ogni caso oltrepassar non dee 14 giorni.

«La emissione di una carta di legittimazione o di un passaporto per viaggiare all'esterno non può in. regola (§ 24). essere negata se non ad individui, che non abbiano godimento pieno dei diritti civili, in quanto non presentino il necessario assegno delle persone a ciò autorizzate, o che sieno limitati nel diritto di viaggiare da disposizioni di polizia o giudiziali. Le Autorità hanno Speciale dovere di affrettare il più che sia possibile la procedura d uffìzio sulla domanda di una parte pel rilascio di tale documento.

«§ 16. Le IL RR. Autorità deggiono rilasciare i passaporti secondo modula uniforme stampata. Pel rilascio oltre alla competenza del bollo, non può essere riscossa né tassa di scritturazione, né altra tassa.

«Queste disposizioni valgono anche per te carte di legittimazione.

«§ 17. Il passaporto dee contenere: 1. il nome e cognome: 2 il carattere od occupazione; 3. il luogo di domicilio; 4. la età; 5. la religione; l’oggetto del viaggio; 7. la sottoscrizione del viaggiatore; 8. la valitura; 9. in regola, i connotati.

«La carta di legittimazione contener dee i requisiti accennali ai n. 1, 2, 3, 4.

«§ 18. In quanto alla forma ed al tenore dei passaporti, rilasciali dal Ministero della Casa imperiale e degli affari esterni, continua quanto si è usato finora.

«§ 19. Passaporti, che derivano da Autorità stranieri, deggiono essere provveduti delle formalità legali prescritte negli Stati, dalle chi Autorità furono rilasciati. In ogni caso deggiono essere tali da rendere visibili i requisiti prescritti nel § 17, ai n. 1, 2, 3.

«Mancando in uno di quei passaporti la durata della validità, esso, avuto riguardo allo scopo del viaggio ed altri rapporti del viaggiatore, non verrà considerato valido, nel caso più favorevole, in regola, se non pel periodo di tre anni, calcolati dal giorno della regolare emissione o del prolungamento seguitone in egual modo.

«§ 20. In regola, un passaporto non può essere rilasciato che al nome di una sola persona.

«Ravvi eccezione in riguardo a chi accompagna il viaggiatore. Con ciò s’intendono soltanto sua moglie, i suoi figli, i congiunti minori, o soggetti alla sua tutela o cura, il suo seguito e domestici.

«Basta che singoli individui, che così l'accompagnano, sieno indicati nel suo passaporto per nome e cognome e col rapporto in cui stanno col viaggiatore.

«In ogni caso, il viaggiatore risponde per l’identità di chi lo accompagna cogl'individui indicati sul passaporto.

«§ 21. Nello stesso modo, l'equipaggio di un naviglio, allorché disposizioni speciali, o in riguardo a viaggi all'esterno, gli ordinamenti dello Stato straniero nel quale si reca, non richieggano cosa diversa, non ha bisogno di proprio passaporto; ma basta che la lista nominativa dell’equipaggio contenente la descrizione personale, sia aggiunta al passaporto del conduttore del naviglio o sia inserita nel ruolo opportunamente ordinato..

«In quanto all'equipaggio dei navigli, che navigano per mare, restano in attività le prescrizioni speciali per esso emanate.

«§ 22. Ogni cangiamento in chi accompagna il possessore del passaporto, dev'essere indicalo nella più prossima autorità politica, o di polizia, per l'opportuna annotazione nel passaporto.

«Lo stesso dee operarsi, avverandosi cangiamenti nell'equipaggio di un naviglio.

«Per l’equipaggio di navigli di mare, l’annunzio dev'esserne dato al primo uffizio di porlo, che venga toccato.

«§ 23. Contravvenzioni alle suddette prescrizioni, in quanto non esistano fatti contemplati dalle leggi penali, vengono punite secondo l’ordinanza imperiale 20 aprile 1864 (Bullettino delle leggi dell'Impero n. 96), e secondo l’Ordinanza ministeriale 25 aprile 1854 (Bullettino delle leggi dell'Impero n. 102).

Ǥ 24. Le presenti prescrizioni non toccano.

«1. Le disposizioni sui libretti di scorta degli artigiani e sui passaporti dei venditori girovaghi, i cui possessori nei loro viaggi debbono dirigersi dietro le disposizioni stesse.

«2. Le prescrizioni sui viaggi delle persone di età soggetta al servizio militare, dei congedati militari e dei soldati di riserva, e generalmente le prescrizioni di polizia dei passaporti dei militari degli abitanti il confine militare;

«3. Le disposizioni dell’Ordinanza ministeriale il settembre 1853 (Bulle timo delle leggi dell'Impero n. 170) sulla controlleria dei passaporti, a fin d’impedire il contrabbando.

«4. Le prescrizioni sulle comunicazioni (Hastellund Skellaverkehr) al cordone di sanità lungo il confine turco;

«5. Le disposizioni fondate sulle speciali convenzioni, conclusioni di pace, trattati od altri accordi dell'I. R. Governo austriaco co’ Governi stranieri, circa quelli che vicendevolmente loro appartengono, e particolarmente le Ordinanze speciali intorno alle Provincie turche che toccano il confine militare..

Ǥ 25. Tutte le altre disposizioni della politica dei passaporti, in quanto non istanno in armonia colle presenti prescrizioni, si considerano abrogate col giorno in cui queste ultime entrano in vigore.

Conte Buol-Schauenstein — barone di Bach — Cavaliere di Toggenburg— barone di Kempen, lenente maresciallo — barone di Bamberg, generale maggiore.

La larghezza politica introdotta nella monarchia austriaca in virtù del nuovo sistema pei passaporti veniva celebrala come la cessazione nel Regno Lombardo-Veneto di quel vecchio sistema che sino allora avevalo retto. Gli avversarii dell’Austria però le dicevano: parole che sarebbero terminate in un nonnulla. Dal detto al fatto corre un gran tratto: sono apparenze, mentre in sostanza la carta di legittimazione verrà data dalle Polizie soltanto a quelli che esse crederanno e così pure i passaporti per l'estero. Anche l’amnistia dell’Imperatore cotanto decantata non avrà che un esito meschino. Chi crede più alle amnistie dell’Austria? Chi si può fidare? Andate pure, o emigrati, entrate nel Regno Lombardo-Veneto, e vedrete come sarete trattati da quelle polizie a dispetto della immunità proclamata ai quattro venti dalle amnistie imperiali?» ((5))

Questo era il linguaggio che si opponeva alle lodi cantate in onore delle misure sui passaporti e delle amnistie concesse dallo Imperatore pei lombardo-veneti. Le incessanti ed ogni giorno più crescenti dimostrazioni dei popoli italiani a favore del Piemonte, di Vittorio Emma-nuele e di Cavour, l’essersi portato il Re sardo sino a Nizza per complimentare la imperatrice delle Russie, ed il non aver egli mandato a Milano nemmeno un inviato ministeriale o di gabinetto per complimentare S. M. I. Francesco Giuseppe, grandemente spiacevano all’Austria, potenza che pel conto che tenea di se stessa avrebbe desideralo che tutti dipendessero innanzi a lei.

Checché ne fosse, il carnevalone di Torino, a dispetto del tempo che in quell’anno era generalmente piovoso, riusciva assai brillante. La passeggiala del Conte Ferie, composta di molti grandi carri dorati allegorici, le corse dei Beduini e dei Pagliacci lungo la via di Pò e nella gran piazza Vittorio Emmanuele, i concerti musicali di quattrocento suonatori in piazza di S. Carlo, gli spettacoli teatrali, il numero immenso di maschere, il gitto dei confetti per le strade, le magnifiche illuminazioni della città attirarono dalle campagne e città provinciali una sterminata moltitudine di popolo alla capitale.

Per vero dire in moltissimi teatri d’Italia, in quegli ultimi giorni di carnevale, venivano oltre l’usato applaudite le opere del maestro Verdi. E ciò non per la divina musica che le informava, non per la loro perfetta esecuzione, ma sibbene perché i popoli avevano scorto nel cognome Perdi una allegoria tutta affatto politica. Questo cognome Verdi dunque aveva il seguente significato:

V E R D I
Vittorio Emmanuele Re D’ Italia

Epperò quando i pubblici assistenti ad un opera in musica nei teatri, si accordavano fra loro ed entusiasticamente gridavano Piva Perdi, intendevano di gridare: Viva Vittorio Emmanuele Re d'Italia! Ed anche i pezzi musicali che passarono sempre non curati, in quei tempi invece avevano la loro apoteosi col solito accarezzato grido: Piva Perdi! Quanto è ingegnoso il sentimento di nazionalità e d'indipendenza in un popolo!

Venezia e Milano ebbero il loro carnovale assai splendido. Roma l’ebbe ella pure negli ultimi otto giorni ma non v'intervennero, come per lo passato, le ambascierie estere. Anche Modena volle fare un carosello che venne eseguito con pompa, con bandiere e trofei. Le quattro quadriglie vestirono il costume italiano del secolo XVII, ed erano accompagnate da araldi, da trombettieri e da scudieri. Il carosello fu in onore del conte e della contessa di Chambord: v’intervennero gli aderenti dell’Austria e l’alta aristocrazia modenese. Con ciò s’intese, politicamente parlando, di fare un antagonistico contrasto al carnevalone di Torino.

A tamburo battente e dando fiato a mille trombe il partito pel principe Massimiliano venne tolto dallo stato d’incertezza, di ansia, di aspettazione in cui era vissuto sino allora da due Ordini del giorno di S. M. l’Imperatore d’Austria.

Ecco il primo.

«Caro feld-maresciallo conte Radetzky

«Con quel profondo sentimento di dovere, e con quella leale annegazione, ond’ella pel corso di 72 anni di servizio brillò con inarrivabile esempio dinanzi la mia Armata, ella mi rappresentò anche ora con nobile franchezza, al mio arrivo nel Regno Lombardo-Veneto, il peso della tarda di lei età, rassegnandomi in pari tempo preghiera per essere sollevato dal posto di comandante dell’armata e di governatore generale.

«Cedetti col più profondo rincrescimento a questa istanza per l’unico motivo che Tesser ella sollevata da così grave mole di affari mi lascia nutrire speranza di veder conservata, in non alterato benessere, per una serie ancora di anni, la gloriosa di lei vita, a me tanto cara.

«Contemporaneamente impartisco gli ordini necessarii per quanto concerne la di lei posizione futura.

«Ella sarà ognora Mio ospite cordialmente bene accetto in ciascuno dei miei Palazzi di Strà, Monza, nella Villa Reale. di Milano, come pure in Vienna nel mio Palazzo Imperiale, nel Palazzo dell’Augarten e di Hetzendorf a di lei scelta, ed io potrò per tal modo compiacermi, ogni qual volta ne abbisogni, delle sagge di lei vedute e del di lei provalo consiglio.

«È così possa Ella, modello vivente della nostra gloria, amato ed onorato da Me e da ogni cuore austriaco, godere lungo tempo, nella più grata riconoscenza del Suo Monarca e nello splendore delle proprie memorie, il guiderdone di un cosi glorioso passato.

«Milano, 28 febbraio 1857.

FRANCESCO GIUSEPPE m. p.

Ecco il secondo;

«Caro signor Fratello

«Arciduca Ferdinando Massimiliano

«Per dare a' miei sudditi del Regno Lombardo-Veneto una prova particolare dell’assidua mia sollecitudine pel loro benessere, ho determinato, confidando nella distinta avvedutezza di lei ognora spiegata, di nominarla, diletto fratello, Governatore generale di questo mio Regno, e di munirla come mio rappresentante dei. necessari! poteri affinché sia in grado di condegnamente adempiere tale mandato in questo Regno, di vegliare efficacemente al regolare e giusto andamento, non che alla pronta per trattazione degli affari in ogni ramo della pubblica amministrazione, di rilevare i bisogni in tutto ciò che concerne lo sviluppo intellettuale e materiale del paese, e prendere a tempo debito ed energicamente l’iniziativa rispetto a quelle misure ed istituzioni atte a soddisfarli.

«Ella risiederà alternativamente a Milano e Venezia.

«Le faccio obbligo d’impiegare costantemente i poteri, che le conferisco, ai mio servizio ed al benessere del paese, la cui prosperità mi sta tanto a cuore.

«Milano 28 febbraio 1857.

FRANCESCO GIUSEPPE m. p.

Con altra Sovrana Risoluzione nella stessa data, S. M. nominava il generale (l’artiglieria, Francesco conte Gyulai, comandante della II. armata e generale comandante nel Regno Lombardo-Veneto, nella Carinzia, Carniola e nel Litorale.

Gli Ordini del giorno per noi riportati fusero il partito austriaco antagonista del partito nazionale o piemontese col partito filiale del principe Massimiliano, il quale era già partito per Trieste più che in fretta, onde poi ritornare trionfalmente ed occupare il suo nuovo seggio fra i tripudii e le feste che si stavano preparando ad onor suo. Ma sur se una lotta violenta, accanita, inconciliabile: da una parte i due partiti assembratisi nella stessa politica in uno solo, e dall’altra il partito piemontese o nazionale. Ambi imbrandirono la spada bene affilata, ambi pugnarono con arte, con maestria, con ferocia, ambi nell’inferocito agone si mostrarono forti, perseveranti, incrollabili nei loro propositi. Gli uni cantavano l’era novella ch’era sorta per opera dell'imperatore; l’era novella che sarebbe stata tramutala in un eden di delizie e di prosperità cittadine dalla chiaroveggenza del principe Massimiliano. Mai più il Regno Lombardo-Veneto poteva essere stato tanto felice come allora perché governato da un Principe cotanto generoso, intelligente, ricco di buona volontà e di affetto pei popoli italiani. Guai a chi pensasse il contrario; guai a chi non vedesse nella nomina del fratello dell’imperatore a Governatore generale del Regno, un’opera grande, un’opera somma, un’opera che Dio benedetto concedeva ai fortunali sudditi per il loro benessere morale e sociale. Le arti, le lettere, le scienze, la industria, il commercio, la marina, ogni ramo dell’amministrazione della cosa pubblica, sarebbero in un breve lasso di tempo ristorate, risalite all’epopea del loro perfezionamento, e fatti cessare gli aggravii pubblici, rigenerata la società.»

Quelli del partito nazionale invece ribattevano con eguale forza le speranze, le asserzioni degli altri dicendo: «Cangiate di persone, ma non cangiarete di posizione. Voi sarete sempre quegli stessi che siete. Il Principe, in cui tanto sperate, non ò che un semplice governatore: i suoi poteri saranno limitatissimi. Egli ha ai fianchi un Gvulav ch’é possente più di lui, e che gl’incaglierà ogni passo se oserà uscire dalla sfera delle sue limitate attribuzioni. Egli ha sopra di lui un Ministero che gli rifiuterà libertà se fosse oso di proporla. Egli ha le mani legate in tutto. Egli deve subire e pazientemente tollerare le persone che lo attorniano e che gli sono imposte, e quindi in esse troverà tanti censori se non camminerà sulla solita via sinora percorsa dall’Austria, si comprometterà agli occhi del Fratello, e voi invece delle rose coglierete le spine, invece della felicità avrete la delusione.» In verità, S. M. erasi riservata perfino là nomina dei membri componenti la cancelleria del Principe. E ce lo dice Un’Ordinanza sovrana del 28 febbraio concepita così: S. M. I. R. si è graziosamente degnata di destinare a dirigere la cancelleria di S. A. I. l’Arciduca Ferdinando Massimilano, governatore generale del Regno Lombardo-Veneto, il vicepresidente della Luogotenenza lombarda, Luigi barone di Kubeck, e di nominare a consigliere di sezione presso la stessa cancelleria, il consigliere della Luogotenenza lombarda, Giuseppe co. di Valmarana, di aggregarvi il segretario aulico e ministeriale presso il Ministero degli affari esterni, Alfonso barone di Pont, ed eleggere il secretario presidenziale della Luogotenenza in Trieste, Augusto Albcr, cav. di Glaustaetlen, a segretario, col carattere di segretario ministeriale.

Quelli che in quella circostanza dalla visita imperiale ottennero onori, concessioni, privilegi, promozioni, cariche, croci, tentavano ogni mezzo onde sopprimere le voci dei liberali, i quali non volevano che venisse per opera degli interessati aderenti dell’Austria, manomesso il principio d’indipendenza e di nazionalità italiana, ma vivesse vegeto e gagliardo tanto più in quelle pericolose emergenze, nelle quali, sembrava loro, che il santuario della patria venisse insultato dalle lodi tributate all’austriaca dominazione. E si facean le meraviglie nello scorgere che fra i promossi ad onori ed a cariche trovavansi alcuni che altro merito non avevano che quello dell’ambizione, e perché uomini sommi per reali meriti, venivano lasciati nell’obblio.

Ecco l’Ordinanza che gli riguarda.

«S. M. I. R. A. si è graziosamente degnata, con Sovrano Rescritto 28 febbraio a. c., di nominare il consigliere intimo conte Giuseppe Archinto a cavaliere del Toson d’oro.

«Di conferire la dignità di consigliere intimo, con esenzione delle tasse, ai ciambellani conte Bartolammeo Fenaroli, conte Renato Borromeo, conte Tommaso Scotti duca di 5. Pietro, conte Girolamo Orti-Manara, ed al podestà 4 Milano nobile Giuseppe Sebregondi.

«La dignità di ciambellano, parimenti con esenzione delle tasse, al duca Antonio Citta Visconti Arese, al marchese Luigi d’Adda ed al marchese Ottavio Canossa podestà di Verona.

«Il grado di barone al già podestà di Padova nobile Achille Zigno, la nobiltà austriaca all’assessore municipale in Verona Antonio Radice, ad ambedue con esenzione delle tasse.

«l’Ordine delta Corona ferrea di prima classe all’arcivescovo di Milano, consigliere intimo, conte Carlo Bartolommeo Romilli, ai ciambellani e consiglieri intimi conte Cesare Castelbarco, conte Alessandro Pappafava, conte Andrea Cittadella-Vigodarzere, marchese Antonio Busca;

l’Ordine della Corona ferrea di seconda classe a Girolamo nobile Verzeri vescovo di Brescia, Benedetto di Riccabona vescovo di Verona, Giuseppe Cappellari vescovo di Vicenza, Giorgio Hurmuz arcivescovo i. p. ed aba te generale de' PP. Mechitarisli io Venezia; inoltre ai ciambellani duca Lodovico MeIzi d’Eril, e co. Venceslao Albani podestà di Bergamo; la croce di cavaliere dell’I. ordine austriaco di Leopoldo al consigliere aulico presso la Luogotenenza lombarda Giuseppe cav. di Villala, al consigliere aulico e prefetto delle finanze in pensione Pietro Gori, ed al direttore di polizia consigliere aulico Augusto Martinez.

«La Corona ferrea di terza classe al sacerdote nobile Giuseppe Marinoni, direttore del seminario per le missioni estere, al possidente nobile Agostino Sopransi, al conte Pompeo Barbiano di Beigioioso, ed al presidente della Commissione centrale di beneficenza nobile Galeazzo Manna, ai ciambellani marchese Angelo Zurla Rovereti e conte Pietro Vivaldi Pasqua di Casabianca; ai banchieri Sebastiano Mondolfo, Enrico Mvlius Mennet e nobile Giovanni Ballabio; ai consiglieri straordinari dell'Accademia Felice Bellotti e nobile Ambrogio Uboldo di Villareggio, tutti in Milano; inoltre al nobile Clemente Suardi e nobile Guido Carrara Berroa possidenti in Bergamo, Giuseppe Belli professore di fìsica in Pavia, Francesco Panella canonico e direttore della facoltà teologica in Padova, Lodovico abate Menin professore e rettore dell'università di Padova, ai podestà di Vicenza conte Gaetano Valmarana, al deputato prov. in Vicenza, dott. Gio. Battista Clementi, al deputato centrale finora podestà di Verona Giovanni Ferrari, al possidente e scudiere nobile Alberto Parolini in Bassano, al ciambellano e delegato provinciale in Rovigo conte Recanati Giustiniani, al podestà in Rovigo nobile Francesco Venezze, indi al nobile Giuseppe Reali presidente della Camera di commercio in Venezia, al doli. Domenico Angeloni Barbiani deputato provinciale, ed a Giovanni Battista nobile Angeli deputato centrale in Venezia, tutti con esenzione delle tasse.

«La croce di cavaliere dell’ordine di Francesco Giuseppe a Luigi Sessa presidente della Camera di commercio di Milano, nobile Giovanni Piazzoni presidente della Camera di commercio di Bergamo, Michele Barozzi direttore dell’istituto dei ciechi, Francesco Grassi possidente in Milano, Luigi Elena amministratore della casa d’industria di Brescia, P. Francesco Vandoni preposto parroco di S. Alessandro, Gustavo Rluckv intendente di finanza e consigliere di prefettura, nobile Luigi Borgazzi amministratore del Luogo pio Triulzio, Innocenzo Osnago fabbricante di stoffe di seta, Giovanni Schlegel proprietario di uno stabilimento per la costruzione delle macchine, Ambrogio Binda proprietario di una fabbrica di bottoni, Giovanni Rostardi direttore dell’istituto dei sordo-muti in Milano, al fabbricatore di conterie in Venezia Bigaglia, a Giuseppe Mondolfo vice-presidente della Camera di commercio in Venezia, Antonio Rivati direttore ginnasiale, Pietro Piacentini intendente di Finanza, Gio. Battista Pivetta avv. in Padova, Giuseppe dott. Bagatta deputato provinciale, nobile Monga possidente in Verona, Gaetano Grigolato assessore municipale in Rovigo, Giambattista Casellati podestà in Adria, dott. Giuseppe Agosti deputato provinciale in Belluno, Marc-Antonio Gaspari e nob. Bartolommeo Campana assessori municipali in Venezia, nob. Galeazzo Krenlzlin aggiunto emerito della Direzione lombarda delle pubbliche costruzioni, ed a Giuseppe dott. Ferrario presidente onorario perpetuo dell’Accademia fisico-medico-statistica in Milano.

«La croce d’oro del merito colla corona a Luigi abate Meran, custode diaconale della cattedrale in Padova, Luigi Del Curio, arciprete in Rocco, provincia di Sondrio, Giuseppe Labus scultore io Milano, Elena Solerà, direttrice dell’istituto delle dame inglesi in Lodi, alla suora Catterina Santinelli superiora delle monache di S. Vincenzo di Paoli; ed alla suora Teresa Bosio superiora delle Fate-bene sorelle in Milano.

«La croce d’oro del merito a Demetrio Canzani incisore della zecca di Milano, ed a Giuseppe Sacelli ingegnere civile in Padova.

«Inoltre, in ricognizione dei distinti servigli prestati durante l’ultima epidemia del cholera, la croce di cavaliere dell'ordine di Francesco Giuseppe, ai consiglieri medici in Milano e Venezia, dott. Andrea Budini, e dott. Filippo Spongia, al preposto di S. Faustino in Brescia Giovanni Lurani Cernuschi, ed all’arciprete ed abate in Bassano Domenico Villa; la croce d’oro del merito colla corona a' medici provinciali dott. Luigi Ballardini in Brescia, dott. Cesare Tomaselli in Milano, dott. Pietro Nodari in Verona, dott. Giuseppe Serafini in Padova; ai medici municipali in Milano dott. Giacomo Ambrosoli e dott. Giuseppe Stram-bio; al parroco in Comazzo provincia di Como, Damone Introini, ed al parroco extra muro» in Padova Vincenzo Andolfato.

«Inoltre la croce d’oro del merito al dott. Anseimo Sabajni medico comunale in Peschiera, dott. Giuseppe Magni medico distrettuale in Brivio provincia di Corno, dott. Giuseppe Duodo medico municipale in Venezia, dott. Gio. Battista Pasqualigo aggiunto municipale in Venezia, Gio. Battista Renzi deputato comunale in Villafran ca provincia di Verona, dott. Innocenzo Sesio medico comunale in Brentello provincia di Padova, Giuseppe Vecelli segretario comunale in Auronzo provincia di Belluno, dott. Francesco Martini medico comunale in Gallio provincia di Vicenza, e ad Antonio Sperti sacerdote in Belluno.

Addì 2 marzo 1857 S. M. I imperatore d’Austria partiva da Milano dirigendosi verso Cremona ove giungeva con S. M. l’imperatrice e seguito lo stesso giorno. Prima di partire ordinava: «che per la statua di Napoleone, custodita presso l’Accademia di belle arti, venisse subito eretto un conveniente piedestallo a spese dello Stato, e la si collocasse poi sopra di esso nei pubblici giardini della città, al lavoro de' quali si era già posta mano. — Assegnava la somma di austr. L. 30,000 a sussidio di varii Istituti di beneficenza e di poveri si della città come dei dintorni, da distribuirsi con riguardo all’indigenza e merito loro. — Metteva a disposizione della direzione degli Asili di carità per l’infanzia la somma di lire 1000 e largiva l’altra somma di lire 3000 alla chiesa prepositurale dj santa Maria della Passione, a fine di provvedere ai più urgenti ristauri, de' quali abbisognava.»

Anche S. M. l’imperatrice «assegnava al nascente (in allora) Asilo infantile di S. Simpliciano il sussidio di Austr. lire. 500, destinando altresì la somma di Austr. lire 5000 da ripartirsi ai diversi Istituti di beneficenza, cioè al Ricovero pei bambini lattanti, agli. Asili di carità e Scuole per l’infanzia, alle Orsoline delle Vetere, alle Figlie della Carità di S. Michele alla Chiusa, ed ali Istituto del Buon Pastore.

Lo attrito dei partiti, per noi narrati, imperlante provocarono due vive note ministeriali, l’una del conte Buoi, l’altra del conte Cavour, ambe uscite in luce nel Lombardo-Veneto soltanto dopo la partenza da Milano di S. M. l’imperatore. Noi ora le trascriviamo perché sanzionano e garantiscono pienamente le verità che dicemmo intorno al moto che si davano quei partiti cozzanti tra loro con si diverso potere di propositi e dr conati.

Ecco la nota del conte Buoi, ministro degli affari esteri d’Austria, diretta al conte Paar, incaricalo d’affari d’Austria a Torino, in data di Milano IO febbraio 1857.

«Signor Conte

«Il vostro soggiorno a Milano vi ha offerto l’occasione di assicurarvi personalmente delle testimonianze di rispetto, col quale l’imperatore, nostro augusto Sovrano, fu accolto a Milano, e del contento, che la presenza delle LL. MM. II. ha diffuso tra tutte le classi della popolazione. I molti atti di grazia, emanati dall’imperatore, furono accolti con sentimenti di leale riconoscenza, e furono più volle esternati con calde ed animate dimostrazioni.

«S. M. nella sua clemenza, si. è degnata di gettare un velo sul passato; il contegno dei sudditi lombardi ci autorizza ad attenderci che l’avvenire non tradirà la sua generosa fiducia. Nessuno dubita che chiunque abbia osservato senza preoccupazione ciò che passò a Milano nelle ultime settimane, non partecipi a queste impressioni. La fiducia si va ovunque rinforzando, se vi sono ancora degli spiriti, che esitano di abbandonarvisi intieramente, i loro dubbi hanno loro sorgente, non tanto nelle condizioni interne del paese, quanto nell’azione costantemente provocatrice dell'esterno.

«E specialmente l’attitudine del governo piemontese, non ve lo nascondo, signor conte, offese i sentimenti dell’imperatore. Diffatti la stampa piemontese, fedele alle sue abbiette abitudini e al suo odio sistematico contro l’Austria, si prese l’incarico di rappresentare i recenti avvenimenti di Milano sotto un punto di vista, del tutto contrario alla verità dei fatti. La dominazione dell'Austria nel Regno Lombardo-Veneto, rappresentata come priva di ogni titolo legittimo e come l’unica sorgente di tutti i mali della penisola, la calunnia e le ingiurie scagliate a tutti gli atti del Governo imperiale, all’augusta persona dell’imperatore, non che a quegli che gli sono devoti, l'insurrezione, e perfino il regicidio, preconizzati quali mezzi di affrancare l’Italia da quello ch’essi chiamano il giogo straniero, ecco i temi, che i fogli piemontesi non cessano di trattare in tutti i tuoni, e ch’essi hanno in questi. ultimi tempi predicato raddoppiando il loro fiele e la loro virulenza. In vero la mia penna si rifiuta a descrivere tutte le turpitudini, dalle quali quei giornali riboccano: basta spiegarli a caso per trovar in abbondanza prove di convinzione.

Il Governo Sardo, essendosi imposto un contegno perfettamente passivo in presenza di questi attacchi, diretti con inudita violenza contro una potenza amica e limitrofa, si è, per lo meno, esposto al sospetto di non averli voluti scoraggiare. Né questo è tutto. Inviti diretti agli stranieri, nello scopo di farli concorrere alle soscrizioni, con chiasso aperte per rafforzare il sistema difensivo del Piemonte, l’uffiziale accoglienza di pretese deputazioni delle nostre provincie italiane, venute per esprimere la loro ammirazione per una politica, dal loro proprio Governo disapprovata, l’accettazione infine di un monumento, offerto, dicevasi, da sudditi dell’imperatore in commemorazione dei fatti dell’armata sarda, sono altrettante dimostrazioni offensive, le quali, sebben calcolate sulla troppo facile credulità del pubblico, offrono tuttavia un lato molto serio.

«Come, infatti, spiegare che un Governo, che avesse a cuore di mantenere con noi relazioni d’amicizia e di buon vicinato, non abbia trovato di suo decoro d’impedire dimostrazioni, che per le particolari circostanze, che le hanno accompagnate, manifestano intenzioni tanto palesi e cosi direttamente ostili ad una potenza amica? Il Governo Sardo, permettendo che le memorie della guerra e delle passioni rivoluzionarie, ch’ella aveva suscitato, siano senza posa pubblicamente evocate e perpetuate, crede forse di adempiere bene alle condizioni del trattato di pace, la prima delle quali stabilisce che in avvenire, e per sempre vi sarà pace amicizia e buona intelligenza tra' due Sovrani, i loro Stati e i loro rispettivi sudditi? Se pure si opponesse che la legislazione del paese è impotente ad impedire atti di tal natura, non potremo liberare perciò il gabinetto di Torino dal rimprovero di aver fatto credere di essersi associato colla sua tolleranza alle speranze di un partito, la cui ultima parola è l’abolizione dei trattati, che hanno fissato le circoscrizioni territoriali esistenti attualmente in Italia.

«Il Governo sardo, ci fece, egli è vero, più di una volta giungere, in via confidenziale, l’espressione dei sho dispiacere e del suo biasimo sui traviamenti del giornalismo. Di più, scusandosi sull'impossibilità di non potere da sé prendere l’iniziativa del processo, ci ha spesso rimandati ai Tribunali incaricati di far giustizia pegl’insulti della stampa. Ma voler chiedere in giudizio soddisfazione contro ogni articolo, che meriterebbe casti go, non sarebbe lo stesso che condannarci a fare quotidianamente il mestiere di pubblico accusatore. Questa parte, lo confessiamo, ci parrebbe poco degna del nostro Governo. Fatta astrazione da questa considerazione, gli attacchi della stampa rivoluzionaria del Piemonte non hanno soltanto in mira gli atti del Governo imperiale, ma attaccano anche il principio monarchico stesso; vanno fino a scavare i fondamenti di tutto l’ordine sociale. Considerando la cosa da questo iato, non sarebbe forse il gabinetto stesso di Torino chiamato ad accorrere il primo alla difesa d’interessi cosi gravi, ed a rimediare ad un male, che minaccia egualmente il riposo e la sicurezza del suo proprio paese, come degli altri Stati, verso ai quali ha doveri internazionali da adempiere? Comunque sia, signor conte, l’imperatore è obbligato dalla sua propria dignità a non lasciare ignorare al Governo sardo il rincrescimento, che gli cagionò l’insieme di questo procedere.

«Il conte di Cavour avrà ad indicarvi quali mezzi pensa egli d’impiegare per cancellare queste dispiacevoli impressioni, e quali sono le garanzie, ch’egli può offrirci contro la indefinita prolungazione di uno stato di cose così diametralmente opposto al desiderio, di cui siamo animati, di mantenere col Piemonte rapporti quali i veri interessi dei due paesi richieggono. Riservandoci di regolare in conseguenza la nostra tallirà condotta, v’invito signor conte, per ordine dell’imperatore, a comunicare questo dispaccio al signor presidente dei consiglio, e ad informarmi delle spiegazioni che avrete in risposta ricevuto.

Gradite, ecc.

Buol.»

Ecco la nota del conte di Cavour, ministro degli affari esteri di Sardegna, diretta in data di Torino 90 febbraio 1857 al marchese Cantano, incaricato d’affari di Sardegna a Vienna.

«Signor Marchese

«Il conte Paar, tornato appena da Milano, è venuta a darmi lettura di un dispaccio che il conte Buoi gli aveva diretto, dal quale troverete qui unita una copia, per dolersi dell’attitudine del Governo Sardo, e fargli conoscere il risentimento che la sua condotta aveva Tatto provare all’imperatore d’Austria.

«Sebbene io non abbia esitato a dare sull’istante al conte Paar spiegazioni, che mi sembravano tali da respingere vittoriosamente i rimproveri che c’indirizza il Governo imperiale, ho stimato conveniente di far pervenire al signor ministro degli affari esteri d’Austria, per vostro mezzo, sig. marchese, una risposta categorica e formale.

«Il sig. conte di Buoi si duole degli attacchi della stampa piemontese, delle manifestazioni provocate, dicesi, nelle altre provincie d’Italia in favore di una politica che non riceve l’approvazione del Governo imperiale; finalmente egli insiste sull'accettazione di fin monumento, che dicesi offerto dai milanesi all'esercito sardo. Rendendo il governo piemontese responsabile di questi fatti, il sig. conte di Buoi l’accusa in certo modo, di non adempiere le stipulazioni del trattato di pace concluso a Milano.

«Io non mi accingerò a giustificare la stampa nazionale dai rimproveri, che il conte Buoi le dirige. Non esito ad ammettere, non solo, come dice questo ministro in via confidenziale, ma pubblicamente altamente com'è mia abitudine farlo, ch'essa si abbandona talvolta ad eccessi eminentemente deplorabili, che si permette attacchi contro la persona dell'Imperatore, i quali io condanno apertamente. Ma ciò che io mi credo in diritto di sostenere si è che le critiche della stampa contro gli atti del Governo austriaco non possono creargli gravi imbarazzi; e che quanto agli attacchi contro I Imperatore, sarebbe facile di farli cessare, valendosi dei mezzi che la nostra legislazione somministra per reprimere i delitti di questo genere.

Come i giornali che combattono la politica austriaca possono essi incagliare l’azione del Governo imperiale quando la loro introduzione nelle provincie soggette all’Impero è severamente proibita? Qualunque possa essere la loro influenza nell’interno del nostro paese (e quest'influenza è ben debole), la loro azione è nulla atropi posta sponda del Ticino. Le asserzioni, contenute nel dispaccio del conte Buoi sull’accoglienza che l'Imperatore ha ricevuta a Milano, ne sono una prova, ch’egli non potrebbe mettere in forse.

«La libera discussione degli alti del Governo forma una delle basi del regime politico vigente in Piemonte, come in molti altri Stati di Europa. Osiamo asseverare che questa libertà vi produce eguali vantaggi e minori inconvenienti che altrove. La profonda pace di cui noi godiamo, l'unione tuttodì più intima del paese e del trono, lo provano sino all'evidenza; e quanto ai Governi esteri, non crediamo potersi sostenere che i nostri giornali siano più violenti e più acerbi de' giornali inglesi e belgi.

«Gli attacchi che i giornali della Gran Brettagna hanno diretto contro il Governo dell’Imperatore d’Austria, non sono stati né meno virulenti né meno acerbi di quelli contenuti nei nostri giornali; il che non ha impedito all’Austria di ricercare, lorquando l’ha creduto conforme a' suoi interessi, l’alleanza e l’amicizia dell'Inghilterra e di mostrarsi soddisfatta ed altera de buoni rapporti, ch'essa ha ristabiliti con quella potenza.

«Perciò che concerne gli attacchi contro fa persona dell’Imperatore, non solo io ripeterò la completa disapprovazione, che ho dinanzi manifestata, ma non esito ad esprimere il dispiacere che il Governo imperiale non ci abbia posto in grado d’impiegare i mezzi, che gli avrebbero fatti cessare, reprimendoli in una maniera efficace.

«Sapete, sig. marchese, che noi abbiamo introdotto nella nostra legislazione speciali disposizioni per questa categoria di delitti della stampa, che ne rendono la repressione più sicura, più severa, che in alcun altro paese, dove il principio della libertà di discussione è riconosciuto. Il sig. conte Buoi confronti la nostra legislazione in questo riguardo con quelle del Belgio e dell'Inghilterra e riconoscerà l’esattezza della mia asserzione.

«D’altronde, l’esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato l'efficacia della repressione. Tutti i Governi esteri, che hanno voluto servirsi dei mezzi, che forniscono le nostre leggi per punire gli attacchi contro i loro capi rispettivi, hanno veduto quegli attacchi puniti in modo da farli cessare completamente. Lo stesso sarebbe avvenuto, ed avverrebbe ancora certamente, a riguardo dell'Imperatore d'Austria, se il suo Governo avesse voluto imitare l’esempio della Francia e della Spagna.

«Il sig. conte Paar, cui ho rivolto quest'osservazione, mi ha obbiettato il fatto dell'Espero, incolpato d’ingiurie contro l’Imperatore e colpito di una pena leggiera. A questa risponderò anzi tutto che, in fatto di delitto di stampa, è più la condanna del giornale, che la gravità della pena, che ha importata. Aggiungerò che il tribunale ha potuto essere indotto ad indulgenza, si# perché si trattava della prima procedura per un attacco contro l’Imperatore d’Austria, dopo una lunga tolleranza; sia perché il Governo imperiale aveva lasciato trascorrere un lunghissimo intervallo fra la pubblicazione dell'articolo incriminato e l'istanza che ha provocato il processo, cui egli ha dato luogo. É fuori di dubbio che una seconda volta, specialmente se l’istanza fosse immediata, i tribunali si mostrerebbero assai più severi, com’essi si sono mostrati inverso i giornali, che avevano f abitudine di attaccare l’Imperatore de' Francesi.

«Il conte Buoi non potrebbe rendere il Governo sardo solidario di questi attacchi se non in quanto questo si rifiutasse d’usare i mezzi, che la legge gli accorda per reprimerli. Ma dal momento ch'esso dichiara di essere pronto ad applicarli nella pienezza del suo rigore, purché il Governo dell’Imperatore lo domandi, una tal accusa sembra destituita d'ogni solido fondamento..

«Udendo le acerbe rampogne, che il conte Buol dirige alla stampa sarda, si sarebbe indotti a credere che la stampa austriaca conservi a riguardo dei sovrani e dei Governi esteri la misura più perfetta, eh essa non oltrepassi mai i limiti assegnati dalla moderazione e dal la convenienza. Nulla per altro di tutto questo.

Lungi da ciò, i giornali austriaci, quelli soprattutto che si pubblicano in Lombardia, riboccano d ingiurie e di attacchi contro il Governo sardo, né tampoco risparmiano la persona del Re e quelle dei membri della sua augusta famiglia. Mi sarebbe facile assunto l’appoggiare quest'ultima asserzione con numerose prove; mi limiterò a richiamarvi a memoria il linguaggio dei fogli di Milano e di Verona a riguardo di un augusta Principessa, prossima parente dell’imperatore d’Austria, linguaggio che ha motivato, se io sono ben informato, energiche rimostranze da parte della real Corte di Sassonia.

«Se il sig. Buoi crede aver a lagnarsi della violenza di una stampa affatto libera, che non penetra negli Stati austriaci, che potremmo noi dire di una stampa soggetta ad una severa censura, che non risparmia le instituzioni più che gli uomini politici del nostro paese, e che circola liberamente fra noi? In Piemonte, se l’attacco è libero, l’é egualmente la difesa. L’Austria, attaccata da una parte della stampa, è difesa, non solamente dai giornali che a noi vengono di là del Ticino, ma anche da un certo numero di fogli che si pubblicano negli Stati del Re.

«In Lombardia, all'opposto, il solo attacco è permesso; i giornali vi riproducono impunemente gli articoli più odiosi dei giornali contrarii al Governo del Re, e contengono frequentemente ingiurie ed insinuazioni personali contro gli uomini di Stato del Piemonte, i quali provarono quello stesso dispiacere, che certi fogli sardi fanno provare al conte di Buoi.

«Ma ciò non è ancor tatto. Il conte Buoi accusa il Governo del Re di rimanere indifferente alla polemica ardente dei giornali. Certamente, non si può dire altrettanto dell’Austria. Gli articoli, che contengono i giornali ufficiali che il Governo inspira, provano che il Gabinetto di Vienna approva o dirige gli attacchi onde noi siamo l'oggetto. In vero, dopo di aver letto un articolo di fondo della Gazzetta ufficiale di Milano, la cui sorgente non si potrebbe rivocare in dubbio, e in cui i ministri dei Re sono paragonati ai Robespierre e ai Cromwell, reca maraviglia l'acerbità delle querele, che la tolleranza degli uomini di Stato del Piemonte ispira al conte Buoi.

«Ma non è solo in nome dell’Austria che il ministro imperiale degli affari esterni si duole della nostra tolleranza. Esso ci accusa d’incoraggiare le dottrine più funeste, di lasciare scalzare le fondamenta del trono e di distruggere il sentimento monarchico.

«I risultati, che la politica seguita dal Governo del Re ottenne, smentiscono queste accuse. Ogni uomo di buona fede, che esamini lo stato attuale del paese, anche superficialmente, è costretto di riconoscere che il principio monarchico, scosso forte dagli avvenimenti del 1848-49, si è progressivamente fortificato ed ha racquietato una solidità irremovibile. Le dimostrazioni spontanee e unanimi, che accolgono il Re in ogni parte dei suoi Stati, in quelle anche dove non esiste un legame tradizionale di affezione e rispetto, ne sono la prova manifesta. Ma ciò che dimostra ad evidenza la verità del nostro asserto, è l’impotenza a cui si trova ridotto il partito repubblicano.

«Questo partito» il quale non era senza influenza all’epoca dell'avvenimento al trono del Re Vittorio Emmanuele, vide diminuire a tale, sotto l'impero della libertà, i suoi mezzi e le sue forze, che ha dovuto lasciare estinguersi il suo solo organo nella stampa periodica, l’Italia e Popolo, e ciò non sotto i colpi de' processi e delle condanne, ma in seguito della riduzione progressiva del numero de' suoi abbonati.

«Questo fatto mi pare la confutazione più eloquente delle accuse antimonarchiche, che ci indirizza il conte di Buoi.

«Dopo di aver esaminata la questione della stampa, che costituisce la parte più importante del dispaccio del conte di Buoi, io toccherò più rapidamente gli altri argomenti, eh essa tratta.

«Quanto alle dimostrazioni, che si asserisce essere state provocate in. altre parti dell'Italia, noi sfidiamo qualunque di citare un sol fatto, derivante dal Governo del Re, avente un simile scopo. Avendo il Governo piemontese rivolta I attenzione del Congresso di Parigi sulle condizioni dell’Italia, e dimostrato la necessità di migliorare la sua sorte con mezzi pacifici e legali, la sua politica eccitò, senz’ altra provocazione, testimonianze di gratitudine e di simpatie per parte di un gran numero d individui dei diversi paesi della penisola.

«Nulla v'ha in ciò, che conferisca diritto all'Austria di lagnarsi. Ella altresì, pur differendo circa i mezzi da adoperarsi, riconobbe esservi luogo a modificare lo stato delle cose in Italia. Ha fatto più che riconoscerlo ne’ suoi discorsi. Cogli atti testé compiuti, con quelli che si annunziano prossimi a compiersi, essa provò co fatti che le asserzioni dei plenipotenziarii sardi non erano destituite di fondamento, e che l’approvazione, incontrata dai loro sforzi, non può essere imputata come un atto direttamente ostile all’Austria.

«Passando alla questione del monumento, che si tratta di erigere a Torino all'armata sarda, osserverò primieramente che il Governo del Re vi è compieta-mente estraneo. Avendolo alcune persone interpellato per conoscere se accetterebbe un dono fatto a nome dei 'Milanesi, loro rispose con un rifiuto netto e positivo. L’offerta fatta al Consiglio municipale è stata accettata. Il Governo non poteva e non doveva impedirlo, poiché essa era fatta senza condizioni, a nome di persone ignote, il che costituisce un vero dono anonimo.

«Ma se il Governo regio non ha potuto impedire il dono di una somma per rizzare un monumento all’armata sarda, destinato a ricordare particolarmente la spedizione di Crimea, esso non permetterà che nulla sia in quel monumento, che possa ferire la suscettibilità dell'Austria e della sua armata, né che vi si scolpisca iscrizione, che lasci pensare essere stato innalzato da individui sudditi dell’Austria.

«Dopo di aver risposto ai rimproveri del ministro imperiale degli affari esterni, io potrei alla mia volta enumerare le accuse, a cui diè luogo la condotta del Governo austriaco verso di noi, dal sequestro posto sui beni dei Lombardo-Veneti, divenuti legalmente sudditi sardi, sino all'espulsione violenta, e non motivata, da Milano di uno dei membri più distinti del Senato del Regno. Ma preferisco di non seguire sul terreno delle recriminazioni il ministro degli affari esterni d’Austria, per non esacerbare una discussione, che non ci pare poter produrre risultati vantaggiosi pei due paesi.

«Voglio credere che le spiegazioni, contenute in questo dispaccio, di cui lascierete una copia al conte Buol, e gli svolgimenti, che la vostra conoscenza del pensiero del Governo reale la porranno in grado di dare, convinceranno il ministro imperiale degli affari esterni che, comunque decisi a mantenere a qualunque costo le istituzioni, che formano la prosperità e la gloria del nostro paese, noi abbiamo tuttavia la ferma intenzione di adempiere verso i nostri vicini, in tutta la loro estensione, gli obblighi e i doveri, che il diritto delle genti e i trattati c’impongono.

Aggradite, ecc.

«Cavour.»

Addì 4 marzo l'imperatore d’Austria con suo Rescritto condonava la pena a sei condannati degenti nelle carceri criminali di Cremona, e con altro Rescritto del 5 condonava il resto della pena ai condannati degenti nelle carceri criminali di Mantova: Allegretti Luigi, Ferra ri Pietro, Mantovani Carlo, Lorenzi Angelo, Morelli Giovanni Battista, Bulgarelli Giuseppe, Gavioli Luigi, Zecchi Ignazio, Pompoli Domenico. Coll’Augusta sua Consorte e col suo seguito di Corte, dopo di essersi fermato a Mantova, a Treviso ed in altre città del Veneto, S. M. faceva il suo ingresso in Gorizia il giorno 8 marzo. Dappertutto nel suo passaggio pelle provincie lombarde-venete, oltre alle concessioni ed elargizioni che dicemmo, distribuiva ingenti somme a' poveri, ai luoghi pii, ai conventi, alle chiese, concedeva decorazioni, titoli, è cariche senza risparmio ai ricchi. Intanto la camarilla, la petulante aristocrazia, molta parte del clero, molta parte degli impiegati e tutti quelli che formavano il partito in favore del principe Massimiliano, continuavano ancora per qualche tempo a magnificare i benefizii ottenuti dai Regno dalla munificenza dell'imperatore, mentre tutti gli altri, uniti al Piemonte, formando un immenso coro declamavano che le concessioni elargite dallo Imperatore a pro' del Regno consistevano solo nell'aver tolte le ristrettezze dei passaporti e nell'aver concessa la generale amnistia. E perché non separò il Regno Lombardo-Veneto dall'Impero? Perché invece di creare un Governatore generale in suo fratello Ferdinando Massimiliano, non creò un Sovrano del Regno, tributario allo scettro imperiale? Perché non diede almeno una costituzione? A tutte queste domande, si rispondeva: Attendiamo il Principe, egli farà il resto, egli otterrà tutto! Questa era la voce che spaziava in un avvenire incerto, ch'era creduta e non creduta, e che allettava i parziali alla causa austriaca.

Addì 7 marzo usciva in luce a Milano il primo numero dell’ardilo, nobile e tanto accetto giornale umoristico illustrato il Pungolo, il quale faceva magnificamente ed assai opportunamente le veci del suo confratello. Quel che si vede e quel che non si vede che pubblicavasi a Venezia, morto di morte improvvisa per opera della polizia il 9 gennaio 1857 per essere disceso nel terreno della politica. E dappoiché abbiam sotto le mani la stampa pubblica di quei dì, ci giova ricordare che i periodici austriaci si scagliavano virulenti contro la Nola di Cavour spedita in risposta a quella del conte Buoi, e la trinciavano e la manomettevano in istrania guisa dichiarandola audace, petulante, indiscreta, insolente, impertinente e meritevole di altissimo biasimo. Perocché il Piemonte «anziché tenere senza cessa agitati i popoli italiani, doveva per opera ed auspice Cavour, unirsi alle intenzioni deh l’Imperatore d’Austria nella grande missione ch’ei si dava (l’Imperatore) di rigenerare il Lombardo-Veneto onde offrire agli altri Stati d’Italia un valido esempio, che gradatamente sarebbe poi stato imitato. A queste declamazioni contrapponevansi sferzate a dritto ed a rovescio, a proposito ed a sproposito, a destra ed a sinistra con singolare imperturbabilità e con cinica perseveranza. Ma la stampa liberale italiana ed estera non curandosi di quelle grida recriminava invece la condotta del governo napoletano tenuta verso ai prigionieri politici condannandola alla pubblica infamia. Però quella condotta cotanto fulminata da tutte parti del globo civilizzalo trovò, in alcuni ritagli o scarti della pubblica stampa, dei cantastorie che la encomiavano, dichiarando elisi di tranquillità, di contento e di pace, le prigioni del Regno delle due Sicilie, «specialmente dopo che la clemenza del Re Ferdinando seppe porle sotto la protezione dei RR. PP. Gesuiti che le custodivano e governavano con evangelica carità.» Nondimeno, i fortunali condannati che trovavansi sventuratamente rinchiusi in quelle carceri salutari rifiutavano quella sorveglianza come rifiutavano di venire deportati in Argentina, per quantunque la fregata, Il Fernando stesse sempre pronta in porto per tale uffizio.

Il parlamento sardo frattanto nella seduta del 16 marzo, votava con una maggioranza di 106 suffragi) contro 14, la spesa straordinaria di lire 5,200,000 per le fortificazioni di Alessandria, alle quali erano già concorse le oblazioni di tutta Italia, santificando quella fortezza, come il primo baluardo della patria indipendenza. Quella determinazione delle Camere sabaude fu oggetto di molti commenti, e già pronosticavasi vicina la interruzione delle relazioni diplomatiche fra le Corti di Vienna e di Torino. Il concorso di tutta Italia (il concorso intendiamoci bene del partito della indipendenza italiana. ch'era, come più volte dicemmo, assai numeroso ed esteso) per le fortificazioni di Alessandria non poteva che ferire l'amor proprio dell’Austria, non tanto perché quella cittadella venisse fatta più forte, quanto perché ledeva in modo aperto ed altamente significante la influenza, eh ella seppe in tanti anni e con tanti mezzi procacciarsi nei diversi Stati d’Italia. L'armamento d’Alessandria offriva all'Austria argomento di reclami e di rincrescimento: tanto più che vi si aggiungevano le dimostrazioni di simpatia e di affetto tributato dagli italiani alla politica piemontese.

Similmente al governo di Napoli, che faceva celebrare le lodi alle carceri dei detenuti politici, cosi quello di Roma pubblicava per mezzo de' suoi organi offiziosi tali delizie delle carceri pontificie da far quasi invidiare la sorte di quelli che vi venivano dentro chiusi. Se non se, un fatto avvenuto il U marzo gittò lutto ad un tratto a terra l’edifizio innalzato dalla stampa pontificia intorno a quelle delizie carcerarie. I detenuti politici delle carceri di Paliano, stanchi delle delizie che godevano nella loro reclusione, pensarono di trovar modo di uscir di là per respirare un’aria più libera. Laonde, ammutinatisi si ribellarono disubbedendo agli ordini di ritirarsi nei loro camerotti,, ma nella vece, unitesi fra loro le varie sezioni, assalirono i custodi e le guardie con quanto a caso capitava alle lor mani. Staccarono porte, atterrarono muri, presero le chiavi al custode, montarono sui tetti, e, riuscendo fuori del maschio, discesero nella cosi detta piazza d’armi. Urgeva impadronirsi della caserma della guarnigione e della gendarmeria; ma come fare senz’ armi? L’amore della libertà aguzzò loro l'ingegno. Veduta la impossibilità di attirare alle loro idee i soldati, si arrampiccarono su pelle ferriate delle finestre, e con grande rischio della vita guadagnarono la seconda volta i tetti, non del maschio, ma sibbene della caserma. Colà giunti si diedero a tutta possa a scoperchiare il tetto sperando di calarsi giù per di là. Ma fu dato intanto l'allarme in tutta la fortezza, fu suonato a raccolta, e venne sopralluogo un distaccamento militare a dar aiuto ai carabinieri. Il comandante, veduto il pericolo, ordinò si facesse fuoco sopra i prigionieri. Cotestoro si difendevano dai tetti, gittando giù sui soldati, pietre, tegole e mattoni.

Questa difesa però non potè durare lungo tempo, avvegnacché le palle di fucile decimavano la piccola compagnia degli inermi condannati. Quattro di loro rimasero uccisi e cinque feriti. Gli uccisi sono: Giovanini di S. Arcangelo, Ruffini Luigi di Acquasanta, Cecchini Antonio di Fuligno, Pasqualoni Carmini di Napoli. Dei cinque feriti due morirono due giorni dopo e sono: Cecchini Crispolto di Stroncone, Mirri Antonio di Bagnacavallo. Gli altri, vedendo riuscir vana ogni difesa, si arresero alla forza maggiore discendendo di là, e ritornando nella loro prigione. La stampa uffiziale fece pubblicare il doloroso fatto magnificando il valore de' suoi soldati e dei suoi gendarmi, i quali non seppero trovare altro modo di sedare quel disordine tranne quello di scaricare i loro fucili contro uomini inermi, rifiniti ed affranti dai patimenti di una lunga carcerazione.

L’Italia, il giorno 18 marzo, vestiva la gramaglia per la morte di uno dei migliori e de' più dotti e stimali suoi figli. Il cav. Pier Alessandro Paravia, nato a Zara, il 9 novembre 1797, professore di eloquenza italiana e di storia nella Università di Torino mancava a' vivi nel generale compianto. Venezia poteva risguardarlo come suo figlio, ella lo aveva educato nelle lettere donde divenne poi si distinto da meritarsi l'universa italiana estimazione. Il sig. E. A. Cicogna, in quella funebre circostanza, dettava i seguenti due distici:

«In obitum clarissimi viri»

«Pbtri Alexandri Paravia»

«Occidit eloquio insignis dum Petrus, Jadra.»

«Adria, Taurinum tristia fata dolenti.»

«Illa ortum, ista dedit studium, sed tertia famam.»

«Die mihi, cui maior caussa doloris inest?»

Il giorno 23 marzo giungeva a Venezia il nuovo Governatore generale, l’arciduca Massimiliano col nume roso suo seguito. Egli venne accolto dai Veneziani ab bastanza con favore ed amorevolezza. Egli doveva tenere una Corte colle pompe e lo splendore di un Viceré; egli si addossava un incarico altamente difficile, in tempi ne quali tutti i regnicoli avevano delle esigenze e dei bisogni da soddisfare. «Egli farà quello che non ha fatto l’augusto suo fratello», ecco la voce, ecco la speranza, ecco la esigenza, che ovunque circolava. Tutti lo sapevano giovine, lo credevano elevalo di mente e di cuore, generoso, di principii liberali, e tanto più da lui, fornito di tali doti, esigevano: Esigevano perché aveva mente e cuore, perché era generoso, perché era liberale, e perché lo sapevano influente sull’animo dell'Imperatore suo fratello. D’altronde egli aveva manifestato in più di una occasione una mente fornita di vaste cognizioni, e di alta cultura, quando visitava, accompagnando il Fratello suo, le accademie ed i pubblici stabilimenti del Regno. Aveva dato saggi inoltre di una grande attività, ed i Veneziani lo avevano veduto giungere in poche ore, notte tempo, da Trieste all’Arsenale, quando vi si appiccava il fuoco (fatto creduto doloso), dar ordini tali da ripararvi in poche ore, e dimettervi anche il cassiere, che venne poi processato.

E quindi non è da maravigliarsi se egli avesse su di lui gli occhi di tutti, e se tutti i suoi passi venissero posti sopra una severa bilancia, perché i regnicoli, per quanto dicemmo, molto da lui speravano, e molto esigevano.

Nello stesso tempo che il principe Massimiliano giungeva a Venezia, il co. Paar, incaricato d’affari di S. M. l'Imperatore d Austria presso la Corte di Torino, partecipava al ministro degli affari esteri co. Cavour, di aver ricevuto dal suo Governo l’ordine di richiamo da Torino con tutta la sua Legazione. La cura quindi degli affari correnti della Legazione austriaca veniva affidata alla Legazione del re di Prussia. Anche da Vienna veniva richiamato l’incaricato d’affari della Sardegna, marchese Cantono, presso l’Imperatore d Austria, e l’Ambasciata imperiale francese assumeva cortesemente la protezione dei sudditi sardi nell’impero austriaco. Per questo avvenimento, Torino, asciugate le lagrime sparse per la morte del Paravia, si atteggiò a festa, ed il contento, provocato dalla partenza della Legazione austriaca, si manifestò pubblicamente e quasi generalmente.

Ma un proclama stampato frattanto distribuivasi nel Piemonte in favore di Murat. Quello scritto, incendiario per sua natura, era un appello alle milizie ed ai popoli napoletani d’insurrezionarsi, cangiar governo e Re, e di stringersi in alleanza col Piemonte nella idea del riscatto d’Italia. «Quello scritto, come dicevano gli austriaci, pubblicato in Piemonte, permettente o connivente il Governo Sardo, era una nuova infamia, che eccitava l’ira dei buoni e del governo d'Austria, epperò tutte le grandi potenze avrebbonsi dovuto unire fra loro nello intendimento di mostrarne la loro disapprovazione e minacciarne il Piemonte.»

Quelle però non furono che parole, alle quali pochi abbadavano, mentre la esistenza del fatto della rottura diplomatica tra l’Austria ed il gabinetto di Torino, suscitava speranze sulla possibilità di avvenimenti che tornar potessero vantaggiosi alla causa italiana. Quella rottura venne provocata dalla seguente istruzione dell'i. r. Ministro degli affari esterni, conte Buol-Schauenstein, all'i. r. incaricato d’affari a Torino, conte Paar, data da Vienna nel 16 marzo 1857.

«Signor conte

«Immediatamente dopo il ritorno di S. M. l’Imperatore nella sua capitale, Ijo preso gli ordini augusti di essa intorno al dispaccio del 20 febbraio del conte di Cavour, dispaccio che forma risposta alle lagnanze, che voi avevate avuto istruzione di presentare al suddetto ministro.

«Mi trovo ora in grado di ripetervi le impressioni, prodotte da quel documento nell'Imperatore, e di segnarvi nel modo seguente la regola del vostro contegno.

«Le dichiarazioni, fatteci dal conte Cavour, sono ben lontane dal soddisfarci in tutti i punti. Senza dubbio, quel ministro confessa altamente e pubblicamente essersi la stampa piemontese abbandonata ad eccessi immensamente deplorabili. Egli li condanna apertamente. Prendiamo volentieri atto di una confessione, fatta con tanta franchezza. Sappiamo apprezzare il sentimento, che ha prodotto tale dichiarazione. Sebbene noi senza dubbio riconosciamo I accordo delle reciproche nostre opinioni su tal punto, ci sarebbe però impossibile di assodarci alle osservazioni, colle quali il conte Cavour accompagna la suddetta dichiarazione.

«Pare in fatti che il signor presidente del Consiglio si creda svincolato da ogni obbligazione di reprimere gli abusi di stampa, che pur ammette, dal momento in cui ha indicato allo straniero Governo la via giudiziale, qual mezzo principalissimo di riparo.

«Sembra che voglia liberare sé stesso da ogni responsabilità, assegnando agli stranieri Governi semplice-mente, e senza più, la iniziativa onde reprimere simiglienti soprosi.

«Quel modo di vedere non è il nostro. Sistema simile potrebbe, in ogni caso, essere sufficiente pegli ordinarli, vorrei dire accidentali abusi, dai quali anche la stampa più riputata non andrà mai esente; ma non crediamo che tale contegno passivo del Governo locale possa giustificarsi, allorché i traviamenti della stampa si presentino, come nel presente caso, nella forma di stabile sistema, che in sé racchiude gli attacchi più manifesti ai trattati; allorché in somma la violenza e l'impudenza di quei traviamenti vengano spinte fino ad eccitare apertamente la ribellione nel paese vicino, e perfino a fare l’apologia del regicidio. A fronte di tale inudito disordine, persistiamo nella nostra opinione, che l'onore ed il dovere di ogni Governo esigano ch'ei faccia valere la propria autorità, e che provi coi fatti, non solo di voler egli stesso rispettare i trattati, ma eziandio di non avere, in alcun modo intenzione di tollerare attacchi a quei trattati da parte de' proprii sudditi.

«Se abbiamo noi esattamente compreso l’importanza della risposta del conte Cavour, sembra che quel ministro creda che le nostre lagnanze si restringano unicamente e soltanto alla polemica dei giornali, ìnentr’esse ebbero eziandio per oggetto l’incoraggiamento, sì tacito che espresso, che quella stampa trova nel contegno dello stesso governo.

«Il conte Cavour ci dà assicurazione di non permettere mai che sul monumento, da erigersi in onore del-l'esercito sardo, venisse fatta comparire alcuna cosa, che offendere potesse i nostri sentimenti e quelli del nostro esercito: assicurazione, relativamente alla quale dobbiamo deplorare di essere stati posti in situazione di provocarla, e che, in ogni circostanza, avrebbe avuto per noi importanza maggiore se ci fosse stata data d’impulso volontario. Riconoscendo del rimanente l'intenzione, ch'è base di tale dichiarazione, ci permettiamo osservare che, allorché il co. Cavour parla di semplici prove di simpatia pervenutegli dalle nostre provincie italiane e dalle altre parti della penisola, egli evita affatto di parlare del carattere e della tendenza politica di tutta la schiera delle pretese deputazioni, che furono personalmente ricevute dal sig. Ministro. Eppure quella circostanza ci sembra di natura assai grave, e ben atta a racchiudere in sé, se non un incoraggiamento apposito alla ribellione, almeno però la tendenza di rallentare i legami che stringono i sovrani legittimi ed i loro sudditi.

«Senza dubbio, il conte di Cavour attesta, in nome del suo governo, la ferma intenzione d’adempiere verso i suoi vicini, nella piena loro estensione, gli obblighi e doveri, impostigli dal gius delle genti e dai trattati. Ma ci permetta di domandare, se la indulgenza colla quale crede di dover contemplare gli attacchi incessanti della stampa contro il possesso territoriale fondato nei trattati, stia in armonia colle sue assicurazioni, se specialmente l’accoglimento personale da lui fatto a quei numerosi indirizzi, tutti ripieni dei sogni vani dell’unità d’Italia, tutti svelanti la tendenza di allontanare i sudditi dai loro doveri verso i proprii Governi, sia conciliabile colla lettera e collo spirito del trattato di pace, col quale il Re di Sardegna ha rinunziato a qualunque titolo e pretensione sul territorio situato al di là del confine sardo, fissato dall'Atto finale del Congresso di Vienna. Crede il signor co. Cavour col ricevimento di tali deputazioni, e coll'accoglimento d’indirizzi simili da parte di sudditi stranieri, che non sono legali da nessun nodo speciale alla Sardegna, crede egli d’aver dato giusta espressione a doveri internazionali del Piemonte verso l’Austria e verso i suoi altri vicini di confine? E la sua coscienza non gli farebbe il rimprovero d’aver con tali alti incoraggialo le male passioni e dato alimento agli attacchi continui di una stampa malevola.

«Intorno a questo punto ci crediamo in diritto d’attenderci dal co. Cavour dichiarazioni. Queste sole possono offrirci la giusta misura del valore, che attribuir possiamo alle sue assicurazioni di voler rispettare i trattali.

«Che se, finalmente, fossimo anche pronti a trasandare il passato ed a riguardare I assicurazione, data dal conte Cavour, qual segno di miglior avvenire, non ce ne ha tolto egli il mezzo, giacché, nel momento appunto della consegna del dispaccio, che manteneva quell’assicurazione, la Corrispondenza italiana litografata, che vien pubblicata a Torino, avente la stessa data, c’ informò, che il sig. presidente del Consiglio aveva ricevuto una deputazione di cittadini di Alodena e di Reggio, che parlò dei legami che la forza poteva ben momentaneamente spezzare, ma che la fedeltà conserva nei loro pieno vigore? Ci appelliamo alla buona fede del conte Cavour, domandandogli: Il ricevimento di quell'indirizzo, il quale è ben notorio, non è un fatto isolato, accordasi forse col rispetto dovuto ai trattati, e coll'assicurazione, che contemporaneamente ci ha dato? 0. crederebbe egli forse che potessimo trovare soddisfazione per tale lesione dei trattati in un processo di stampa, fondati sull'unica circostanza che il redattore di un giornale ha osato di pubblicare un fatto derivato dal ministro del Re, od almeno da lui mai negato.

«Il conte Cavour lungamente si estende sugl'insulti della stampa austriaca, i quali, dato anche che fossero veri, non muterebbero in verun modo la natura della questione; ma la lagnanza, che gli abbiamo fatto, non gli dà in verun modo occasione di rimediare al male, che abbiamo accennalo. Egli non ha trovato nemmeno una parola per farci sperare che tale situazione si anormale sia per cessare. Invece, tutto ci fa attendere ch’egli non pensi in verun modo a rinunziare ad un contegno, i cui risultamenti gli appariscono tanto soddisfacenti.

«Fino a che questo stato di cose non avrà subito verun mutamento, non è conforme alla dignità dell’imperatore di lasciare più lungamente a Torino il suo rappresentante diplomatico, come testimonio giornaliero di dimostrazioni, che più o meno hanno ad iscopo di smuovere la fedeltà dovuta ai trattati, e di condurre nuove complicazioni. Per questo motivo, signor Conte, v’invito ad abbandonare Torino, ed a renderci personalmente conto delle ulteriori spiegazioni, che il sig. presidente del Consiglio potesse forse trovarsi indotto a darci. Potete, mettendo il conte Cavour in cognizione della vostra a quei numerosi indirizzi, tutti ripieni dei sogni vani dell'unità d’Italia, tutti svelanti la tendenza di allontanare i sudditi dai loro doveri verso i proprii Governi, sia conciliabile colla lettera e collo spirito del trattato di pace, col quale il Re di Sardegna ha rinunziato a qualunque titolo e pretensione sul territorio situato ai di là del confine sardo, fissato dall'Atto finale del Congresso di Vienna. Crede il signor co. Cavour col ricevimento di lati deputazioni, e coll’accoglimento d’indirizzi simili da parte di sudditi stranieri, che non sono legati da nessun nodo speciale alla Sardegna, crede egli d’aver dato giusta espressione a' doveri internazionali del Piemonte verso l’Austria e verso i suoi altri vicini di confine? E la sua coscienza non gli farebbe il rimprovero d’aver con tali alti incoraggiato le male passioni e dato alimento agli attacchi continui di una stampa malevola.

«Intorno a questo punto ci crediamo in diritto d’attenderci dal co. Cavour dichiarazioni. Queste sole possono offrirci la giusta misura del valore, che attribuir possiamo alle sue assicurazioni di voler rispettare i trattati.

«Che se, finalmente, fossimo anche pronti a trasandare il passato ed a riguardare l'assicurazione, data dal conte Cavour, qual segno di miglior avvenire, non ce ne ha tolto egli il mezzo, giacché, nel momento appunto della consegna del dispaccio, che manteneva quell’assicurazione, la Corrispondenza italiana litografata, che vien pubblicata a Torino, avente la stessa data, c’ informò, che il sig. presidente del Consiglio aveva ricevuto una deputazione di cittadini di Modena e di Reggio, che parlò dei legami che la forza poteva ben momentaneamente spezzare, ma che la fedeltà conserva nei loro pieno vigore? Ci appelliamo alla buona fede del conte Cavour, domandandogli: Il ricevimento di quell'indirizzo, il quale è ben notorio, non è un fatto isolato, accordasi forse col rispetto dovuto ai trattati, e coll'assicurazione, che contemporaneamente ci ha da to? 0 crederebbe egli forse che potessimo trovare soddisfazione per tale lesione dei trattati in un processo di stampa, fondati sull'unica circostanza che il redattore di un giornale ha osato di pubblicare un fatto derivalo dai ministro del Re, od almeno da lui mai negalo.

«Il conte Cavour lungamente si estende sugl'insulti della stampa austriaca, i quali, dato anche che fossero veri, non muterebbero in verun modo la natura della questione; ma la lagnanza, che gli abbiamo fatto, non gli dà in verun modo occasione di rimediare al male, che abbiamo accennato. Egli non ha trovato nemmeno una parola per farci sperare che tale situazione si anormale sia per cessare. Invece, tutto ci fa attendere ch'egli non pensi in verun modo a rinunziare ad un contegno, i cui risultamenti gli appariscono tanto soddisfacenti.

«Fino a che questo stato di cose non avrà subito verun mutamento, non è conforme alla dignità dell’imperatore di lasciare più lungamente a Torino il suo rappresentante diplomatico, come testimonio giornaliero di dimostrazioni, che più o meno hanno ad iscopo di smuovere la fedeltà dovuta ai trattali, e di condurre nuove complicazioni. Per questo motivo, signor Conte, v’invito ad abbandonare Torino, ed a renderci personalmente conto delle ulteriori spiegazioni, che il sig. presidente del Consiglio potesse forse trovarsi indotto a darci. Potete, mettendo il conte Cavour in cognizione della vostra partenza, esprimergli il dispiacere nostro per vederci imposta una necessità, che deploriamo, ed alla quale avevamo per sempre sperato di poter sottrarci. Gli direte desiderar noi vivamente che giunga il momento, in cui uno stato più adattato di cose permetta ad un rappresentante austriaco di riprendere il suo posto a Torino. Aggiungerete che noi, dal nostro canto, non vediamo ostacolo che il marchese Cantono, il quale non è esposto a nessun inconveniente, e l'onorevole contegno del quale volontieri riconosciamo, rimanga a Vienna in questo intervallo. Egli potrebbe far capitale di essere trattato con tutti i riguardi dovuti al suo pubblico carattere.

«Animati dal desiderio che la presente misura non rechi verun pregiudizio ai reciproci interessi dei due paesi, prendiamo, del resto, in questo momento al confine le misure necessarie, onde la vostra assenza non riesca di danno a' pacifici sudditi di ambe le parti, e perché, pel fatto della interruzione momentanea della vostra operosità diplomatica a Torino, le relazioni privale non risentano pregiudizio. Ci abbandoniamo alla fiducia che, dopo la vostra partenza, i sudditi imperiali, che trovansi in Piemonte, continueranno a godere la protezione piena delle leggi del paese. Nel caso però che uno od altro di essi avesse bisogno di rappresentanza diplomatica presso le Autorità del Re, la Corte reale di Prussia, a nostra richiesta, si è trovata inchinata ad autorizzare a ciò il suo rappresentante a Torino.

«V’invito, sig. Conte, a leggere il presente dispaccio al conte Cavour.

«Ricevete, ecc.

«Buol.»

La risposta del co. Cavour al suriportato dispaccio, e che ora riproduciamo nella sua originalità, fu quanto mai si può dire esplicita e dignitosa. Laonde dalla lettura di questi due importanti documenti è giuoco-forza asserire, che l’Austria col suo dispaccio voleva rompere a metà le sue relazioni diplomatiche coi Piemonte, mentre il governo Sardo, nei contesto della circolare che richiamava da Vienna il suo rappresentante, le volle rompere tutte affatto.

Ecco il dispaccio Sardo, che porta la data del 24 marzo 1857.

«Sig. marchese Cantono

«Jer l’altro, il conte Paar è venuto a comunicarmi un dispaccio del conte Buoi, il quale, dopo di aver riprodotto le lagnanze, che il governo dell'Imperatore enumerò a più riprese contro la Sardegna, termina coll’ingiungergli di chiedere i suoi passaporti e di lasciar Torino con tutta la Legazione imperiale..

«Benché in quel dispaccio il conte Buoi dichiari che tal ritiro non sarebbe un ostacolo alla continuazione della vostra dimora a Vienna, qual nostro incaricato d affari, il Re non istimo conveniente conservare appresso la Corte d Austria un agente diplomatico, in mancanza d’ogni diplomatico austriaco a Torino. Vorrete, in conseguenza, comunicare tal decisione al ministro degli affari esterni d’Austria, e prender subito le vostre disposizioni per tornare in Piemonte con tutta la Legazione.

«Facendo al conte Buoi tal dichiarazione, l’assicurerete che i sudditi austriaci continueranno a godere negli Stati del Re, della protezione delle leggi e de' diritti, che i trattati loro assicurano; ed aggiungerete che il Governo Sardo farà quanto sarà in lui perché gli interessi privati abbiano a patire il men possibile dall'interruzione delle relazioni diplomatiche fra due paesi.

Abbiamo riscontrata con piacere una dichiarazione analoga nel dispaccio indirizzato al conte Paar. Riponendo in essa la più intiera fede, ne piace credere che nessun lagno privato sarà per aggravare la situazione, che risulta dalla misura presa dal Governo imperiale.

«Non appena il vostro richiamo fu risoluto, diedi ordine per telegrafo al marchese di Villamarina di pregar il Governo dell'Imperatore de' Francesi a voler incaricarsi della protezione de' sudditi Sardi in Austria. Avendo ricevuto una risposta appien favorevole, vorrete darne parte al signor conte Buoi..

«Se, come non dubito, il barone di Bourqueney, ricevette istruzioni conformi dal suo Governo, gli consegnerete gli archivii della Legazione, e piglierete con lui le convenienti disposizioni per lo spaccio degli affari correnti. L aita posizione, che occupa quel diplomatico, in grazia dell'eminenti qualità che lo distinguono, come pure la conoscenza personale, ch'io ho de suoi benevoli sentimenti a nostro riguardo, mi danno la soddisfazione di pensare che gli interessi de nostri concittadini non potrebbero esser commessi a mani migliori.

«Il conte Buoi, nel suo dispaccio, richiamando il conte Paar, l'invita a rendergli conto immediatamente delle nuove spiegazioni, ch'io fossi stato in caso di dargli. Mi dolse di non poter soddisfare tale aspettazione. Ma, dal momento che il richiamo della Legazione imperiale ne era annunziato in un modo definitivo e uffiziale, non mi era più possibile entrare coi conte Paar in nessuna discussione politica.

Dovetti, per conseguenza, limitarmi a manfestargli il rincrescimento, che una misura, la qual non mi pareva punto giustificata, mi faceva provare; rincresci mento reso più vivo dall’allontanamento da Torino di un diplomatico, il quale, nell'adempimento d’una missione spesso difficile, aveva saputo far prova di un carattere onorevole del pari che conciliante.

«Ho troppa fiducia nell'alta imparzialità del conte Buoi per dubitare ch'ei s’inganni sui veri motivi della riserva, ch'io credo dover osservare, attribuendola all'intenzione d’aggravare una differenza, per ovviare. alla quale abbiamo la coscienza d'aver fatto quanto da noi dipendeva.

«Prendendo congedo dal sig. conte Buoi, gli darete lettura di questo dispaccio, e gliene lascierete copia, s'ei ne mostra desiderio.

«Aggradite, ecc.

«C. Cavour.

Il contegno del Gabinetto Sardo diede esca ai partiti esistenti in Italia e fuori ad esternare per un periodo di più settimane, il loro modo di vedere e di sentire in vantaggio dell'ente che accarezzavano, ed al quale appartenevano per professione di fede o per ispirito d'interesse morale o materiale.


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CAPITOLO III

Aprile, Maggio, e Giugno

Il partito per il principe Massimiliano blandiva l'atto sovrano della nomina di lui a Governatore generale del Lombardo-Veneto come auspice de' vicini miglioramenti sociali. Per vero dire il Principe esordiva nella nuova ardua sua carriera con una circolare agli impiegati nella quale scorgevasi, come in una bella prospettiva, la via di condotta ch’egli avrebbe tenuta, e le speranze quindi grandemente venivano suscitate, accese, ed in alcuni, dotati di calda immaginazione, esagerate. Le continue feste che egli offriva ai veneziani di una splendidezza veramente sovrana, i giardini delle Procurative Nuove, residenza del principe, destinati per la prima volta a pubblico passeggio, le udienze pubbliche che due volte alla settimana egli dava nel palazzo ducate, il mostrarsi spesso al pubblico, come egli soleva fare, solo od accompagnato soltanto dalla sua giovine compagna, il lavare i piedi ai poverelli ed il servirli alla mensa nel dì della lavanda alla presenza di tutte le notabilità del paese, l’aver messa la sua Corte collo stesso sfarzo e colla stessa pompa della Corte dei cardinale Richelieu ai tempi dei parrucconi di Francia, lo amore ch'egli manifestava per le arti, per le lettere, per le scienze favorendo artisti, letterati e scienziati, la sua attività veramente singolare, lo spendere e spandere somme immense senza misura, senza direzione, quasi un inconsiderato sciuppio delle sue ricchezze, gli avevano attirata l'attenzione di tatti, e sin da principio pronosticarvi più bene che male per l’avvenire.

Ma il partito nazionale non vedeva in tatto quel magnifico modo di esordire, che pompa e che apparenza, e diceva, che ben presto sarebbono svanite sotto il peso ingente della realtà, la quale-avrebbe addimostrato anche ai meno veggenti, che la sorte del Regno Lombardo-Veneto per quella nomina non migliorerebbe di una dramma. E ciò in vista che i dicasteri tutti del Regno continuavano nell’esercizio delle loro incumbenze a dipendere da Vienna in tutto, anche negli affari i più ovvii ed i più semplici dello Stato. Questa dipendenza verso i supremi ministeri di Vienna escludeva in primo luogo il potere dell'Arciduca Governatore, e, per quanta buona volontà egli avesse avuto di migliorare le sorti nostre, sarebbe stata in secondo luogo paralizzata dall'alto ogni sua azione. Imperciocché a Vienna non sarebbesi mai cangialo di propositi in riguardo alle provincia italiane, ma soltanto colà verrebbe accarezzata una apparenza di miglioramenti in Italia che fosse atta a mitigare per alcun poco il grido di disapprovazione della condotta del governo, ch’era sorto da tutte parli d’Europa. Senza dubbio, il viaggio dell'Imperatore nel Lombardo-Veneto e la nomina del fratello di lui a Governatore generale dello stesso Regno scemarono la forza di quell'europeo grido, perché io quei due atti imperiali chiudevasi la idea di una politica nuova che veramente ristorasse le popolazioni italiane con concessioni tali da renderle tranquille e contente, e così assicurare. la pace d’Europa; ma, i ben pensanti, non sapevano come pote-vansi conciliare le riforme nelle provincie italiane coi guasti che regnavano nella Monarchia. Quei guasti e la corruzione apportarono una deplorabile statistica de' delitti commessi in un trimestre (dal 1.° novembre 1856 a tutto gennaio 1857), ascendenti all'enorme e raccapricciante numero di 341289! ((6)) Pure è statistica ufficiale.

Quante spese per tanti individui giudicati colpevoli! Quale sperpero dei beni pubblici! Quale calamità!

Mentre continuavano la deputazioni italiane ad affluire a Torino con doni ai ministri, e il 2 aprile appunto una di loro dalla Toscana portava colà un busto di Cavour per il presidente del consiglio dei ministri, ed una spada d’onore per il generale Lamarmora; mentre il nuovo strumento, intitolato la cuffia del silenzio inventato a Napoli onde soffocare i lamenti dei torturati condannati politici, faceva il giro di tutta Europa sui giornali che. ne descrivevano la forma e la ferocia deb l’invenzione, e che dai fogli uffiziali e semi-uffiziali di Napoli veniva qualificalo come una mera menzogna negandone la esistenza ed il bisogno; mentre le ferrovie, formanti una rete immensa di comunicazione a vantaggio delle industrie e del commercio, si attivavano in Lombardia, nel Veneto, in Piemonte, nei ducati, nelle Due-Sicilie e per fino nello Stato Pontificio, ove il Papa autorizzò i sacerdoti di ogni categoria a mercanteggiare collo acquisto delle azioni delle strade ferrate: mentre il commercio e la industria nazionale appalesavano grandemente i loro benefizii quasi ovunque in Italia attestando a chiarissime note che la corruzione pubblica aveva ceduto sotto il loro potere produttivo, la pubblica moralità non venendo più atterrita se non da qualche caso di ferimento e di suicidio isolato e non di carattere politico; mentre l’obbligatorio insegnamento della lingua tedesca nelle scuole del Regno Lombardo-Veneto attirava il biasimo sul governo non solo dei nazionali, ma sibbene ancora degli esteri: d'altronde, legge quella, di vecchia data, emanata, il 26 febbraio 1855, nello scopo, dicevasi, non di ridurre tedeschi gl’italiani, ma di agevolare loro il commercio e la corrispondenza coi popoli germanici; la politica attenzione pubblica fermavasi sopra una proposta delle Camere di Torino di formare un campo di esercizii militari nelle storiche pianure di Marengo occupando 20,000 uomini, quasi una permanente minaccia di attacco, fatta dal governo sardo all’Austria dopo la rottura da ambe le parli delle relazioni diplomatiche. In questo senso veniva preso dai Gabinetto di Vienna quel campo militare, e la stampa austriaca quindi regurgitava unqua di commenti e di lamentazioni.

E commenti e lamentazioni e speranze e timori eziandio faceva e nutriva la opinione pubblica sopra il preconizzato accomodamento della questione religiosa sin dal 850 surta tra la corte di Roma e quella di Torino. In sostanza però tutto quell'avvicinamento delle due Corti si restringeva in una non ufficiale interpellanza fatta fare dal governo di Torino a Roma, nello scopo di saggiare il Pontefice e di iniziare conferenze conciliative. Lo intendimento del Papa sarebbe stato anche propenso a provvedere alla vacante sede di Torino, ma monsignor Franzoni ostinavasi a non rinunziarvi. La ragione dell'odio, giusto od ingiusto che fosse, che si avevano i popoli sabaudi verso di lui, non gli bastò per imitare l’esempio autorevole di San Gregorio Nazian-zeno, il quale, per esortazione di S. Giovanni Crisostomo, depose la sua carica, perché una porzione del popolo mostrava per lui avversione. Per ciò sarebbesi sollecitato il concorso efficace di Roma, rappresentandole, che anche Napoleone I aveva chiesto a Pio VII di nominare 18 vescovi ad altrettante sedi, i cui titolari ricusavano di rinunziare. Pio VII aderiva ai desiderii di Napoleone I ed invitò quei vescovi alla rinunzia. Tredici di loro stettero fermi nel rifiuto, ed il Papa, dichiarando vacanti quelle sedi, nominò i tredici candidati proposti dall'Imperatore. Quanto si fece da Pio VII desideravasi fosse fatto da Pio IX.

Ebbero onori frattanto meritevoli di ricordanza tre illustri italiani, uno de' quali toccò l'epopea della celebrità in tutto il mondo. Il primo si fu il padre Ventura, il quale si attirava l'attenzione di tutta Parigi colle sue prediche religioso-politiche nella cappella di Corte. L altro Aurelio Multi, patriarca di Venezia, specchio di virtù fulgentissimo, nella letteratura e nelle scienze filosofiche e teologiche profondissimo, il quale veniva rapito a' vivi (17 aprile) ed allo amore dei veneziani e di tutta Italia, che vestiva sulla sua veneranda tomba il lutto cupo, profondo, universale. Il terzo si fu il celebre poeta Torquato Tasso, onore di tutta Europa, che finalmente per opera di Pio IX si avea nella chiesa di San Onofrio in Roma una tomba più degna di quella nella quale sino allora aveva riposato. Correndo (25 aprile) I anniversario della morte di lui, venivano dissotterrate le sue ossa e collocato nel marmorico monumento compiuto dallo scultore De-Fabris a spese del Papa coll'intervento dei membri delle Accademie e dei Collegi letterarii e scientifici di Roma. Cardinali, prelati e popolo erano presenti alla pia funzione.

L’anno 4 857 si fu un anno di viaggi pei Sovrani. Non è la rivoluzione che li facesse viaggiare come nel 1848, ma sibbene la necessità politica di scongiurare la rivoluzione. Anche S. S. Pio IX, disceso egli pure io questo laberinto d’intrighi che si chiama politica, si mise in viaggio, il 5 maggio, colla intenzione di visitare il suo regno. Per quantunque lo scopo del suo viaggio fosse meramente politico, non pertanto le dimostrazioni ch'egli si ebbe nelle città e paesi percorsi non furono dimostrazioni politiche, ma sibbene dimostrazioni aventi il solo carattere di divozione e di omaggio quale si addice ad un Pontefice. Gli entusiasmi, se ve ne furono, debbono essere considerati come figli di uno spirito di religione facile ad essere destato in simili casi, e non come dimostrazioni politiche in favore del Re di Roma. Vi furono bensì non isterilì dimostrazioni dai liberali di quelle provincie percorse dal Santo Padre inaugurate contemporaneamente alle feste delle chiese, dai sacerdoti dell’innumere caterva delle Congregazioni cristiane, ma esse si furono in onore della politica piemontese. Laonde tornarono vieppiù crudeli al cuore del Vicario di Cristo, il quale scorgeva senza alcuna traccia di dubbio, che come Papa ognuno facevasi un dovere di amar lo, ammirarlo, venerarlo e festeggiarlo, ma come Re ognuno se avesse potuto, avrebbelo fuggito. Moltissime famiglie anzi erano già partite dallo Stato, appena le polizie, le legazioni e gli austriaci Comandi militari cercarono di porre in opra molti mezzi per assicurare alT augusto Viaggiatore un favorevole accoglimento. Desiar speranze di migliorie nei popoli, arrestar i sospetti di liberalismo, blandire l’aristocrazia, magnificare alla poveraglia le elargizioni che farebbe il Sovrano, e cento altre arti delle quali, dopo tanta scuola avuta per si lungo tempo dal dominio straniero colà reso permanente, quelle pontificie Autorità erano addivenute maestre segnalate ed insigni. Malgrado tutto ciò, ovunque non si ottenne da quelle popolazioni a favore del sommo Pontefice che una generale festa religiosa. Gli scritti d’altronde che clandestinamente si pubblicavano in Roma e si spargevano fra le masse nelle provincie, pei quali ebbero luogo moltissimi arresti, avvelenarono la pietà religiosa delle feste per il Pontefice ovunque celebrate e la loro importanza. Del resto, pochi erano quelli che speravano concessioni da quel viaggio, perocché il Sovrano percorreva uno Stato, che era bensì suo, ma che per una strana anomalia trovavasi in potere dei comando militare austriaco, il quale nelle Legazioni ed altrove imperando, avea sempre mantenuto lo stato d’assedio. In quella condizione, i popoli che odiavano gli stranieri, non potevano certo amare il Principe che avevali chiamati, e che li soffriva padroni in casa di lui. Epperò se non disprezzavano apertamente il Re, non potevano nemmeno apertamente accarezzare il Papa. Questa distinzione influì a tenere la gente assennata e pensante in una calma dignitosa. Ma siccome egli era un controsenso politico, che il Pontefice visitasse paesi ancora sottoposti allo stato d’assedio dai Comandi militari stranieri, cosi, nello scopo di offrire, apparentemente, un'ombra di concessioni o di larghezza politica a quelle popolazioni infelici, veniva emanata il 19 maggio 1857 la seguente Notificazione.

«Considerando il Governo pontificio che la presente condizione de' suoi domimi è tale da potersi dar termine alle disposizioni, contenute nelle Notificazioni emanate in Bologna il 5 giugno 1849, ed in Ancona il di 8 dello stesso mese ed anno, non che in altre successive, ed amando quindi che cessino le disposizioni stesse, si sono prese all'uopo le opportune intelligenze tra il Governo stesso e quello di S. M. I. R. Apostolica. Avutesi pertanto le analoghe rispettive superiori autorizzazioni, si prescrive quanto segue.

«1. Lo stato d'assedio, esteso colle Notificazioni summenzionate a' luoghi, in cui fu ripristinalo il Governo pontificio dalle II. e RR. armi austriache, e limitato poscia, coll'accordo del 20 settembre 1856, ratificato in Bologna il 20 successivo novembre alle Provincie delle Romagne, di Ancona, e ad una parte delle Provincie di Pesaro, cessa col giorno della pubblicazione della presente..

«2. Le processure pendenti od iniziate presso i tribunali militari austriaci saranno rimesse in istato e termini ai tribunali pontificii, insieme agl'inquisiti, per la relativa definizione.

«3. Rimarrà nella competenza degl'II. RR. Tribunali militari la resistenza a mano armata, ed in generale ogni altra offesa contro i militari austriaci, tanto se in attività di servizio, quanto no, non che l’arrotamento illecito, e la seduzione de' militi li. RR., l’incitamento a farli deviare dai proprii doveri, e la esplorazione dei movimenti ed ordini militari.

«Dato in Ancona il 19 maggio 1857.

«Il Commissario straordinario per le quattro Legazioni.

«Camillo Amici.

«Il Comandante dell'I. R. 8.° Corpo d’Armata

«Conte Degenfeld-Sckonburg, tenente marescialli.

«Il Delegato Apostolico della Provincia di Ancona

«L. Randi.

Quel palliativo non valse a far sortir fuori dal campo religioso la visita di S. S. Pio IX al suo Regno.

Pure un palliativo venivano considerate dagli ultra-liberali le determinazioni prese dalle Camere subalpine intorno alle fortificazioni di Casale ed al trasferimento delta marina militare dal porto di Genova al golfo della Spezia. Genova gridava con quanta voce si aveva credendosi per quella misura altamente danneggiata ne’ suoi interessi. La stampa periodica non si appagava delle determinazioni parlamentari considerandole inefficaci a schiacciare la testa della jena, dell'avvoltoio e della vipera che lacerano il bel manto dell'Italia. In questo senso anche Brofferio tuonò nell'aula del parlamento Sardo. Brofferio in quel tempo, sia per propria convinzione, sia per secondare i tempi, sia per apostasia, aveva abbandonato lo stendardo repubblicano e teneva assembrato a quello di una nuova politica, la politica della elasticità e della opportunità. Egli era alquanto scaduto nell'aureola popolare, era però sempre il grande oratore, il dotto giureconsulto, ed il desiderato poeta. La sua stella in forza dei tempi stava per tramontare, forse per risorgere in un altro oriente più brillante di prima.

Ma il Piemonte e la Lombardia rivalizzavano fra loro nelle opere di pubblica utilità con esemplare calore. La industria ed il commercio toccavano un apice altissimo favorendo in un modo segnalato la pubblica moralità ed il benessere sociale. Il Piemonte però, pelle sue opere gigantesche, si elevò al dissopra di ogni altro popolo italiano. Il perfezionamento della telegrafia, gli esperimenti per il miracoloso traforo del Moncenisio, operati con felice successo in Genova, la gran rete delle strade ferrale, lo sviluppo perfezionato delle sue fabbriche manifatturiere, la ristorazione della marina, il trattato d amicizia e di commercio conchiuso colla Persia, le conferenze sull'incanalamento dell’istmo di Suez aperte dal prof. Baruffi sotto gli auspizii della R. Accademia di agricoltura, la sua politica d incessante opposizione all'Austria e di accarezzamento della causa italiana, il mantenimento in mezzo a tanti attriti, a tante dissensioni diplomatiche specialmente con Roma, a tanti partiti, ed a tanti conflitti interni ed esterni, dello Statuto, e delle libertà nazionali, lo avevano spinto in una posizione cosi eccezionalmente straordinaria da attirarsi l’attenzione ed il rispetto delle nazioni estere, e gli omaggi di un primato già assicurato dalle popolazioni di alcuni Stati d'Italia. La Lombardia gli teneva dietro ed in ogni ramo dello scibile umano cercava d’imitarne il progresso. S. A. I. Ferdinando Massimiliano poneva ogni sua cura nel cercare popolarità. Peccato che egli avesse legate le mani! Peccato che si fosse circondato di un’aristocrazia agognatrice soltanto di fasti e di onori! Egli ridusse la sua Corte a toccar? l’estremo grado di pompa e di sfarzo. Peccalo infine ch’egli avesse a lato un Gyulai, il quale colla sua ambizione faceva argine ad ogni prova di slancio del giovine ed amalo Principe! Nondimeno, egli faceva quanto si potea per il benessere delle provincie lombardo-venete, ma fatali disavventure lottavano contro di lui; essendosi accontentato della semplice ed umile carica di Governatore con facoltà limitatissima, e quindi non avea avuto il coraggio di rinunziare al suo posto piuttostoché di vedersi respingere da Vienna ciò ch’egli chiedeva per il regno affidatogli. Ciò ebbe per effetto che si vide scemata quell'aura di favore che pure sul principio erasi, in generale, acquistala. Ma non affrettiamo gli avvenimenti.

Un avviso frattanto datalo da Bologna, 30 maggio, ci chiariva il vicino arrivo di Pio IX, in quella illustre città. N’ era autore il senatore di quella capitale ed era concepito in questi sensi:

«Di chiara e splendida gloria toccherà in breve nuovo segno Bologna, accogliendo nelle sue mura il Supremo Gerarca e Sovrano, Pio IX.

«Compresa di si alto onore, sarà per rispondervi degnamente quest'alma città, la quale, oltre andare superba di aver dato al pontificale seggio non pochi illustri concittadini, con esultanza ricorda le insigni memoria e le nobilissime feste pei gloriosi Pontefici, che furon quivi, e vi segnarono storici e luminosi eventi..

«Però, mentre festante il Municipio e la Provincia intenderanno a pubbliche dimostrazioni per significanza di devozione e di affetto all'augustissimo Principe, non sarà tra i cittadini chi non concorra a dar prova della generale lietezza, adornando di addobbi e abbellendo le singole case; mantenuta poi viva nelle sere la gioia con decorose illuminazioni, segnatamente allora che avranno luogo le pubbliche luminarie, e ricorreranno i fausti giorni della esaltazione e coronazione, il 46 ed il 21 del giugno venturo..

«Cosi le istorie, che tramandarono ai posteri il ricordo dei memorabili avvenimenti di quei tempi, sapranno ancora narrare sincere pompe, con che venne questo celebrato..

«Dalla Residenza, il 30 maggio 1857.

«March. Comm. Luigi Dalia.

Pio IX, in Ancona venne visitato dal corpo consolare estero. Spiacque a tutti, meno che ai conservatori, il discorso che egli tenne loro in quella circostanza. Egli lodò e ringraziò le Potenze che influirono nell'opera della ristorazione. L’Austria nel suo rappresentante, sig. Aussez, s’ebbe il maggior vanto. Fece inoltre particolare impressione negli astanti l’udire il Pontefice «esprimere il suo dispiacere che molti de' suoi sudditi, nelle loro qualità di consoli onorarii, siensi lasciati troppo facilmente strascinare, nella loro premura di tutelare gl'interessi de' Sovrani stranieri, da essi rappresentati, ad operare ostilmente contro la propria loro patria.

I Capitoli del Veneto mandavano intanto a Bologna delle Deputazioni composte di canonici o di preti nello scopo di complimentare il Sommo Pontefice. Gyulai giungeva pure colà il 4 giugno, mentre l’Arciduca Massimiliano. Governatore del Regno Lombardo-Veneto era già stato accolto alla mensa papale in uno a molti eminentissimi porporati. Il re di Sassonia, il duca di Modena ed il granduca di Toscana si portarono più tardi pure a Bologna per felicitare l’arrivo di S. S.

Quasi una protesta contro il Governo pontificio, celebravasi con pompa solenne e fuori dell'usalo il Natale di Roma nella villa del duca Marino Turlonia poco lungi dall’eterna città. Vi erano invitate 2000 persone. Colse applausi vivissimi il dott. Pantaleoni Diomede leggendovi un discorso, in cui celebrò le glorie di Roma nella religione, nella politica e nella libertà, e disse: «che Roma per essere grande doveva seguire le leggi dell’antico suo governo, e che il governo inglese era il primo governo del mondo appunto perché seguace della politica degli antichi Romani.»

Quel discorso, cosi inaspettato, fece uscire da quel recinto molti parziali al Papa ed al suo governo, i quali, rimanendo scandalezzati abbandonarono quella villa, mentre i liberali fra fragorosi applausi chiedevano la stampa di quel discorso; ma colle strettezze politiche esistenti in allora in tutti gli Stati italiani, quella stampa non era possibile che in Piemonte. Ed in Piemonte si compi, tanto più che il suo autore, il sullodato Pantaleoni, fece l’apoteosi del governo inglese, non potendola fare del governo Sardo, il quale in larghezza di libertà politica e nei codici aveva preso per esempio e guida il governo d’Albione. Epperò tutti quelli che udirono o che lessero, dappoiché fu stampato quel discorso, videro simboleggiato il governo Sardo nel governo inglese.

Il giorno 8 giugno 1857 il Papa faceva il suo ingresso a Bologna, ove erano accorsi anche alcuni vescovi del lombardo-veneto per festeggiarne l’arrivo. Il Senatore della città pubblicò un altro avviso col quale annunziava ai poveri che sarebbe loro dato in tale circostanza razioni di pane, e fissate doti per le fanciulle proletarie.

Il giorno 12 S. S. riceveva il commendatore Carlo Buoncompagni, inviato straordinario di S. M. il Re di Sardegna presso la Corte granducato di Toscana, il quale presentava al Santo Padre gli omaggi del suo reale Signore, ed umiliava a sua Beatitudine un autografo del proprio sovrano. Interpellato il pubblico Ministero di Torino nella sessione del giorno 16 dall’avv. Brofferio circa la missione del suddetto Buoncompagni, il co. Cavour, presidente del consiglio, rispose: «non avere quella missione alcuno scopo politico, ed essere un atto di cortesia e di riverenza verso il capo della Chiesa.» Malgrado tale dichiarazione, quella misura venne assai osteggiata dalla stampa liberale.

Ovunque, ove passava 8. S. lasciava memoria di sé nelle popolazioni con elargizioni di denari ai poveri, agl’istituti pii, alle chiese, fra le quali è meritevole di encomio quella di 75000 scudi romani ch’egli lasciava per il compimento della facciata della chiesa di S. Petronio di Bologna. E perciò il Municipio di quella città coniava in onore di lui una medaglia in oro, in argento, in rame. Un altra medaglia veniva pure coniata dal clero bolognese per lo stesso soggetto. Anche il re di Napoli spediva a Bologna una deputazione composta dei signori, il tenente-generale Filangeri, principe di Saldano e duca di Taormina, e principe D. Gaetano Filangeri coll’incarico di complimentare il Pontefice, il quale aveva già avuto inviti dai Duchi, regnanti nell’Italia centrale, di visitare la Toscana, Modena e Parma. Però Modena solamente ebbe un tanto onore in quel tempo, la Toscana in agosto. Pio IX conferì alcuni gradi nel suo viaggio. Gli onorali furono: Silvestro conte Camerini, gonfaloniere di Ferrara ebbe la commenda dell’ordine Piano; Rinaldo marchese Manfredini, anziano del Municipio della stessa città, la commenda dell’ordine di S. Gregorio Magno. Andrea Casazza di Ferrara, la croce di S. Silvestro; Filippo dott. Dotti di Ferrara, la croce dello stesso ordine; Ferdinando marchese Canonici di Ferrara, la croce di S. Gregorio Magno; Pacifico Barilari, ingegnere in capo della provincia di Ferrara, la croce dello stesso ordine.

Non volendo più seguire nel suo viaggio il Pontefice, il quale poco più poco meno venne dappertutto ricevuto con religiosa unzione nelle città provinciali dello Stato, asseveriamo che il viaggio di S. S. Pio IX fu senza alcun risultato. Dappertutto spese fatte dai Municipi, dappertutto feste, mentre dalla parte di quel Sovrano dappertutto elargizioni in beneficenze ed in cento altre guise, ma riforme politico-amministrative nessuna. Tutto fu concesso da Pio IX tranne quello che più desideravano, agognavano, sollecitavano e necessitavano i suoi popoli. Nemmeno un’amnistia fu data. Le madri, le spose, i parenti accorrevano ai piedi di lui chiedendo la grazia del ritorno dei figli, dei mariti, dei congiunti emigrati, ma le loro domande venivano respinte, perché era legge sancita e divulgala che il ripatrio dovesse essere chiesto, non da parenti, ma sibbene dagli stessi colpiti da espatriazione. Laonde pochi, fra gli emigrati, vollero piegarsi alla volontà di quella suprema legge mettendo in confronto la sicurezza dell’atto di umiliazione, chiedendo, colla incertezza della concessione e del rifiuto. Nondimeno alcuni che chiesero ottennero. Fra questi annoveriamo un Sturbinetti Francesco avvocato di Roma, un Attilio Faella conte d’Imola, un Galeotti, un Novelli Luigi {li Velletri, un Mordani Filippo di Ravenna, un Monghini Antonio di Ravenna, un Fiori di Enrico di Vallerano, un Fantini Luigi di Perugia, un Longaresi-Cattani dottore, di Bagnacavallo. Ottennero inoltre il condono della pena i detenuti politici delle carceri di S. Michele, e sono; Odoardo Coccia di Norcia, Angelo Dionisi di Roma, Francesco Fiorani di Serra dei Conti, Pasquale Cannevazzi di Benevento, Filippo Marchetti di Bassiano, Antonio Pazzotti di Rocca Ranieri, Francesco Masini di Foligno, Domenico Parini di Castel Bolognese, Sebastiano Minghetti di Castel Bolognese, Antonio Anzelotti di Anagni, Pietro de Nicola Romano, Giovanni Merlini Romano, Antonio Sprega Romano, Pietro Bonoli Romano, Francesco Alberi di Genzano, Gaetano Zucconi di Bologna, Gaetano Francia Romano, Francesco Gandini di Ferrara, Giuseppe Signorini di Forlì, Leopoldo Rossi di Forti, Vincenzo Danesi di Forlì, Ciro Cirri di Forlì, Dario Petrignani di Forlì, Pietro conte Pasolini di Cesena, Antidoro Barzocchi di Cesena, Matteo Liverani di Faenza, Pio Paraccini di Forlì. Un Carlo sacerdote Gazola prelato, coglieva della opportunità della visita a Bologna del sommo Pontefice per pubblicare una solenne ritrattazione di quanto egli aveva operato co’ suoi scritti contro il Papa, la Chiesa ed il governo di Roma. Ecco la sua dichiarazione:

«Io Carlo Gaxola, riconoscendo di avere in varii miei scritti mandati alle stampe, erroneamente impugnati i sacri e inviolabili diritti del romano Pontefice riguardo al suo regno temporale, e di avere recato oltraggio al clero cattolico, ed alla stessa venerabile persona di Sua Santità Pio IX, gloriosamente regnante.

«Quindi riconoscendomi colpevole innanzi a Dio, e innanzi al comun Padre dei fedeli, il sommo Pontefice, e davanti lo stesso gregge di Gesù Cristo, e tanto più colpevole per la mia qualità di sacerdote e prelato romano, e volendo di tutto cuore riconciliarmi con sua divina Maestà e col suo santo Vicario in terra, e riparare, per quanto mi sia possibile, col divino aiuto Io scandalo dato alla cristianità, e ricuperare la pace della mia coscienza;

«Per tutti questi motivi e fini, con atto di mia spontanea e piena volontà disapprovo, condanno, ritratto pubblicamente quanto nei suddetti miei scritti e nel mio stesso procedere, vi è stato di offensivo ai diritti, si spirituali come temporali del romano Pontefice, di oltraggioso alla sacra persona di sua Santità Pio IX, gloriosamente regnante, ed al clero cattolico, di erroneo e mal sonante in materia di fede religiosa, e di scandaloso ai fedeli di Gesù Cristo.

«E dichiaro e protesto dinanzi a Dio ed agli uomini di volere, colla divina grazia, che umilmente imploro, di portarmi in avvenire, in parole ed in fatti, conformemente a tutti i miei doveri e cristiani e sacerdotali, per trovare misericordia e salute al tremendo giudizio di Dio, che mi aspetta, e meritarmi pietoso perdono dal suo santo e degnissimo Vicario e supremo Pastore e Padre dei fedeli, Pio IX, cui il Signore Iddio conceda giorni lunghi e felici.

«Prometto infine di assoggettarmi a tutte quelle provvidenze, che Sua Santità sarà per prendere a mio riguardo.

Mondovì 28 giugno 1857.»

Carlo Gazoi.»

Il clero cattolico di tutti i paesi restò edificato e contento dell’alto di ritrattazione del Gazola, e cantò vittoria, effetto egli diceva dell’influenza del viaggio di Pio IX.

Anche il clero napoletano si rallegrava per le con cessioni che seppe ottenere da sua Maestà Siciliana. Diffatti il Governo di Napoli pubblicava (18 e 27 maggio) undici risoluzioni o decreti reali concernenti le persone e le cose ecclesiastiche. Ed erano.

«1. Le disposizioni tra vivi o per testamento a favore della chiesa e de' beneficii ecclesiastici di qualunque natura, avessero pieno effetto senza il placet del governo, eccettuandosi le rinunzie ad eredità.

«2. Trattandosi di acquisti per compravendita, da farsi da' luoghi pii ed ecclesiastici, e di transazioni prima che sia stipulato lo stromento, fosse necessaria l'omologazione del Tribunale civile della Provincia, ove stavano i beni, a norma di quanto praticavasi per la costituzione de' sacri patrimonii, e l’approvazione del vescovo, cui apparteneva il corpo ecclesiastico che comperava.

«3. L’approvazione pontificia della permuta o alienazione di beni immobili, appartenenti a corporazioni religiose, a mense vescovili, a chiese ecc., non esigesse più il regio exequatur.

«4. I vescovi potessero senza alcun impedimento convocare e tenere sinodi provinciali in lutto il Regno, come anche gli arcivescovi e i vescovi potessero pubblicare, senza la preventiva censura del governo, gli atti de' loro sinodi.

«5. Fossero giudizialmente astretti a soddisfare a' loro obblighi chloro, che mancassero di adempierei legati pii.

«6. Gli ordinarli, nell’esecuzione delle sentenze per cause pie, potessero invocare il braccio forte dell’autorità civile.

«7. Si affidava a' vescovi l’autorizzazione preventiva alla stampa de' libri, che fino allora era attribuita al Consiglio generale colla Commissione di pubblica istruzione.

«8. Fosse evitata possibilmente ogni pubblicità nelle cause penali a carico di persone ecclesiastiche.

«9. La riduzione o l’assoluzione della volontà dei disponenti per legali pii non fossero valide senza la facoltà della Santa Sede.

«10. Potesse in Napoli essere stabilito un seminario provinciale.

«11. Le Consulte dovessero sentire i vescovi negli affari in cui fosse interessata la chiesa.


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CAPITOLO IV

Luglio

Alla fine del giugno 1857 le speranze degli italiani concepite in virtù dei viaggi dei loro sovrani svanirono in un battere di palpebra, tanto perché non furono rallegrati dalle politiche concessioni e riforme ch'essi desideravano, quanto perché sorse altitonante il grido della rivoluzione, il quale nello scoppio di una gran trama ordita a Londra e posta in attività contemporaneamente in Francia, in Spagna, a Genova, a Livorno e nel Napoletano, attirò a sé tutta la pubblica attenzione. A noi, prima di unirci ai rivoltosi nel nuovo loro tentativo insurrezionale, è mestieri constatare: che il partito repubblicano capitanato da Mazzini trovavasi da qualche tempo, come altrove abbiam detto, se non depresso, certo a mal punto, non trovando più credenza le sue utopie, più appoggi negli slanci de' suoi settarii se non in quegl’individui la cui esaltazione mentale era giunta allo stadio di manta furiosa. Ma gli uomini che non cangiano mai di propositi per quante vittime essi abbiano immolate a sostegno de' loro principii e per quanto la esperienza abbia loro le mille volte fatto toccar con mano l’inutilità de' loro sforzi, gli uomini della tempera di Mazzini pensano sempre che, se fallì le novantanove volte una loro impresa, potrà non fallire la centesima volta. E per ciò non tenendosi mai per oppressi, e per vinti, lavorano sempre, lavorano indefessamente attendendo la opportunità d’irrompere nuovamente affine di realizzare quell’una volta nella quale speravano cantar vittoria. Per la qual cosa, abbracciata tenacemente questa massima, era già qualche mese che dai mazziniani ordivasi una grande trama nello scopo d’insurrezionare l’Italia a pro della repubblica.

Il malcontento che regnava nella Liguria pei troppo aggravanti oneri gabellarii inflitti dal governo sardo a quelle popolazioni e per il trasferimento della marina militare alla Spezia, misura quest’ultima considerata altamente dannosa a Genova; i lagni emessi dai popoli di vari Stati d’Italia e dello Stato pontificio per un’amara delusione tanto grande quanto grandi erano state le speranze da essi loro concepite di migliorie e di riforme; i continui lamenti dei Ducati e specialmente del Regno delle due Sicilie ove le ristrettezze politiche perpetuavano in que’ popoli il sacrifizio di una vera iattura, offrivano in certo qual modo la speranza ai repubblicani e che fosse suonata l'ora opportuna a' loro attentati, e che alla fin fine i loro sforzi potessero trovare copioso proselitismo ed ottima riuscita.

Già Mazzini chiedeva agli altri suoi due colleghi Kossuth e Ledru-Rollin, membri del comitato rivoluzionario di Londra, l’autorizzazione (che gli venne negata) di ritirare dal banchiere, presso il quale stavano depositate alcune migliaia di lire sterline provenienti dal famoso imprestito nazionale, una porzione di tal somma per una spedizione in Italia. Già malgrado quel rifiuto, egli non si perde d’animo, ma col Ferretti, colf Achilli, col Gavazzi, col Pisacane, col Tibaldi, col Bartolotti, col Grilli, colla miss Merilon White (fanatica per Mazzini) colla signora Hawkes (amica di Mazzini), col famoso birraio della City Ansfield, col Well (direttore del Daily News), col Campanella, col Massarenti (ricco pizzicagnocollo stesso Kossuth, Ledru-Rollin ed altri ancora si concertarono i mezzi per ottenere grosse somme per la spedizione d'Italia. E miss White già sin dalla primavera fece un giro provinciale in Inghilterra ed in Scozia dando letture sulla emancipazione italiana raccomandata da Mazzini con lettere ai Comitati provinciali dei rifugiati. Oltre a trenta città offrirono 400 lire sterline ciascuna, raccolte sui vassoi delle sale di lettura a forza di scellini e di 6 pence predicando la rivoluzione italiana. Questo mezzo di raccorre in poco tempo ingenti somme, è. cosa comune in Inghilterra. Se ne servirono molte volte Saffi, Orsini ed altri italiani predicanti la rivoluzione (lecturers ital.). Con questo ed altri mezzi Mazzini fu fornito di grosse somme, colle quali acquistò armi e munizioni, spedi settarii, trovò satelliti per la grande spedizione d'Italia. Tibaldi, Bartolotti e Grilli partivano per la Francia nello scopo di tor di mezzo Napoleone III; la White partiva con una missione rivoluzionaria per Genova, ove veniva spedila col pretesto di studiare l’arte ostetrica negli ospitali piemontesi, portando seco molte lettere di raccomandazione, fra quali varie del sig. Well che la scelse a sua corrispondente a Torino e Genova, e del Campanella, corrispondente attivissimo e pieno di sarcasmi del giornale Italia del Popolo. Pisacane giungeva pure a Genova con un’altra missione, missione tutta sua propria, e dalla quale, vuoisi che sulle prime dissentisse il Mazzini, ma poi vi aderisse perché altamente corrispondente alle sue idee.

Carlo Pisacane era figlio del duca di S. Giovanni Gennaro Pisacane e di Nicolina Basilia de Lanza. Nacque in Napoli il 21 agosto 1848; studiò con grande successo nel Collegio reale militare della Nunziatella. Entrò poi nel corpo reale del genio napoletano col grado di tenente. Abbandonò il servizio di Napoli nel febbraio 1847 e si portò a Parigi, ove coll’appoggio del duca di Montebello, in allora ministro della marina, che conobbe la famiglia di lui quando era ambasciatore a Napoli, venne ammesso in qualità di sottotenente nel primo reggimento della legione estera comandata dal colonnello Mellinet. Il 21 marzo 1848, ottenne le sue dimissioni e parti per l’Italia. Sostenne con ardore la rivoluzione a Napoli, sua patria, sino a tanto che venne ripristinato l’ordine. Di là passò a Roma a combattere i francesi. Mazzini gli conferì il grado di colonnello. Vinta la rivoluzione del 48 egli si ritirò a Londra, ove visse col grande triumviro sino all’epoca che venne incaricato della missione suaccennata.

Mazzini organizzata ogni cosa da tutte parti d’Italia, Francia, e Spagna abbandonò egli stesso Albione e si recò a Genova. Prese alloggio in piazza dell’Acquaverde al n.° 5. La sua abitazione veniva sorvegliata da oltre cento suoi parziali.

Il giorno fissato per lo scoppio della insurrezione era la notte del 43 giugno, nella quale doveva comparire una cometa, pronosticata dagli astronomi, per il cui influsso temevansi scosse di terremoto e niente altro che la fine del mondo: circostanza creduta dai rivoltosi propizia alle loro mire; ma sia perché la cometa non comparve, sia perché i loro preparativi non fossero ancora in istato di una pronta e generale esplosione il fatto è che lo scoppio della insurrezione non ebbe luogo, ma anzi venne protratto alla notte del 29.

In quanto alla fine del mondo che doveva accadere la notte del 43, vaticinala da pazzi, creduta da fanatici, il clero del Piemonte trasse larga messe di guadagno.

Imperciocché le chiese che prima erano nei giorni di lavoro deserte, in quei dì nella vece rigurgitavano di gente temente la fine del mondo. Le offerte fatte ai santi, alla Vergine, le messe fatte celebrare furono in numero assai grande. Furono visti uomini e donne di corrottissimi costumi, invecchiati nei vizii di ogni genere, presentarsi ai tribunali di penitenza, far elemosine alle chiese ed ai poveri. Vi furono di quelli che vendettero tutti i loro averi, e casa e suppellettili e negozii e generi per portare il denaro ai preti.

Primo ad accorgersi della gran trama d’insurrezione fu il gabinetto di Parigi il quale, fatto arrestare e mettere sotto processo il Massarenti co’ suoi compagni e con un gran numero d’individui sospetti, avvisò per ben due volte, di quanto dovea succedere, il gabinetto di Torino. Rattazzi, ministro dell’interno, non prese molta fede al primo annunzio, ma la seconda volta ordinò agl’intendenti ed ai capi degli stati maggiori di Genova e della Spezia delle misure prudenziali onde prevenire e sventare qualunque attentato.

Cosi stavano le cose sino a sera del 29.

Durante il giorno furono visti qua e là dei complotti di operai e di bottegai, ma i cittadini in generale non li attribuirono che ad un avviso pubblicato dal sig. Visone, delegato straordinario all’amministrazione comunale, il quale destò molto malumore nel minuto popolo perché dichiarava quanto segue:

«Visto il regio decreto in data 22 maggio scorso;» Visto la deliberazione del 6 corrente giugno, debitamente approvata, in virtù della quale venne fatta facoltà di dare ad appalto la parte del canone gabellario, relativa ai diritti sul vino, spiriti, liquori e birra, nonché sulle carni fresche e salate di maiale.

«Ad opportuna norma degli esercenti interessati, onde siano in grado di fare le dichiarazioni, consegne ed altri incombenti prescritti dalla legge, secondo l’Avviso che verrà pubblicato dall’appaltatore.

«Notifica.

«Che in seguito alla deserzione degl’incanti tenuti nei giorni 18 e 26 del corrente mese, ed in conformità dell’art. 268 della legge 7 ottobre 1848, si è accettata un’offerta privata fatta dal sig. Albino Serravalle, in forza della quale rimase appaltatore dei diritti suddetti a cominciare dal I. dell’entrante luglio, come da allodi sommissione in data 27 corr. passato nauti l’ufficio di questa generale Intendenza.»

Oltre a 500 botteghe vennero chiuse alla comparsa di quell’Avviso, sulle porle delle quali si leggeva «bottega d'affittare, bottega da cedere chiusa per riparazioni». Gli esercenti non volevano sottoporsi a quella legge creduta dannosa ai loro interessi, e quindi si attrippavano, si concertavano fra loro, mormoravano altamente ed imprecarono al governo. Quelle masse di popolo agglomerato qua e là venivano quindi attribuite alla forza di quell’Avviso. Nessuno sognava una vicina insurrezione. Se n’era inteso a parlare, ma vagamente, ma nessuno vi dava attenzione tanto perché le menti erano occupate nelle gravi questioni interne, quanto perché le cento volte per lo addietro erasi già parlato di sconvolgimenti che mai accaddero.

Alle 10 della notte gli attruppamenti si fecero più frequenti e più numerosi. In piazza della Posta ne fu disciolto uno dietro intimazioni autorevoli. Molte macchine e vagoni stavano alla stazione della strada ferrata a servizio straordinario. La truppa, di picchetto a' quartieri. I bersaglieri a drappelli sulle vie, a bivacco sa varie piazze, appostandosi molti in capo a viottoli, con carabina al fianco. Un grosso nerbo della forza pubblica preparalo alla ferrovia, mentre i carabinieri e le guardie di pubblica sicurezza giravano a pattuglie di qua e di là con pistole alla cintola ed alle spalle. Dall’1 alle 2 dopo la mezza notte, l’andirivieni di gente sconosciuta e della forza tutelante la città si aumentò; crebbe il bisbiglio; chi corre, chi fugge, chi viene arrestato. Le perquisizioni e gli arresti maggiori vennero operali in via Nuova, e in via Nuovissima sino alla stazione della ferrovia. Vennero trovati gran copia di vestiti stracciati sulle vie. Le Autorità vegliavano e stavano all’erta; l’intendente, il generale di divisione, il capo dello stato maggiore ed il questore avevano fissato il loro quartiere generale in piazza della Posta. Vennero rinforzate le guardie alle porte della città. Nella Darsena gli armamenti erano condotti in tutta regola. I cannoni, parte voltati verso la città e parte verso il porto. Genova era in istato d’assedio. Alle 2 dopo la mezzanotte una folla di gente in contegno sospetto ed armata si fece vedere nel sestiere di Pre e segnatamente nella via Vallechiara, ma v’accorse la forza ed operò molti arresti e molte perlustrazioni fino nelle rimesse che colà si trovano. Si rinvennero armi e munizioni.

I perlustratori, le staffette, i messaggeri andavano e venivano con grande velocità. Si seppe che i rivoltosi si avviavano ai forti coll’intento di prenderli d'assalto. Colà si corse, e in Val di Bisagno se ne arrestarono molti muniti di attrezzi proprii a dare la scalata. Ma un 50 rivoltosi sorpresero la sentinella del forte Diamante guardato da un piccolo distaccamento, e ucciso il sergente comandante Pastrone di Castelfero d’Asti, entrarono, disarmarono i soldati (in numero di 16), li legarono e li chiusero in una camera, indi messo tutto a soqquadro, fuggirono di là temendo giungesse la truppa.

Tutto ciò avveniva in Genova, mentre i cittadini in generale, dormivano tranquillamente sui loro letti. Quale non si fu la loro sorpresa all’indomane nell'udire l'accaduto?

Si vide ai 30 un forte numero di soldati con armi e bagagli nell’atrio del Palazzo ducate, ed a Porta d’Arco una doppia fila di soldati. Le truppe tuttavia consegnate ai rispettivi quartieri. Alla sera pattuglie di soldati, di carabinieri e di guardie percorrevano la città. Si trovarono nella giornata sacchetti di polvere gittati per le inferriate nelle cantine dei palazzi. Si videro tagliati i fili elettrici a Ronco vicino a Novi, e minacciata anche la parte occidentale e precisamente il forte del Belvedere da un altro attentato simile a quello del Dia-manie. La Polizia s’impossessò di tre grossi depositi di munizioni dei rivoltosi. Un gran numero di arresti fu operato. L'Italia del Popolò venne sequestrata.

Il 1. luglio i fondachi da vino e le botteghe de' liquori erano tuttavia chiuse in protesta contro l’appalto del canone gabellario. Si parlava, si faceva congetture, si citavano nomi sospetti, si attribuiva in somma tutt’altra direzione ai Cagliari, vapore della società Rubattino, partito il 23 da Genova per Cagliari e Tunesi senza che si avesse sino allora avuto alcun avviso dei suo arrivo nel porto della capitale dell’isola. Il governo sardo per ciò inviò in traccia di lui l’altro vapore Ichnusa. Nella Darsena lavorava»! indefessamente a fine di apparecchiarsi ad ogni evento. Al quartiere del battaglione Beai Navi si misero sentinelle.

Mazzini, veduto che la gran massa del popolo su cui fidava, stavasi tranquilla ed anziché favorirlo lo de-testava; veduto che la sua trama venne dal Governo scoperta, e che agi vasi contro di lui e de' suoi satelliti con molta energia; veduto infine che il primo colpo d’insurrezione andò a vuoto, pensò di fuggire da Genova. Le Autorità si davano ia verità un gran movimento ricercando i capi di quella congiura. Si era veduto Mazzini qua, lo si era veduto là, a Novi, a Genova, a Torino, nella strada ferrata, dappertutto appariva Mazzini, ora vestito in un modo ora in un altro, ma la forza pubblica noi potè mai ghermire: tanta era l’abilità di quell’uomo fatale nel sottrarsi agli occhi della polizia.

I fatti di Genova ebbero il loro riscontro a Livorno. Chi ci avvisa è un Ordine del giorno del governatore di quella città, diretto al ministro Landucci, concepito in questi termini:

«Livorno 30 giugno, ore 11. 30 pom.

A S. E. Landucci.»

«L’ordine è ristabilito. Una mano di faziosi, che si sono presentati in tre punti della città alla ore sei e mezza, cioè alla piazza del Voltone, alla Pina d’Oro, Via S. Giovanni e Via Reale, hanno osato aggredire e ferire con colpi di stile alcuni gendarmi alla spicciolata e a tradimento, mentre altri si sono presentati alla gran guardia gridando t'iva i Fratelli I Ma, presentandosi l'ufficiale per respingerli, è stato questi ferito leggermente, per cui ha comandato il fuoco. Il feritore è rimasto ucciso, e gli altri si sono dati alla fuga. Immediatamente la truppa è stata posta sotto le armi. Il palazzo reale è stato subito presidiato, e la piazza d’Arme è stata ai respettivi sbocchi militarmente occupata.

«La popolazione pacifica ha ricevuto l’ordine di ritirarsi, e i pochi faziosi, che hanno fatto resistenza, sono stati dispersi col fuoco..

«Il fatto è deplorabilissimo, ma nessuna conseguenza seria è da temersi, perché la popolazione non si è unita ai facinorosi. Si sa che tre gendarmi sono morti e tre feriti. Dei rivoltosi, 13 sono morti.»

«L. Bargagli, Governatore.»

«Il tentativo d’insurrezione, per vero dire, scoppiò in Livorno alle ore sei e tre quarti pomeridiane del 30. Surse una contesa tra alcuni inglesi ed un vetturino, la quale attirò gran numero di persone; fra queste vi erano anche dei rivoltosi. Vennero i carabinieri per sedare quel piccolo tumulto, i rivoltosi ne uccisero due. Fu dato avviso di ciò al corpo di guardia più vicino, e si fece uscire un distaccamento di 60 soldati. I rivoltosi però si ingrossavano accorrendo a quella volta. Venne impegnata una zuffa: la truppa fece fuoco, e l’allarme e lo spavento si sparsero rapidamente per tutta la città. Le finestre e le porte delle case e delle botteghe e magazzini vennero in un batter d’occhio generalmente chiuse. Gridi, urli, fucilate dappertutto. Al primo distaccamento militare sopraggiunsero degli altri ed indi degli altri ancora. Quel comando militare agì con molta energia e senza tanto discernimento. La popolazione non prese parte in generale al conflitto, sibbene e per forza agli effetti funesti di quello. Morti e feriti d’ambe le parti, e molti arresti e fucilazioni immediate. Il Governatore pubblicava il seguente avviso:

«Livornesi:

«Una mano di scellerati faziosi armati osava nella decorsa sera turbare l’ordine pubblico con un tentativo di sommossa il più sconsigliato e il più vile e codardo, che non sembra avere avuto altro scopo che l’assassinio.

«La comparsa della truppa di linea e della gendarmeria sui punti della città, ove si sono riuniti in drappelli di otto o dieci, e qualche fucilata, bastarono per mettere in fuga e disperdere in pochi minuti codesti insensati anarchisti.

«Coloro, che resistettero e furono sorpresi coll’arme alla mano, ne pagarono il fio colla morte; gli altri, caduti in mano della forza, vanno a consegnarsi alla giustizia per essere giudicati con tutto il rigore della legge.

«La quiete della città è ora completamente ristabilita, e ciascuno può ormai riprendere le sue ordinarie incumbenze.

«Mercé la pronta ed energica cooperazione delle nostre truppe, e grazie al contegno prudente e tranquillo della popolazione, il colpo di que’ miserabili è andato fallito.

«Il Governo, che lo deplora altamente, confida che non sia per rinnovarsi; ma, ove ciò mai sventuratamente si verificasse, forte dell’aiuto dei buoni, e del braccio della milizia armata, saprà rintuzzare colla stessa prontezza l’audacia dei tristi, che tornasse a disturbare questa d’altronde quieta, civile e tranquilla popolazione.»

«Livorno 1. luglio 1857.

«Il Governatore. Luigi Bargagli.»

Addì 2 luglio usciva in luce a Firenze, alle ore 7 e 20 minuti del mattino il seguente dispaccio telegrafico:

«A S. E. Baldasseroni.

«La notte progredì regolarmente. La popolazione è ritornata alle sue occupazioni. Le botteghe, jeri tutte chiuse, oggi sono in generale riaperte, e se non Io sono tutte, credo ascriverlo all’essere ancora di buon’ora. I feriti stanno tutti meglio. S. A. I. e R. il principe ereditario quest’oggi a ore 8 visiterà le caserme.»

Ferrati da Grado.»

All’indomani, 3 luglio, fu pubblicato il seguente decreto granducale:

«Noi Leopoldo II, per la grazia di Dio Principe Imperiale d’Austria, Principe Reale d'Ungheria e di Boemia, Arciduca d'Austria, Granduca di Toscana, ecc. ecc. ecc.

Volendo con un eccezionale aumento di severità assicurare, quanto più si possa, la quiete della città di Livorno, e la sicurezza de' suoi abitanti, gravemente compromessa per l'attentato della sera del 30 del caduto mese.

«Sentito il nostro Consiglio dei ministri.

«Abbiamo ordinato ed ordiniamo che. nella città suddetta e contiguo porto, nel circostante territorio fino alla distanza di un miglio, ed in tutta quella parte ulteriore del territorio stesso, ch'è compresa nella Delegazione del Porto, si osservino, fino a nuovi o diversi ordini, le seguenti disposizioni.

«Art. 1. La delazione di armi, di qualunque specie, sarà punita con la Casa di forza dà cinque a dieci anni.

«La licenza, precedentemente ottenuta, di portare armi non vietate, diverrà di niun effetto al pubblicarsi della presente legge.

«Art. 2. Saranno puniti con la morte, da eseguirsi mediante fucilazione, l’omicidio e la lesione personale, ancorché semplicemente tentali o mancati, quando siano stati o preceduti da premeditazione, o mossi da solo impulso di brutale malvagità, o commessi contro agenti della pubblica forza..

«Art. 3. Qualunque altro delitto, commesso con uso, od anche con semplice presenza di armi, soggiacerà alla Casa di forza da dieci a venti anni, sempreché dalla legge penale in vigore non sia colpito da pena più grave.

«Art. 4. La cognizione e il giudizio dei delitti, contemplati nei tre precedenti articoli, sono deferiti al Consiglio di guerra permanente, stabilito in Livorno: ma dovranno applicarsi in tali casi le norme, che il Regolamento organico dei Tribunali criminali militari prescri-ve nel Titolo VI pei Consigli di guerra subitanei..

«Art. 5. Rimangono ferme, nelle parti non contrarie alle disposizioni della presente legge, quelle del nostre real decreto del 27 dicembre 1884.

«I Nostri ministri segretarii di Stato pei Dipartimenti della guerra e di giustizia e grazia sono incaricati della esecuzione del presente decreto..

«Dato li due luglio milleottocentocinquantasette.

«Leopoldo.»

Nella stessa data, il conte Revel interpellava sui fatti di Genova il ministro dell’interno Rattazzi alla Camera dei deputati di Torino, li ministro rispose, «che avvertito dal governo francese di quanto doveva succedere, egli aveva prese le necessarie misure per scongiurare il pericolo, e di fatti vi riusciva non avendo lo Stato che a deplorare una sola uccisione, quella del sergente comandante il forte Diamante.»

Revel e la Camera rimasero soddisfatti. Ma la stampa clericale e conservativa, in senso esaltato, rimproverava il ministro della poca chiaroveggenza da essolui usata in quella circostanza, sembrando impossibile ch'egli, senza l’avviso francese, non s’avesse accorto dei preparativi usati dai congiurati per ordire la loro trama e per effettuare lo sconvolgimento insurrezionale. Veniva accusato quasi di connivenza. Sembrava che il ministro sotto il peso di tali accuse dovesse lasciare il portafoglio, ma egli era spalleggiato da Cavour, e stette immobile al suo posto.

Per vero dire quello che doveva fare le maraviglie piuttosto si era la considerazione, che in Genova con tanti preparativi fatti dai rivoltosi, colla presenza del loro capo, Mazzini, non si avesse a deplorare che un solo morto, mercé l’attività ed il contegno della forza pubblica, mentre nella vece in Livorno, senza le circostanze favorevoli ai disegni dei rivoltosi di Genova, si avessero a deplorare la morte ed il ferimento di molte vittime. Ciò dovevasi senza dubbio attribuire alla moderazione delle leggi del governo Sardo, le quali non permettevano massacri preventivi ed alla cieca, mentre in vece in Toscana ad ogni piccolo allarme ecco uscire la truppa, ecco far fuoco, sbadatamente, tanto sui rei come sugl'innocenti e popolare le carceri senza discernimento e misura. Legge codesta fatale, tradizionale, ereditata da lunghissimo tempo da lutti i governi assolutisti, conservata con una vera mania religiosa, e posta in opera ad ogni istante. Che se per la morte di un sol uomo avvenuta nei fatti di Genova, la pubblica stampa inveì tanto contro il ministro Rattazzi da minacciare quasi la sua caduta, vuol dire che anche quella vita poteva essere risparmiata se Rattazzi sapeva a tempo usare della forza delle leggi colà vigenti. Mentre invece la stampa reazionaria lodava a gola piena il valore della truppa, che seppe far macello dei cittadini livornesi. Qual contrasto, qual differenza!

Il disegno importante dei congiurati, era quello d’impadronirsi dei forti di Genova, della Darsena e delle autorità, di proclamare un governo provvisorio, e di servirsi di Genova per insurrezionare il resto d Italia. Così pure si avrebbe fatto anche di Livorno.

Alla Spezia ove vi fu qualche sentore di rivoluzione, vennero raddoppiate le guardie; indi un corpo di truppa approdò a quel porto.

Fra gli arrestati a Genova (in numero assai grande) erano il sig. Rartolammeo Francesco Savi, direttore dell’Italia del Popolo, il gerente di questo giornale, miss White, marchese Ernesto Pareto, Alberto Mario, Ratti Francesco, Morando Giovanni, Ponzi Giuseppe, Cassiani Augusto. Questi quattro ultimi col Pareto vennero lasciati in libertà più tardi (il 3 agosto). Indi Ailben Ferragni avvocato, Peddavilla Felice, Scotto Filippo, Parodi Casimiro: i primi tre furono liberi.

Fra' congiurati trovavasi un grosso numero di ex legionari, di romagnoli e degli abitanti dei Ducati.

Le perlustrazioni tanto nelle strade, che nei domicili! de' particolari, e nei caffè, e gli arresti continuavansi in Genova, suoi dintorni, in Torino ed in Livorno per più settimane, mentre incoavasi il processo dalle autorità competenti. E ciò temendosi sempre il rinnovamento di simili attentati, tanto più che i mezzi dei rivoltosi venivano considerati forse maggiori di quello che realmente erano. La prudenza va spesso socia al timore.

Grande fu la quantità dei sacchi di polvere con micchie lunghissime trovati qua e là ed in vari depositi, e delle casse di stili, di pistole e di altre armi da fuoco e da taglio, di lime, di pugnali uncinati a guisa di quello usalo da Pianori, indi stutzen, revolver, bandiere bianche e segnali, macchine e corde di seta ed altri attrezzi da scalata e d’assalto. Anche delle preparazioni di mine vennero scoperte alle vicinanze ({pile caserme e della Darsena ove erano i forzati in numero di 800. Guai se riusciva il colpo: l’Italia tutta sarebbe stata accesa!

Un movimento rivoluzionario era stato pure organizzato a Parma e doveva scoppiare il giorno 4; ma la polizia locale ed il comando militare austriaco colà stanziato, avvisati, od accortisi, lo seppero sventare con propizie misure. Nondimeno la Reggente partiva di là più che in fretta lasciando il seguente decreto in data del 7:

«Noi Luisa Maria di Borbone, Reggente pel Duca Roberto gli Stati parmensi.

«Abbiamo decretato e decretiamo.

«Art. I. È creata una Commissione di Governo, la quale, durante la breve nostra assenza da questi Stati delibererà e disporrà in nome nostro, e giusta le istruzioni, che da noi le saranno date, intorno agli affari di Stato, che eccedono i poteri ordinarli del ministro degli affari esteri, segretario intimo di Gabinetto, presidente del Dipartimento militare, e dei ministri pei Dipartimenti di grazia e giustizia, delle finanze e dell'interno.

«Art. 2. La sopraddetta Commissione sarà composta dei quattro ministri premenzionati:

«Art. 3. Il nostro segretario intimo di Gabinetto è incaricalo della pubblicazione e comunicazione ai singoli ministri del presente decreto.»

«Luisa.»

Erano già varii mesi che lavoratasi con alacrità anche sul Napoletano, in Calabria ed in Sicilia onde favorire il movimento, che a mente della gran trama ordita da Mazzini scoppiò poi in Genova ed a Livorno, e che doveva pure colà esplodere la stessa notte dei 29. Noi vedemmo partire da Genova il vapore il Cagliari capitanalo dal sardo Antigono Selzia, con equipaggio e forestieri per il solito tragitto dai ligure porto a quello della capitale della Sardegna. Fra questi forestieri trovavasi il colonnello Pisacane, con Pianpiani e Deandreis, con Nicotera e Foschini e molti altri emigrali romani, e suoi seguaci, tutti aventi regolare passaporto inglese. Uomo ardito e pieno di coraggio, il Pisacane, volle pompiere la missione della quale erasi incaricato. E perciò obbligò coll'appoggio de' suoi, che immantinente impugnarono le pistole ed altre armi, il capitano di quei vapore a secondare le sue mire cangiando direzione di viaggio. Laonde, spiegata la bandiera sarda a poppa ed altra piccola bandiera rossa a prora, alle ore 4 po» meridiane del giorno 27 arrivarono non a Cagliari, ma sibbene nel porto di Ponza su quel di Napoli. Vieni chiesta al capitano di quel porto |a libera pratica per riparare ad alcune avarie sofferte. Il capitano perciò recatosi a bordo per dare pratica al legno, venne folto prigioniero. Frattanto, spiccate alcune lance a terra, il Pisacane co' suoi bene armati assalirono, presero e disarmarono il posto doganale sulla marina. Indi quelle stesse lance, con alcune barcaccie che trovaronsi in quel porlo, ritornavano a bordo a prendere gli altri rivoltosi, i quali discesero a terra, tranne quelli necessarii a sorvegliare i prigionieri rimasti sul vapore. S’avanzarono, correndo e gridando Viva Italia, al rovescio del porto, ed assalirono la guardia dei veterani scambiando qualche colpo di fucile. Tolte a cotestoro le armi e le munizioni s’avviarono ad aprire le prigioni, ove dopo poca resistenza fu data libertà ai condannati. Ingrossatisi nel numero rimontarono ancora il vapore. Ma due marinari, sfuggiti dall'isola di Ponza, approdarono a forza di remi a Gaeta e raccontarono l’apparizione del Cagliari. Subito si è telegrafalo avvisando del fatto l'intendente di Salerno da una parte e dall’altra l’ammiragliato. Epperò vennero spediti cacciatori per Sanza e Padula, mentre due corvette a vapore si affrettarono ad andare in traccia del Cagliari e dei rivoltosi. Vicino alla piccola isola di Sarpi, s’incontrarono col legno sardo e fatto fuoco da una parte e dall’altra per breve tempo, e dopo la intimazione dell’arresa da parte delle reali corvette,(1) il Pisacane co’ suoi, disbarcarono in Sarpi e si avvicinarono per le interno combattendo con coraggio da leoni, colla forza campestre ed urbana, e colla truppa regolare accorse per impedire il loro avanzarsi nel Regno. Il Governo napoletano da tre mesi sapeva già che sarebbesi effettuato quello sbarco da un emissario di Mazzini arrestato mentre investigava i luoghi. Per la qual cosa, il Pisacane, trovò colà preparata un’energica repressione che gli chiuse in sul principio l’adito di seguire le fila da essolui antecedentemente preparate per una efficace riuscita di quel tentativo.

Intanto il Cagliari fu preso; vennero arrestati tutti quelli che si trovavano a bordo, equipaggio, passaggeri e relegati evasi da Ponza, che non ebbero il tempo di seguire i rivoltosi a' quali dovevano la libertà.

L’equipaggio di quel vapore era composto dei signori;

Antioco Setzia di Cagliari, capitano comandante il vapore,
Cesare Cori di Ancona, marinaro,
Enrico Watt inglese, macchinista,
Carlo Park, idem, id.
Agostino Rapallo di Sardegna, marinaro,
Girolamo Bertinotti di Porto-Venere, marinaro
Carlo Nucci di Genova, cuoco,
Lorenzo Fromento di Porto-Venenre marinaro
Ignazio Fromento id. id. fratelli.
Girolamo Fromento id. id.
Luigi Rebora, id. fochista,
Giovanni Rebora, id. marinaro,
Domenico Civasco di Genova, fochista,
Paolo Claudio Barbiere di Genova, marinaro,
Pasquale Cesella di Porto Venere, id.
Domenico Costa di Genova, id.
Gio. Batt. Bozzo di Castino, cameriere,
Domenico Strolese di Porto Venere, marinaro
Francesco Badini di Savona, carbonaio,
Vincenzo Forbini di Savona, id.
Prospero Bussana di S. Arenzo, marinaro,
Santo Cidale di Porto Venere, id.
Pietro Cidale id. astronomo,
Lorenzo Aquarone di Serola, cameriere,
Girolamo Travi di Genova, id.
Vincenzo Rocci di Genova, secondo
Agostino Ghio di Genova, pilota

I passaggeri che si trovavano a bordo erano: Giulio Schneider di Colonia, Gio. Domenico Durando di Torino, Fabrizio Elizio di Mò, Vincenzo Donadei di Torino, Ferdinando Berciuoli di Piemonte, Francesco Mascaro di Spagna, Rosa Mascaro di Tunisi, Amilcare Bonomo di Milano, Giuseppe Daneri di Genova, Nicola Albertini di Pietra, Luigi Cofano di Fasano.

I relegati evasi da Ponza erano: Michele Milano di Napoli, Filippo Conte di Caserta, Michelangelo Mario di Foggia, Salvatore Barberio di Cosenza, Vicenzo Pafaro di Catanzaro, Francesco Gallo di Catanzaro, Battista de Pascale di Teramo, Giovanni Parrillo di Caserta, Carlo Lofata di Sicilia, Eugenio Lombardo di Potenza.

Tanto l’equipaggio che i passaggeri ed i relegati vennero condotti nel catturato vapore a Napoli, e di là nelle carceri di Vicaria, ove furono messi sotto processo.

I fuorusciti intanto col loro capo penetrarono nei dintorni di Sala, città posta sulla strada corriera che dalla provincia di Salerno si estende nelle Calabrie. Colà ebbero uno scontro colle regie truppe e fecero prodigi! di valore e di coraggio, ma molti di loro, lottando con una forza dieci volte maggiore, restarono vittime sulla via. Convien però dire che gli sforzi dei rivoltosi nell'isola di Ponza fossero stati assai grandi, se S. M. il Re delle due Sicilie si senti obbligato di spedire colà per riparazioni ducati 2000, ed indi altri 9000 da distribuirsi ai più danneggiali bisognosi! Altri scontri, zuffe e scaramuccio ebbero luogo nelle provincie di Salerno, Basilicata, Cosenza e nelle altre Calabrie, non che specialmente a Padula tra i rivoltosi ed i corpi delle guardie urbane, della gendarmeria e della truppa di linea coadiuvata dal 7.° battaglione de cacciatori. Nella ineguale pugna a cento a cento cadevano colà quei miseri sconsigliati, e se risparmiavano la vita, s’aveano la catturazione e la carcere. Pisacane finì i suoi giorni in uno di quegli scontri sul campo di battaglia di Padula a fianco di Foschini, uccidendosi da sé stesso piuttosto di andare prigioniero in mano a' suoi nemici. Egli aveva fatto il suo testamento prima di partire da Genova. Foschini si bruciò le cervella con un colpo di pistola.

Sembrava intanto che nuovi moti dovessero temersi in Piemonte ed in Toscana. Erano già sfuggiti alcuni condannati ai bagni della Darsena di Genova; già molte lettere anonime giungevano dalla posta di Torino e di Firenze ai caffettieri, bottegai e locandieri annunziando «che se fallì il primo moto non sarebbe fallito il secondo, il quale sarebbe quanto prima scoppiato terribile e funesto.

«Già venivano gettati dei zolfanelli accesi nelle bucche delle cassette delle lettere provocando incendii; già in altri modi spargevasi il terrore nelle popolazioni. Dappertutto si temeva il vicino sbarco dei rivoltosi, dappertutto l’arrivo delle armi e delle munizioni. Le polizie quindi si davano un gran moto, spiegarono un grande apparato di forze facendo arresti e perquisizioni. E sopratutto a Livorno i timori del nuovo moto subirono una fase, una crisi istantanea, perché dall’oggi al domani si cangiarono nella sicurezza che sarebbe su cesso non un nuovo moto, ma bensì una pacifica dimostrazione, intenta ad appoggiare delle domande che sarebbonsi fatte al governo. Già si leggeva il nuovo programma, già si annunziava l’ora, il luogo, il modo, le persone, e tanto andò innanzi tale sicurezza da provocare un avvertimento del governatore di quella città concepito in questi termini.

«Sua Eccellenza il sig. Luigi Bargagli, cavaliere del sacro militare ordine di S. Stefano Papa martire, commondatore ecc., governatore della città e compartimento di Livorno ecc. ecc..

«All'oggetto che la buona popolazione di questa città non resti indotta in errore da insinuazioni inconsiderate o maliziose, rammenta il disposto delle veglienti leggi, per le quali è proibita qualunque manifestazione popolare nelle strade e nelle piazze, o in altro luogo pubblico, ancorché diretta ad esprimere desiderii o domande; e chiunque vi prendesse parte sarebbe severamente punito, a forma dell’articolo 206 del Codice penale.

«Dall’I. e R. Governo di Livorno

«Li 17 luglio 1867.

«Il segretario del Governo

«Avv. Scipione Costanti.»


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CAPITOLO V

Dall'Agosto a tutto Dicembre

La stampa conservativa di ogni paese intanto scatenavasi virulenta contro la politica d’Inghilterra e del Piemonte, perché in questi due Regni i rivoltosi avevano l’agio di ordire e consumare senza alcun pericolo ed impunemente i loro attentati. Gridavano inoltre contro i mazziniani, i quali Bella tentata loro rivoluzione avevano concepita la idea barbara e vandalica di saccheggiare i paesi, di minare i palazzi e le città nello scellerato scopo di distruzione. Ma Mazzini pubblicava in più supplementi dell'Italia del Popolo lunghi articoli intitolati La Situazione, nei quali negava quelle malvage intenzioni. Negava altresì che il moto di Genova fosse diretto contro il Governo piemontese; ma in vece egli intendeva con quel moto e col valersi dei mezzi di azione di Genova, di trascinare il Piemonte in una guerra di rivoluzione, e protestava che non sarebbesi dato riposo se prima non avesse ottenuto tale intento.

A Roma pure, contemporaneamente ai moti che narrammo, vi furono tentativi, risse ed alterchi tra militari francesi e pontificii, dimostrazioni, scene e casi isolati che forse avrebbono presa vasta proporzione, e propagazione se non venivano dalle competenti autorità a tempo debito repressi.

Il processo incoato contro i rivoltosi dai tribunali di Parigi, di Napoli e di Genova metteva raggi di luce sulla scoperta estensione e sulle mire della trama mazziniana. Un viennese dimorante a Londra ed il nunzio pontificio di Parigi ne avrebbero dato in marzo alla polizia i primi indizii. Epperò l’astuto Henrici ebbe la direzione degli agenti che dovevano praticare indagini a Genova, a Livorno, a Napoli. La polizia di Parigi confiscò il 10 giugno molte lettere, e la inquisizione occasionò la scoperta d’un numeroso carteggio tra Mazzini ed i suoi agenti.

La camera di accusa nella sua sentenza del 28 luglio, rimandava alla Corte d’assise della Senna Paolo Tibaldi, Giuseppe Barlolotti, Paolo Grilli detto Faro, Giuseppe Mazzini, Alessandro Augusto Ledru-Rollin, Gaetano Massarenti e Federico Campanella; «tutti accusati d'avere cospirato, mediante deliberazione presa d’accordo d’operare in modi divisati contro la vita dell’Imperatore; la qual cospirazione fu accompagnala da un allo commesso o comincialo per apparecchiarne gli effetti, delitto antiveduto e punito dall'articolo 89 del Codice penale.»

Nel corso dell'inquisizione Bartolotti avrebbe confessato di aver avuta la commissione di star del continuo in guardia intorno alle Tuillerie, e saper quando S. M. ne uscisse. Grilli avrebbe dichiarato, che lo scopo del suo viaggio, e l’ordine ch’egli aveva avuto era di uccidere l’imperatore, (fedi in fine di questo Capitolo a pag. 166 la descrizione del Processo).

Nel processo incoato dal Governo napoletano che assunse il nome di processo di Salerno, Giovanni Nicotera avrebbe dichiarato «che Mazzini si limitava al colpo di mano sopra Genova e Livorno; che Pisacane veniva indotto a quel passo dalle istanze del Comitato nazionale repubblicano di Napoli e dalle mene dei due comitati muratiani.»

Addì 16 agosto S. A. I. R. l’Arciduca Ferdinando Massimiliano, giungeva in Venezia accompagnalo dalla novella sua sposa Carlotta principessa del Belgio. Feste, poesie, indirizzi di felicitazione, canti, suoni, filantropiche elargizioni da parte della eccelsa Coppia, non mancarono in quella circostanza e lungo il corso del suo viaggio lino a Milano. Pio IX teneva un Concistoro di vescovi e prelati in Bologna, ed accoglieva gl'indirizzi dei cittadini che domandavano riforme, le quali sventuratamente mai non giunsero a soddisfare i giusti desiderij ed i reclami di quelle popolazioni.

Lo scultore Tenerani compieva e metteva a pubblica esposizione collo stemma di Spagna la statua rappresentante l'immacolata Concezione.

L'Imperatore d'Austria disponeva che colla partenza da Bologna di S. S. Pio IX, dovesse il Governo pontificio cessare di pagare l’occupazione delle truppe austriache a Bologna ed in Ancona. Scudi romani 800,000 annui era la spesa di quello Stato per la suddetta occupazione. Dal 1815 in poi fu lino spendere assai aggravante per uno Stato si piccolo come il Pontificio. Nondimeno quella ingente somma venne diminuita molti anni dopo. Fu ridotta a 450.000 scudi; ed indi sul fine del 1851 ebbe una seconda riduzione venendo portala a 250,000 scudi. Nel 1856 fu ridotta di nuovo a 230,000. Epperò il Papa nel suo viaggio offrì larga copia di decorazioni agli uffiziali austriaci di occupazione, come, in questo genere egli fu assai liberale anche verso ai cittadini in tutti i luoghi da esso lui visitati.

Il cav. Buoncompagni abbandonava Firenze coll’arrivo in quella capitale del Sommo Pontefice. Egli quando andò a complimentare il Papa a Bologna da parte del suo Re. Vuolsi quindi non venisse accolto che assai freddamente, quinci non venisse invitato ad un pranzo diplomatico offerto dal Legato apostolico in quella circostanza. Tanto bastò perché lasciasse Firenze all'arrivo di Pio IX. La stampa austriaca e papale volle raddolcire quell'atto scortese del Legalo di Bologna col darne colpa ad una mera svista o dimenticanza senza alcun fine offensivo. La questione sardo-romana intanto era ben lungi dall'appianarsi: essa anzi trovavasi più che maj in uno stato lacrimoso. Per ciò i vescovi del Piemonte in uno a quello di Genova, intendevano di presentarsi in massa a S. M. Vittorio Emmanuele con suppliche alfine cessasse uno stato di cose cosi rovinoso. Vollero per tale oggetto approfittarsi della visita che il Re, accompagnalo da' suoi ministri, faceva alla Savoia (30 agosto) ove attendevate il principe Napoleone, per inaugurare i lavori del traforo del Moncenisio e per porre la prima pietra del grandioso ponte sul Rodano a Culoz.. luogo di congiunzione tra le ferrovie sarde e le francesi.

I moli di Genova ebbero per frullo l'arresto di numerose persone, anche innocenti, che furono poi lasciale in libertà), la esportazione in America di moltissimi emigrati di tutti i paesi italiani, (contro alla quale gridava acremente la stampa ultra-liberale, mentre la conservativa encomiava tale misura), e mille dissapori tra le corti di Torino e di Napoli per il sequestro del Cagliari. Infatti la compagnia Rubattino chiedeva il suo vapore ed il suo equipaggio: istanze sopra istanze, ma vanamente Cavour vi pose mano e con Note chiese e il Vapore e l’equipaggio, ma non trovò che poca disposizione da parte del Governo di Napoli, il quale attendeva l'esito del processo incoato già da tempo su tal subbietto. Una polemica acre e di lunga durata sulle note scambiale fra le due Corti (Napoli e Torino, e sulle concessioni, per ottenere indietro il Cagliari, fatte dal Governo Sardo di espellere dallo Stato un certo numero di emigrati napoletani i più pericolosi, venne smentita e fatta cessare dallo stesso Governo sardo. Nondimeno, nello stesso tempo, succedevano molti sfratti di emigrati del Regno delle due Sicilie, residenti a Genova. Forse un frutto dei moti di quella città si furono anche gli scompigli insorti a Carrara agli ultimi di settembre, che portarono seco morti e ferimenti e lo stato d'assedio di quel territorio. Diffatti era già del tempo che un malumore, piuttosto che serio, esisteva colà tra cittadini e militari. Questo malumore scoppiò la sera del 27 settembre in teatro. Furono scambiate parole acerbe tra borghesi e soldati, e dalle parole insultanti si vennero ai fatti. La mischia fu seria; il disordine assai grande, e molti dell'una e dell’altra parte, rimasero feriti. Non mancarono in quella notte molti arresti e la scoperta di molti stili. All'indomane i borghesi assalirono sulla pubblica via di Gragnana il sergente Ribollili ed i soldati Zeni e Rocchi e li trucidarono. Da collisione nacque collisione e tutti i giorni s'ebbero a lamentare fatti di odio e rancore avvenuti sventuratamente da una parte e dall'altra. La seguente Notificazione se non tolse, certo assopì uno stato di cose cosi calamitoso:

«Gli orribili delitti che succedono tuttodì e vanno moltiplicandosi nel Comune di Carrara, indussero S. A. II. l’augusto nostro Sovrano a ripristinare con suo venerato decreto del 30 ultimo scorso settembre lo stato d'assedio, affidandone il comando al sottoscritto.

«In base pertanto dei venerali Sovrani comandi e delle disposizioni ed istruzioni relative, si dispone quanto appresso:

«1. La città e l’intiero comune di Carrara, dalla pubblicazione della presente Notificazione, vengono posti nel più stretto stato d’assedio, il quale, con lutto le sue conseguenze, verrà mantenuto col massimo rigore.

«2. Tutte le autorità civili, criminali e politiche, ivi residenti, nel disimpegno delle loro incombenze rispettive restano sotto la immediata dipendenza di questo Comando.

«3. Si stabilisce una Commissione militare, che dovrà giudicare colle norme della legge militare, i rei di assassinio. tentalo assassinio, ferimenti, alto tradimento, porlo d’arme, gli eccitatori dei militari alla diserzione, e la resistenza armata mano contro la forza. Tutti questi delitti saranno puniti colla pena di morie, da pronunziarsi o con giudizio statario, o con giudizio di guerra, a seconda delle circostanze.

«4. Gl'insulti verbali o reali a funzionarli militari, e gli eccitatori dei militari a mancare al loro dovere, saranno puniti con pene secondo la gravità del caso.

«5. Il Tribunale suddetto dovrà giudicare di tutti i processi pendenti per delitti della sopraddetta specie, avvenuti dopo che fu nello scorso anno levalo lo stato di assedio, o sarà inappellabile.

«6. Le sentenze capitali verranno eseguite venti-quattro ore dopo la condanna, e pei rei presi in fragrante varrà la stessa regola che saranno eseguite entro quel tempo.

«7. Dalla pubblicazione della presente si assegna un perentorio termine di ore dodici pegli abitanti della città, e di ore ventiquattro per lutti gli altri del territorio di Carrara ad avere consegnate al ('. ornando locale «li piazza tutte le armi da fuoco, da taglio e da punta, non che ogni sorta di munizione, e scorsi i suddetti termini, chi sarà trovalo dalla pubblica forza delatore d‘armi, che doveva consegnare, o di qualunque altro istrumento alto ad uccidere, se il contravventore è macchialo di altri delitti, e che colla delazione di delta arma chiaramente addimostra una prava intenzione, sarà punito colla pena di morte, mentre in tutti gli altri casi di delazione, coi né pure di retenzione d armi, munizioni ecc., i contravventori incorreranno nella pena, secondo le circostanze, lino alla galera in vita.

«8. Dall’Ave Maria della sera lino a quella del successivo mattino, resteranno da oggi in poi chiusi tutti i luoghi di pubblico convegno, come osterie, caffè, e negozii di ogni sorte.

«9. Ogni assembramento, anche solo di tre persone, verrà disciolto dalla pubblica forza, la quale potrà ad ogni evenienza far uso delle proprie armi.

«10. Tutti gli albergatori pubblici ed alloggiatori privati denuncieranno immediatamente i loro ospiti attuali, che non siano della famiglia, e cosi quelli, che in seguito sopraggiunsero. I contravventori incorreranno nella multa di duecento sino ai mille franchi, ed in caso d’insolvibilità ad altra pena equivalente.

«11. Dall’Ave Maria della sera sino a quella del successivo mattino, nessuno potrà restar fuori di casa, e soltanto agli ecclesiastici ed ai medici, che per cura semplicemente di ammalali dovessero recarsi da una in altra casa, è permesso di sortire dalla propria abitazione.

«12. Ritenuto che l’ubbriachezza, alla quale s'abbandona una gran parte della popolazione, sia la causa principale degli atroci misfatti, che di sovente accadono, e volendosi tolto anche questo vizio, si dispone che tutti coloro, i quali saranno colti ubbriachi, abbiano ad essere arrestati, e nel successivo giorno puniti con pene corporali.

«13. Ogni sorta di dimostrazione politica, che non sia già compresa nel delitto di alto tradimento di cui al § 5, sarà punita col massimo rigore.

«14. I trasgressori agli articoli 8, 9 ed 11 della presente, e chiunque contravventore alle leggi vigenti di polizia, e chi osasse strappare dai muri questa Notificazione, saranno puniti in via disciplinare, o con pene corporali, o con multe da estendersi sino ai mille franchi a seconda dei casi.

«Carrara, li 6 ottobre 1857.

«Il comandante dello stato d‘assedio e del real corpo dragoni

Cav. De Widekkhorn.»

Un grido altitonante, rimbombante per ogni dove, promosso dal cozzo di armi arroventate nelle battaglie dei partiti, clericale e ministeriale, è sorto per le nuove elezioni della Camera parlamentare di Torino. Mai più, da che esiste parlamento in Italia, mai più venne sostenuta con tanta ferocia e tanto accanimento una lotta, e come quella che ora segnaliamo. Ogni arma fu posta in opra. Il partito clericale si fece forte, possente. Vescovi, canonici e preti, indistintamente, pugnavano con un ardore veramente battaglioso. Nelle chiese predicatasi, peccalo peccalo a chi non votasse per il clero. La stessa condanna o minaccia girava in una circolare dei Vescovi nelle mani degli elettori. Epperò dopo di aver spezzala più di una lancia, dopo di aver mitragliato a destra ed a sinistra, quel partito ottenne la maggioranza. Il ministero Cavour era minacciato. Laonde, quale barriera alla sua caduta, oppose un tentativo di avvicinamento colla Santa Sede. A tal uopo vennero inviate opportune istruzioni al conte della Minerva, incaricato sardo a Roma. Preconizzatasi quindi vicina la cessazione delle ostilità tra le due Corti, e tra il Governo piemontese, l’episcopato ed il clero.

Brofferio intanto andava glorioso pelle ovazioni che gli ultra-liberali gli tributavano e per essere egli eletto deputato alla Camera da un Collegio di Torino, e per il suo Tartuffo politico che rappresentavasi per la prima volta nei teatri della capitale con istraordinario successo. Di poco valore drammatico egli si era quel componimento, ma sibbene di grande rilevanza politica; egli sferzava la francese spedizione di Roma del 18. Un libro di lui, pubblicato pure in quei di, attirava anche l'attenzione pubblica intitolavasi: I miei tempi.

Addì 19 novembre pubblicavasi in Genova Atto di Accusa del processo politico del 29 di giugno, (vedi a pag. 178).

La damigella inglese Svingl. venne lasciata libera, considerala dal tribunale come presa da fellonia: estremo contemplato dalla legge. Il processo di Salerno invece non dava in quella data, ancora alcun sentore di vita: vizio codesto organico-burocratico di quella criminale procedura. Sapevasi soltanto, che alcuni passeggieri che viaggiavano col Cagliari, furono messi in libertà. Gli sforzi del governo sardo e della Società Rubattino non valsero presso il governo di Napoli per procacciare la libertà dell'equipaggio e del capitano del Cagliari: la legge doveva avere il suo corso.

Addì 3 dicembre, mancava a' vivi in Roma, compianto da tutta la città, il pittore, commendatore Filippo Agricola, ispettore delle pitture pubbliche di Roma, e della Galleria vaticana, direttore dello studio del mosaico nel Valicano, ex presidente e primo cattedratico di pittura nella pontificia Accademia di S. Luca. Gli artisti, residenti in Roma, sparsero un fiore sulla sua tomba!

Addì 14 dicembre, era immenso il concorso del popolo di ogni ceto accorso al palazzo Madama, nella gran piazza reale di Torino, ove sulla anti-artistica conformazione del peristilio di esso scoprivasi per la prima volta al pubblico la già da qualche giorno colà collocala marmorea statua del genovese scultore co. Vasco. Opera stupenda, codesto monumento, rappresentante al vero il Re Carlo Alberto, datore dello Statuto, e che il Re Vittorio Emmanuele donava al Senato del Regno. Ma non tanto lo scoprimento di quella statua attirava colà numerosissimo il pubblico, quanto veramente il discorso, che il Re doveva pronunziare in quella mattina per l’apertura solenne della nuova sessione senatoria e parlamentare.

Quel discorso, dopo l’accanita guerra per le elezioni che dicemmo, era atteso con altissima impazienza, e mai più, come in quella circostanza, fu vista quella magnifica ed immensa Aula cosi guernita di uditori. Al sussurro, indispensabile in mezzo a tanta moltitudine, intanto, lutto in un tratto, successe un profondo silenzio all’arrivo del Re, il quale, con una voce alla e vibrala, pronunziò il suo discorso nel seguente tenore:

«Signori Senatori, signori Deputati

«Nel ritrovarmi in mezzo a voi dopo le recenti elezioni, mi è grato manifestarvi la fiducia, che la nuova legislatura adempierà l'alta sua missione con patriottismo e senno pari a quello, di cui già diede prova la legislatura, che ha testé compiuto il suo mandalo. Non dubito rinvenire in voi il medesimo forte e leale concorso nello applicare e svolgere quei principii liberali, sui quali riposa, ormai in modo irremovibile, la nostra politica nazionale.

«Le nostre relazioni colle Potenze straniere si mantengono regolari e soddisfacenti.

«L’interruzione delle relazioni diplomatiche con uno Stato vicino, avvenuta per cagioni che l'Europa ha potuto apprezzare, sussiste tuttora; essa però non pose ostacolo al corso normale de' rapporti civili e commerciali de' due paesi.

«Ho ordinato al mio Governo di comunicarvi nuovi trattati, conchiusi nell'interesse della pubblica giustizia, della navigazione e del commercio colla. Spagna. colla Danimarca e colla Persia.

«L’aumento de' nostri interessi commerciali ne’ paesi stranieri ha reso indispensabile un migliore ordinamento del servizio consolare. Vi sarà sottoposto un progetto per attuare questa grave riforma.

«Sarà possibile, mercé una rigorosa economia, il mantenere nei bilanci il pareggio fra le entrate e le spese ordinarie, non ostante gli sfavorevoli eventi, che si opposero al regolare sviluppo delle risorse dello Stato. Converrà nondimeno ricorrere al credito per provvedere alle grandi opere iniziale dalla Spezia al Cenisio a difese dello Stato, a vantaggio ed onore della nazione.

«Signori Senatori, signori Deputati

«Volgono ormai dieci anni dacché il mio angusto genitore, chiamando i suoi popoli a libertà dava lo Statuto. Informando l’intiera mia vita a quell'atto magnanimo, ho dedicato ogni mia forza a fecondare il pensiero, che glielo aveva dettato.

«Possa la sua memoria, che oggi simboleggiala in marmo, confido alla vostra venerazione ((7)) inspirare tutte le vostre deliberazioni pel bene e per la gloria del Piemonte e della comune patria italiana.»

Il Piemonte e la maggior parte d’Italia accolse, come sempre, con altissimo interesse e favore la parola del Re Vittorio Emmanuele.

La lolla parlamentare per la convalidazione dei poteri fu lunga, ostinata, accanita, il partito clericale però non ebbe il sopravento, e sembrava più che mai possibile un avvicinamento coi Cavouriani.

Il processo incoato a Genova contro gli ostili all’appalto gabellario, vide la sua fine, colla peggio dei trafficanti. Colestoro nondimeno non cessarono dalla loro guerra contro il Governo per quella rovinosa misura. A lungo andare il Governo fu costretto a piegarsi e modificare in modo essenziale al mal fatto.

Alcuni sintomi intorno al processo di Salerno annunziavano, che il Tribunale delle prede radunatosi il 28 novembre sotto la presidenza del sig. Giacomo Whinspeare, sostituto del procuratale regio, aveva ritiralo dalla Procura di Salerno lutti gli atti di accusa, i quali vennero ben due volle rifiutali ai signori Castriota e Damora, difensori della Compagnia Rubattino. Epperò questi nella sessione del 28 novembre chiesero di poter parlare almeno col Setzia, capitano del Cagliari. Ma venendo loro negato anche questo, domandarono che il dibattimento venisse aggiornalo sino al cominciamento del grande processo di Salerno. L avvocato del fisco, negò loro purè tale aggiornamento. Laonde essi protestarono, abbandonando la sala della sedute. Quindi la causa fu trattata in contumacia, li Cagliari venne dichiarato buona preda: tanto sospettavasi al finire del 1857.

Ebbe pur luogo sulla fine di quest'anno un nuovo ammutinamento dei condannati ai bagni di Genova. La forza pubblica vi dovette accorrere, e non mancarono morti e feriti da ambe le parti.

Da un calore eccessivo nel cuore della state, che disseccò e strusse quasi tutti i raccolti nelle campagne e promosse l'idrofobia nei cani, si passò nell'autunno a piogge diluviali, che provocarono piene nei principali fiumi d'Italia, e straripamenti ed inondazioni quasi dappertutto. La desolazione quindi fu grande a malgrado i soccorsi preclari apprestati dai governi e dalla ricca cittadinanza. Crebbero materia di doglianza e di pubblica calamità, non tanto le crisi bancaria e monetaria che quasi in tutta Europa si fecero sentire col loro peso ingente sul commercio e sulle industrie, quanto le uccisioni ed i ferimenti, quali di carattere politico, quali per assassinamento. che nel corso del 1857 vennero perpetrati specialmente nello Stato pontificio e nelle Due Sicilie. Le eruzioni del Vesuvio e dell'Etna portarono guasti immensi. Gl'incendi in Lombardia, nel Piemonte ed in altri luoghi fecero subire grandi danni. La natura, soprattutto, sembrava irata contro le azioni degli uomini. Ovunque in Italia ella manifestò il suo potere tremendo, ora con fulmini che atterravano case ed abitanti, ora con gragnuole del peso di 3 a 4 libbre come nella Sicilia, ora con scosse del terremoto spaventevoli, fu celebre il disastro di Potenza e di comuni di quella provincia nel Regno delle Due Sicilie.


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CORTE D’ASSISE DELLA SENNA

TRAMA CONTRO L’IMPERATORE DE’ FRANCESI

(Presidenza del sig. Vanin).

Il 6 di agosto incominciò la discussione di questo importantissimo processo. Alle 10 e 5 minuti la Corte entrò in seduta. Vennero condotti gli accusati, e il presidente procede subito al loro interrogatorio.

Il primo accusato intende abbastanza il francese per rispondere alle domande del presidente, e dichiara di chiamarsi per nome Paolo Tibaldi ottico, dell'età di 30 anni, nato a bongo in Piemonte, dimorante a Parigi, rue Ménilmontant,122.

I due altri accusati (gliimputati Massarenti, Mazzini, Ledru-Rollin ecc. erano contumaci) non intendono il francese e il presidente gl'interroga per mezzo dell'interprete giuralo Culi. Il secondo dichiara di chiamarsi Paolo Grilli, detto Faronato nel 1829 a Cesena. Stati romani, cappellaio, dimorante a Parigi, me da faubourq St-Venis. 82. Il terzo si chiama Barlolotti Giuseppe, nato il 2 di novembre 1823 a Bologna, Stati romani, calzolaio, rue du foubourq St-Denis. 82.

Tibaldi è assistito da due avvocati, i sigg. Desmarets e Carlo Floquet, il primo designato d‘ufficio, ed il secondo scelto personalmente da lui per difenderlo. Bartolotti e Grilli hanno ciascuno difensori d'uffizio: il sig. Lacan del Consiglio dell'ordine, ed il sig. Le-canu.

Tibaldi ha una figura pallida lunga insignificante, è bruno, ha mustacchi biondi; durante la lettura dell'alto d'accusa non tralascia di girare i suoi sguardi in tutte le parli della sala.

Bartolotti è un bruno assai bello; il suo aspetto è regolarissimo della massima espressione, ma non giustifica quella riputazione di bellezza, che gli attribuirono di questi giorni certe corrispondenze straniere. Egli ascoltò con aria trascurata Tatto di accusa.

Grilli è brunissimo, e porta tutta la sua barba, il suo aspetto ha un'espressione melanconica, espressiva, che fa contrasto colla trascuratezza ed indolenza che apparisce dai tratti dei due altri accusati.

Atto di accusa

Il partito rivoluzionario non ha rinunziato a' suoi progetti e speranze. Vinto nelle lotte colla forza armata, respinto in Francia nella prova solenne di molte votazioni aperte al diritto universale di voto sarebbe stato ricondotto alla impotenza, se avesse saputo spiegarsi dinanzi al diritto ed al voler del paese. Londra è il soggiorno scelto da alcuni dei demagoghi più compromessi. Ivi, ai sa, ha una specie di Congresso insurrezionale al quale giunsero uomini delle più diverse nazioni onde congiungere il loro odio e le loro passioni. L’Imperatore Napoleone IIIè l'oggetto principale di quelle passioni e di quell'odio, perché è il più glorioso e più fermo rappresentante del principio di autorità. Nella logica rivoluzionaria, l’assassinio dell'Imperatore è l’unico mezzo di giungere a rovesciare le cose in Francia ed in Europa, e molti rifuggiti di LoudrP non si spaventarono di quella estremità; motivo per cui anche l'asilo ospitale, che una nobile nazione accorda, è divenuto focolare d’inquietudini e di trame.

Gli accusati Mazzini e Ledru-Rollin sono qualificati nell’inquisizione siccome quelli che fecero abuso criminoso della ospitalità loro accordata in Inghilterra. Più di una volta i loro nomi furono associati a progetti di assassinio, i cui autori furono sorpresi e scoraggiati dalla vigilanza delle Autorità.

Dalla fine del 1856, l’imminente rinnovamento del corpo legislativo era atteso come momento favorevole. Una lettera da Parigi del 2 novembre, che trovasi in processo, trattiene chi la ricevette con quelle colpevoli speranze. Vi si legge quanto appresso:

«Una occasione!!! Tocca a voi super quale..... Siccome parliamo di occasione, dobbiamo dire che le elezioni pel corpo legislativo produrranno molta agitazione. Una occasione in quel momento potrebbe aver a conseguenza molte cose. Nelle elezioni si applica il diritto universale di volo. Pensateci.»

L'autore di quella lettera, certo Piguiéres, fu interrogalo nella inquisizione. Non potè negare di averla scritta. Non nega nemmeno di averla scritta a Mazzini, ed i suoi sforzi per giustificarne o spiegarne le espressioni indebolir non ponno il significalo troppo chiaro delle espressioni medesime.

All'avvicinarsi delle elezioni generali, il Governo esercitare dovette attiva sorveglianza sulle mene all’esterno, che cercavano di trovare o di far nascere una favorevole occasione in mezzo all’agitazione elettorale.

A quel tempo, Mazzini lasciò Londra per recarsi a Genova, dove la sua presenza diede il segnale a sommosse in varii punti dell’Italia. Egli era rimasto in carteggio co' suoi amici e congiurati di Londra per quello ch'ei stesso chiamava l’affare di Parigi,vale a dire per un allentato che diretto contro la persona dell’imperatore, annientava il protettore della pace dell'Europa contro le passioni rivoluzionarie.

Fra i congiurati col Mazzini figura in primo luogo il Massarenti, il quale sembra ch'eserciti a Londra il mestiere di pizzicagnolo. il Massarenti è uomo operoso e temuto. Il Mazzini lo chiama in una delle sue lettere il secreto incarnato. Egli è quello, lo si vedrà in breve, ch'era incaricato d'ingaggiare gli assassini nelle osterie di Londra.

L’accusato Campanella, che si qualifica scrittore e amico, e ad un tempo agente del Mazzini. In assenza del maestro, gli era riuscito di eseguire a Londra gli ordini di esso, e d'intendersela col Massarenti.

Due altri nomi deggiono ancora essere profferiti, quello di Jamea Stanefield, birraio Mi Londra, che si fece il banchiere di Mazzini, e quello di Stalferd. persona meno rilevante della prima, e che per questo motivo senza dubbio era stata scelta a prestare il proprio nome pel carteggio fra Londra e Genova.

Nel 13 luglio 1807 fu sequestrata alla Posta di Parigi, in forza a regolare mandato, una lettera munita del bollo di Genova, in data 10 giugno e diretta allo Stalferd a Londra. Essa conteneva tre scritti di mano del Mazzini nei quali trovasi la prova del crimine, oggi rimessa ai Tribunali; prova tanto chiara e precisa che la inquisizione, che ne seguì, altro non fece che svilupparla.

Da più che un mese due assassini ingaggiali dal Massarenti, erano stati dal Mazzini e da Ledru-Kollin inviati a Parigi. Dopo aver ricevuto le ultime loro istruzioni, onde attentare alla vita dell'imperatore, furono indirizzati ad un complice, che abitava da molti anni Parigi, e che vi si nascondeva sotto falso nome per attendere occasione favorevole di commettere un crimine.

Molli mesi prima dell’arrivo di quei due assassini, era stato inviato a Parigi il materiale per la esecuzione del crimine. Consisteva esso in gran numero di pugnali e pistole, delle quali una formata da due soprapposte canne, rammentava per la sua forma la pistola di cui si servi il Pianori.

Finalmente, furono proposti dal Massarenti due nuovi assassini. Da Genova, ove trovavasi, il Mazzini incaricò il Campanella di giudicare in tua voce se dovessero essere ammessi, onde cooperare al loro orribile piano, e, pel caso che il Campanella gli accettasse, ordinò ad esso ed al Massarenti di levar denaro dal birraio Stanafield, per inviare i due nuovi complici a quello di Parigi, e farli da questo provvedere di armi, che avrebbe scelto fra il materiale già poeto a sua disposizione.

Tutti questi fatti risultano chiari e precisi da tre lettere, il cui contenuto esser dee qui fatto conoscere.

La prima è diretta al Massarenti, come indicano la soprasserita e la parola con cui comincia, e dice:

«Caro Massarenti.

«Ho ricevuto la vostra lettera del 6 (porla la data del 10 giugno). In quanto riguarda i due amici di Bol(verisimilmente Bologna) e di Pa (verisimilmente faenza), la cui proposta mi avete fatto giungere, la cosa è divenuta più importante che mai, perché ne dipende tutta la questione, lo non posso però giudicarne. Voi lo potete, Li conoscete voi bene? Li ritenete idonei ed effettivamente risoluti? Andate allora dal Camp (Campanella), e parlate con lui. lo ne l’ho incaricato ed istruito. Rammentatevi quel che vi ho detto intorno al metodo, che dee essere seguito: indipendenti fra essi; due e 'due: questo è l’unico mezzo. Se l’amido è partito, il che conoscerete dalle Gazzette, è inutile tanto per voi, quanto pei due, che sono con voi. Quando ritorni dalla campagna e rimanga, allora i due vecchi amici avranno bisogno di qualche denaro. Se andrete dall'amico della Birreria, ve ne darà per essi: io gliene ho dato ordine. I due nuovi esser deggiono economi. Darei volontieri dei milioni, ma non posso. Le spese in Italia sono incredibili.

«Il vostro Giuseppe.

In questo linguaggio si poco velato si è facilmente riconosciuto il progetto di assassinare l'imperatore, non che l’impedimento accennatovi, che si opponeva all'esecuzione, vale a dire il viaggio di S. M. a Fontainebleau; finalmente un soggetto di preoccupazione, che si riferisce all'Italia, e che rende più importante che mai la cosa, che debb’essere fatta a Parigi.

Gli affari d’Italia occupano maggior posto nella seconda lettera diretta al Campanella.

Il Mastini parla in essa prima di un incidente, ch’esponeva a pericolo ilsuccesso de suoi progetti; ma le amare osservazioni, che quello gl’inspird, ricondussero presto le sue idee all’affare di Parigi. Questa seconda lettera porla a soprascritta l’unica parola Camp, che indica sufficientemente l’accusato Campanella. Ma la data del 10 giugno, come la precedente, e comincia colle seguenti parole:

«C. F. (verisimilmente curo Fratello)

«Un iutiero edificio, costruito con immensa difficoltà, con successoinaspettato fin oggi, e nota bene che oggi era il giorno decisivo. è stato rovesciato da un colpo di vento, in seguito ad un navigli. sorpreso da burrasca, che gettar dovette in mare il materiale ed altri oggetti. Giacché, senza queste cose, non può essere eseguita l'altra operazione, che dovea aver luogo oggi, e che non poteva fallire. Sarebbe cosa da ballerai la lesta nelle muraglie. Io nolfo, e dico che bisogna cominciare di nuovo. Saper devi che ho ancora una probabilità di ricostruire in un soffio l’edilizio. Ne saprò qualche cosa domenica prossima..

«Ora ascolta. Vuoi tu udire in colloquio segreto il Massarenti sull’affare di Parigi. Sappi che quell'affare è più desiderato ed urgente. Due sono quelli, che si propongono; ma la questione principale ai è di sapere se egli li conosce, se li conosce bene, e se li ritiene idonei. In raso affermativo, se domandano denaro per vivere sul luogo un mese, se le loro domande sono moderale, e se la convinzione del Massarenti è favorevole, allora cerchi egli o cerchino essi passaporti, lo non posso da qui occuparmene. Qui annessa una riga per l’amico noto al Massarenti, che abita in via Ménilmontant N. 422. Ivi troveranno il materiale. Ve ne hanno due altri. Ma sono d'avviso che operino indipendentemente gli uni dagli altri. io opero qui in egual modo. Se tutto va bene, domanda denaro a James. cui ne do avviso, ed a cui t’indirizzo, li Massarenti, gli delibo dopo lunga esperienza rendere questa giustizia, è il segreto incarnato, e basta che tu abbia a fare con esso. La cosa è vitale pel paese, e quindi conto su te, Addio: con una burrasca nel cuore, sempre il tuo Giu.»

Il terzo scritto che alla forma di semplice viglietto, era chiuso nella lettera al Campanella. Era visibilmente diretto al complice dimorante a Parigi, incaricato di ricevere e dirigere gli assassini. Il ricevente vi è indicato colle sole lettere A. P. T. che significano A Tibaldi, è concepito come segue:

«I latori sono in tutto gli stessi, come i due che conoscete. Trattateli quindi nello stesso modo e senza riserva. Ma fateli operare separati. Ciò è meglio per tutti — 10giugno — Il vostro Giu.»

I tre scritti, qui prodotti, non danno solo i segreti dei congiurati. E lettera al Campanella contiene eziandio prezioso cenno, mediante il quale molti di essi poterono essere arrestati, e dati inmano alla giustizia. Si leggeva in essa che l’amico comune del Massarenti, vale a dire il complice di Parigi, abitava nella via Ménilmontant N. 122. Del reato, per anteriori indagini, si era già scoperto il suo nome, Paolo Timidi. Ciò però che quelle prime indagini non avevano potuto far conoscere, si fu elle in quella casa della via Menilmontant N. 122 avesse a trovarsi il materiale del crimine.

L’accusato Tibaldi fu arrestato nel 13 giugno, in sua casa. Nello stesso giorno, ebbe luogo l’arresto degli accusati Bario lotti e Grilli, in una camera, che abitavano nella strada del sobborgo 8t. Denis N. 82, e precisamente il primo sotto il falso nome di Lazzari, ed il secondo cotto quello di Faro. Nello stesso tempo si sequestrò nel portafogliodel Tibaldi l’indirizzo del birraio Stansfield di Londra, e nelle carte del Bartolotti una lettera, che il Massarenti gli avea scritto nel 26 maggio 1857. il tenore della quale verrà riferito piùsotto.

Un sequestro ancor più importante fu Tatto nel 4 giugno presso i coniugi Gallibourg, abitanti la stessa casa del Tibaldi, via Mé-niltnontant N. 122. Verso il mese di febbraio 1857, la signora Girci, abitante col Tibaldi, avea ricevuto dai coniugi Gallibourg il permesso di deporre nella loro abitazione un baule chiuso, che come diceva spettava al Tibaldi. Dopo di aver la giustizia fatto aprir quel baule, trovò nascesti tra vecchi vestiti e stracci cinque pugnali di fabbrica inglese, quattordici pistole da tasca a doppia canna, una pistola di cavalleria con due canne una soprapposta all’altra, un revolver con 5 canne, due forme da palle e due scatolette con capsule. Tutte queste pistole erano cariche a palla e pronte a far fuoco. Due periti armaiuoli giurati invitali dalla giustizia, dichiararono che la pistola di cavalleria, e specialmente il revolver erano armi di grati precisione. In quanto ai pugnali, essi erano tutti rinchiusi nelle loro guaine, e spalmati di una materia bruna, di sospetta apparenza. Unchimico giurato, incaricato dell'analisi di quella materia, dichiarò non aver essa la più piccola somiglianza col grasso cui quale ai ungono le armi onde preservarla dalla umidità, avendo scoperto ruggine su molti dei sequestrati pugnali: sembrare derivarsi da materia vegetabile: però sebbene non contenga materia velenosa, potei' essa in certi casi, produrre ferite d’indole maligna.

Il Tibaldi è un lavoratore di oggetti ottici, nato in Italia, sebbene dal 1850 viveva a Parigi. Ha confessato d’aver fatto, nel 1852, un viaggio a Londra: di osservisi trattenuto un anno; di esservi ritornalo io gennaio 1857, ma questa volta di non esservi restato Che tre settimane. Fin dai suo primo interrogatorio, quell’acculato si difese negando, e persistette sino alla fine in quel sistema di difesa. Semplici negative non potevano però bastare a fronte di certi fatti, provati sino all’evidenza nei primi atti dell’inquisizione. Quando p. e. sostenne di non conoscere il Massarenti, gli furono presentate due lettere, sequestrate alla Posta, una delle quali direttagli dal Massarenti l'8 giugno, e l’altra il 12 dello stessi mese, e che cominciavano ambedue calle parole; «Caro Tibaldi.» Forzato egualmente a confessare di aver avuto relazioni colBartolotti, ammise di averlo conosciuto nei 850 a Torino, e di averlo di nuovo incontrato per accidente a Parigi, poco tempo prima del suo arresto. Ma quasi subito fu smentito dalla dichiarazione del Bartolotti che la loro conoscenza risaliva all’epoca, molto più anteriore, in cui Grilli e Bartolotti erano stati inviati a lui a Parigi, onde commettere un attentato contro la vita dell'imperatore. Il Tibaldi aveva prima nel più solenne modo negato che la sig. Girot avesse a richiesta di lei, depositato presso i coniugi Gallibourg il baule, contenente armi. Quando gli furono fatte vedere quelle armi e quel baule, fu nella necessità di riconoscere il fatto limitandosi a sostenere che il baule, gli era stato affidato un anno prima da un certo Merighi, e ch’egli non ne conosceva il contenuto, non essendogliene state date le chiavi ed avendogli detto il Merighi che conteneva libri e carte.

Risulta però dalle formali dichiarazioni della signora Girot, che il baule in questione era stato portato da Tibaldi nell’abitazione, tuffai più cinque o sei mesi prima, e certo dopo il viaggio fatto da Tibaldi a Londra nel gennaio 1857. Quando poi s’ingiunse a Tibaldi di vestire l’abito ed i calzoni, fra' quali erano nascoste quelle armi, risultò che si adattavano perfettamente alla sua persona. Da ultimo nell’ulteriore corso dell’inquisizione fu data la smentita più assoluta alla negativa del Tibaldi; infatti la chiave del baule fu trovata il 18 luglio nella sua stessa abitazione: essa ci era stata veduta il giugno, senza che allora si potesse sospettare dell’importanza di quel mezzo di prova.

Nella prima fase della procedura l’accusato Grilli avea tutto negalo. Posto meno in imbarazzo dal Tibaldi pei ottenuti risultamenti della inquisizione, potè trincerarsi dietro assolute negative. Il Bartolotti, diss’egli, era l'unico degli accusati che. avesse conosciuto. Lo avea veduto la prima volta sul naviglio che gli avea trasportati da Londra, e quella circostanza del lutto accidentale, gli avea indotti ad alloggiare insieme a Parigi. Il Bartolotti, sin dal primo momento si è mostrato più disposto a confessare almeno parte della verità.

Nel suo interrogatorio del 13 giugno, confessò di essere venuto da Londra a Parigi alla fine di aprile 1857, con passaporto al nome di Lazzari, ed in compagnia del Grilli, che anch’egli si teneva nascosto sotto il falso nome di Faro. Il Tibaldi procurò a sè ed a lui un alloggio nel sobborgo di St. Denis. Dopo aver essi passato qualche tempo a Parigi, egli solo ritornò in Inghilterra e si ricondusse a Parigi soltanto a' primi giorni di giugno. A landra avea veduto il. Massarenti, ma non conosceva il Mazzini, e non avea avuto missione di assassinare l’Imperatore.

Se non che un scritto importante trovalo presso il Bartolotti al momento del suo arresto, bastato avrebbe a provare alla giustizia che queste ultime parole non erano sincere. Egli avea ricevuto a Vorck dal Massarenti al Unire di maggio 1857, la lettera seguente.

«Londra 26 maggio.

«Caro Bartolotti

«Siamo adesso in un bell’imbarazzo. Ricevo in questo momento una lettera del vecchio, che mi parla di voi due, giacché crede che vi troviate ancora al vostro posto. Ei crede inoltre che voi persistiate a rimanere, ed essere probabile ch'egli senta che la cosa sia stata eseguita, veduto che secondo relazioni avute, quel boia partirà da un momento all'altro pel luogo indicato. Che debbo rispondergli? Nella lettera, che ho ricevuto, ei mi dice che spera nel vostro buon volere, che non vi stancherete di stare al vostro posto nemmeno quando ei fosse partito, giacché sicuramente vi ritornerà.... Credo che tu m’intenda senza che ti spieghi tutto. Adesso egli vuole risposta. Che cosa devo rispondergli? Se tu avessi fatto quel che ha fatto Paolo, se tu fossi rimasto al tuo posto, non saremmo adesso in imbarazzo. Tu non bai più denaro; l’altro forse ne ha ancora. Cosi non havvi più ragione da addurgli: se almeno fosse alato speso sul luogo! Ciò non farebbe nulla giacché era a ciò destinato; ma non era stato dato per andare a spasso. Se non ve ne fosse stato più non vi sarebbe verun male a scrivermi. Avrei fatto tutto il possibile per inviarvene, sia per ritirarvi, sia per rimanere. Io avrei operato secondo gli ordini che avessi ricevuto.

«Vedo bene che sei un po’ troppo innamorato. Ma quando si hanno in mano interessi di tal fatta, bisogna lutto dimenticare. Intanto ti saluto.

G. Massarenti.»

Il contenuto di questa lettera non ba bisogno di commento. Vi si vede chiaramente che un progetto di assassinio contro la vita dell'Imperatore avea condotto a Parigi il Bartolotti ed il suo camerata, indicato col nome di Paolo, che Don. è altro che il nome di battesimo del Grilli; che quel progetto fu sospese pel ritorno del Bartolotti in Inghilterra; e che finalmente i rimproveri del Massarenti indussero l’ultimo a ritornare in Francia onde eseguire il suo abbominevole progetto.

Di quel ritorno parlava il Tibaldi in una lettera del 4 giugno, che la signora Girot sostiene di aver scritto sotto la sua dettatura, e ch’egli diresse al Mazzini, il quale per intelligenza tra essi, chiamava suo zio. Quella lettera, sequestrata dietro regolare mandato, dice quanto appresso:

Parigi 4 giugno 1857.

«Mio caro zio

«Questa è la terza lettera che vi scrivo senza averne risposta. Ilo collocato uno dei vostri amici in una delle migliori case. L’altro era partito, egli è, com’era vostra volontà, ritornato. Vi dico che il nostro ammalato non istà meglio. Egli viene qui di tempo in tempo, e credo che in questo modo sarà difficile guarirlo. [Nulla però si risparmierà per giungere a) nostro scopo.»

Il Massarenti, al quale il Tibaldi aveva dovuto inviar la sua lettera per farla giungere in mano a Mazzini, ne accusò la ricevuta colla seguente, pure in modo regolare sequestrata:

Londra 8 giugno 1857.

«Caro Tibaldi!

«Ho ricevuto la cara vostra lettera, che inviar deggio a vostro zio. Siccome è andato per affari in Irlanda, gliel’ho inviata, e credo che vi risponderà subito e direttamente.»

Massaro.»

In faccia a documenti tanto certi, il Bartolotti conoscer dovette la necessità di fare un passo avanti nella verità. Lo fece, tentando però di non dire l'ultima parola, elle avrebbe reso compiuta la sua confessione. Nel suo costituto del Iti giugno, ed in quelli de' ti e 47 luglio, il Bartolotti rese noti i latti seguenti:

In aprile, egli era soldato recentemente licenziato della disciolta legione anglo-italiana, a Yorck, e trovavasi in estremo bisogno. Il Massarenti andò ivi a trovarlo, e gli propose un affare, che, come diceva, doveva recargli denaro; lo menò seco a Londra e lo condusse una prima volta dal Mazzini. Colà trovavasi col Mazzini un Francese Corpulento, che portava mustacchi, il cui nome fu pronunziato davanti a lui. Il Bortolotti espresse quel nome col suo accento italiano nel modo seguente: Rodrone-Rolline. Il Mazzini parlò dell'affare alla presenza di quel Francese. Ei disse all’accusato: «Sarete in due. Vi recherete in vicinanza al palazzo dell'imperatore. Vi terrete imo da una parte, l’altro dall’altra. Non abbandonarle il vostro posto, e mi farete sapere se l’imperatore esca di giorno e ritorni di notte.»

Una seconda conferenza ebbe luogo presso Mazzini alcuni giorni dopo. Massarenti e Grilli v’erano; Ledru-Rollin non c’era. Fu annunziato agli accusati che dovevano recarsi a Parigi, e si consegnò loro l’indirizzo del Tibaldi, via Ménilmontant n. 122. IlMazzini disse loro: «Direi digiunger da Londra; ciò batterà. Aggiungerete: conduceteci al palazzo dell'Imperatore, e vi ai condurrà.»

La mattina del dì, incui ebbe luogo dal Mazzini la seconda conferenza, il Massarenti disse al Bartolotti. che gli domandava denaro, parlandogli della propria miseria, quanto appresso:

«Mazzini le ne darà; ma in questo memento non ha un soldo, e te ne potrà dare solo quando quel Francese gliene darà. Nemmeno io ho denaro, e ne avrò solo quando Rodrone Rolline ce ne avrà dato. (Son sicuro aggiunse qui, il Bartolotti, che in quel momento quel nome fu pronunziato dal Massarenti).»

Il Massarenti diede poscia al Bartolotti cinquanta pezzi da venti franchi. Quest'ultimo non sa quale somma abbia ricevuto il Grilli. Due o tre giorni dopo Rimbarcano per la Francia. Il Tibaldi li ricevette a Parigi, li condusse al palazzo dell'imperatore, e procurò loro un abitazione, appigionala per essi al Tibaldi da un portalettere dell'Amministrazione delle Poste. Tutti questi particolari, desunti dai costituti del Bartolotti. vanno perfettamente d'accordo cogli altri elementi dell'inquisizione. Ma il Bartolotti credette di poter isfuggire alle conseguenze, che per lui ne derivano, aggiungendo di non aver avuto missione di uccidere l'imperatore, ma di sorvegliarne i passi e di renderne conto a quelli, che lo avevano inviato.

Se fosse necessario provare che il Bartolotti intese diversamente lo scopo ed i pericoli della sua missione, basterebbe forse citare una lettera sequestrata, e nella quale scriveva nel 10 giugno, ad una donna, che trovavasi a Yorek, che ritornerebbe, se sopravvivesse. Ma contro le deposizioni del Bartolotti, la procedura somministrò una prova congiunta ad un tempo e chiara.

L'accusato Grilli, come si è detto di sopra, aveva negato tutto. Confrontalo, nel 13 luglio, col Bartolotti udì in tutti i particolari le dichiarazioni di quest'ultimo. Il magistrato lo interrogò quale di essi due, fosse il bugiardo. «lo» rispose Grilli «dirò tutta la verità, e se dimentico la più piccola cosa, mi si tagli la testa,»

L'accusato fece quindi coll'accento della più compiuta verità un racconto, che fu d'uopo riassumere con esattezza.

Fin allora, il Grilli avea conservato il suo falso nome di Faro. Rinunziò in appresso nascondere la sua individualità. Ammise di chiamarsi Paolo Grilli, nato a Lesena nello Stato pontificio. Lasciò la patria nel 1854, per isfuggire ad un arresto, di cui era minacciato. Da quel tempo, visse a Genova, Marsiglia, e poscia a Londra. Un giorno trovavasi a Londra senza mezzi, ed incontrò il Massarenti, che in un colloquio gli disse: «Mazzini ti dà 50 napoleoni d’oro per assassinare l'imperatore.»

Il Grilli domandò due o Ire giorni per pensarci, dopo i quali accettò. Allora il Masurenti fece venire il Bartolotti da Yorek.

Il Grilli nonfu presenta mnon alla seconda conferenza dal Mazzi!. Non vi erano presenti altre persone, oltre al Massarenti ed al Bartolotti. Ivi ei combinò l'affare, e vennero date istruzioni. Il Mazzini disse loro apertamente; «Studiate le abitudini dell’imperatore ed eseguirete il vostro colpo, quando ve ne sembri favorevole la occasione.»

Ebbero dal Mazzini ognuno 60 napoleoni d'oro, e partirono. «Non so, aggiunse il Grilli, se il Tibaldi fosse nel segreto del nostro arrivo; ma lo seppe presto, giacché gli narrammo la cosa, e più lardi mi diede due pugnali, uno per me, ed uno per Bartolotti.»

Sotto il peso di tali aggravanti parole, il Bartolotti tentò però di sostenere la sua versione. «Non bisogna dire la verità a mezzo», rispose il Grilli, a lo bo cominciato col negare tutto. Ma, quando tao veduto che tu hai detto una parte della verità, stimai meglio confessare tutto. Avresti dovuto farlo anche tu, poiché bai cominciato.»

Eccitato ilTibaldi a dichiararsi, dal canto suo, si limitò a rispondere, che il racconto del Grilli era -un tessuto di bugie.

Una delle cose, per altro, raccontate dal Grilli, diede subito occasione di verificare la sua sincerità. Egli avea detto che i due pugnali, datigli dal Tibaldi, si trovavano in un sito, ove gli avea nascosti, e precisamente sotto un cassettone in vicinanza alla finestra, nell’alloggio che avea preso presso i coniugi Augrand, nella strada del sobborgo Si. Denis n. 91.

Nello stesso giorno, un commissario di polizia recossi dai coniugi Augrand, e trovò i due pugnali nel sito indicato. Quei due pugnali, che trovavansi nel loro fodero, erano pari a quelli sequestrati nel 4 giugno nel baule. La materia grassa, che li copriva, era, per dichiarazione dell’esperto Lassaigne, della medesima qualità di quella, sulla quale aveva già fatto esperimenti..

«La consegna fatta dal Tibaldi al Grilli dei due pugnali in discorso, «piega un fatto, sul quale le signore Girot e Gallibonrg, subito da principio deposero davanti algiudice inquirente. Risultava dalla dichiarazione di que’ due testimonio che, un mese circa avanti Iamato del Tibaldi, la sig. Girot era andata a riprendere in casa della sig. Gallibourg il baule, di cui aveva acconsentito d’esser depositarla, e l’aveva riportato il dì appresso. Si conosce ora il motivo di quel momentaneo spostamento. Al tempo, in cui ebbe luogo, cioè in principio del maggio 1867, il Grilli ed il Bartolotti erano giunti a Parigi, ed a quel tempo il Tibaldi gli armò di pugnali, evidentemente levati dal baule suddetto.

Le deposizioni dell’accusato Grilli, che tanto perfettamente si accordano cogli altri documenti della inquisizione, offrono la pruova più decisiva, tanto del crimine, deferito al giuri, quanto della parte ad esso presa dal Massarenti, dal Tibaldi, dal Bartolotti e dal Grilli.

Soltanto due accusati non aono aggravati dalle deposizioni del Grilli, Ledru-Rollin e Campanella, ma la prova della loro colpa non è meno sicura. Il Ledru-Rollin assistette alla prima conferenza presso il Mazzini. Se non prese parte attiva alle pratiche, ne comprese però e ne approvò, in ogni caso, lo scopo e le conseguenze. Giacché il Bartolotti in questa parte della sua dichiarazione, non può essere sospettato di menzogna. Egli si è allontanato dalla verità, in quanto negò il vero scopo del mandato da lui accettato; e perfino la forma, nella quale fece la sua deposizione relativa al Ledru-Roliin, sembra porgere prova ulteriore della perfetta esattezza di essa. Lo stesso dicasi in riguardo al denaro, che domandò ed ebbe dal Massarenti. Il Bartolotti asserì non poter dire che il Ledru-Rollin abbia dato quel denaro; ma dice che il Massarenti rispondendo alla sua prima domanda, dichiarò che il Ledru-Rollin darebbe il denaro.

In quanto al Campanella, la lettera per esso destinata dal Mazzini offre la più compiuta ed inoppugnabile prova. Essa mostra che Campanella era iniziato a tutti i progetti del Mazzini, anche a quelli diretti contro l’Italia; rivela nel più chiaro modo che il Campanella prese parte a quanto fu fatto fino al 10giugno perché la tram,, di; retta contro l'imperatore, raggiungesse il suo scopo. Finalmente esse incitava il Campanella a continuare nella criminosa sua cooperazione, dandogli ordine di mandar contro l’imperatore due nuovi ree Maini.

E però Paolo Tibaldi, Giuseppe Bartolotti, Paolo Grilli detto Faro, Giuseppe Mazzini, Alessandro Augusto Ledru-Rollin, GaetanoMassarenti e Federico Campanella, i quattro ultimi assenti, sono tutti accusati di avere nel 1857, con risoluzione, d’operare fra essiprogettata e stabilita, formato una trama, avente per iscopo un attentato contro In propria vita dell’imperatore; trama seguita da un attocommesso o cominciato per prepararne la esecuzione; crimine preveduto dall’articolo 89 del Codice penale.

Dopo l’interrogatorio degli accusati, dopo la requisitoria. del procuratore generale, dopo le arringhe dei difensori, i giurati si ritirarono nella saladelle loro deliberazioni, e in capo a tre quarti d’ora ritornarono con un verdetto affermativo su tutto le questioni.Circostanze attenuanti sono ammesse a favor di Grilli e di Bartolotti.

Gli accusati, interrogati dal Presidente se abbiano qualche cena da dire sull'applicazione della pena; rispondono negativamente'; e la Corte, dopo averne deliberato nella Camera del Consiglio, applicando gli art. 89, 17, 20 e 163 del Codice penale, condanna Tibaldi alla pena della deportazione, Grilli e Bartolotti a 16 anni di detenzione.

I tre condannati si ritirarono senza profferire neppure una parola.

CORTE D’ASSISE DI GENOVA
Processo politico del 20 Giugno
ATTO DI ACCUSA

Il partito rivoluzionario, che dopo il 1848 foce ostinati e deplorabili sforzi por rovesciare tutti i troni e scomporre ogni ordinamento e reggimi sociale, persiste ne' suoi divisamenti, non crede alle Costituzioni dai Re, dice la Monarchia impotente, necessaria la Repubblica a sostituire un' Italia indipendente, libera ed una.

«Per impulso di questi principii. manifestali da lungo tempo pressochéin ogni foglio del giornale Italia del popolo,ripetuti nelle riunioni delle Società del Tiro nazionale e degli Operai, venne ordinata quella cospirazione, che, per la vigilanza dell'Autorità, la sera del 29di giugno 1857 nei primi moti venne repressa.

Uno straordinario movimento ai osservò di fatto in quel giorno: assembramenti nel sestiere di Prò, nella salita alla Zecca, e nella contrada di Vallechiara: alle ore IO e mezzo di notte, fu rotto il filo elettricotra Genova e Torino.

Nella notte furono sorprese più persone in contegno sospetto, amati di stili e di cartucce. Verso le ore due dopo la mezzanotte, furono sequestrato armi e munizioni da guerra in tre magazzini, posti in detta strada Vallechiara, nei quali furono pure osservate le tracce d'una recente adunanza.

Nellastessa notte si tentò invadere ilforte dello Sperone,fu invaso quello del Diamante, ed uccisovi il sergente, che ne comandava te guardia. (!)

Noi giorni immediatamente successivi vennero fatti altri sequestri d'armi e munizioni da guerra in diversi luoghi di Genova e nelle adiacenze; furono eseguite più perquisizioni domiciliari, vennero arredale varie persone, che indicate si erano d'aver preso parte all’attentato, il quale evidentemente mostrossi diretto a sovvertire e mutare la forma dell'attuale Governo.

Dato giudiziali informazioni pienamente apparisce in qualunque e con quali mezzi ai riuscisse a conchiudere la cospirazione, come ai volesse mandare ad effetto, come e quali fatti seguissero, e qual fusse la parte degli accusati.

Giuseppe Mazzini, nome che figura in tutte le cospirazioni, che da più anni si sono ordite in Italia, viene indicato pubblicamente quale capo del partito d’insurrezione, avente sua sede principale a Londra; gli affigliati sono distinti colnome di Mazziniani.

Ch’egli eccitasse, dirigesse la cospiratale, o megliol’attentato di cui trattasi, risulta da varie sue lettere, dagli articoli per esse pubblicati con quattro supplementi nel dotto giornale Italia del popolain luglio, agosto e settembre 1857, intitolati: La situazione.

Constò d’altronde ch’egli era in Genova sei mesi circa prima dei fatti sovrannarrati e nel giorno medesimo in cui succedevo, Od in qualche altro intervallo del giugno e del luglio ora scorsi.

E che dal Mazzini tose dato il comando di agire, lo disse l'accusato Giambattista, vulgo Antonio, Casareto, il 29 giugno, mentre saliva il forte Diamante.

Il tenore poi di due lettere colla data 27 e 28, sequestrati il 1. di agosto ultimo al detenuto Antonio Bisso, riconosciuto di carattere di Giuseppe Mazzini, vengono a maggiormente dimostrare che il 28 di luglio egli era tuttavia in questo reame; e non solamenteavea diretto il fallito attentato, ma proseguiva a congiurare, incaricando il suo corrispondente (chedalle iniziali potrebbe essere Filippo De Boni) a coltivare il popolare elemento, creduto il più atto per riuscire vittorioso.

Némen chiara sarebbe la lettera, scritta da lui culla data di settembre 1856, sequestrata nella casa e fra le carte dell’accusato Antonio Mosto. E vi è questo il tenore:

«Settembre 1856.

«Fratello

«Scrivo queste linee a dichiarare ad ogni patriotala credente nei principii ch’io seguo, che il vostro Comitato d’azione costituito in Genova è in pieno accordo con me, e che avrò qualunque appoggio prestato dai patriotti alle vostre operazioni come fosse prestato alla mia Desidero vivamente che possano nel vostro lavoro uniformarsi lutti gli elementi attivi delle Stato.

«Credetemi vostro

Giuseppe Mazzini.

I termini di questa lettera seno più che sufficienti a far conoscereche un Comitato d’azione si era per cura di taso Motte stabilito in Genova, e che il Mazzini approvava quanto erasi fatto.

A meglio chiarire poi la natura e lo scopo di quel detona di aziono furono posti in sequestro nella casa del Motto due fogli di disegni e Memorie sull’arte delle fortificazioni e sul tiro d’artiglieria, non che diverse copie litografate della sottoscrizione nazionale per la compera dei diecimila fucili da darai alla prima Provincia italiana che sorgesse.

Frequenti nel mete di febbraio e giugno p. p. furono le radunanze in casa del Motto, alle quali, per invito dell'accusato FrancescoBartolommeo Savi, intervennero insieme a costui gli altri accusati Luigi Stallo, Gio. Battista Casareto, Angelo Mangiai.

E con altra lettera, sequestrata presso il detenuto Giuseppe Prina, scriveva Giuseppe Mazzini, un anno circa addietro, al medesimo Savi;

«C. S.

«V’hanno chiesto il cambio della Gazzetta dei Giuristidi Torino? Potete farlo. Se per ciò non ve l'hanno chiesto, o noi fate, siccome m’importa, per nostre trattative, fatemi il piacere di mandargli l'Italia e Popolo,cominciando dal num. 26. Tenetemi conto dell’abbonamento mensile, vi darò il danaro vedendovi.

«A proposito di trattative, l’articolo di Maurizio d’oggi è buono; ma il tocco vi è inopportuno; parlo della prima parte. Tratto io coi moderati per avere dell'unione, per fare che il loro linguaggio, modificalo nel senso nostro, giovi nell’opinione, per vedere se posso strappare qualche aiuto efficace ad uomini come Pallavicini, ecc., finalmente, per metterli nel torto, se ricusano, davanti al paese; ma come ci tratta, se il giorno dopo di una mia lettera, o articolo, buttavamo loro in faccia, a proposito di Milano, il nome di traditori? All’Espero, a Bianchi Giovici, ai Corriere,può dirsi ogni cosa, ma i moderati son per un altro partito quel degli uomini, coi quali diplomatizzo, quel del Diritto,ch'è già sul modificare il linguaggio: e via così.

«Per me dovreste, come vi aveva già detto, cangiar ora per un po' di tempo di lattica.

«Non rispondete mai a quei giornalacci, finché abbiamo liste.

«Lasciar da parte il Governo, trattarlo come se non esistesse per noi.

«Non tornare, per un certo tempo, su Milano, tradimenti, n che so io, o non appiccarli a tutto il partito, che si dice moderato.

«Gli articoli dovrebbero predicare insurrezione all’Italia, i modi di fari, i suoi doveri al piemontese popolo, e via cosi, e lasciatemi gli articoli che riguardano i partiti. A che giova il contraddirci? lo non ho voglia di discutere con Maurilio, che ha qualche anno più di me, e col quale ai vive; ma voi, direttore,» e approvate, avreste facile il modo, indicandogli soggetti d’articoli.

«Addio.

«VostroGius.

«P. S. Vi mando alcune liste grame, ma tutte insieme possono tornareuna tersa.

«Torino — mercoledì.»

Il tenore di tale lettera è abbastanza chiaro per far conoscere che il vero direttore dell'Italia del popolovoleva essere esso Giuseppe Mazzni, e che il Savi non dovea essere, e non era, che un agente di lui, e perciò un agente del partito d’insurrezione.

E di vero, lo stereo Savi si fu quello, che in ogni foglio di detto giornale manifestava le tendenze sovraenunziate avverse al Governo; si fu quello che apriva una sottoscrizione per l’acquistodi 10,000 fucili da somministrarsi alla prima Provincia d’Italia, che fosse insorta, e ne pubblicava le liste; si fu quello, che, a seguito di lettera direttagli da Giuseppe Mazzini, il 23 maggio 837, stampava colia lettera medesima le istruzioni generali pegli affigliati della Giovine Italia.

Oltre di che questo medesimo Savi, il 26 d’aprile 867, ai trasferiva a Serravalle coi suoi del Tiro nazionale, presieduti dal suddetto Antonio Mosto, ed ivi manifestava pubblicamente tendendo alla Repubblica, dimodoché si gridarono evviva alla Repubblica europea e a Mazzini.

Fu in quella riunione ohi disse vicino il giorno della lotta, e non doversi tenere a vile il pugnale, giacché ogni mezzo era lecito, quando si trattava di liberare la patria.

Ma se si pon mente a siffatte parole, od al numero dei pugnali quindi sequestrati, riesce ad evidenza provalo come fosse già sin d'allora conchiusa la cospirazione, e scelte quelle armi, che dovevano impugnarsi per metterle in atto.

Che coi discorsi soliti a tenersi nelle riunioni del Tiro nazionale si manifestassero le stesse tendenze, raccogliesi anche da due scritti sequestrati fra le carte dell’accusato Luigi Stallo, in cui si leggono le parole dette da lui, quando la Società si riuniva in Genova nel teatro diurno, e quindi in Chiavari.

Che finalmente la fazione rivoluzionaria ei giovasse dulia Società del Tiro nazionale per acquistarli proseliti, chiaramente ai evince da quanto dissero i detenuti Ferdinando Deoberli e Giuseppe Sanguinetti. Narrava il Deoberti che l’accusato Ignazio Pittaluga lo condusse nel locale del Tiro, gl’insegni a caricare il focile, a spararle, e dopo alcuni colpi gli disse, che in ogni caso un uomo l’avrebbe sempre colpito. Soggiunse che, nell’uscire di quel locale, gli accusati Lastrico e Michele Pittaluga andavano dicendo che l’esercizio del tiro avrebbe loro servito un giorno per conseguire la libertà, per mandar via tutti i mangiatori, levarsi le tasse e togliere di mezzo la polizia; che si era in somma per fare una rivoluzione meglio organizzata che quella del 1849.

Il partito suddetto non limitossi poi ad abusare della libertà di associazione del Tiro nazionale, ma volle ben anco profittare della Società degli operai, ed accrebbe con essa il numero de' proprii seguaci.

Ed in vero, quasi tutti gli accusati genovesi partecipavano site Società. operaie, intervenivano frequenti allo adunanze, e n’erano capi il Michele Tassara, l’Antonio ed Ignazio fratelli Pittaluga, Giovanni Battista, vulgo Antonio, Casareto, Luigi Roggero, Giovanni Prina, ed Angelo Mangini.

Nelle varie riunioni che si tennero, non mancava mai ehi tenesse parola della necessità di liberare la patria, e di costituire la Repubblica; lo che più particolarmente vociferavasi in giugno ultimo nel locale posto nella strada della Maddalena.

Preceduta da encomii prodigatile dal giornale Italia del popolo,era giunta in Genova da Londra una giovane inglese. Dicevasi costei venuta in Italia per istudio di letteratura, ed intanto si circondava d’operai e di capi di quella Società ed albergava in casa del cappellaio Luigi Roggero, ch'è uno de' capi.

Fu condotta alla festa che tenevasi dagli Operai nella villa Moutebruno in Marassi; andò ripetutamente nel locale suddetto posto nulla strada della Maddalena, ed ivi tenne esplicitamente parola di Repubblica.

In Sestri Ponente poi riusciva al modico Giovanni Cavalieri di costituire laSocietà gli operai di quel luogo. E sulle scorcio dell’ultimo giugno ne propose l’inaugurazione, che venne fissata pel di quel mese.

Da Genova andarono gli accusati Savi e Prina, ed ambedue tennero discorsi, da' quali apparisco essersi la congiura formala e conchiusa, aver saputo costoro come il giorno seguente dovesse scoppiare, non altro essere stato lo scopo di quella congrega, fuorché di eccitare gli animi all'insurrezione. Si fecero di fatto acclamazioni di evviva alla Repubblica, a Mazzini, a Savi.

Che se detti accurati Savi e Prina ai dissero ignari di quanto avveniva in Genova la sera del 29 di giugno, stanno però a carico loro le cose sovrannarrate, e la precedente loro vita.

Tutti e due aono generalmente indicati mazziniani.

Il Savi d’altronde, allorché ai vide sorpreso dalla forza pubblica, ilsollecito di consegnare al fuoco alcune carte, le quali, com’egli asseriva, riflettevano cose intime e cogli amici suoi.

Lo stessoSavi, la sera del 29, fu veduto aggirare! per la città verso la mezza notte, e trattenersi in secreto colloquio coll’accusato Michele Tassare.

E a mantenere viva l'agitazione pubblicava un supplemento, con cui volea far credere contro verità il buon esito dell’ardita spedizione fattasi nel Regno di Napoli, comandata da Carlo Pisacane.

Il partito voleva l’agitazione, e sperava tuttavia, dopo il 30 di giugno, che l’attentato riuscirebbe ancora allo scopo. Del che pienamente consta lalettera sequestrata il 4 di loglio in casadel Carlo Pisacane, scritta dall'accusato Angelo Manglni, all'inglese suddetta, e versata in processo.

Stanno poi a carico del Prina le stesse sue dichiarazioni; più, le varie carte sequestrate in sua casa, dalle quali risulta ch'esso era del partito, che prestò Peperà sua nel raccogliere le sottoscrizioni e le somme pagate per l’acquieto dei 10.000 fucili.

E quelle somme, con quelle, che mensilmente, giusta le istruzioni, dovevano pagare gli affigliati, non che quelle ottenute dalle obbligazioni alla sottoscrizione nazionale, a saldo della quale l’accusato Luigi Stallo il 9 giugno ultimo pagava alla più volte indicata Inglese L. 1000, seme da ricevuta sequestrata fra le carte dello Stallo; tutte queste somme, diciamo, devono non altro essere state realmente impiegale io provvista d’armi ed altri arnesi di guerra.

Constò difetti che nei mesi prossimamente anteriori all’avvenimento di cui si ragiona, l’accusato Carlo Martini pigliava a fitto un appartamento in S. Francesco di Albero, ed ivi frequentavano in contegno sospetto Gio. Battista Armellino ed altre persone. Vi si portavano verghe di piombo e si fondevano in palle da schioppo; del che si ebbe argomento dal chiaror della fiamma che vi si era veduto per entro e dalle gocce del piombo collato che ei trovarono sotto i balconi.

Risaltò inoltre che gli accusati Gio. Battista Armellino, Luigi Stallo, Ignazio Pittaluga, Gio. Battista Casarelo, Michele Lastrico, Ferdinando Deoberti, Tommaso Rchisso, Giuseppe Sangumetti, si occuparono di provvedere etrasportare armi sin dall'ottobre 1856. In quel mese venivano clandestinamenteintrodotti dal mare in S. Francesco d‘Albero lati fucili, e l’opera del trasporto era diretta dall’accusato Gio. Battista Armellino.

Che il Luigi Stallooccupasse in comperedi fucili, risulta da una querela da lui presentata in cui ai doleva dei furto di 4500 ceppi di schioppo.

Tre o quattro volte poi nell’aprile, maggio e giugno 1857 si videro trasportate conmolta cautela per Cornigliano polvere e schioppi alla marina, sotto la direzione e coll’opera dei sunnominati Pittaluga, Casareto, Lastrico, Rchiaso, Deoberti, Sanguinetti, ed uno dei fratelli Castello.

B quest’armi e munizioni fanno probabilmente parte di quelle, che nella notte del 29 giugno e giorni successivi furono, come già accennammo, sequestrate in varii magazzini ed appartamenti in questa città e nelle adiacenze.

Nella notte del 29 al 30 giugno, furono difatti sequestrati in tre magazzini nella contrada di Vallechiara cento circa fucili, taluni dei quali conbaionetta, due pistoloni, una pistola ed uno stile, e una considerevole partita di cartucce, picconi, scuri e zappe.

Tre baionette furono nel mattino successivo rinvenute nell’acquedotto dalla Porta dei salumi.

Nello stesso mattino, in un appartamento da S. Benigno sotto il civico 29, furono sequestrati quattro tromboni, quattro pistole, due fucili, quattro cesti di cartucce, un cesto di palle di piombo, sette granate, tre sacchi di polvere con miccia lunga quattro in cinque metri, tre grossi pali di ferro e 150 pugnali di diversa forma e qualità.

Nel giorno 4 luglio, in una casa negli Orti S. Andrea, sotto al civico n. 31, furono sequestrati 33 fucili, 31 carabina, uno squadrone da cavalleria, 81 pugnali triangolari, un grosso cesto di palle e di mitraglia contenente 17 granate a usano, una cassa ripiena di cartucce, due sacchi di polvere, uno dei quali del peso di 56 chilo grammi co» miccia, una sciabola, varie giberne di tela e venti cartocci da cannone di latta per mitraglia.

In un magazzino poi sottoposto allo casa me dosi ma furono sequestrati una fiaschetta piena di polvere, un coltellaccio, due zappe, due grossi martelli, un piccone, due pali di ferro, varii utensilida falegname, una scala di legno portatile, tre lunghe tavole, un pacco di filaccie e bende, 10 Baschi di sabbia.

Nel giorno 5 luglio, in una casa in Prò, viso Trombatimi si rinvennero un sacco di polvere con lunga miccia in poso 5 circa chilogrammi, 9 casse di cartucce, 9 pistole, un mazzo di spilli da fucili Od un altro di corda.

Nel giorno successivo 6 luglio, furono sequestrati in un magazzino in Prò, vico Cuneo, 108 fucili con baionette, ed m una casa nel vico Cittadella, civico n. 1, 27 fucili e 7 lime ridotte a pugnali, ed unaltro magazzino nelvico Monachelle, pure a Prò, furono sequestrati100fucili, 4 pali di ferro, 15 sacchetti nuovi di tela ed unoscritto del tenore seguente:

«Coraggio

«Le prime case e famiglie., che dovete saccheggiare nella alluda Prò, sarà la famiglia Peragallo, essendo i più ricchi proprietarii, spie e crudeli nemici della libertà.

«Saccheggio e fuoco.

«Coraggio.»

Nello stesso giorno 6 infine, i preposti delle Dogane nazionali sequestrarono in una grotta sul monte di Portofino 80 fucili, 14 carabine, 86 baionette, 641 pacchi cartucce, un baule contenente 17 chilogrammi e 15 grammi di polvere, due scatole di 160 cappellozziciascuna, lo che lutto si disse riposto in detto luogo poco prima; dai che riesce evidente essere stati sottratti alle continue ricerche che dalle Autorità ai facevano in Genova e nei dintorni.

Presentate ai periti le armi e le altre cose sequestrate, giudicavano che queste erano munizioni da guerre, e che i sacchi di polvere erano atti a minare ed abbattere le porle; ed anzi tre di essi avrebbero forza di mandare in rovina, non solamente lo porle, ma si ancora gli edifizii.

Con altra perizia venne pure accertato che, coll’oso delle tre tavole e dei pichi rinvenuti nel magazzino negli Orli di S. Andrea, sarebbe tornato facilissimo l’introdursi inosservati dall’appartamento di quella casa nelle vicino carceri di S. Andrea.

Che se non riuscivasi pienamente a conoscere quando o da oi fossero stati riposti tali oggetti in quei luoghi, avuto tuttavia riguardo alla loro uniformità, particolarmente in quanto allo mine, alle lanterne ed alle lime triangolari preparate e pugnali, trovate in siti diversi, si dovrebbe arguire esservisi deposte dalla fazione ad un identicoscopo. La qual cosa torna anche più certa, ove si noti che unCostantino Gosio comperava, d’ordine dell’accusato Tommaso Battifora, quattro zappe, e due di queste si rinvennero nella essa poeta a S. Benigno, condotta dallo stesso Battifora, e le altre due furono sequestratein altro dei magazzini di Vallechiara.

Le ulteriori informazioni valsero poi a chiarire che uno de detti tre magazzini poeti in Vallechiara e l'appartamento in vico Trombettini erano condotti ambedue da varii mesi dall'accusato Giovanni Profumo.

L'altro magazzino in contrada Vallechiara era stato concesso in locazione alcuni mesi prima all’accusato Luigi Stallo; dal quale fu destinato a ripostiglio di parecchie vetture cittadine di sua proprietà, è quali affittava a Domenico e Stefano, fratelli Castello.

In quanto al terzo magazzino, situato pure In detta strada Vallechiara, constò che l’accusato Agostino Castello, nel mattino del 29 giugno, erasene fatto consegnare le chiavi sotto pretesto di volerlo affittare.

La casa poi suindicata posta a S. Benigno era stata dal proprietario concessa in locazione il 15 maggio antecedente all’accusato Tommaso Battifora, e costui possedeva inoltre ai medesimo titolo il magazzino nel viro Monachetto.

La casa di S. Brigida ed i due magazzini, uno dei quali nel vico Cuneo, l’altro nel vico Cittadella, furono pur essi dai rispettivi proprietarii nei mesi antecedenti concessi a terzi, a titolo di conduzione: e non servirono se non per deposito d’armi e di munizioni, e la casa tu inoltre adoperati come luogo di adunanza di una banda. Ma le generalità date ai proprietariidai conduttori furono riconosciute false, e non riuscivasi perciò ad avere maggiori schiarimenti in proposito.

Che tali munizioni da guerra, che dette armi si fossero ivi unite dai congiurali, e che servir dovessero a porre in atto l’attentalo di cui trattasi, tornò anche più evidente dall'essere rimasto pienamente accertato che nella sera dei 29 giugno trovavansi unite anche in altri detti locali più persone, alle quali erano già distribuite quelle munizioni e quelle armi.

Imperciocché risultava, che in delta sera quaranta persone circa trovaronsi unite io un appartamento sulla piazza dall’Acquaverde sotto il civicon. 5. Da molti si disse che a quella riunione interveniva il Giuseppe Mazzini: ma se nulla di più positivo potevasi ottenere sulle persone componenti una tale adunanza, sarebbe però certo che Francesco Danari aveva concesso l’uso di quel locale.

E di fatti egli lo aveva abitato sino al 24 giugno, e se consegnava una chiave al proprio fratello avv. Andrea, tuttavia questi si mostrò sorpreso tosi oche potè conoscere la seguita unione, né si scorsero tracce di violenza nella porta di quell'appartamento che nelle sere antecedenti erasi lasciato chiuso: dal che urgente motivo per credere si tenesse altra chiave onde renderò aperto il medesimo a quella funzione.

Che d’altronde il Francesco Danari, intrinseco degli accusati Giuseppe Mazzini, Luigi Stallo ed Angelo Mangini, ai abbia annoverare fra' faziosi, è dimostrato per le sue opinioni che vennero indicate conformi a quelle dei congiurali, e per raccolta delle sottoscrizioni per la compera de' 10,000 fucili. E se la probabilità non inganna, egli è quel signor Checco, il quale vene indicato da Angelo Mangini nellasuddetta lettera all'inglese, come colui che dopo il 30 giugno sperava tuttora e diceva che tutto non era Onora perduto. Crescono poi gli argomenti a suo carico, ove si pensi che il 5 luglio emigrata dal Regno per sottrarsi alle indagini dell'Autorità ed alle conseguenze delle opere sue.

Un’altra banda risultò pure essersi in quella sera unita nella casa dell’accusato Tommaso Battifora, porta da S. Benigno.

S’ella è certa l'unione di 40 e più persone, le quali entravano ed uscivano a drappelli di tre o quattro; se parimenti è certo che ivi si trattennero sin verso le ore 9 dopo la mezzanotte, tornarono per altro inutili le ricerche fatte sulle persone medesime.

Una terza e più numerosa congrega si accolse nella casa di Francesco Giannuè da Santa Brigida.

Verso le 10 di notte vi si adunarono più di 200 persone; un armato di pugnale ne guardava la porla perché nessuno ne uscisse; vi ei diceva doversi far guerra ed aggredire il quartiere degli artiglieri allo Spirito Santo.

Verso la mezzanotte, mentre si distribuirono le armi, vi giunse un messaggio con l'ordine, a quanto pare, di sostare dal moto: ed al suo apparire gli adunali immantinenti si sciolsero.

A raccogliere quella turba di gente si erano grandemente adoperati Paolo Capurro fu Michele ed Agostino Marchese denominato il Pippo.

Constò che ambedue in detto giorno 29 giugno eccitarono più persone a trasferirsi nella birreria dell’Acquaverde, pagarono ivi ai medesimi tanta birra per L. 10 circa, e tutta notte, sotto pretesto di condursi ad una casa a divertirsi, li fecero entrare in quell’appartamento, dal quale più non fu loro permesso di uscire. Fattisi allora gl'ingannati a rimproverare il Marchese, costui, tacciandoli di vigliacchi, disse loro che bisognava battersi e che sarebbero armati di pugnale.

Nei giorni immediatamente successivi, il Capurro, incontratosi con altro degli uomini da lui e dal Marchese condotti dolosamente in quella casa, si fece a minacciarli della vita, se avessero manifestato l’occorso.

Anche gli accusati Villa Antonio e Pedemonte Gio. Battista fecero parte di quella banda.

Constò di fatti che il Villa fu in quel giorno e sera, da prima nella suindicata birreria dell'Acquaverde e poi nell'appartamento del Giannuè, unitamente agli altri faziosi; nel mattino successivo poi si trovò in compagnia dei suddetti Capurro e Marchese, e sebbene insista nel dire, non aver fatto parte di quella banda, non avrebbe potuto no anco verisimilmente indicare come e dove passasse quella notte.

Il Pedemonte poi si fu quello che in detta sera del 29 giugno comperò e trasportò il vino nella casa suddetta, ad uso di coloro, che ivi trovavansi uniti.

Venne poi indicato qual altro dei capi di quella banda, tra individuo vaiuolato e nero che faceva il sellaio; il che lascia presumere possa essere l'accusato Michele Tassara, sellaio, corrispondendo anco a questi connotati personali le vestimenti. Né ad escludere tale circostanza potrebbe giovare al Tassare l'essersi trovato verso la mezzanotte coll’accusato Savi dal palazzo di città, giacché in quel locale fu veduto molto prima di tale ora.

Le tracce poi d'altra unione trovaronsi dall'Autorità, che procedeva in quella notte ai già menzionati sequestri nei tre magazzini sulla strada Valechiara.

Si osservarono in fatti in detti magazzini avanzi di candele, frantumi di pane, due barili di vino quasi vuoti, e questi barili furono quindi riconosciuti dal venditore di vino Ferrerò e i suoi garzoni per quelli stessi, che nella aera medesima erano stati consegnali all'accusato Agostino Castello ripieni di vino.

Che in tali luoghi poi realmente vi fosse unione di persone risultò dagli attruppamenti osservati in detta sera, e dall'essere state alcune guardie di pubblica sicurezza quasi inseguite dagli accusati Agostino Castello e Francesco Demartini, e se n'ebbe la prova pel continuo andirivieni di persone, principalmente nel magazzino sottoposto. Altra di queste bussò alla porta di un appartamento attiguo, dicendo all’orecchio di chi abitava quella casa: Italia e onore.

«Altra banda di faziosi consta infine essersi in detta sera unita nel magazzino attiguo alla bottega da cappellaio dell'accusato Luigi Ruggero, vicino a S. Siro; giacché nel mattino del 30 giugno l'autorità di pubblica sicurezza ve ne riconobbe le tracce, e di questa adunanza si conseguirono pruove certissime pel detto di Gioachino Del Santo, e dei detenuti Gio. Garbarino ed Enrico Razeto.

«Convennero questi nel dire che in detta sera del 29 giugno trovaronsi riuniti in quel luogo cento circa persone, alle quali era somministrato pane, vino, salame. Furono ivi osservate casse con armi: un uomo sulla porta impediva d’uscirne, armato di stilo; vi si parlava d’un’imminente sommossa e del segnale, che ne avrebbe dato la esplosione di una mina.

«Verso la mezzanotte poi furono condotti in Castelletto, ivi si distribuirono loro molte cartucce, e si cominciava la distribuzione delle armi, quando improvvisamente fu dato il comando di sciogliersi.

«E lo scioglimento probabilmente avveniva verso le ore due dopo mezzanotte, giacché intal ora furono dalla forza sorpresi in fondo la salita di Castelletto i detenuti Garbatine Giovanni, e Raseto Enrico portatori ancora di cartacee, ch'erano loro state distribuite, ed eglino. ammettendo il fatto, dissero e sostennero anche in confronto, che erano stati condotti in quel luogo dall’accusato Luigi Stallaggi, sedicente Canepa di Nicolò.

Che anzi il Garbarino narrò come lo Stallaggi qualche tempo prima si facesse ad interpellarlo se sarebbe pronto a prendere le armi per liberare la patria, e come udito ebbe che si notasse le sue generalità, e quindi nel mattino del 29 giugno gli dicesse di trovarsi la aera in Castelletto. Al che avendo aderito e giunto sul luogo e nell’ora designata, vi trovasse venti circa persone eolio Stallaggi, le quali a piccoli drappelli furono condotte nel magazzino suindicato.

Che se constò non essersi in tale circostanza lo Stallaggi introdotto in quel locale, forse pel male che aveva ad una gamba, venne però a risultare che desso fu quello che, dopo d’aver procurala l'ascrizione del Garbarino e del Razeto alla fazione, gli eccitò quella sera ad entrare nel magazzino.

Fece pur parte di detta banda l’accusato Giuseppe Canale; ed anzi le risultanze processuali in proposito chiarirono ch’egli nel giorno 29 giugno condusse certi Angelo Ratti, Carlo Cavezzale, GoggiAlessandro e Gioachino Del Santo, da prima in un’osteria, pagando loro da bere, e quindi fora' eneo con inganno nel suaccennato magazzino.

E di questa banda, o d’altra delle suenunziate, devono aver fatto parte, abbenché insistano nel negarlo, gli accusati Francesco Demartini, Antonio Bisso, Ansaldo Gaetano, Maria Angelo, Lagorara Stefano, Ballanti Giuseppe, Palliti Francesco, Stefanini Leopoldo e Martini Nicolò.

IlFrancesco Demarini, come già si accennava, nei iti maggio ultimo, prese a titolo di conduzione l’appartamento negli Orti di S. Andrea col magazzino sottoposto; e, tenuto anche per vero quanto egli affermò, d’aver ciò fatto per ordine di Angelo Manghi, tuttavia sarebbe certa la confidenza che passava tra loro, cosicché non poteva presumibilmente ignorare come fossero detti locali destinati al seguito deposito d’armi e munizioni ed alla riunione di banda armata.

Oltre di che il Demartini, il 1. agosto p. p. veniva con Antonio Bisso arrestato sulle sponde del Lago Maggiore, mentre, senza passaporto, tentava di passare in Svizzera.

Entrambi offersero ai preposti arrestanti un regalo in denaro, perché li lasciassero liberi, ma fu respinta l'offerta. Nelle vestimenti del Bisso si trovarono cucite le due lettere di pugno di Giuseppe Mazzini, già di sopra enunziate.

Queste lettere portano la data del 27 e 28, senta designazione di mese, né di luogo; ma, riflettendo al tenore di esse, si può giudicare che la data sia del 27 e 28 di luglio.

Sostenne il Bisso di non sapere come nel suo vestimento venissero cucite le lettere; ma quest'allegazione è tanto meno verosimile, in quanto che confessava di noo aver mai spogliato quell’abito dal 30 giugno in appresso, e d’aver sempre pernottato alla campagna col Demartini.

Addussero entrambi d'esser partiti da Genova il mattino del 30 giugno senza aver saputo i fatti avvenuti nella sera e notte antecedente. Nel particolarizzare per altro il loro viaggio, la causa del medesimo, i luoghi di fermata, narrano fatti del tutto inverisimili, e caddero in contraddizioni tanto evidenti, da poterne dedurre, col concorso anche delle altre circostanze, la loro reità.

Alle ore due dopo la mezzanotte, gli accusati Ansaldo Gaetano e Maria Angelo, provenienti dai quattro canti di S. Francesco, e così dalla salita di Castelletto, erano diretti verso il palazzo di città; ma, viste in quel luogo alcune guardie di pubblica sicurezza, si diedero alla fuga. Se però riusciva al Maria d’allontanarsi, l'Ansaldo cadde in vece nelle mani della forza, e fu trovato portatore di un pacco di cartucce.

Interpellalo in proposito, disse che quelle cartucce gli erano state poco prima consegnate da un individuo ad esso ignoto, che discendeva la salita di Castelletto; aggiunse che si trattenne tutta lasera e notte col Maria suddetto, e che questi aveva certamente veduto quando gli furono consegnate le cartucce sequestrategli.

Arrestato nel mattino successivo il Maria, ammise di essere stato tutta la sera e notte in compagnia dell’Ansaldo; esser fuggito vedendo le guardie che arrestavano, ma nulla sapere di cartucce sequestrate all’Ansaldo.

Il non aver saputo indicar motivo plausibile dell'essersi ivi trovati a quell’ora avanzata della notte, la tentata fuga, le cartucce dell’Ansaldo, delle quali non poteva dar prova di provenienza, lasciano credere vero abbia l'Ansaldo, e fors'anco il Maria ricevuto dette cartucce nella salita di Castelletto. Ma ciò nella circostanza ed all’oggetto, per cui furono distribuite ai detenuti Garbarino e Razeto.

In detta notte dal 29 al 30 giugno, vennero pure arrestati nella strada Carlo Alberto gli accusati Lagorara Stefano, Ballanti Gaspare, Polliti Francesco.

Erano tutti e tre insieme; viste le guardie, tentarono darsi alla fuga: arrestati, si trovò che il Lagorara era portatoredi uno stilo e di varie cartucce, il elio tutto asserisce d'aver trovato inquella notte medesima in vicinanza della Lanterna, mentre da Sampierdarena trasferivasi a Genova.

Gli altri due, cioè il Ballanti ed il Polliti, non avevano armi, furono però a medesimi sequestrate carte, che valgono a mostrare come ambedue fossero mazziniani. Il Polliti aveva le istruzioni per le bande mazziniane, ed il Ballanti le istruzioni stampate a Londra por la formazione del partito d’azione, non che una stampa eoa due teste, delta cuffia del silenzio.

In detta notte furono pure arrestati dalla Porte dell’Arco, i detenuti Stefanini Leopoldo e Martini Nicolò.

Dal verbale del loro arresto raccoglievi essersi trovalo con essi in quella contingenza un ignoto, e tutti e tre, vedute appena le guardie, aver pigliata la fuga. Entrali per altro il Martini e lo Stefanini in un portico, vennero ivi inseguiti dalle guardie, le quali sentirono di subito il rumore di un ferro caduto, che raccolto venne riconosciuto per uno stilo. Ciò stante, le guardie li tradussero in carcere.

Dichiararono entrambi di essersi trovati in quell'ora a passeggiar per diporto. Il Martini sostenne che non conosceva lo Stefanini, che non era in compagnia dello stesso, e ciò mentre quest’ultimo ammise che realmente in tale circostanza trovavasi in compagnia del Martini, col quale era in relazione.

L’ora in cui furono sorpresi, la tentala fuga, Parma di cui erano portatori, le loro contraddizioni, i mendacii usati, concorrono a far credere come dessi avessero in quella notte fatto parte di qualcheduna di quelle bande armate.

Un altro fatto avveniva in quella notte medesima. Si era tentato d’invadere il forte dello Sperone.

La sera del 29 giugno, 40 circa persone convenivano in una casa a S. Pantaleo, sotto le mura della città e lontana dallo Sperone -una mezz'ora di cammino. Un uomo armato, come negli altri convegni della fazione, custodiva la soglia ed impediva l'usaita. Nelle stanze di quell'edificio si accoglievano armi, scale e fieno; e vi si andava dicendo dai congiurati, non essere più tempo di pensare alle cose proprie, volersi coraggio ed azione, sommuoversi Genova, altre fortezze di Genova essere già cadute in potere dei sollevati, doversi dai radunati in quella casa assalir lo Sperone,che cederebbe senza combattimento.

Divisi pertanto in drappelli verso le 11 di notte, calzati a scarpe di tela, armati di schioppi, sciabole, pugnali, scale di corda e di legno, si volsero tutti a quella fortezza. Ma non appena giungevano sotto le mura dello Sperone,che ad un grido (per quanto pare) della sentinella, si davano prontamente alla fuga.

Dieci di questi fuggitivi tornarono alla casa di S. Pantaleo, e vi furono sorpresi nel mattino del 30 giugno dalla forza, mentre ancora «alzavano dette scarpe di tela, ed alcuni avevano nelle tasche o nell'abito la cosiddetta springhetta pel fucile.

In questa circostanza si osservò dall’autorità di pubblica sicurezza che in quell’appartamento, oltre il fieno sucui erano coricati quei dieci, erano sparse qua e là schegge ed altri pezzi di legno, la cui forma indicava essersi tagliati nella formazione di tre scale ivi trovate, e di altre tre scaleabbandonatesi nell’intervallo fra la casa e la fortezza. Oltre di ciò si sequestrarono in quella casa schioppi, pugnali, sciabole, lanterne, palle da schioppo e utensili per fondere le pelle, ed un sacco con entro una scala di corda.

Le sei scale di legno suddette ai riconobbero forniate per modo da poterle unire a tre per tre. presentando cosi la lunghezza di 9 metri, ed un mezzo adeguato per poter insalire le mura di quel forte, alte metri 9 e centimetri 20.

Constò inoltre:

Che quell’appartamento era stato a tale unico oggetto preso a titolo di conduzione dal più volte nominato Michele Tassare.

Che le scale erano state in quel luogo medesimo costrutte dal-I’ accusato Gio. Battista Armellino.

Che a formare quella banda molto operarono i detenuti Taschini Enrico, Bogliano Michele, Giussani Gioachino.

Che quella banda fu comandata dal detto Enrico Taschini, e dal detenute Bernardo Oliva.

Che fecero parte della medesima i detenuti Ettore Lucchi, Donati Giuseppe, Della Sauta Vincenzo, Gobbi Augusto, Ghezzi Luigi, Spetti Giuseppe, Parenti Giovanni, Valentino Ticcò, non che Giuseppe Bocconi. Carlo Casabona e fors'anco Enrico Rossi.

E veramente l’accusato Michele Tassara, che da alcune carte presso di lui sequestrate si rilevò aver avuto l'11 settembre 1835 colloquio con M., cioè con Mazzini, in Londra; quello stesso che venne indicato come facente parte della banda riunitasi a S. Brigida; che fu veduto in secreta confabulazione in quella notte col detenuto Savi; che si mostrò fra' più ossequiosi colla Inglese suindicata; questo stesso Tassara fu quello, il quale chiedeva ed otteneva in maggio ultimo quell’appartamento per soli tre mesi; ma benché ne ritirasse le chiavi, non constò andasse mai in quella casa nei mesi suddetti. Fu invece veduto un falegname, che dai connotati personali e dal sopranome di Fiorino potè conoscersi per l’accusato Armellino, il quale si tenne chiuse in quel luogo per qualche giorno a lavorare, e le scale coi pezzi di legno corrispondenti fecero conoscere quali fossero i lavori ivi eseguiti.

Questi è quel medesimo Armellino, che diresse ed eseguì l’introduzione di 150 fucili in S. Francesco d'Albanoche fuse le palle di piombo nella casa condotta da Carlo Martini.

Constò poi che detto Armellino possedeva una sciabola, ed in quella casa una fra le altre se ne rinvenne, sulla quale leggasi G. B. Agnellino.

Lo stesso Ermellino in fine, in altro dei giorni immediatamente successivi al 30 giugno, mandò a quella casa persone onde capire cosa fosse avvenuto dei Lombardi, che ivi eransi ritirati in quella notte.

Che se il detenuto Burico Tacchini, mentre non contraete di aver fatto parie di quella banda, vorrebbe far vedere di non aver cooperato a formarla, né averla comandata, sarebbe pienamente smentito dalle concordi dichiarazioni dei detenuti Carlo Casabona e Giuseppe Rocconi, conformi alle deposizioni di Domenico Venzano. Da queste risultò che avrebbe eccitato ed indotto detti Casabona e Bocconi ad unirai alla banda. Ch'esso figurasse inoltre fra i capi della stecca, lo disse anche Casimiro Parodi, e vuolsi pur anco dedurre da che non fu, in quella notte armato che di sciabola.

«Il detenuto Nichelo Bolgiano insiste nel dire di non avervi partecipato, ma dalle concordi deposizioni di Casimiro Parodi, Filippo Scolto ed Agostino Croce risultò com'egli con inganno riuscisse a condurli in detta casa, e si avviasse cogli altri armati al ferie suddetto.

In quanto poi all'accusato Giussani Gioachino risultò:

Che lo stesso, trovandosi in Torino, riusciva ad indurre i sunnominati Della Sante, Parenti, Ticcò ed Enrico Rossi a trasferirsi mi giorno 24giugno in Genova. A tele oggetto pagava loro il pranzo ed il biglietto per la ferrovia, oltre 6 lire di regalo a ciascuno.

Giunti questi quattro individui in Sanpierdarena, furono con una vettura condotti a Genova sulla Piazza delle Poste, ed ivi, appura {liscosi, rimontavano in altra vettura che li trasportò oltre Albero, dove saliti in barchetta, si tennero per qualche tempo sul mare. Discesi quindi alla foce in Bisogno, i primi tre furono arrestati nel mattino del 30 giugno nella casa da San Pantaleo, e l'Enrico Rosai fu arrestato nei giorni successivi in Torino. E quantunque abbia negate di esser venuto a Genova, la sua negativa è smentita dalla prova centrarla, essendosi non solo accertata la sua venuta costì, ma si ancora il suo viaggio di ritorno in Torino. Ivi mostruosi portatore di cartucce, che disse aver trovate in una piazza in Torino. B tutta queste corrispondenza di fatti e d’indizii reca la persuasione ch'egli facesse numero delle bande armate.

Trovò poi evidente la prova cheBernardo Oliva, unitamente alTaschini, comandassero alla banda che erasi avviata allo Speroni. Il nome di Oliva fu sentito in quella notte pronunziarsi. EnricoTaschini non nega che l’Oliva partecipasse alla fattone, ed anzi Casimiro Parodi, Agostino Croce e Carlo Casabona riconobbero l’Oliva inter plurescome uno dei quattro capi della banda armata suddetta.

Ciò nullameno ei persiste essersi in quella notte rimasto in propria casa, ed indica informati di ciò un cotale Ubicini ed una donna, con lui abitante. Dalle loro deposizioni per altro risultò ch’era solito trattenersi in essa per debiti, ma non si escluse che ne fosse uscito in quella notte.

Fra le diverse sciabole poi sequestrate in altri di detti locali, una havvene da uffiziale del corpo bersaglieri, della Fabbrica Solingber. sulla quale si leggono le iniziali A. M., corrispondente all’accusato Antonio Mosto. L’Oliva ammette d'aver posseduto una sciabola della Fabbrica suddetta da uffiziale dei bersaglieri, ma vorrebbe far credere centro il risultalo della perizia che la sequestrata non sia conforme a quella degli uffiziali bersaglieri: disse d’averla veduta e non sa se all'Antonio Mosto.

Alcuni degli altri accusati non contestano poi d'aver partecipato alla banda; alcuni si sforzano di persuadere (benché arrestati in detta casa nel mattino del 50) osservisi trovati per caso, non essersi associati a quella turba. Ma tutte le risultanze suaccennate mostrano l'insussistenza delle loro asserzioni.

Che se dalle cose narrate chiaramente si evince come da qualche tempo si fosse conchiusa la cospirazione e da più mesi se ne preparasse l'effetto; dall’invasione della fortezza Diamantee dell’omicidio perpetratovi pienamente si manifesta come tutti gli altri fatti ai riferiscono ad un medesimo fine: di mutare, cioè, e sovvertire la forma dell’attuale Governo.

Già da gran tempo Ignazio ed Antonio, fratelli Pittaluga, Gio. Battista Casareto e Michele Lastrico, avevano stretta amicizia col gendarme di quella fortezza e vi facevano talvolta baldoria coi soldati con lui.

Il 29 giugno, detti Casareto e Lastrico, cogli accusati FerdinandoDeoberti e Giuseppe Sanguinetti, si diressero a quel forte, e, strada facendo, il Casareto conseguo una pistola al Sanguinetti. Si fu allora che disse, come già si accennò, che dopo 18 mesi era finalmente venuto l'ordine da Mazzini di agire, e che esso aveva dato alloggio allo stesso Mazzini. Giunti poi che furono fuori la porla di Chiappe e perciò superiormente alla suddetta casa di S. Pantaleo, condotta dal Tassare, fu questa dal Casareto indicata per altra di quelle in cui trovavasi deposito di armi.

Fatta quindi provvista di cibi e vini all’osteria della Baracca deipani, ascendendo il monte sul quale trova vasi detto forte, alla vista dei gendarme disse il Casareto: «Questa è l’ultima volta che me ne mangi.»

Introdottisiin talmodo tutti e quattro nelforte, furono poco dopo raggiunti dall'acculalo Ignazio Pittaluga, con certo Noli. Tutti sei si trattennero per qualche ora in quel luogo, mangiando e bevendo anche coi soldati, che ivi trovavansi di presidio.

Avvicinatasi la notte, il Casareto uscì da solo, dicendo di voler prendere un po’ d’aria, e rientralo poco dopo portatore di un bottiglione di vino tanto spiritoso, da poterlo supporre alterato, volle ne bevessero lutti i soldati. Dopo di che il Lastrico eccitò dalle mura del forte una banda armata, che trovavasi in quelle vicinanze, ad introdursi nel forte, dicendo che lutti i soldati erano ubbriachi. Mentre tanto eseguivasi, l’Ignazio Pittaluga pare trattenesse la sentinella. Entrata poi detta banda si emisero grida di evviva la Repubblica, evviva Savoia, evviva Italia, ed il Pittaluga suddetto intimò al gendarme d’arrendersi, giacché chi comandava era lui, mentre in Genova crasi stabilito il Governo provvisorio, il solo sorgente pare opponesse resistenza, e sebbene questa evidentemente fosse per tornare inutile, tuttavia un colpo d’arma da fuoco venne fatto contro il medesimo dialtro di quella fazione, dal quale colpito quell'infelice nel volto, cadde estinte.

Superalo in tal barbaro modo l'unico ostacolo, furono chiusi i soldati nel camerone, ed io altro luogo il gendarme; si prepararono i cannoni, si dispose lutto in ordine di battaglia: fu scritto lettera che si spedi a Genova; si disse che il quartiere di S. Ambrogio in Genova ed altri quartieri erano minati, che doveva essere preso il forte dello Sperone,sul quale sarebbesi veduta la bandiera.

Sull’avvicinarsi però del giorno, non vedendo ritornare il latore della lettera per essi spedila a Genova, né bandiera alcuna sul forte Sperone,dissero che il colpo uou era riuscito e si determinarono ad abbandonare quel folle, lasciando nello stesso fucili, pugnali, una bandiera ed altri oggetti:

Risultò inoltre:

Che quella banda crasi riunita ed armata inuna casa posta inS. Lorenzo di Casanova alla distanza di mezz’ora circa di strada da quel forte: la qual casa era stata concessa a titolo di conduzione inaprile ultimoal detenuto Giuseppe Develasco.

Che quella banda formata, diretta e comandata dai sunnominati G. B. Casareto, Ignazio ed Antonio fratelli Pittaluga, Antonio Moro e Giovanni Figari.

Che fecero pur parte di essa i detenuti RancheroCarlo, Gaspurro Gio. Battista, Cauepa Francesco. Deoberti Ferdinando, non che Sanguinetti Giuseppe, Ricchialdi Tuobaldo. ed il latitante Tommaso Rebisso.

Giuseppe Bevelasco, amico dell'accusato Savi, ed esaltato nelle sue opinioni politiche, tolse da un cotal Bolasco a fitto ma casa in S. Lorenzo di Casanova, come da scritta di locazione versata in processo.

Pretese far credere che gli fosse detta casa indicata e quasi proposta da certo Napoli, ma fu smentito: lo che ingerisce la convinzione che tali indicazioni fossero invece date al partito, e perciò al De-velasco dai fratelli Pittaluga, essendo questi conduttori d’altra piccola essa in detto luogo di Casanova.

Detto Develasco poi, sebbene manifestasse somma premura per aver le chiavi di quella casa, non andò in essa che nei primi d’agosto, e trovatala chiusa, mostrandosi ignaro dell’occorso, s’introdusse per la finestra.

Afferma di aver consegnato le chiavi ai Pittaluga, ed incaricato i medesimi di provvedergli e fargli trasportare in quella casa del vino ed una quantità di gallette; e tali oggetti furono realmente ivi portati, non dai Pittaluga, ma da Gio. Battista Casareto. Il vino poi servi in parte pegli uomini componenti quella fazione.

E detto Cacarelle fu quello che colla moglie sua si trattenne per qualche tempo colà dove frequentavano liberamente i fratelli Pittaluga. La sera del 29 giugno vi si videro entrare più di 30 persone, tra' quali i fratelli Pittaluga, uscirne quindi armati e dirigersi al Diamante. Il mattino successivo si videro partire nuovamente dalla casa suddetta.

Che se i detenuti Moro e Ricchiardi insistono nel dire non aver fatto parte di tale banda, sarebbero dessi smentiti da più deposizioni; da altra delle quali avrebbesi prova che l’Antonio Moro, denominato Barzaicò, partivasi con altri da Genova, dirigendosi a Bolzaneto, e quindi alla casa suddetta, che, entrato nel forte col Casareto. coll’Ignazio Pittaluga, col Lastrico, col Figari, la faceva da capo.

In quanto al Teobaldo Ricchiardi, ripetute confessioni stragiudiziali, per esso fatte nel mattino del 30 giugno, e quindi anche in carcere, rendono verisimile com’esso giudizialmente insista nella negativa a seguito di minacce fattegli da altri degli accusati.

Inconseguenza delle cose sinqui accennate, i denominati e detenuti:

Savi Barlolommeo Francesco fu Francesco: Prina Giovanni fu Giovanni; Capurro Paolo fu Michele: Marchese Agostino fu Luigi; Demartini Francesco fu Bartolommeo; Stallaggi Luigi sedicente Canepa di Niccolò; Canale Giuseppe fu Francesco; Razeto Edrico fu Fortunato; Garbatine Giovanni di Domenico: Bisso Antonio fu Lorenzo; Villa Antoniofu Francesco: Ansaldo Gaetano di Giovanni: Maria Angelo fu Antonio; Lagorara Stefano fu Antonio; Bolgiano Michele di Carlo; Oliva Bernardo fu Luigi; Bocconi Giuseppe di Giuseppe; Casabona Carlo di Giambattista; Deve lasco Giuseppe fu Giulio; Moro Francesco fu Angelo; Barchero Carlo fu Giovanni; Capurro Giambattista fu Giambattista; Canepa Francesco fu Giovanni; Deoberti Ferdinando di Giacomo; Ricchiardi Teobaldo fu Vittorio; Polliti Francesco fu Pasquale; Stefano Leopoldo di Ciriaco; Martini Nicolò di Stefano; Taschini Enrico fu Giuseppe; Giussani Gioachino di Carlo; Lucchi Ettore di Francesco; Della Santa Vincenzo di Giuseppe; Donati Giuseppe fu Girolamo; Gobbi Augusto di Gaetano; Ghezzi Luigi fu Agostino; Spetti Giuseppe dì Pietro; Parenti Giovanni di Gaetano; Ticcò Valentino fu Giovanni: Rosai Enrico.

Ed i latitanti: '

Mazzini Giuseppe fu Giacomo; Mosto Antonio fu Paolo; Stallo Luigi fu Agostino; Castello Agostino di Pietro; CastelloDomenico di Pietro; Castello Stefano di Pietro; Profumo Giacomo di Benedetto; Bruno Giacomo fu Antonio; Armellini Giambattista di Bartolommeo; Martini Carlo fu Giuseppe; Daneri Francesco di Giuseppe; Battifera Tommaso; Pedemonte Giambattista fu David; Tassara Michele di Pàolo: Mangio! Angelo di Ambrogio; Roggero Luigi fu Agostino, Casareto Giambattista vulgo Antonio di Giambattista; Lastrico Michele Andrei di Giambattista; Pittaluga Antonio fu Luigi; Pittaluga Ignazio fu Luigi; Figari Girolamo fu Francesco; Rebisso Tommaso di Francesco;

Sono accusati:

Del reato previsto dall'articolo 185 del Codice penale:

Per avere, con direzioni, eccitamenti ed atti dì esecuzione, preso parte a quella cospirazione, che si tentò porre inatto nella sera del29 giugno ultimo in questa città, avendo a tale oggetto tenuto secreti concerti e convegni, preparato armi e munizioni da guerra, e formato bande armate, altra della quale avrebbe Invaso il forte del Diamante. uccidendo barbaramente ilsergente capoposto, delquale attentato era scopo cambiare o distruggere il Governo legittimo dello Stato e costituirne altro;

Reato punibile con pene criminali a termini del citato articolo.

Genova, 18 novembre 1887.

Galliani, S. A. G.

Per copia conforme.

G B. Ansaldo. Usciere.


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CAPITOLO VI

Anno 1858
Gennaro e Febbraio

La delusione, oh! la delusione è spesso una madrigna crudele, consigliera inesorabile di continui mali. Ella squarcia la benda dagli occhi, e prende ne’ petti umani un impero tanto grande, quanto era grande la speranza che prima informavali. La delusione cangia l’affetto in odio, il buon volere e la devozione in aperta ostilità. Nessun argine l’arresta nell’operare il male contro l’oggetto che la provocò, perché ella tende sempre, quasi per naturale istinto, a vendicarsi in aspro modo.

Ma come avviene spesso, che la delusione, in forza dello avvicendarsi delle circostanze o degli avvenimenti, è obbligata a cedere alla lusinga od alla speranza, sue rivali, gli animi da lei in pria soggiogati, cosi avviene eziandio spesso che la lusinga e la speranza per virtù di circostanze o di avvenimenti cedano il loro posto alla delusione. E se per molte volte le une e l’altra si contrastassero il possesso degli ‘animi, quanto più grande sarebbe la lotta loro in tal contrasto, altrettanto più grande addiverrebbe il trionfo della delusione se rimanesse vincitrice. Imperciocché nelle ansie dello accozzamento si gagliardamente sostenuto, addivenuta inviperita, spogliasi di ogni riguardo, ed armata la destra d’inesorabile falce, ella, la delusione, palesa in ogni senso, in ogni modo, con ogni giustificata malizia il suo potere, ed è immenso il danno che ne risente l’oggetto che la destava.

Figlia della speranza e del timore lottanti fra loro, la delusione, che al suo nascimento reca morte a' suoi genitori, è una passione tutta affatto negativa che cruccia il presente, detesta il passato, non confida nell’avvenire.

In questo stato, politicamente parlando, trovavasi la maggior parte dei popoli della penisola allo incominciamento dell’anno 1858.

Nel Regno delle Due Sicilie la delusione era giunta al suo più eccelso grado; morta ogni speranza di riforme politiche pei liberali, morto persino ogni timore pei reazionarii e pei realisti, perché anche nel timore per quanto e’ sia intenso v’alligna pur un lampo di lusinga, quei popoli non avevano più vita politica, ma si davano in preda al sensualismo ed al materialismo, passioni corrompitrici di ogni ben essere sociale. Delusione intorno alle interne migliorie da auspicarsi per impulso del governo;. delusione intorno alle esterne forze, alle minaccie, ai voleri della Francia e dell’Inghilterra, che tanto vampo menarono, e da si lungo tempo, per poi restarsi nello sconforto e nell’avvilimento di non ottenere mai nulla.

Ma la delusione la più viva, la più forte, la più tremenda, la più disperata, quella delusione, che uccide e che annienta, toccò al partito mazziniano dopo i moti di Genova, di Livorno, e delle Due Sicilie (Fedi la Relazione del processo in fine del Capitolo): moti intenti, colle più sfrenate improntitudini è coi più deplorabili attentati a nuovamente scombuiare l'Italia da un capo all’altro. Quel partito però trovò dappertutto resistenza, ebbe sconfitte, venne disperso sin dal suo nascimento, e cento vittime sventuratamente furono immolate sull’altare della Repubblica. Le sciagurate prove di Mazzini e settarii corsero sempre allo stremo della sventura a danno de' suoi proseliti, ed i popoli non ebbero da essi loro che lo scempio e la rovinai Nondimeno, come certi animali che pur quantunque recisi in più punti e divisi e suddivisi nelle loro membra, pur non pertanto guizzano ancora, così i mazziniani, sparpagliati e fessi com’erano, pur guizzavano ancora, e già nelle Romagne tentavasi per opera loro un altro molo coi primi di gennaio. Ala colà, come ovunque, lasciando vittime sul suolo o nelle carceri, furono vinti e debellati.

Se non che nella schiatta dei repubblicani, eravene di quelli che attribuivano la colpa della nessuna. riuscita de' loro attentati alla perspicacia ed antiveggenza di Napoleone 111, il quale cogli occhi d’Argo della sua vigilante polizia seppe sempre, il primo, scoprire le loro trame e palesarle ai governi contro cui erano dirette. E cotestoro, che forse un di furono (ai tempi della giovine Italia) colleghi suoi di cospirazione, e che lo sapevano forse secoloro vincolato da obblighi incontrati, giurarono, gia da gran tempo, di farne tremenda vendetta. Quel giuramento fu sottoscritto con caratteri di sangue. Morte a chi di loro vi avesse mancato. Una volta quindi, tolto di mezzo lui, essi pensavano, l’Europa tutta sarebbe posta nello scompiglio, e dal cozzo degli attriti, estesi sopra di si vasta scala, eglino avrebbero potuto ottenerne più felice evento in Italia. Laonde, essi non si arrestavano e non inorridivano alla idea di un assassinio, di dieci, di cento, di mille, perocché argomentavano, che anche alcuni governi ne commettevano tutto dì sotto l'egida della legge che rendevali impuni. Le fucilazioni, le decollazioni, le morti lente nelle carceri, a danno di uomini che non pensavano politicamente nello stesso modo di quei governi, erano, essi di cevano, assassinii politici. Altra differenza non trovava no dagli uni agli altri che, fra governi era la legge che li commetteva e fra loro il coraggio. Anzi ne' loro assassinii rinvenivano un eroismo maggiore, imperciocché i governi nulla arrischiavano, essi la vita. Né sapeano convincersi come mai il mondo chiamasse giustizia gli assassinii politici della legge, ed infamia i loro.

Tale era la loro dottrina.

Una pari delusione avvelenava gli animi dei popoli dello Stato Pontificio, intorno al nullo successo, in riguardo a riforme politiche, avutosi dal viaggio di S. S. Pio IX, che pur avea aperto il cuore alle più belle speranze. E quella delusione abbracciò ogni ceto di persone, e crebbe cosi da accertare chi che sia, che da quel governo clericale nulla giammai sarebbe uscito in luce di veramente progressista, che la sola parola progresso, anzi la idea sola del progresso trovava colà, in quel governo, fatali nemici.

La delusione pur ingigantiva di giorno in giorno sempre più nell'Italia centrale ed in singolar modo poi nel Regno lombardo-veneto. Imperciocché anche il partito che favoriva il principe Ferdinando Massimiliano cade, ei pure, alla fin fine in preda dell'amara delusione. La dipendenza da Vienna, che prima era forse limitata ad alcune politiche operazioni, ed avea più che altro il carattere di delicata convenienza, si estese in ogni ramo, in ogni cosa, in ogni dicastero, ed assunse il carattere di obbligo, anzi addivenne a poco a poco un assoluto dovere. Giunta a tal punto la situazione politica di quel Regno, il Principe si trovò vincolato in ogni sua azione, e non era in sostanza che un semplice governatore, soggetto io tutto ai ministeri di Vienna. E sorta gigante e senza misericordia la delusione venne egli abbandonato da quel partito stesso, che alcun tempo prima avealo portato alle stelle tentando con ogni mezzo di creare in lui veramente un Principe del Regno. Dal troppo quindi si passò al nulla, e quinci la delusione estese ovunque il suo dominio.

Quel partito, in conseguenza, unitosi, per la maggior parte, agli altri, ell'erano caldi per il Piemonte, accarezzò di nuovo le antiche passioni, le antiche idee, le antiche speranze, che la rigenerazione italiana da altri non potesse essere conseguita che dallo Stato sardo.

Ma siccome i popoli lombardo-veneti sono sempre stati eminentemente attivi ed operativi, cosi si diedero a tutta possa ad imitare il Piemonte coll’approfittarsi di tutte le risorse che al ben essere sociale tornano profittevoli. Il Piemonte però, oltrepassò ogni altro popolo italiano nel vasto concepimento e nell'attuazione di miglioramenti sociali. La vita da esso lui spiegata nelle opere grandi che tutto di inaugurava e poneva a compimento, serviva, di Taro, di sprone, di leva alle altre provincie, e ben presto qua e là si videro, la Dio mercé, risarciti i danni patiti per lo imperversare funesto della natura, che con tanti e si diversi flagelli aveva colpita nel 1857 la misera umanità in ogni parte d’Italia.

Addì 14 gennaio, mentre quasi in tutte le chiese parrocchiali del Regno lombardo-veneto, dei Ducati e delle Legazioni, pomposamente celebravansi le esequie in suffragio dell’anima del maresciallo Radetzkv, man calo a' vivi, e mentre per ciò l’aquila imperiale vestiva il lutto in uno all’armata austriaca, compievasi in Parigi un enorme attentato, per opera d’italiani, contro la vita dell’imperatore Napoleone III.

Felice, dei conti Orsini, fu il principale autore di quel misfatto. Sortito da natura di un carattere irrequieto, e di un indole altamente proclive alle cospirazioni politiche, egli occupò tutto il genio suo, tutta la sua vita nella cospirazione. Caldo sino al più sfrenato entusiasmo per la rigenerazione italiana, egli, vuoisi che fosse vincolalo con Luigi Buonaparte con non so quali legami o patti aventi relazione al riscatto d’Italia: legami e patti che sarebbero poi stati infranti dal Napoleonide, e però ne restasse all'Orsini il diritto di vendicarne l’offesa di quello infrangimento col farsi concepito-re ed esecutore del più esecrando dei delitti, che sbalordì tutta Europa. La vita di Orsini fu una continua cospirazione, un continuo molo. Cospirò in Isvizzera nel marzo del 1834, sotto il nome di Tito Gelsi, cospirò in Francia, dove di là passò per poi ritornare in Svizzera, ove introdusse armi, e venne catturato e tradotto a Coira. Ma fuggito alla vigilanza dei gendarmi, passa a Zurigo, ed assume il pseudonimo di Giorgio Hernag. Sotto questo nome nell'ottobre visita Milano, Venezia, Trieste, Hermannstadt, ove arrestato dal governo austriaco, fu tradotto a Mantova ed incarcerato al terzo piano del forte S. Giorgio coll’imputazione di aver tentala la diserzione de' soldati. Di là fuggiva per quantunque al terzo piano, chiuso da doppi cancelli di ferro, e guardato da sentinelle. Riparò in Inghilterra, ove, a Londra, s’unì col Mazzini, dal quale però discordava in molti punti intorno alla dottrina politica delle cospirazioni e delle rivoluzioni in senso repubblicano. Non abbandonò quel paese se non per giungere io Francia onde commettere l’enorme attentato. Ebbe, fra gli altri, a compagno nella malaugurata impresa, Giuseppe Pieri.

Nacque costui a Firenze. Nel 1832 si trasferì in Francia; di là passò in Algeria incorporato nella legione straniera col grado di caporale. Ma disertò dopo un anno passando in Inghilterra, ove stette sino al 1840. Ritornato in Francia menò moglie ed ebbe figli. Abbandonata la famiglia, si recò nuovamente a Londra, ove, unitosi a Mazzini, conobbe Orsini, e cospirò seco loro. Nel 1848 fece la campagna d’Italia col grado di capitano, seguendo la legione di Antonini. Indi, passò colla sua legione in Toscana, chiamatovi da Guerrazzi e prese il comando del battaglione dei cacciatori a piedi. Servì sotto il Granduca quindi, e quinci sotto il Dittatore sino al ripristinamento del governo legittimo. Lasciata allora l’Italia, ritornò in Francia, ed indi in Inghilterra, ove risiedette sino che si accinse coll'Orsini ad avventurare il colpo disperato, la cui vittima doveva essere Napoleone III.

Frattanto, che Italia ed Europa stavano attonite tra la sorpresa e lo sdegno considerando l’enormezza e l’audacia dell'attentato di Orsini, Cavour ai 16 gennaio spediva un suo Memorandum all’inviato Sardo a Napoli perché ne desse comunicazione a quel governo. Quella nota cavouriana verteva tutta sul catturato Cagliari, e narrata la storia di quanto in esso vapore avveniva, constatava che «contro alle decisioni del Giudizio di Salerno, il Cagliari veniva catturato dal napoletano Tancredi in alto mare, alla distanza di 30 miglia da Salerno e di 42 dalle bocche di Sapri: tanto appariva dal processo verbale del comandante il Tancredi, e dalle requisitorie dell’avvocato dell’intendenza della marina reale sicula alla Commissione delle prede.»

Laonde, da que’ documenti risultava eziandio in primo luogo che «quando il Cagliari fu catturato nessun insorgente trovavasi a bordo, ed ogni violenza era cessata;» in secondo luogo che «Il capitano Sitzio aveva ripreso il comando del suo naviglio, navigava verso Napoli onde ragguagliare, colà giunto, il console sardo della violenza e del tentativo dei ribelli.»

Passando indi alla discussione, Cavour stabiliva che «Il Cagliari fu catturato in alto mare, mare libero, su cui nessuna potenza aveva dominio, né diritti di giurisdizione. Per giustificare la cattura sotto il punto di vista dell’ordine pubblico, bisognerebbe provare che il Cagliari fosse stato un bastimento pirata. Ma il Cagliari aveva un capitano legittimo, una patente di nazionalità, e non commetteva nessun alto di pirateria. Prima di salpare da Genova per Cagliari e Tunisi, aveva regolarmente adempiuto a tutte le prescritte formalità. Veleggiava sotto la bandiera di potenza amica, e non poteva quindi essere, checché ne dicesse il Fisco napoletano, considerato come nemico. Se, in dipendenza di forza maggiore, d’una subita violenza, il Cagliari servi momentaneamente d’istrumento agl’insorti nel loro intendimento, ciò non provava che avesse partecipato ad una guerra contro una potenza, né un pugno di faziosi poteva essere assomiglialo ad una potenza belligerante.

Al momento della cattura, l’alto criminale non esisteva più, poiché il naviglio era sbarazzato dagli insorti ed obbediva al suo legittimo capitano. La bandiera nazionale doveva assicurargli i privilegii e le immunità marittimo.

Se la fregata napoletana aveva il diritto di visitare il Cagliari, essa doveva lasciarlo in libertà, dopo averne riconosciuta la vera nazionalità ed il suo carattere. Dunque la cattura ed il sequestro del Cagliari, la prigionia del capitano, ecc. ecc., sono atti diametralmente opposti al diritto pubblico internazionale.

Cavour quindi dichiarava che dai fatti denunziati risultasse che «Il Governo di S. M. Sarda era in diritto di domandare la restituzione del Cagliari e la liberazione dell’equipaggio stato arrestato, qualunque fossero le disposizioni giudiziarie emanate in seguito al processo intentato a Salerno; perché, essendo illegale la cattura, mancavano anche di legalità tutti gli atti, che la susseguirono.»

Le scissure però tra le due corti, napoletana e torinese, la gagliarda impressione prodotta dall’attentato di Orsini, la neve che in modo straordinario cadeva giù a fiocchi in Italia, e le disgrazie grandi e diverse delle quali natura fu autrice nel testé trascorso 1857. non impedirono lo avvicendarsi delle baldorie e dei chiassi carnascialeschi. E specialmente a Torino vi fu gran pompa di carri allegorici e gran richiamo di genti negli ultimi di di carnevale, e l’ebbrezza era universale non riunendosi colà che per i piaceri, pei balli, pei teatri e per le mascherate. Se non che, l’attentato Orsiniano (progetto o trama che aveva molte diramazioni in Italia, in Isvizzera ed in Inghilterra) portò seco ovunque delle restrizioni da parte delle polizie, degli arresti, degli sfratti od internamenti di emigrati, delle sorveglianze attive e numerose ai confini, dei sequestri dei giornali, fra quali la Ragione di Torino, e cento altre prudenze politiche in ogni parte d’Italia. In virtù di quell’attentalo il guardasigilli Deforesta presentava alla Camera elettiva di Torino, il dì 17 febbraio, un progetto di legge sulla stampa e «per una modificazione assai sensibile all’ordinamento del giurì sardo definendo l'apologia dell’assassinio politico e del regicidio, ed in aggiunta al Codice penale stabilendo le norme, che dovrebbero seguire di base alla punizione delle cospirazioni contro i Sovrani stranieri.

Eccone il testo:

«Art. 1.° La cospirazione contro la vita dei Sovrani e capi dei Governi stranieri è punita colla reclusione, estensibile a 10 anni di lavori forzati, quando vi sieno atti preparatorii, salve le maggiori pene stabilite dal Codice penale, quando sianvi stati atti di esecuzione, che costituiscano un tentativo a termini del capo 3.° libro 1.° di detto Codice, o sia il crimine stato consumato.

«Art. 2.° L'Apologia dell’assassinio politico, ovunque commesso, é punita colla pena del carcere da tre mesi ad un anno, oltre ad una multa estensibile a L. 4000.

«Tale reato si commette ogni qual volta, con alcuni dei mezzi indicali nell’articolo 1.° della legge 26 marzo 1848, s’approva l’assassinio politico, ovvero si cerca di giustificarlo o di scusarlo.

«Vi sarà luogo all’applicazione della pena sopra stabilita anche nel caso in cui l'apologia sia stata fatta indirettamente colla pubblicazione o colla riproduzione di scritti, di stampali, o di opere altrui.

«Art. 3. Agli articoli 78, 79, 80 ed 87 della legge 26 marzo 1848, sono surrogati i seguenti:

«Art. 78. Sono giudici del fatto lutti gl'iscritti nella lista degli elettori politici della città, in cui siede la Corte d'Appello.

«Art. 79. Negli ultimi 15 giorni dei mesi di giugno e di dicembre di ogni anno, una Commissione, composta del sindaco, che n’è il presidente, o di ciò, in caso di legittimo impedimento, ne fa le veci, di un consigliere comunale, eletto annualmente dall'intiero Consiglio a maggioranza assoluta di voti, e di altro consigliere, deputato in ogni anno dall’intendente della Provincia, forma la lista dei duecento giudici di fatto, che, durante il semestre successivo, possono essere chiamati a dar giudizio.

«Il Consiglio comunale eleggerà inoltre, nel modo avanti indicato, due consiglieri supplenti, i quali potranno far parte della Commissione unicamente quando i consiglieri ordinarii sieno legittimamente impediti.

«Art. 80. Formata la lista, il sindaco, entro tre giorni, dee trasmettere la medesima, firmata da lui e da due consiglieri, al primo presidente della Corte d’Appello, il quale provvede affinché sia subito affissa all’uditorio della Corte, e vi rimanga durante il semestre.

«Art. 87. Tanto il pubblico Ministero quanto l'imputato possono ricusare i giudici del fatto, stati estratti a sorte senza addurre molivi, sino a che rimangano nell'urna tanti nomi, che, uniti a quelli già estratti e non ricusati, raggiungano il numero di 14.

«La ricusazione deve essere fatta al momento della estrazione.

«Art 4. Per la prima volta, la lista, di cui all'articolo 79, sarà fatta nei quindici giorni immediatamente successivi alla pubblicazione della presente legge, e non avrà effetto che pei semestre corrente all’epoca io cui sarà formata.»

A queste misure governative, che provocarono poi grande fermento nella Camera elettiva, faceva significantissimo contrasto lo spaccio che pubblicamente lacerasi in Piemonte delle opere scritte e stampate da Orsini, le quali venivano vendute a prezzi favolosi, acquistate e lette! con grande avidità. Anche il ritratto di lui, che dappertutto colà pubblicamente veniva venduto, trovò grandissimo smercio. Per vero dire i liberali, in generale, anche non repubblicani, avevano sentito con poco orrore quell’enorme attentato, e la simpatia per Orsini di giorno in giorno aumentavasi. Napoleone III, per la spedizione di Roma, non godeva certo l’aura popolare in Italia!

Addì 17 febbraio moriva in Roma, il benemerito professore di scultura Filippo Albacini, consigliere dell’Accademia di S. Luca. Egli lasciava proprietaria la stessa Accademia della sua pingue eredità, (60,000 scudi romani) onde ne disponesse in premii e pensioni ai giovani artisti romani o italiana Questa morte fu da tutti sentita con grande dolore e riconoscenza!

Ma l’attenzione dei cittadini romani venne attirata sopra un alterco assai violento, che tramutossi in un batter di palpebra in una zuffa, tra gendarmi pontificii e sol, dati francesi, la quale avrebbe potuto avere funeste; conseguenze se non fosse stata sedata coll’arresto dei provocatori da una parte e dall’altra. Epperò quel fatto non provocò un allarme cosi grande come quello che verificossi nella capitale della Liguria il giorno 22 febbraio.

Colà le autorità politiche e militari furano costrette a spiegare un apparato di forze straordinario, imperocché temevasi rinovellato un altro 29 giugno. Non mancarono gli arresti e le perquisizioni domiciliari in gran nu mero. La città viveva nella più grande costernazione. Giungeva ed ancorava in quel porto un bastimento americano carico di armi e di armati. Il comandante della marina genovese lo circondò con scialuppe coadiuvate dal vapore Mozambano che minacciosamente s’avvicinava, e potè arrestare 20 individui e sequestrare le armi. Ma intanto la città tutta era caduta in ispavento ed in angustie per la presenza di quello sfarzo di forza pubblica, e per non sapere attribuire il motivo di un tanto allarme da parte del governo.

Anche molte famiglie di Torino vennero, negli ultimi giorni di questo mese, molestate da timori e da angustie. Imperciocché l’Accademia militare, ove si educano alla carriera delle armi i giovani delle più cospicue famiglie, venne militarmente occupala da un battaglione d’infanteria comandato, con pieni poteri, dal colonnello Pettinengo, delegato a tale bisogna per l’assenza del generale Decandia, comandante dell’istituto. Il ministro Lamarmora introdusse in quel luogo una disciplina assai severa, ed inconciliabile colla qualità A quella gioventù educanda. E per ciò parecchi di que’ giovani contravvenendo alle nuove misure Lamarmoriane, furono posti agli arresti. I compagni, cui spiaceva cotanto rigore, si unirono, in numero di 300, in complotto, e liberarono gli arrestati con violenze ai custodi ed a' professori. Quest’atto riusciva punito, ma gli ammutinati scossero il giogo e si opposero alle punizioni. Epperò l’occupazione militare intervenne, e 15 di loro furono condotti in cittadella ed 11 de' più ardenti espulsi dall'istituto. Poco dopo (Accademia fu sciolta da un ordine ministeriale, i giovani furono mandati alle loro case; ma traspariva la idea di ricostruirla sopra altre basi e con altri regolamenti e discipline.

Addì 35 febbraio si aprì in Parigi la Corte d’assise della. Senna, onde sotto la presidenza del sig. Delangle espose l'atto d'accusa redatto dal procuratore generale presso la Camera d’accusa della detta Corte, per giudiziaria decisione del 13 febbraio 1858, contro gli imputati, giudicati conforme alla legge. (Pedi pag. 260 in fine del Capitolo).

«1. Felice Orsini, letterato, di 39 anni, nato a Meldola (Stati romani), dimorante per ordinario a Londra (Inghilterra), il quale alloggiò a Parigi, in via Mont-Thabor, 10.

«2. Carlo di Rodio di 25 anni, professore di lingue, nato a Belluno (nella Venezia), dimorante per ordinario a Nottingham (Inghilterra), il quale alloggiò a Parigi, in via Montmartre, 132, Hotel de Franco et de Champagne;

«3. Antonio Gomez, di 29 anni, servitore, nato a Napoli (Italia), dimorante per ordinario in Inghilterra, il quale alloggiò a Parigi, in via Sant-Honorè. Hotel de Saxe-Cobourg.

«4. Giuseppe Andrea Pieri, di 50 anni, professore di lingue, nato a Lucca (Toscana), dimorante per ordinario a Birmingham (Inghilterra), il quale alloggiò a Parigi, in via Montmartre, 132, Hotel de France et de Campagne.

«5. Si mone Francesco Bernard, già chirurgo di marina, nato a Carcassone (Aube), in fuga.»

Il processo cominciò, progredì e continuò sempre col concorso di un uditorio così numeroso da destar le maraviglie ai giudici stessi. Durante questo processo gli accusati ebbero un tale diportamento da cattivarsi la pubblica attenzione. Orsini in ispecialità si attirò anche la generale compassione. Egli si atteggiò a campione dell’indipendenza italiana addimostrando che le azioni tutte di sua vita a quello scopo in precipuo modo erano state consacrate. Lo attentate alla vita di Napoleone 111. altro non era per lui, che una necessità fatale, la necessità di provocare quindi una rivoluzione in Francia, e quindi in Italia togliendo di mezzo lo Imperatore, da esso lui reputato un ingente argine che opponevasi al conseguimento dello scopo prefìssosi, l’indipendenza italiana. Laonde, fallito il colpo, Orsini scriveva dal suo carcere una lettera all’uomo stesso che avrebbe desiderato annientato, non per implorargli vita e libertà, ma sibbene veramente per muoverlo a compassione del misero stato dell’Italia, e per chiedergli a nome ed a pro della derelitta nazione, protezione, aiuto, libertà, indipendenza. Il procedimento dell’Orsini in tale circostanza altro non fu che una sublime anomalia che la storia deve registrare. Quella storica anomalia però racchiudeva in sé un altissimo concetto che poteva offrire vasto campo alle comentazioni «Io potente nell'azione, diceva Orsini, non ho potuto spargere il tuo sangue, necessario alla indipendenza del mio paese; ebbene, io ora impotente, in tue mani, coi piedi sul patibolo, scongiuro te per la rigenerazione della patria mia.» Orsini, se fece quel passo che sembra cotanto contraddittorio sapeva di poterlo fare. Chi sa quali antiche intelligenze egli aveva avute con quel suo confratello in cospirazione? Chi sa quali patti vennero ab antiquo secoloro segnati? Chi sa quale interpretazione Napoleone diede alla lettera di lui? Chi sa mai di quali nuovi proponimenti fu origine quella lettera e la preghiera che in sé racchiudeva nel cuore del potente imperatore, mentre per il pubblico francese, italiano e di altre nazioni veniva considerata come un’anomalia, come un mistero? Ma Orsini intanto s’attirò non solamente la pubblica attenzione, ma sibbene ancora la compassione e la simpatia dei liberali di tutti i paesi. Contribuì assai a tal fine la possente difesa dell’avvocato Giulio Favre, il quale fu grande e sublime nella esposizione dei fatti riguardanti la vita d’Orsini, Vesuvio acceso rigurgitante fiamme perenni a vantaggio del riscatto della patria sua. Epperò l’orrore che sempre seco porta il delitto, scemò di forza sotto la voce affascinatrice dell’illustre giureconsulto, subentrando nella vece la simpatia ed anzi il desiderio di vedere salvo quel reo, che all'amor di patria aveva sacrificato tutta intiera la vita. E quel pio desiderio si diffuse nei cuori di tutti i liberali in Italia ed in I svizzera, mentre in Piemonte contavansi medaglie in onore di Giulio Favre. Ma la legge, più che Napoleone III, fulminò quel reo, il quale in sul patibolo mori gridando: viva Italia! Pieri ebbe la stessa sorte; gli altri due furon salvi dalla morte, ma vennero condannati e subirono la loro pena.

I Veterani della grande armata di Napoleone I stanziati nella provincia di Pinerolo in Piemonte si unirono nella chiesa di S. Rocco, a fine di rendere azioni di grazie a Dio per aver salvata prodigiosamente la vita di Napoleone III. Il sacerdote Giambattista Maccari recitava analoga orazione, e sulla porta d’ingresso alla chiesa scon-gevasi la seguente iscrizione:

Al Dio degli eserciti

Per aver salva la vita

Di Napoleone III

I Veterani di Napoleone I

Della Provincia di Pinerolo

Solenni azioni di grazie.

Questo rendimento di grazie fu pure fatto da tutti gli altri veterani delle altre provincie sarde.


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GRAN CORTE CRIMINALE DI SALERNO

Presidenza del consiglio Dalia
Sessione del 7 dicembre 1857.
ATTO DI ACCUSA

e decisione di sottoposisione ad accusa contro Giovanni Nicotera ed altri, imputati degli avvenimenti politici verificatisi in Ponza, Sapri ed altri paesi del distretto di Sala.

Ilprocuratore generale del Re presso la gran corte criminale del Principato citeriore, nella qualità di pubblico accusatore espone quanto segue.

Le spedizioni dallo straniero di gente armata, nello scopo di pro muovere la ribellione, non sono nuove nel nostro Reame: se fu sempre infelice il successo, e pur ciò non fu bastevole ad impedire che altre ne venissero eseguite; ma per la stranezza dell'impresa, la storia non saria stata creduta nel trasmettere alle generazioni che verranno le particolarità degli avvenimenti, che ci occupano, senza l’appoggio di un processo criminale, che ne ba assicurato i documenti ineluttabili.

La provvidenza di Dio però li permetteva perché fosse noto il volere dell'universale in modo non equivoco, una volta che i partiti vi fossero inchinati, e perché la calunnia, vinta dall’eloquenza dei fatti, ne deponesse le sue armi.

Ildemone personificato del disordine, per togliere forza al colosso, che deve combattere, ha cercato e cerca trai profitto dalle passioni e dalle tendenze, che ha tutte ammesse, comunque non ne fosse unico lo scopo; trae da tutto profitto, e purché venga meno la base dell’ordine col crollo del governo legittimo, ritiene indifferente il modo, per lo quale venisse ciò conseguito; tutti i partiti da lui ricevono la spinta, tutti speran da lui, e se ne noverano quattro contro l’immensa maggioranza, che, volendo l’ordine, non può volere che il paterno Governo del Re (N. S.), ed il presente gli sforzi con diretti a volerne la fusione.

I settatori facean concepire speranze, promettevano elementi di sicura riuscita per i loro maneggi, e gl’illusi non potean non muoversi. Dovette per tal modo sorgere il pensiero di uno sbarco di armati. Ritenuto più adatto all’azione un partito rimarcato per istolta arditezza, perché composto d’uomini, che, schiavi del bisogno, possono dirigersi a piacimento, e che potean del pari dare sviluppo alla commozione in luoghi diversi; mentre degli altri, due sono limitati a località, ed il terzo non può mostrarsi che quando si riuscisse nella generale sommossa; fu il partito così detto nazionale, che, riconosciuto capace, veniva invitato, incoraggiato, soccorso.

Stavan nell’estero tre sudditi napoletani, Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera e Giambattista Falcone.

Il primo già ufficiale nel genio, aveva disertato le reali bandiere sin dall’anno 1847, perché, non pago dell'adulterio, volle esclusivo il possesso della donna adultera, e si allontanò. Prestò servizio nell'Africa a' Francesi; nel tempo delle rivolture del 1848, a sostegno della ribellione, e cessò da servire da sedicente colonnello, capo dello stato maggiore della gente armata di Garibaldi, nel giugno 1849.

Egli, ch'era irrequieto, qual è chi si trova sotto lo stimolo del rimorso, e sotto la pressione del bisogno per quel che ne mostra laprivata sua corrispondenza, che aveva superato l’ostacolo della propria coscienza, perché provetto nelle vie dell’ingiustizia e del tradimento, hi ritenuto adatto per la stolta impresa, fu invitato ed ebbe somma di molte migliaia di ducati, comunque non se ne possa fissare l’ammontare preciso.

Egli non che, accettalo l'incarico, metteva a parte del progetto il Nicotera e Falcone. Quello nacque in Biase di Nicastro; in età molto giovanile aveva figurato negli avvenimenti delle Calabrie, o per quel eh egli stesso ne ha detto, fuggito con quel Comitato rivoluzionarle, fu arruolato alle bande ne fatti di Roma; egli, fin da quell’epoca, dà emigrato viveva in Torino con mezzi non estesi, che gli venivan dalla sua famiglia.

Il Pisacane si portò da lui, accompagnato da miss White, e nel comunicargli il progetto, gli fece mostra de' documenti, che assicuravano la riuscita.

Del Falcone poi si è conosciuto ch'era nativo di Acri nella Calabria citeriore; giovine già avviato per lo sacerdozio e studente In Napoli, abbandonato da' genitori per discolezza, e ricercato dalla polizia, non si sa per qual modo si era portato in Torino, dove si faceva chiamare Giuseppe Capotti.

I documenti mettono a chiaro che le premure per aver seguaci si eran rivolte cui luoghi di pena, nella poca speranzadi averne altrove, e risulta da corrispondenza che le proposte di riscontro riguardavamo le isole di Ponza, Vento tene e S. Stefano.

Le due seguenti lettere (scritte in cifra, ma di cui la giustizia scoperse la chiave) mettono ciò a chiaro.

«Amico Carissimo

29 maggio 1837.


s

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a

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polizia


«Il commesso

95.

43.

56.

8.

86

161.

ha avuto una visita

78

sul

vapore


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408,

ed ha bruciato quanto aveva: gli è rimasta solo la

243.

72.

6.


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447.

240.

488.

472.

8.

col contenute, ma non l'abbiamo ancora ricevuta.



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i

Sono inquietissimo di questa faccenda;

9.

36.

86.

29.

97.

103.

45.


mi ha risposto alla mia lettera di principii, che gli pervenne prima, ed alla vostra che accompagnai con altra mia. Vi trascrivo il brano più interessante della prima, e vi rimetto originalmente la seconda.



m

a

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«Ho avuto finalmente il mezzo di scrivere a

56.

5.

402.

44.

64.

8.



arresto


ch’è sempre in

121

mi promette di darmi tutte le istruzioni necessarie




p

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a


a riprendere l'affare

73.

86.

64.

418.

8

che, come vi ho altre volte

detto, fu da lui proposto; se avrò a tempo questo istruzioni ve le rimetterò.


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o


L'amico del

75.

46.

9.

65.

69.

vi rimetto una letterina che vi accludo;



napoli


io veggo per

63

meno di ciò ch’egli vede; ma spero farne più di lui









da' bisogni dal

76.

7.

39.

97.

29,

e dal momento che mi pare cosi

grave, che, se non si coglie, dispero per molti anni. Non devonegarvi però che son convinto, che se mi fosse concesso da principio qualche mese seguite di tempo ed avrebbe potuto prestarmisi qualche aiuto maggiore da poter intraprendere varie cose, che avevano d’uopo di tal tempo, come per esempio


armi


quella delle

120,

e di qualche fatto determinante, ecc. ecc., ora avrei

potuto dirvi assai di più di quello che vi scrive l’amico, e ci avreste potuto contare come cosa più concretala che concertata. Ecco la traduzione del brano della lettera suaccennatavi che vi trascrivo colla


s

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75.

85.

405.

95.

93.

44.

9.

102.

68.

in

120.

69.

85.

95.

158.



isola


L’

46

è distante da Ventotene trenta miglia, senz'alcun porto

intermedio, per cui non vi è telegrafo; quest'ultima è distante da Ischia anche trenta miglia, di modo che le tre dette 646 formano un angolo equilatero. Da Ventotene a S. Stefano vi è un canale di mare di un miglio. In Ponza vi sono pochissimi relegati politici e più centinaia di relegati comuni, soldati di voluta cattiva condotta. In Ventotene vi sono circa una cinquantina di relegati politici; son colà per accendervi una scorridoia della Dogana, ed una della marina armata a guerra di un pezzo. In S. Stefano siamo tre condannati ai ferri, ed all’ergastolo trenta, e circa 800 condannati comuni per omicidio. In Ventotene vi è una mezza compagnia della così detta riserva, comandala da un aiutante, ed altrettanti uomini del reggimento marina, comandati da un sergente, tutti sotto gli ordini del comandante dell'ergastolo. Lo schizzo che mi chiedete non posso mandarvelo, perché mancante di mezzi per farlo, e perché noi non vediamo che il cielo e l’atrio del bagno: siamo come in una gabbia, solo da un piccolo spiraglio vediamo il mare in lontananza. — Qui fluisce. L’altra ve l'ho acchiusa originalmente per mancanza di tempo.


arresti


truppe


«Qui vi sono moltissimi

121

e

103.

Si assicura da tutti la partenza

dei Principi spagnuoli e dei Principi reali, e due vapori sono a ciò pronti.


Cilento


p

r

o

n

t

i

Gli amici di

427

si dicono

76.

88.

68.

65.

404.

46,

e premurosi perché dicono danneggiare col tempo.


Cilento


Napoli


In

18.

vi è fermento grande, ed in

63

si esagerano scontri tra


banda armata


truppa


11

e

105.

Dopo il penultimo tempo da voi fissato noi



provincia


abbiamo scritto in

73

lettere, che certo han prodotto un certo



proclama


allarme, e quel vostro

76

non ha dovuto contribuire meno.

Non posso, né devo celarvi che sono in un grave dubbio, ed è, se dopo la


a

g

r

e

s

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i


lettera di

8.

37.

86.

129.

99.

403.

45.

voi siete fermi per l’epoca, per il


l

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51.

112.

68.

36.

89.

o se per intraprendere preparativi su di



l’

e

p

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c

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altro luogo, trasportate

51.

29.

79.

69.

49.

10

!!! Ciò è

indispensabile me lo diciate nella risposta che darete a questa.

Nella mia posizione, e precisamente del momento, questo dubbio dee promuovere un brivido nervoso. Pel resto attenetevi alle ultime precedenti mie. Addio di cuore.»

«Gentilissimo amico

«Sento quanto mi dite por l'aggiornamento al 12 corrente. Da noi vi replico non si puoi fare nulla per la ragione che già vi ò scritto; l'operazione credo bene che ai dovrebbe eseguire di notte contemporaneamente sulle due isole in Ventotene, impadronirsi delle ccorridoie e della cattura dì 4 o 5 pezzi, che guarda S. Stefano, ed il canale; nel tempo stesso un vapore dovrebbe piazzarsi nei canale, ed impedire partenza o passaggio di barca: indi eseguire l'operazione su di S. Stefano, oppure contemporaneamente. Sbarcando dalla parte opposta a Ventotene, ai giunge alle spalle delle sentinelle esterne, vi è un posto di guardia fuori l'ergastolo per le sentinelle esterne, più la caserma per il resto del distaccamento, più vi è un altro posto di guardia interno, e propriamente sulla loggia che guarda l’interno, ed à tre sentinelle; nell’interno vi è la caserma dei custodi che sono al numero 24, ma non sono armati, facendo il servizio di carcerieri; vi è anche un cannoniere, il quale è incaricato delle granate a mano che ve n'è una cassa presso il comandante. Ecco tutti gli ostacoli che dovrebbero superarsi: calcolate bene tutto, o vedete se è possibile; per i condannati comuni, come vi ho scritto, non vi è nulla a fidarsi, sono quasi tutti nostri inimici, e se sortissero in libertà subito ritornerebbero all'antico mestiere di ladri di strada pubblica. Tutti noi tra politici e semi politici cilentani potremo sommare a meno di 50, bisogna toglierne una decina di vecchi inutili ad ogni fazione, non resterebbero che una quarantina disponibili. Calcolate tutto ciò e decidete; potete credere, mio ottimo amico, se amerei di vedermi libero, ma io amo la patria prima di tutto e non vorrei che per individui si trascurassero i veri interessi dell’infelice patria. Voi siete fuori, siete in corrispondenza, pesale lutto senza passione, e decidete. Per me sin che respiro sarò per l’Italia mia, ed a qualunque appello, onoralo, della stessa, non mancherò mai..

«Vi ringrazio de' ducati 50, che avete passalo a mia moglie. Noterò tutto ciò che spendo onde possa sempre rendercene conto.»

E pur anco il proclama è in potere della giustizia.

Occorreva altra gente per l’iniziativa, e venne accozzata da uomini di diversi paesi, e se n’ebbero non oltre a ventitré, comprendendovi il capitano sardo Giuseppe Danari.

Luigi Barbieri assoldava per l’oggetto dei marinari della Spezia, che era gente non nuova ad insorgere per quel chela era avvenuto, e di questo Barbieri si è verificato, che, reduce da Inghilterra a Genova, fece da mezzano a Carlo Pisacane ne’ primi giornidi giugno per arruolare delle persone ed imbarcarle. E vi riusciva perché vi si univano, oltre il Daneri, altri marinari della Spezia, de' quali son superstiti Felice e Gaetano Poggi, Domenico Porro, Cesare Faridone e Francesco Meluscè. Degli altri assoldati, che appartenevano per la maggior parte alla gente lombarda, o della Romagna, son presenti nel giudizio Cesare Cari, Domenico Mazzoni, Giuseppe Facili o Foli, Giuseppe Santandrea, Giovanni Camillueci. Pietro Rusconi, Achille Tornaci Perucci, Amilcare Bonomo, Carlo Rotta, Giovanni Gagliani. Essi convennero presso il Pisacane pria che movessero da Genova.

Si mostra nella scienza del da farsi la circostanza che molti avevano mentiti i nomi, in effetti. Giovanni Gagliani e Carlo Rotta, lasciando i loro nomi, assumevan gli altri di Filippo Solari e Michele Galli. Del pari, Giuseppe Santandrea e Giuseppe Faulli cambiarono i loro nomi, non si sa con quali altri, ed avean fatto lo stesso Federico Foschini, Giovanni Sala, e Filippo Fajelli.

Non lascia poi dubitarne il seguente documento, in cui si hanno le firme autografe, e che quelli che vi intervennero han fatto a gara per riconoscerle, e della cui efficacia occorrerà altra volta parlarne.

«Noi qui sottoscritti dichiariamo altamente che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa, e della gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gl’iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, non senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange de' martiri italiani. Trovi altra nazione del mondo uomini che, come noi, s’immolano alla sualibertà, ed allora solo potrà paragonarsi all’Italia, benché sino ad oggi ancora schiava. — Sul vapore — Sul Cagliarialle ore nove e mezzo di sera de' 25 giugno 1857; 1. Carlo Pisacane; 2. Giovanni Nicotera; 3. Giovan Battista Falcone; 4. Barbieri Luigi di Levici; 5. Gaetano Poggi di Levici; 6. Achille Perucci; 7. Cesare Faridone; 8. Poggi Felice di Lerici; 9. Gagliani Giovanni di Lerici; 10. Rotta Domenico; 11. Cesare Cari di Augona; 12. Foschini Federico; 13. Lodovico Necromonti d’Orvieto; 14. Metuscè Francisco di Lerici, marinaio; 15. Sala Giovanni; 6. Lorenzo Giannone; 17. Filippo Fajello; 18. Giovanni Camillucci; 19. Domenico Massone d’Angona; 20. Rusconi Pietro.»

È certo che i documenti tutti, che Carlo Pisacane portava con lui, formaron la base della soluzione dell’insensata intrapresa.

Un foglio in istampa, ritagliato nella parte laterale ed estrema, ricavato da quello, di cui si fa uso nello Spedale militare della Trinita per il movimento degl'indidui di diventi corpi con notizie manoscritte presentiva la nozione delle diverse guarnigioni.

Ed un foglio manoscritto intitolato:

«Condizioni generali interpretato nelle cifre numeriche, rileva quali ostacoli si proponean dover superare, quali aiuti si aspettavano, e da chi.

Ildocumento è il seguente:

«Condizioni generali. Le Provincie di Bari, Lecce, Basilicata, e Foggia


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sono sotto l'ascendente di

49.

43.

9.

26.

83.

99.

44.

63.

65.

costuipuò molto sui buoni e sui ricchi, ed è ricco anch'esso; da poco


prigioni


Lecce


è ritornato dalle

44

e trovasi a

31,

è antimuratiano,

amico di Lafarina, ma lo erodo delle idee nostre; in un mese puòmobilizzare il lavoro di Bari e Lecce.

I distretti in provincia sono suddivisi in sezioni.

Distretto di Lagonegro. 1.(a)Sezione 36, 2.(a)16, 3.(a)20, 4.(a)8, 5.(a)20, 6.(a)29, 7.(a)12, 8.(a)5. 9.(a)20. Totale del Distretto 166.

Idem. Potenza. 1.(a)124, 2.(a)70, 3.(a)58, 4.(a)77, 5.» 20, 6. s 13, 7. a 53; Totale del distretto 415.

Distretto di Padula. 1.(a)50, 2.(a)15, 3.(a)30, 4.(a)20, 5.(a)10, 6.(a)20, 7.(a)10, 8.(a)12, totale 167. Totale degli Stati armati 748.

Ma completando i Stati di questa Provincia, si raggiunge la somma di 2000 pronti ad iniziare, ed armati; vi sono poi 405 senza armi.

In Bari, Lecce e Foggia vi è una specie di organizzazione carbonaresca. molti hanno per motto Mazzini ed il berretto rosso; ascendono quasi a 6000.

Nel Molise vi è il Distretto di Larino.

Sa gn on-


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Nella Provincia di Salerno i limitrofi sono i

54

116

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21

105

51

3;

i primi sodoin arresto.

Le forze di Bari, Lecce e Foggia subiscono molto l'ascendente dei dottrinarii.

Cilento


Cilento


Quindi abbiamo, se contiamo negli affiliati alle coste di

18

il

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71

6

21

105

51

5

operosissimo, e da contare su due o trecento

affiliati, segue poi la provincia di Basilicata in cui ve ne sono 2000. Quindi il primo concentramento potrebbe ascendere a circa 3000 uomini armati, e questo se contiamo sui soli affiliati.

Nelle provincie più distanti vi sarebbero forze imponenti; Lecce, Bari, Foggia e Molise avranno circa 6000affiliati.

Nel Cilento, il tenente Maddalena in colonna mobile con 30 gendarmi

30

In Ogliastro, guardia giornaliera d'urbani e gendarmi

08

In Rotino, picchetto di gendarmi comandati da Rocca

08

In Frignano, S Antonio, e Torchiara

68

In S Magno, Sesta ed Omignano vi è brigata come sopra

08

Acquavella, Casalecchio, Pollice, Gelso e Pisciotta

08

Vallo, un capitano con gendarmi

40

In una compagnia di gendarmi

94

Porcile beo organizzato, e pronto all’azione. S. Lucia egualmente.

Ceraso, Terradura, Catone, Novi, e Villaggi, vi sono squadriglie di uomini, ma mediocri.

Castellabate ed Agropoli cattivo.

Monte è ottimo. Cicerale cattivo.

Monteforte e Magliano ottimi. S. Giacomo buono. Rocca, Lustra e Valle sono sotto la stessa pressura de! circondario di Torchiara.

Giungano è ottimo. Giova, Cardile. Muoio e Pellere sarebbero buoni, ma sono sotto la pressura del Vallo.

«A Sapri. »

Matteo Giordano Sarto con altri (scritto nel viglietto di carattere del socio: questa è la persona che desiderate) Italia per gl'italiani, e gl'italiani per essa. Cercare a Sapri del barone Gallotti. Ponza, Ischia e Ventotene, distanti 30 miglia luna dall’altra.

«Isole»









Il progetto di Ponza fu dato

56

116

99

43

63

1.

In tale isola

vi aono molti politici e militari relegati, i quali avvisati, e ad un


vapore

segnale convenuto, potrebbero tagliare il telegrafo, mentre il

104

s’impadronirebbe della scorridoia, che trovasi nel porto. Potrebbero aversi 200 fucili, munizioni, e due piccoli pezzi. La guarnigione è composta di pochi veterani. Il detto Matina è sotto chiave, vi is è scritto.

«Ventotene.»


P

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I

75

158

95

118

178

161.

Presidio. Lo comandante di piazza,

un aiutante di piazza, un sergente e quattro veterani addetti alla polizia.

Un alfiere con 36 uomini della riserva, tutti quasi iuabili per infermità. Otto artiglieri ed un sergente. Vi sono poi da prestare servizio, in caso d'urgenza, una cinquantina d’artiglieri litorali, i quali sono gente del paese, tutti pescatori, e dispersi pe’ dintorni. Vi è una polveriera con qualche cantaio di polvere; vi sono dieci o dodici cannoni rosi dalla ruggine: ma di questi una batteria poco elevata sull’acqua guarda l’approdo di S. Stefano. Si potrebbero prendere circa un sessanta buoni fucili con trenta daghe, e disarmando gl'isolani, del che non ai avrà il tempo, un cento fucili da caccia. I relegati sono 90 circa. Approdo verso tramontana.

«Ergastolo»

A

g

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416

37

83

26

94

99

459.

Tra riserva e marina vi sono

circa 50 uomini. L’approdo tramontana. I comuni sono circa 800, i politici 26. Il comandante è Rasoio, uomo venalissimo. Gli ergastolani quasi tutti del Cilento, subiscono l’ascendente di un 60 giovani influenti ne’ loro paesi, e poi sette ed otto cime. La prima versione dice che vi sieno 200 fucili.

Tutto se va bene, potrebbero raccogliersi un 300 uomini con 400 fucili, munizioni, ed un paio di pezzi d'artiglieria.

Flotta —Vascelli 2 — Fregate a vela 4 — Fregate a vapore 14— Brik 6 — Corvette a vapore 6.

Armate —A Napoli — Fregate a vela 5 — Corvette a vela 1 — Fregate a vapore.

Ischia —Fregate a vapore 2 — Viscardo a Messina — Vascelli 2 — Fregale a vapore 18 — Fregate a vela 7 — Corvette a vapore 4 — Corvette a vela 7. — Totale 38.

E pur queste speranze bastavano a far la spedizione, a fronte di questi ostacoli!

Per quei che i documenti stessi rilevano, la partenza da Genova dovea aver luogo nel giorno 10 alla direzione di S. Stefano e Ventotene e si dovean trovare nel viaggio uomini ed armi.

Ed il piano era come appresso va indicato.

Partenza da Genova 10 giugno 6 pom. Alle ore 10. ed a circa 40 miglia dal porlo, si esegue la sorpresa del vapore, ilCagliari percorre circa nove miglia l’ora. Il giorno 11alle 10 del mattino si troverà nelle acque di Montecristo, vi si seguirà il trasbordo degli uomini e delle armi. La barca partirà tre giorni prima del vapore. Due ore pel trasbordo. Alle 12 si ripone in cammino. Arrivo a Ventotene e S. Stefano alle 3 del mattino, e forzando un poco la macchina potrebbesi giungere alle 4 ant.

Avviso colla terra ferma non ve n’è alcuno, quindi il caso più sfavorevole sarebbe quello che alle 5 del mattino per caso partiate da Gaeta un vapore; i vapori vanno sempre a Ponza, ma ponghiamo caso che si diriga a Ventotene, non vi giungerà che verso il mezzogiorno; quindi, so vi corre il minimo dubbio, alle 10 bisogna esser partito: vi sono state otto ore di tempo per eseguire la liberazione e l'imbarco de' prigionieri. Da Ventotene percorrendo comodamente otto miglia l'ora di strada a Sapri verso le ore 10 o 11della sera. Come puòsupor la nuova? Se la scorriera è a Ventotene, certo non partirà. Supponghiamo che vi giunga da Ponza appena noi siamo partiti alle 10ritorna immediatamentea portare la nuova, vi vogliono almeno tre ore, giunge a Ponza ad 1pom. Il telegrafo segnale a Gaeta, da Gaeta a Napoli, da Napoli alle 2 si parteuna fregata a vapore, non giungla sulla nostra rotta che allo 5, noi avremo già percorso da 70 miglia, epperò avremo oltrepassato di 20 miglia le bocche piccole di Capri.

E da altro brano è risultato che por anco da Londra doveva partire un vapore.

Il vapore partirà da Londra con 20 uomini armati, 200 fucili, e un poco di munizione. Nelle acque dell’isola della Pianosa, prima di entrare sul canale di S. Bonifacio, troverà una goletta con altri 15 mini armati, 12,000 cartucce, e forse qualche nitro numero di fucili, D. Giorgio li darà.

Nel caso più favorevole arriveremo a Ponza in 40 armati, con 300 fucili, ed un 20.000 cartucce.

Nel caso lo più sfavorevole vi giungeremo in 25 armati con 200 fucili e poca munizione.

Nel caso che le cose sono come quelli hanno scritto, le cose nostro vanno bene, noi sbarcheremo con 500 uomini armati, e muniti forse di due pezzi d’artiglieria, ed altro numero di uomini disarmati.

Se tutto va malissimo, e che i relegati non vogliano venire, noi sbarcheremo con 25 armati e 200 fucili; 1°.vantaggio, ci troveremo nel Regno ove vorremo andare; 2°.avremo di fatto introdotto i fucili, che da tanto tempo non è possibile introdurre; 3°. daremo un impulso alla Basilicata, chediasi pronta ad insorgere; 4°. e se nessuno muove?… Creperemo.

Si è poi conosciuto che non avveniva la mossa nel giorno designalo, perché il battello genovese con cento fucili venne obbligato da fiera burrasca a rientrare nel porto, e gittare le armi a mare.

Fin dal cominciare, a modo loro, fissarono tutte le operazioni, e da altre carte, di cui conmaggiore opportunità ai riporterà il contenuto nella esposizione di fatti ulteriori, si ha che aveanpreceduto quelche da Genova doveafarsi fin ad arrivare ad Aurelia, ed anche oltre.

Gl’interrogatorii poi, di che dovrà tenersi proposito dopo aver compiuta la narrazione de' fatti, non lasciano a desiderare altro.

Erano queste le speranze ed i disegni, che determinavano la pazza spedizione.

Non v’ha causa in cui, come in questa, l’accusatore pubblico non senta il bisogno di aggiunger parole alle pruove scritturali, che ha a dimostrazione dei reato per la quale accusa, ed in cui gli stessi incolpali gli fanno agevole la via per lo compimento del suo incarico.

Non v'ha causa, in cui la cospirazione possa ottenere più evidente dimostrazione.

Che si potrebbe dir di più per comprovare che surse in mente a scioperati l'idea di movimento sovversivo, che la proposta ne venne discussa, ed ottenne l'approvazione, ne fu fatto il piano, ne fu regolata l'esecuzione, si devenne ad atti?

Nési vuol altro perché si abbiano le circostante costitutive della cospirazione.

Trovandosi tutto preparato nel modo che si è detto, si doveva cominciare l'esecuzione.

Sorgono dagli atti compilati, gravi argomenti per ritenere che la Società di vapori sardi, sotto la ditta R. Rubattino e Compagni, fosse stata da più tempo in concerto co' macchinatori settarii per far trasportare nei reali dominii armi ed armati, e fin da dicembre 1856 sospettavasi che avrebbe assentito di dare a nolo uno de' piroscafi a' congiurati, onde in qualche momento opportuno fossero stati alla portata di sbarcare sul lido di Sicilia più favorevole al passaggio a Palermo.

Certo si è che da qualche mese prima del 25 giugno, il piroscafo Cagliari servì di mezzo di trasporto di varie casse d'armi da Genova, con la direzione per Tunisi, e si aveva a temere, che lungo la rotta, le armi fossero state trasbordate, e depositate in qualche suolo convenuto, per essere quivi levate pe' dominii di S. M. il Re (N. S.), specialmente lorché il vapore francese Provence,proveniente da Marsiglia, nel 21 maggio trasbordò nel porto di Genova sul Cagliari2 casse marcate C. E. contenenti 300 fucili di munizioni e 100 pistole.

I sospetti crescevano, quando osservavasiche la spedizione delle armi con polizze all'ordine, vai dire senza indicazione degl’immittenti, né dei destinatarii, per non rivelarsi, in tempo appunto dai rivoluzionari Carlo Pisacane, Rosolino Pilo e qualche altro vedevansi in moto. Non per tanto, per una di dette spedizioni, si potè conoscere quali erano gl'immittenti (caricatori)di Genova, o di 17 caste di armi, una racchiudente lame di sciabole spedivasi direttamente da Rubattino.

Nel 25 giugno, e dopo elle il primo progetto era andato a vuoto, si imbarcavano a Genova sul cennato piroscafo il Cagliari,che si diceva doversi portare in Tunesi, Carlo Pisacane, ch'era un noto rivoluzionario, fra altri 33, con la divisa di passaggieri, ed un equipaggio di 32 persone, di cui soltanto 30 venivano rivelate. Oltre gl’individui che montavano a bordo del Cagliarisotto nomi mentiti, e si sono disopra indicati, i seguenti altri dell'equipaggio, ora giudicabili, erano mancanti di regolari ricapiti, Prospero Bruciacase, Agostino Ghio. Lorenzo Acquarone, Enrico Wuott, Carlo Park.

Si è eziandio conosciuto chemiss White, nelportarsi a Torino, aveva provveduto i cospiratori di un viglietto in lingua inglese, scritto di suo pugno, e diretto al macchinista del vapore Park, onde non si fosse rifiutato alla proposta.

Questo scritto esecrabile, che veniva conservato dal Park, e si sorprendeva presso di lui, addimostra che non era egli estraneo al concerto criminoso, e non ignorava lo scopo, cui si tendeva nel concerto medesimo.

Le parole di esso suonano, nel linguaggio italiano, come appresso:

«Noi desideriamo di evitare spargimento di sangue; nostra sola mira è di liberare i nostri fratelli dalle orribili prigioni di Bomba, Re di Napoli, così giustamente abborrito dagl’inglesi. Coll’assistenza a' nostri sforzi, voi vorrete essere consapevoli di fare una buona azione, un’azione quale sarà approvata dalle due nazioni, l'italiana, cioè, l'inglese. Voi avrete ancora il merito di preservare questo bastimento pei vostri padroni. Ogni resistenza è inutile. Noi siamo risoluti di compiere la nostra impresa, o di morire.»

Sul medesimo vapore, come un altro de' 33 passaggieri, s’imbarcava Giuseppe Danari, appartenente ad una famiglia fanaticamente devota al Mazzini, cui faceva da segretario un germano del Daneri, a nome Francesco, repubblicano per sentimenti. Esso Giuseppe era nell'accordo con gli altri, e si mostrava portatore di una procura di un tal Musto di Genova fabbricante di salumi, con l'incarico d'invigilare agl’interessi, che costui aveva in una tonnara; ma era questa una simulazione per coonestare il suo viaggio, mentre il Musto era intrinseco del Francesco Daneri, e ne dividea le opinioni.

La rotta del legno avrebbe dovuto essere sino alla città di Cagliari, ove sarebbe giunto la sera del 27, vai dire dopo circa 48 ore di viaggio (essendo partito alle ore 6 e mezzo pom.) ed avea a bordo circa 35 tonnellate di carbone (secondo un esposto del Rubattino), quanto era necessario o poco più per giungere a Cagliari, ove provvedendosi di altra quantità di combustibile, avrebbe dovuto riprendere la rotta per Tunisi. Sta però in fatto che viaggiò sino al mattino del 29.

Dal porto di Genova, il Cagliarimoveva per Ponza, nella di cui rada giungeva a circa le ore 20 del 27 giugno. I cospiratori spiegarono all’albero di trinchetto la bandiera di chiamata, un pilota nell’isola si avvicinò con un battello, ed uno de' faziosi gli domandò se conoscesse D. Giovanni Matina, soggiungendogli che lo stesso trovasi nel castello S. Elmo: quel fazioso era Pisacane. Un altro de' congiurati, con cicatrice al labbro superiore, chiamò a nome il pilota, il che indicava che precedentemente lo conosceva. Il pilota fu sequestrato. In alto i deputati di salute avvicinavansi al bastimento, scorgevano in una lancia dello stesso cinque o sei, taluni di quali vestiti da marinari; ed un altro che figurava da capo (era costui Giuseppe Generi), al quale si domandò il nome e cognome, e quegli spiegando una carta, faceva credere essere la patente. Uno de' deputati gliela chiese, e colui, tirando a sé la carta, diceva a un momento, un momento e volse attorno sospettoso lo sguardo. Allora altri congiurati da altra lancia impugnarono contro i deputati di salute le armi: anche il Daneri cacciò di sacca due pistole, e le impugnò contro i deputati medesimi. dicendo tutti; «non vi movete».

I cospiratori per tanto dalle lance sbarcarono sull'isola per una spiaggia recondita ed inosservata, ed immediatamente aggredirono il porto della gran guardia, guardato da due o tre soldati, che non poterono opporre veruna resistenza, e furono ben tosto disarmati. Il tenente D. Cesare Balsamo, colla sciabola sguainata, mostrò un contegno di fermezza in faccia a due di que' faziosi, ma ben tosto un colpo d’arme da fuoco, tratto da Cesare Cari, uno degli esteri, lo fè cadere semivivo, e dopo mezz’ora morì.

Di congiurati, sbarcati a Ponza, facevano parte i seguenti dell’equipaggio, oltre Vicenzo Ricci:

Agostino Ghio, Pietro Cipale, Lorenzo Acquarone, Girolamo Frumento, Giovanni Rebua, Giovanni Frumento, Girolamo Bartiroti, Domenico Strulese, Prospero Bruciacase, Claudio Barbieri, Pasquale Casella, Ignazio Frumento, Domenico Costa.

Enrico Wuotte Carlo Park non discesero, perché come macchinisti, dovevano rimanere assolutamente sul Cagliari. La dimostrazione della reità di entrambi si ha, oltre dal mancar de' ricapiti e da ciò che si è detto di esso Park, dal grave elemento che, avrebbe data direzione al bastimento per Tunisi, e non per Ponza, qualora non fosse stato in pieno accordo con Park, e con tutti gli altri cospiratori; né vi ha prova della violenza, di cui si fanno scudo.

Per Lorenzo Acquarone, uno de' camerieri, è tanto certo che calò in Ponza, che ivi fu ferito da un colpo di fucile, siccome dice egli stesso.

I faziosi adunque, guadagnata la gran guardia, impresero ad eccitare gli abitanti dell’isola, e sopratutto i condannati alla relegazione, e gli ex militi in punizione, ad armarsi ed unirai loro, percorrendo a tal fine le varie piazze con tricolore bandiera, che si portava da uno dell’equipaggio, e fra le grida di viva la libertà, viva la repubblica.

I tentativi non fallirono; imperciocché molti relegati, ed ex militi che si trattenevano in sulle piazze oziando, al primo scompiglio fuggirono, ma quando si accorsero che era stata guadagnata la gran guardia e sentivan que' facinorosi gridare a viva la libertà, viva la repubblica» e loro dicevano che tutta Italia era divenuta repubblica ei unirono ben tosto ad essi, e fecero causa comune. Allora il disordine crebbe oltremodo. Le Autorità militari, cioè comandante D. Antonio Astorinn, aiutante D. Federico de Francesco, l’aiutante maggiore D. Antonio Ferruggia, il capitano delporto D. Montano Magliozzi, i deputati di salute ed altri furono sequestrati e condotti a bordo del Cagliari,ove si fecero sottoscrivere da Aslorino due consecutivi ordini di consegnarsi immantinenti le armi de' reali veterani e la munizione da guerra al comandante del detto piroscafo, che dicevasi essere Pisacane. In virtù di tali ordini, e mercé le consecutivo violenze fatte ai custodi delle armi e munizioni, furono queste consegnate a' rivoltosi, i quali pervennero anche ad inutilizzare i cannoni della piazza.

I relegati ed ex militi, che si unirono a' primi faziosi, furono da costoro muniti delle armi e munizioni ritratte dalla gran guardia, e da altri posti dell’isola, non ché di quelle, che furono da cospiratori fioriate sul Cagliari.

L’insurrezione in tal modo divenne imponente, e già per tutte le piazze di Ponza si vedeancorrere qua e la i primi cospiratori e gli assembrati dell'isola, portando ovunque l'allarme ed il disordine, all'ombra del tricolore vessillo, e tra schiamazzi che viepiù appalesavano il fine della insurrezione, di mutare, cioè, iu repubblica la forma dell’attuale Governo, ed eccitare i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro la realeautorità, non senza eruttarsi da qualcuno di essi che «Ferdinando Secondo (D. G.) doveva fare con essi.».

Un Davide di Bernardo, conosciuto sotto il nome di Volpe, Giuseppe Colacicco, Giovanni Scarpotino, Nicola Valletta, Antonio Palladino, cognominato naso di cane, Giuseppe Curioue, Francesco Fauzzi, Luciano Marino, Francesco de Martino, Felice Romano, Federico Priorelli, Francesco Monastero, Luigi La Sala, Gaspare Fiorenza, Ferdinando Vinci, Pasquale Campagnuolo, Domenico Coja. Enrico Celino, Nicola Alaggio, Benedetto d’Alessandro, Antonio Villano, Michelangelo Marte, Giovanni Bruno, Federico Squadrillo, Giancarlo di Giammaria, Giuseppe Giardino, Giuseppe La Ferola, Luigi Cerillo, Pietrantonio Rotondo, Vito Mosco, Vito Giovaniello, Mauro Grimaldi, Domenico Colenzano, Giuseppe Gigli, Angelo il Vastaso, Giuseppe Barliromo, Luigi Colatursi, Raffaele Miele, Francesco Cristiano, Giuseppe Guglielmo, Vincenzo Crescione, Pasquale Fazio, Gio. Battista Majorino, Giuseppe Maria Reale, Giovanni Apostolico, Cesare Sangiovanni, un tal di cognome francese, Pasquale d’Angelo, Antonio Romano 2, Francesco Paolo Costanzo. Fortunato Acunzo, Luigi Somma, Emmanuele Gemano, Raffaele Parola, Francesco Nocera, Catiello Piro, Francesco Romano, Pasquale Scorziello, Domenico Catapane Francesco Santochirico, Giovanni Malardo, PanGlo Mariano, Giuseppe Mazzucchelli, Luigi Esposito Cacciavino, Giuseppe Borrelli, Luigi Impimbo, Sabatino Javarone, Nunzio Parisi Giovanni Cuomo, Nicola Giordano, Nicola Valletta, Carmine Capraro, Vitantonio di Bello, Ferdinando Parente, Benedetto Pagani, Alfonso Lettieri, Nicola Musto,Vincenzo Tomas, Giuseppe Garofalo, Luigi Reale sacerdote, Francesco Rosella, Vincenzo Bega furon distinti in prender parte a tutti i disordini cooperando co' primi cospiratori del Cagliarial disarmo degli agenti di forza pubblica, e de' privati dell’isola e ad accozzare una banda armata, a fin di compiere l'orrendo attentato di cambiare la forma governativa ne' reali dominii.

In tanto dal primo arrivo, i pazzi riformatori inaugurarono l'era novella con gravi misfatti.

Tra gli eccessi pertanto, consumati sull'isola dagl’insorgenti in tutto il corso della giornata del 27 e notte seguente, la istruzione rileva quelli qui appresso notati.

1. Fu disarmata, e quindi affondata, la scorridoia reale, che trovavasi nel porto di Ponza.

2. Uno de' vestiti a rosso trasse un colpo di fucile contro l’aiutante D. Francesco Rango, dal quale fu salvo per miracolo, poiché il proiettile sfiorando sul di lui capo, lo ferì leggermente. Seguiva questo mancirto omicidio nel tempo dell’insurrezione, quando il sergente dei veterani Giuseppe Comardo, che trovavasi di servizio alla gran guardia, abbandonando il posto alla vista degl’insorgenti, fuggì per una porla secreta. e fu visto abbracciarsi e baciarsi con uno dei ribelli, sbarcati dal vapore, e poi. fattosi sotto l'abitazione di Rango, si distaccava dai vestiti di rosso, e costui, situatosi sotto un arco prossimo, chiamò il Rango invitandolo a consegnare le armi: il Rango domandatagli per ordine di chi, ed in risposta, quel vestito di rosso, gli trasse la fucilata.

3. Benedetto d'Alessandro andava in traccia del parroco D. Giuseppe Vitialloper ucciderlo in vendetta di precedenti disgusti. Cercò trarre a D. Raffaelle Mazzella una fucilata, ma l'arme non prese fuoco.

4. Incendiarono la caserma di gendarmeria, ed il posto di polizia, sito nel locale del Giudicato regio, involando dalla caserma varii effetti, fra quali un calzone del gendarme Francesco Petillo. Infransero lo stemma reale nel medesimo posto di polizia, e vi consumarono saccheggio. Irruppero nell'abitazione del giudice regio, D. Michele Mazzoccolo, e, scassinando armadii, s’impossessarono di ducati 50 circa, di molta biancheria, e di altri oggetti, dell’approssimativo valore di altri ducati 100, parte de' quali furono poi sorpresi presso il suddetto Antonio Lombardi, ricettore, il quale s’involse in contraddizione circa la provenienza di essi.

Fra gli autori di queste eccedenze furon distinti principalmente, Gatiello Biro e Luigi Impimbo.

5. Distrussero varie carte, registri, e processi nell’archivio del Giudicalo regio, e rubarono varii oggetti di convinzione, danaro, armi, ed altro, nel che fare furono tra gli altri rimarcati: Raffaele Parola, Francesco Romano, Pasquale Scozziello, Domenico Catapane, Francesco Santochirico, Domenico Coja, Giuseppe Garofalo.

6. Incendiarono varie carte e registri nella cancelleria comunale. E ne furono primarii agenti: Giovanni Scarponito, Michelangelo Marte.

7. Incendiarono del pari diverse carte e registri nell’uffizio della Relegazione, dopo di averli gittati sulla strada fuori dell’officina. Furono distinti in tal malefizio: Giovanni Scarpolino, Luciano Marino, Felice Romano, Giuseppe Cucione. Antonio Palladino, Sabatino Tavarone, Luigi Cerillo, D. Nicola Giordano, Vieenzo de Rosa, un tal Gallo, ex milite:

8. Altro incendio commisero di diverse carte nell’uffizio della Capitania del porto, e saccheggiarono la casa del capitano.

L’istruzione rileva che mentre taluni rivoltosi dalla casa del Capitano gittavano in mezzo alla piazza varie carte, che venivano bruciate, furono distinti in sulla strada pieni di entusiasmo: Antonio Palladino, Raffaele Parola, Francesco Nocera, Catiello Piro, D. Davide Volpe.

9. Recaronsi al carcere circondariale, chiamarono il custode replicate volte, e poiché non furono corrisposti, impresero a scassinare il cancello; allora il custode Francesco Luciano uscì, e verificò che si era già abbattuto il cancello: uno dei vestili rossi, armato di un due colpi, ed il sacerdote D. Luigi Reale, armato di stile, aggredirono il custode. Quest'ultimo, impugnando P arme alla gola del custode, gliingiunse cogli altri di aprire il carcere, e così fu data la libertà a Francesco Romano, condannato correzionale, Domenico Catapane e Pasquale Scorziello, giudicabili criminali, i quali si unirono agl’insorgenti, e commisero con essi gli eccessi di sopra descritti.

10. Scassinarono la baracca ad uso di corpo di guardia nella contrada detta Chiaro di Luna, e diverse stanze della caserma di relegazione.

11. Infransero tre stemmi regii cioè. 1. quello sul botteghino de' generi di privativa alla strada Banchina; 2. l’altro sulla officina della Posta; ed il 3. sull’officina della Deputazione di salute. Per l'infrangimento de' due primi stemmi; l’istruzione ha assodato che autore ne fu Davide di Bernardo Volpe, alla testa di molti altri rivoltosi non conosciuti. Questo giovine viene indicato per uno de più effervescenti ed entusiasmati per la rivoluzione; con berretto rosso e con sciabola in mano, fra le grida «Viva la libertà, Viva la repubblica» fecesi rimarcare in tutti gli eccessi ed i disordini dell’isola.

Le investigazioni che per questa parte continueranno, riusciranno a stabilire chiaramente una precedente corrispondenza tra gl’isolani ed i congiurati del Cagliari,che già si ha dagli atti. Infatti Luigi La Sala, fin dal 21 giugno esternava che non sarebbe passato quel mese, e tutt’i relegati se ne sarebbero sudati in libertà. Presso la stessa epoca, Panfilo Mariani, nella bottega di Aniello Tavella, faceva esternazioni di speranza per politiche novità.

Nella sera del 27 giugno Giuseppe Colacicco, che avessi da sé ferito una mano, diceva che andava a partire, e che nel giorno 29 giugno si sarebbe verificato un movimento generale.

Circa un mese prima della rivolta, Carmine Capraro parlava così:

«Io debbo fare un luogo servizio, ma non lo finirò affatto su quest’isola; me ne andrò in libertà, perché col tempo si debbono vedere belle cose.»

Il canonico D. Vincenzo Caporale, notalo già di pessimi sentimenti politici, nel momento dell'insurrezione, si vide passeggiare per le piazze di Ponza tutto entusiasmato; ed alle ore 23 di unita a Giovanni Scarponito, armato di boccaccio, e molti altri armati si appressò al marinaio Nicola Matterà, per obbligarlo a portarli sul vapore il Cagliarinel di lui battello. Matteradové faticare non poco per persuaderlo che il suo gozzo era guasto. In tal mentre si vide una lancia avvicinarsi a terra, e Caporale, e tutti gli altri, vi s’imbarcarono, portandosi a bordo del piroscafo. E pria di ciò, esso Caporale avea complimentato varii relegati ed ex militi di limonee e sigari, ordinando al venditore di mettere tutto a suo conto.

Tutte queste circostanze messe a confronto coll’indicazione dei nomi del pilota, fatta da uno de' faziosi, lorché principiò lo sbarco, la spiaggia recondita nella quale si sbarcò e la conoscenza del locale della gran guardia, fan desumere a sufficienza che una intelligenza ripassava tra' congiurati ed alcuni degl'isolani, per consumare, come si consumò, l’attentato in quell’isola, e la formazione di banda. E quelli, che al primo arrivo de ribaldi sull’isola accorrevano, che ottenevano grado e funzione nella banda, eran di certo conoscitori del piano cospirativo, e nell'accordo con gli arrivati.

12. Tra furti poi consumati in occasione della rivolta, vi furono: 1. quello a danno di D. Giuseppe Ciliberti di varii abiti, da Luigi Impimbo; 2. l’altro a danno. di D. Pasquale Matterà, contabile della relegazione, di un fucile epoca polvere, da parte di Benedetto Pagano, e di varii altri armati non conosciuti; 3. il terzo a danno di D. Michele Parisi di una quantità di pane da parte di Francesco di Martino, e di molti altri armati non distinti.

In seguito di tutti questi eccessi, la banda armata fu organizzata. Quasi tutti i sopraddetti vi si arruolarono con molti altri dell’isola, e recaronsi a bordo del Cagliari,per continuare la rotta là ove avevano preconcetto i congiurati di sbarcare per compiere i loro disegni, cioè in Sapri per indi passare ne’ Comuni posti nel tenimento cosìdetto del Vallo di Diano, e quivi raccogliere tutti gli altri compromessi, siccome risulta da uno de' documenti, pervenuti alla giustizia investigatrice, del tenor seguente, e colle parole stesse in cui è espresso:

«Pateras rimanghi a Napoli. Sbarco a Sapri, si rimonta Val Diano, raccogliendo tutti gli insorti. Que’ di Lagonegro debbono avere persone alla cima di qualche colle che avvisi lo sbarco. Allora debbono disarmare e manomettere le autorità e la polizia, e correre al braccio della strada che viene da Sapri per unirsi a' sbarcati. Tutti quelli paesi vicini debbono portarsi sulla consolare che mena ad Auletta per unirsi agl’insorti. Que’ di Potenza ad Auletta. Il terzo giorno saremo ad Auletta. Nel tempo medesimo, quei del Vallo e Monteforte marciar su di Eboli, ivi attendere il nostro arrivo: se truppa viene contro di loro ripiegar sopra Auletta. Da Auletta direttamente a Napoli, o attaccando, o girando il nemico. Dobbiamo entrambi porgerci soccorso, resistere ad ogni costo, giacché fin che la bandiera è alta, vi è speranza e può sempre accadere che quello, che non avviene il primo giorno, avverisi il secondo. Formatevi un quartiere generale; se non risponde, ed il vostro colpo vigoroso che sia con cimento non riesca, potete ritirarvi, tornarvi, e resistere.»

Questo era il progetto de' nemici di Dio, e degli uomini! Ma la divina Provvidenza, che veglia al benessere de' popoli, e le cure del magnanimo ed Augusto Ferdinando II. (D. G.) troncarono nel bel principio le filadella ribellione, a l'ordine fu ben tosto ristabilito, come indi a poco si dirà.

Tutti i fuggiti da Ponza, che formavano la massa degl'insorti furono i seguenti: (seguono i loro nomi, che ora omettiamo perché si vedranno Giurare nei seguenti fatti).

Montata adunque al bordo del Cagliaritutta la turba de' cospiratori e degliinsorti il caporione Pisacane li divise in tre compagnie, ciascuna di esse suddivisa in dieci squadre, ad ognuna delle quali assegnò un duce detto perciò caposquadra, coll'ordine seguente:

Compagnia

Capitano. Nicola Giordano

Tenente Enrico Cerino

Tenente Rosario Spadafora.

Capisquadra

Vito Jannuzziello — 2. Salvatore Lipari — 3. Pasquale Mezzacapo — 4. Giuseppe Reale — 5. Nicola Alaggio — 6. Rocco La Cava — 7. Giuseppe Bartiromo — 8. Giuseppe Leggeri — 9. Gio. Battista Zaccheo — IO. Francesco Ferracci.

Compagnia

Capitano Nicola Valletta Tenente Benedetto Pagano 2. Tenente Francesco de Martino.

Capisquadra.

Giovanni Policano — 2. Michele Milano — 3. Vicenzo de Rosa — 4. Fortunato Flora — 5. Antquio Velerà — 6. Giuseppe La Ferola — 7. Liborio Antinari — 8. Nazzareno Moline — 9. Lorenzo Sabelli — 10. Francesco de Gennaro.

Compagnia

Capitano Federico Priorelli

Tenente Giuseppe Colacicco

Tenente Luigi La Sala.

Capisquadra

1. Fiorindo Sette — 2. Raffaele Parola — 3. Michele Topipoaselli — 4. Domenico Catapane — 5. Achille Godano — 6. Domenico Coja — 7. Francesco Torres — 8. Luciano Marino 9. Vincenzo D'Auria — 10. Giuseppe Caputo.

Di tutti Pisacane ritenne il comando come generale, Nicotera ebbe il grado di colonnello, Falcone quello di maggiore. Questa divisione e suddivisione della massa, e l’elezione de' capi, risulta da documento pervenuto alla giustizia investigatrice e dall'interrogatorio di varii de' coimputati. Pisacane non avrebbe affidato a' 39 menzionati il comando della massa alla sua dipendenza, se eglino non gli avessero inspirate quella fiducia, che è figlia di uniformità di sentimenti fra cospiratori; e fuori dubbio eran essi cospiratori, perché come gli si è detto, immediatamente ch’ebbero notizia dello sbarco in Ponza, ai unirono agli stranieri.

Gli assembrati che non ancora eransi armati, furono muniti di boccacci, di fucili e di altre armi, che in sette casse stavano sul piroscafo a disposizione de' capi della ribellione.

Come poi avrebbero dovuto comportarsi quelli esteri, e gli altri della banda, emerge da uno scritto a matita del pari assicurato, e del tenor seguente.

«Tutti e diciotto marcieranno a quattro avanti, osian da bersaglieri, comandati da Nicotera. Gli altri formeranno un plotone budue righe, e marceranno di fronte, o a quattro, con un certo intervallo, per sembrare più numerosi. Questi staranno armati e nascosti e non usciranno sopra corvetta che ad un avviso. Se il vapore non puòentrare nel porto, ai getteranno le imbarcazioni nel mare, e si assalirà la scorridoia. Il vapore bisogna che getti l'ancora. La scorridoia bisogna distruggerla dopo il fatto.»

Non avrebbe il Silkzia. senza il preventivo concerto con Rubattino, continuato a rimanere in Ponza per attendere l’imbarco de' rivoltosi e de' relegati; mentre potca andar via, conservava il Comando, fece uscire fuori il porto il vapore, e lo fece rientrare.

Da Ponza il Cagliaricon tutta la masnada prese la volta di Sapri. Lungo il cammino il capitano Silkzia fu visto in pieno accordo con Pisacane e gli altri cospiratori: rilevò da apposite casse varie anni, che distribuì agl'insorgenti e della polvere che sotto la bus direzione venne ridotta in cartucce: co’ congiurati confabulava, ed animava gli assembrati colle parole «allegri figliuoli» e dirigendo ogni operazione dal ponte, di apparire di altri legni, fece abbassare gli ammutinati per non farli vedere.

Arrivò in Sapri il piroscafo, comparve a circa 6 ore 22 del ventotto giugno la quel golfo, ed immediatamente scomparve, nascondendosi dietro un promontorio, che forma come una specie d’istmo tra il golfo di Sapri e la spiaggia detta dell’Olivato in tenimento di Vibonati, e cola si mantenne fuori lo sguardo dogli abitanti di Sapri fino alle ore due italiane, locché nel silenzio perfetto di quella popolazione, gl’insorti tutti sbarcarono sulle spiaggiedi Sapri, rimanendo a bordo del piroscafo sette passaggieri estranei alla congiura e parte dell’equipaggio. Il legno ai allontanò, ed imprese a bordeggiare tra il golfo di Politicastro ed il capo Licosa, e ai accingeva a ritornare in Ponza, dove l’attendevano altri malintenzionati per raggiungere i primi imbarcati. Fra quelle acque pertanto venne catturato nel seguente mattino del 29 dalla fregata napoletana il Tancredi. Intanto i faziosi, invadendo l’abitato di Sapri, presero le porte in diversi punti nel corso della notte stessa, e quindi impresero a ricercare il capo urbano D. Vincenzo Peluso, il di lui parente D.Leopoldo Peloso, per ucciderli, come minacciosi esternavano la volontà di far man bassa su tutti i loro parenti ed aderenti, che ritenevano aver cooperato per la uccisione di Costatale Carducci nel 1848 scassinando leporte delle loro case; ma quelli già eransi messi in sai vo. Sequestrarono, e tennero seco loro per più ore l’impiegalo telegrafico D. Domenico Montesanto, le guardie doganali Alfonso Panico e Filippo Fiorentino, e gli urbani Domenico Menta e Salvatore Vitolo, che incontrarono togliendo loro le armi. E s’immisero nelle case di molti cittadini per rinvenirvi armi e munizioni da guerra, commettendovi furti anche di danaro e di altri effetti; di tal che a D. Giovanni Peluso ricevitore doganale, furono tolti ducati 115.20 di conto regio, due fucili, ed una quantità di formaggio, a D. Nicola Timpanelli un fucile, ed un bastone armato, ed a D. Nicola Galderaro un fucile e cinque piastre. Inoltre sequestrarono Nicola Schettino e Giuseppe Pasquale, che vennero liberati nel mattino del 30.

Percorrendo le strade tutte di Sapri, fra le grida di «Viva Italia, viva la repubblica» eccitavano quei naturali ad insorgere e prendere le armi contro l'Autorità sovrana, manifestando senza equivoco alcuno che avevano in mente il cambiamento del Governo, e che dovevano attentare alla vita del nostro augusto Sovrano (D. G.); si spinsero pure ad infrangere lo stemma regio: ma nessuno fece loro buon viso, ch ormai quelpaese aveva dato riprove di sincera divozione alla dinastia felicemente regnante, tranne la famiglia del barone D. Giovanni Gallotti, marcata infatti di politica anche nel 1848. Di fatti, giunta la massa sotto la tua casa, guidata da Filippo Fiorentino, uno de' sequestrati, chiamarono il D. Giovanni, si affacciò il di costui figlio D. Emmanuel», e disse che il padre non era in casa, ed essi, incaricandolo di salutarlo in loro nome, progredirono nel cammino. D. Emmanuele domandò a qual fine marciava no, e la risposta fu la seguente: «Intendiamo cambiare la forma del Governo, se ci riesce.»

Quali (baserò state le opere di esso D. Giovanni, non che de' figli D. Salvatore ed altri Gallotti, cooperatori all'insurrezione, verrà meglio a suo luogo sviluppato.

Sconfortati pertanto gl'insorti per la nessuna accoglienza e proselitismo de' Sapresi, passarono nel mattino istesso nel vicino Comune di Torraca, dopo il breve tragitto di circa tre miglia. Quivi sulla pubblica piazza, lessero un proclama sedizioso eccitante la insurrezione., e si ha ragione a ritenere che fosse quello già assicurato alla giustizia del tenor seguente:

«Cittadini — È tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando secondo. A voi basta volerlo. L’odio contro di lui è universalmente inteso. L’esercito è con noi. La capitale aspetta dalle provincie il segnale della ribellione per troncare in un sol colpo la quistione. Per noi, il Governo di Ferdinando ha cessato di esistere; ancora un passo ed avremo il tempo, facciamo massa ed accorriamo dove i fratelli ci aspettano: su dunque,, chiunque è alto a portare armi, ci segua. Chi non è abbastanza forte per seguirci ci consegni l’arma, noi abbiamo lasciato famiglie ed agi di vita per gittarci in una intrapresa, che sarà il segnale della rivoluzione, e voi ci guardate freddamente, come se la causa non fosse la vostra. Vergogna a chi potendo combattere non si unisca a noi; infamia a que’ soli, che nascondono le armi piuttosto che consegnarle. Su dunque, cittadini, cercate le armi del paese, e seguiteci. La vittoria non sarà dubbia. Il vostro esempio sarà seguito da' paesi vicini, il nostro numero crescerà ogni giorno ed in breve tempo saremo un esercito — viva l’Italia!»

Si portarono alquanti di essi armati nella casa di Francesco Muoia Cesarino II, eletto funzionante da sindaco, che unito ad essi fu visto in piazza vestito con abiti di casa, si fecero dallo stesso condurre per varie case di privati, per impadronirsi di armi. Si appressarono alla porta del corpo di guardia urbana per abbatterla, ma il Cesarino, con semplice scossa esterna, l’apri senza alterarne la fermatura a chiavi. Ed aperto quel lucale foce da essi medesimi verificare di non esservi armi e si evitò cosi di fare scassinare laporta dell'antro attiguo locale della Cancelleria comunale, persuader doli che in questa non era possibile rinvenire arma alcuna.

S’introdussero due di essi nella casa di Paolo Finitola, e a impadronirono di un fucile, e di altri pochi oggetti; e praticarono altrettanto in diverse altre abitazioni di privati, nonché del sindaco D. Carmine Callotti, del capo urbano D. Luigi Mercadante, a ciascuno de' quali furono tolti un fucile e diversi altri oggetti. Si presero pure sei piastre da Carmine Vigliano, e delle biancherie, ed altro da D. Antonio Flora: qualcuno de' detti furti fu consumato mercé effrazione di armadii. Circa venti di quei naturali, fra' quali Francesco Fiorito. alias figlio di Canicola, s’insignirono di nastri tricolori, ed ilFiorito faceva plauso alla lettura del proclama.

Pisacane, è gli altri congiurati avevano in mente di passare in Padula ove speravano pronti soccorsi di armi ed armati; tanto ciò è vero, che nel mentre il Cagliaricontinuava la rotta da Ponza per Sapri, Pisacane assicurava la massa che avrebbero trovato in Padula 400 armati, come gli veniva manifestato in un plico ricevuto, e dovevasi proclamare la repubblica.

Ed il documento già riportato, sorpreso colle altre carte sulla persona di esso Pisacane, di suo carattere, accennante a suoi corrispondenti e cospiratori, indica chiaramente il Matina di Diano, ed il sacerdote D. Vincenzo Padula di Padula, nonché i signori Gallotti di Sapri, oltre i Maglione di Rotino, tenuti in carcere.

Ecco come si spiega che la massa non in altra spiaggia del Regno dover approdare e sbarcare, se non in Sapri; per immetterai nell'interno del Distretto di Sala.

Nel corso della notte del di 29 alcuni de' faziosi, distaccandosi dalla massa, portaronsi con a ritinta mano nel vicino Comune di Tortorella, aggredirono la casa di D. Francesco Rocco, e con violenta s’impossessarono di danaro contante, e di altri oggetti del valore complessivo di circa ducati 90. Nel mattino del 30 però, vennero inseguiti da quella guardia urbana, ed uno ne rimase ucciso nell’atto di volere scaricare il fucile contro l’urbano Giovan Battista Bello: gli altri ai salvarono con la fuga.

Da Tonaca intanto la banda, nel medesimo giorno 29, si conferì nella contrada Fortino, ove bivaccarono e passarono la notte, dopo di aver abbattuto una trave del telegrafo elettrico e tagliato il filo corrispondente.

Tenevano ancora sequestrati presso di essi Nicola Schettino e Giuseppe Pasquale, e costoro, dalla finestra della cucina di quella taverna che resta di riscontro al casino de' signori Galloni, videro entrare in esso circa dieci rivoltosi, armati, e, dopo otto minuti, ne sortirono assieme con il Raffaele e D. Filosseno Gallotti, figli del barone, i quali ebbero conferenze con Pisacane e contatta con tutti gli altri faziosi, e vi si trattennero, finoa che nelle prime ore del giorno l'orda marciò per Casalnuovo.

Vincenzo Cioffi, tavernaro, somministrò loro una quantità di pane. Pervenirti i sediziosi in Casalnuovo, una delle prime loro operazioni fu un cosi detto Consiglio di guerra, composto daNicola Giordano capitano, tenente Rosario Spadafora, Giuseppe Colacicco tenente, nonché da Errico Cerino, Luigi La Sala, ed un tal Martino, e venne condannato a morte uno dell'orda medesima, a nome Euschio Bucci, non si sa per quali mancamenti. Profferita l’iniqua sentenza, sei dell’orda gli trassero delle fucilate, e perché ancor sopravviveva Domenico Catapano, a colpi di stile o baionetta, lo finì.

Recisero in tal punto altra trave del telegrafo elettrico, e tagliarono il filo corrispondente. S’introdussero nelle abitazioni deigendarmi a cavallo, scassinandone le porte, e rubarono variioggetti di biancheria, e degli utensili di cucina. Praticarono altrettanto nella caserma di gendarmeria a piedi, s'impadronirono di sedici lenzuola e di alcune coverte, del registro di corrispondenza e di altre carte. Che bruciarono nella pubblica piazza.

Infransero lo stemma regio, che rimaneva sull’officina postale, e, entrati nella stessa, s'impadronirono delle lettere d’ufficio dirette a funzionarii di Tortorella e di Casaletto: e lo lacerarono, come del pari lacerarono le immagini in carta delle auguste MM., il Re e fa Regina, che trovavansi nel corpo di guardia urbana, e ridussero in pezzi a colpi di sciabola l’altro stemma regio, che rimaneva sul medesimo corpo di guardia. S’introdussero nella Cancelleria comunale, ed impossessandosi delle statue delle lodate LL. MM; similmente le infransero. Alcuni di essi armati si fecero guidare dà Mansueto Masullo. e d’altri di Casalnuovo per le case di quelle guardie orbane, e di altri, e tolsero loro con violenza fucili, danaro ed altri effetti; di tal che derubati furono Domenico Cantilena, Vincenzo Barra, Gennaro Germino, Paolino Bracco, e molti altri.

Taluni degl'insorti furon visti sul balcone del barone De Stefano, con telescopiiesplorare verso Padula.

Da testimonii specifici si ha che il capo urbano De Stefano non passò alcun ordine alle guardie urbane, sue dipendenti, di mettersi inmovimento verso Sala, ov'era stato chiamato con tutta la guardiadi Casalnuovo.

Si hanno pure elementi che Mansueto Brandi di Torraca spiegò una parte attiva nell’insurrezione. Egli fu che allo sbarco dell'ordain Sapri vi ebbe contatto, anzimedicò la meno ferita a Giuseppe Colacicco, confabulò col barone Galloni al Fortino, ed in Casalnuovo diresse i faziosi in casadel barone de Stefano.

Consumati tutti gli enunciati eccessi in detto Comune, l’orda mosse nel giorno stesso, 30, per Padula.

Per via, e propriamente nel punto detto Ponte Cadassano, alcuni dell’orda videro gli urbani Michele Martino ed Angolo Gettar, ed apprettatiti volevano toglier loro i fucili, e perché costoro furono fermi sulla negativa, chiamarono all’armi, ed altri accorsero. I dueurbani fuggirono, ed essi inseguendoli, gli scaricarono contro più colpi di fucile, che andarono vuoti di effetto. Di poi si volseroa Resa Perretti, che in quella contrada lavorava; spaventata fuggiva, ed uno di que’ facinorosi, con un colpo di fucile al capo, la stramazzava esanime con ferita al cervello.

Le cure istruttorie non hanno potuto indicare gli autori, o l’autore di tale omicidio; né si è riuscito a conoscerne la causale se non che quando, nelle ore pomeridiane del primo luglio venivano scortati al carcere di Montesano Pietro Pulice, Luigi Gilipo, Luigi Colatarci, Natalo Cardamone, Orazio Morelli, Angelo Santo Esposito e Giuseppe Giglioni, arrestati nel conflitto di Padula (di che si terrà parola) in passando per la casa di Giosuè Perretti, padre della disavventurata donna, furon visti da lui, e voleva inveire con pietre, dicendo: «mi avete uccisa una figlia» e due di essi risposero: «Non siamo stati noi; siamo stati comandali.»

Rinchiusi poi indetto carcere con altri, Saverio Griffone li rimproverava della uccisione della Perretti, ed uno di essi assicurava che quattro de' suoi compagni l'avevano aggredita, ed uno di essi le aveva vibrata una fucilata.

Col sangue dunque e colla rapina i vantati rigeneratori intendevano raggiungere lo scopo di loro imprese!

Da Casalnuovo, l’orda portavasi in Padula, ove giungeva a circa le ere 24 del medesimo dì 30 giugno; e poiché era principale loro interesse di accrescersi in numero, sia con eccitamenti diretti ai sudditi del Regno, sia con altri mezzi, cosi si conferirono presso la prigione circondariale, e chiassando, ed urtando, scassinarono la porta d’ingresso, costrinsero il custode Michele Magno, mercé positive violenze e minacce di vita, di aprire il carcere, ed in tal modo resero la libertà a tre detenuti, Raffaele Meo, che espiava pena di prigionia inflittagli per giudicato, Irene Sisto, la di cui pena di detenzione andava a terminare il di seguente 1. luglio, ed Antonio Farina, che, condannato da quel giudice regio a cinque anni di prigionia, ve la espiava; e mandando libera in propria casa la donna, condussero gli altri due nel cortile della casa di D. Federico Romano, ove rinvennero coricati aterra circa venti, che forse erano icapi dell’orda: certo è che i violatori delcarcere, rivolti ad uno di essi, che chiamarono generale, gli manifestarono il loro operate, e ne ricevettero plauso. Indi il sedicentegenerale impose a Meo e Farina di arruolarsi alle loro banda e seguirli. Il primo però riuscì fuggire nel corso della notte, e si presentò di nuovo spontaneo in carcere, l’altro si unì a rivoltosi, e nel susseguente mattino primo luglio, in seguito del conflitto, si rinvenne ucciso.

Dal carcerepassarono alla sottoposta caserma di gendarmeria: e fransero una porta della stesse, ed andavano in cerca degliindividui dell’arma, e delle loro famiglie, per massacrarle, ma non vi rinvennero alcuno e delusi andarono via.

Nel corso della notte, alcuni de' componenti la medesima benda, al numero dì circa dieci, armati di facili e di altre armi proprie, insigniti di nastri tricolori ed alla cui testa eravi un sedicente generale, conferirensi nella ossa di D. Francesco Santomauro, esattore fondiarie, e dopo di aver picchiato fortemente il portone, fuloro aperto; pretendevano da lui il denaro della fondaria, ma colui l’aveva nascosto, e mostrando loro i borderò dei precedenti versamenti, gli riuscìingannarli, facendo credere di aver versato in quel precedente mattino le somme che aveva in casa. Andaron via.

Dopo qualche ora, altri venti faziosi pure armati di schioppi, diversi da' primi, s’introdussero nella medesima casa dell'esattore, protendendo il denaro di conto regio. Furono ingannati come i primi; ma uno di essi, che gli altri chiamavano barone, gl’ingiunse darglideldanaro particolare, e Santomauro dové consegnarli ducati 60: e di tante non contenti, vollero dolciumi e rosolio, che, comespesiale manuale, conservava.

Finalmente, a circa le ore sette italiane, una terza invasione, ebbe a soffrire Santomauroda parte di altri venti insorgenti armati di sciabole, e dopo la medesima domanda, e le stesse scuse, vollero del pari dolciumi e rosolio, ed andaron altrove.

Nel Corso della medesima notte altra aggressione armate si soffriva da Michele Vecchio, ricevitore del registro e bollo, e pretendevano il danaro esatto per conto dell'Amministrazione; colui conservava in cassa circa ducati 40, ma diede loro ad intendere che nulla aveva por aver pagato nel precedente mattino varii alatisi di spese di giustizia. I rivoltosi così delusi si allontanavano.

Da ultimo, un simile tentativo fu fatto al cassiere comunale D. Antonio Marna; ma riuscì del pari vano, perché costui aveva nascostoin un vicino giardino il danaro ed i giornali di casa: se non che, per non allontanarsi colle mani del tutto vuole, e impadronirono di alquantipani o di tre coppie di caciocavalli.

Nella prima oradel mattino del primo luglio, quattro o cinque rivoltosi, armati di fucili e sciabole, fermavansi innanzi al corpo di guardia urbana, ne levavano lo stemma regio, ed a colpi di sciabole lo riducevano inpezzi.

Lesperanze di quattrocento armati, che dovevano trovarsi in Padularimasero deluse.

Gli insorgenti in vece eransi accorti della solerzia ed attività spiegata dalle Autorità civili e militari, per concentrare le guardie urbane e le brigate di gendarmeria in Sala, e quindi a forze riunite dar loro lasconfitta. L’ottimo intendente Ajossa operò quel, che pria di farsi, si sarebbe creduto impossibile. Il maggiore de Liguero era in Sala sulluogo, pria che vi giungessero i ribelli, epperò raggranellatisi tutti essi faziosi sullecolline tra Padula e Basilicata, vi presero le poste all’alba del primo luglio, mettendo due sentinelle mortealla vedetta. Da Sala pertanto era partito un contingente di guardie urbanecomandate da rispettivi capi urbani, non che una quota di gendarmi reali, i cui condottieri procedevano di pieno accordo co’ capiurbani.

Questa forza ai trovò a fronte del nemico sulla collina detta Merge del Piesco. Le due sentinelle de' rivoltesi trovaronsi sulla collina dirimpetto, detta di S. Canione, ed alla vista della regia forza, esplosero due fucilate, e s’intese battere il tamburro a raccolta, ed allora tutto il grosso della masnada si radunò sul colle S. Canione. Si disteseun cordone alla cacciatora dal culmine in sotto verso Borea. Gli urbani ed i gendarmi praticarono altrettanto nel sito ove trovavansi. Dopo breve tempo, i faziosi, cambiando posizione, siavvicinarono all’abitato di Padula, situandosi sull'altra collina, che dicasi sopra lafacciata della Croce, ove facevano sventolare la bandiera tricolore; o la forza regia passò a piegarsi sulla collina S. Canione, punto dapprima occupato dagl'insorgenti. Costoro, al pari che gli urbani ed i gendarmi, formarono il cordone, e si piazzarono in piede diguerra, gli uni di rincontro agli altri, alla distanza di 800 palmi lineari, quindi a tiro. Stettero in taleposizione alquanti momenti, quando i rivoltosi, al grido di «Viva l'Italia, Viva la libertà.» incominciaronola scarica di fucili e di boccacci. I regii resero loro la pariglia, ed allora il fuoco divenne imponente da ambo le parti per lo spazio di circa due ore, quando, all'apparire delle compagnie del 4. battaglione cacciatori, che procuravano chiudere in mezzo il nemico, la massa si disordinò, e confusamente si diede alla fuga verso l'abitato, e fuggendo i ribelli continuavano a tirar colpi di fucile anche dalle casedi particolari, nelle quali s’intromettevano a viva forza, o perché le trovavano abbandonate. Si combatté allora a corpo a corpo, e la lottadivenne micidiale pe’ faziosi, imperciocché rimasero estinti 53 di essi, oltre Antonio Farina di Padula, che, come sopra si è detto, liberato dal carcere, erasi loro unito. De regii caddero estinti il soldato de' cacciatori Michele Sabatino, l’urbano di Sassano Giuseppe di Gisto, e l'altro di Padula Antonio Boniello, oltre qualche altro ferito, ed il caporale di gendarmeria Gioachino Ragonese restò vivo per miracolo della Provvidenza, poiché dalla finestra di sua essa uno de' ribelli, con un due colpi, gli trasse consecutivamente due fucilate, i di cui proietti gli passarono a traverso del petto si rinvenne pure morto Michelangelo Esposito di Padula, che, come soldato congedato, aveva fatto ritorno in patria nel 30 giugno. Per questo però è dubbio se fosse rimasto estinto nel conflitto, prendendovi parte contro i faziosi, ovvero per iscambio.

Molti della masnada vennero arrestati nel momento del conflitto ed una frazione, gittandosi nelle montagne di Buonabitacolo e Sanza, fuggi disordinata e confusa. Compouevasi essa di Pisacane, Nicotera, e di altri, fra quali quasi tutti gli esteri: il che vuol dire che i capi della ribellione procuraronsi mettersi in salvo, lorché si videro a mal partito, lasciando i loro proseliti nel pericolo. Cosi la storia e le procedure sulle insurrezioni Calabrese e Cilentana del 1848 non lasciano dubitare che i promotori di disordini sono i primi a fuggire, abbandonando la massa nel conflitto. Grande lezione pe’ malintenziouati, la quale, ci auguriamo, li ritrarrà dal sentiero delle ingannevoli utopie!

Gli sbandati di Padula pervennero nelle campagne di Sanza, e là nel susseguente giorno, due apparvero armata mano, verso le ore nove italiane, in luogo prossimo all'abitato. Il sotto capo urbano Sabino Laveglia, ed altri nove o dieci urbani, suoi dipendenti, che soli trovavano in perlustrazione per que’ luoghi, avvertiti da un giovanetto della comparsa dei faziosi, animosi si fecero loro incontro, gridando «viva il Re»; gli sciagurati risposero con la scarica di fucilale, tra le sediziose ripetute esclamazioni di «viva l’Italia». Alla detonazione dei colpi, accorsero molti naturali del paese, armati, chi di fucili, chi di armi anche improprie, e s’impegnarono nella mischia con gli urbani contro i ribelli. Il fuoco durò per qualche ora, e 28 dei facinorosi caddero al suolo, fra quali il loro duce Carlo Pisacane: ventinove furono arrestati, e gli arresti seguirono col soccorso ancora di una compagnia dell'11battaglione cacciatori, comandata dal capitano signor Musitano.

Degli arrestati, alcuni avevano armi da fuoco e sciabole, altri senza armi, perché, rendendosi perditori, le avevano gettate, e si erano dati in fuga.

Le popolazioni non vollero lasciar ad altri la gloria di chiudere la scena.

I fatti, e non le parole, dissero al mondo che qui non si vuole che star tranquilli, sotto l’affettuoso paterno Governo, che ne regge i destini.

Quelli, che fecero parta dell'orda, debbono rispondere alla giustizia di fatti particolari.

Nelle ore pomeridiane de' 26 maggio ultimo, in atto Francesco di Gennaro rimaneva nella strada detta Giancoeia in Ponza, Domenico Catapane gli ai avvicinò, e gli chiese in prestito grana sei. Egli in vece gli offri un sei carlini, che Catapane rifiutò ed andò via. A circa le ore 23, mentre di Gennaro passava pel tunnel, fu aggredito da Catapane con rasoio, e gli tirò un colpo, producendogli grave ferita al volto, che, deturpandone la fisonomia, ha dato luogo a sfregio permanente, giusta la pruova generica.

Ilconquesto del ferito, la unione di Catapane e di Gennaro nel luogo prossimo al reato, e la confessione giudiziale di costui, rendono chiara la di lui reità.

A circa un’ora italiana del 9 luglio ultimo, mentre Vincenzo Nigro di Colliano rimaneva alla custodia del proprio gregge sulla montagna, che dicesi Tonisco, in tenimento di detto Comune, fu assalito da più malfattori (diceva nel numero di otto o nove) de' quali un solo portava arme visibile, cioè un boccaccio, e si facevan dare cinquanta caraffe di latte e del pane, e si allontanarono, dirigendosi al ricovero dell'altro pastore Pasquale Giggi, chealquanto lontano rimaneva, anche custodendo taluni animali in compagnia di Giannandrea Cuozzo ed altri. Quivi giunti, imposero a costoro di metterei bocconi al suolo. Cuozzo si voltò verso di essi per vederli, e bentosto fu percosso a colpi di bastone: le offese furono gravi. Gli assaliti dovettero obbedire, e ei posero di faccia a terra, ed i malfattori allora s’impadronirono di un paio di scarpe di proprietà del Cuozzo, di un cappotto di Vincenzo Soleo, e di altro nuovo di Michele Fornataro, ambidue questi ultimi pastori: tutto il frutto fu di ducati sei. Consumato il reato, i ladri andarono via.

Nel seguente mattino, 0, sulle colline di Laviano, apparvero sei uomini, nno de' quali portava un cappotto ad uso pastore, e Giuseppe Gariello (dal quale si fecero dare del latte) e Vincenzo Giuliano, ei avvidero che erano forestieri vestiti in varie maniere. Pertanto le guardie urbane del circondario ei misero in moto per l’arresto de' malviventi, e a quella di S. Menna riuscì di sorprenderne quattro nella notte del 12 al 13 detto mese in un tugurio, sito nei territorio di detto Comune. Erano essi Pietro Rotondo, Domenico Vespa, Pasquale Verretta, ed Alessandro Paulillo, tutti delta provincia di Campobasso, e che avevano fatto parte degli evasi di Ponza. Nel tugurio furonotrovati due boccacci carichi. Sulla persona di Pirrella si rinvennero ducati 35:20 in monete di argento, e ducati tre, e due cartucce a palla presso Vespa. Fu il tutto legalmente assicurato.

Interrogati dissero che da Ponza eransi Imbarcati con molti altri cui Cagliari,e sbarcati in Sapri, avevano seguito la massa per una mena giornata, e poiché loro non persuadeva quella marcia, avevano disertato prima del conflitto in Padula, prendendo le montagne per presentarsi all'intendente di Campobasso: che di due boccacci erano stati armati essi Rotondo e Vespa da' promotori del disordine nell’atto dello sbarco, ed il danaro era loro, e non avevano commesso alcun furto.

Esposti in atto di affronto a Cartello e Giuliano, furono nettamente riconosciuti. E questa riconoscerne, il cappotto da pastore ravvisato sopra uno di essi, la qualitàdelle armi, boccaccio, distinto da Nigro in mano di un degli aggressori, ed altri elementi con la istruitone raccolti, dimostrano che cui quattro erano fra ladri, che il furto in parola commisero.

Il reperto poi di due boccacci, da essiasportati, imprime al reato l’aggravante della violenta pubblica.

Trovandosi detenuti in queste prigioni Giovanni Cuzzolino e Gaspare Fiorenza, nelle ore pomeridiane del 3 settembre andante, dai cancelli della prigione impresero a cantare a voce alta ne’ seguenti accenti. «Il Monaco con tanto di borbottoni, viva la Costituzione, viva la Costituzione, viva ecc.» Fu toro imposto silenzio, e zittirono.

Più testimonii presenti attestano tal fatto.

Benedetto Fanelli poi, nello stato di latitanza, si rese colpevole di esportazione di armi, e discorsi allarmanti, di cui si parlerà in appresso.

I giudicabili venivano assicurati alla giustizia nel modo che segue:

Nella cattura del Cagliari,oltre degli individui dell’equipaggio, vi si rinvennero:

I. Amilcare Bonomo — 2. Giuseppe Daneri — 3. Vito Luigi Cofano — 4. Cerne Cari.

Nel giorno 28 giugno, erano arrestati nel bosco detto S. Torano, in tenimento di Vibonati, e propriamente verso le ore 22.

5. Michele Milano — 6. Giambattista de Pasquale — 7. Giovanni Perrella. Erano cui presi con fucili detti boccacci, ed alla vista della pubblica forza cercavano il mezzo di salvarsi con la fuga. Nello sterno giorno 29 giugno, verso le ore di vespero, si presentava al funzionante di sindaco In Torraca: 8. Michelangelo Marta. Egli portava un fucile, che fu raccolto dal sindaco stesso. Nello stesso giorno 19, o nel 30, erano assicurati alla giustizia anche arrestati: 9. Carlo La Fata — 10. Eugenio Lombardi 11. Filippo conte, Alios, Ferrajuolo. Nel giorno 30 giugno, terso le ore 15, veniva arrestato in vicinanza di Sansa, o propriamente lungo la strada della collina: 19. Giuseppe Rivelli. Era armato di fucile a fulminante, e teneva nella saccoccia del bigiacco quattro cartucci sfusi a palla. Era arrestato prima del conflitto, e con probabilità nello stesso giorno 30, in Casalnuovo; 13. Tommaso Lonero. S’ignora se lo stesso fosse stato preso armato.

Ed inoltre:

14. Antonio Ciancio, e Cianciola.

Si presentava al maggiore de Liguorio, e prendeva parte co’ gendarmi contro i ribelli.

E si dice presentato prima dell’azione in Padula ad urbano di colà, che lo menò in carcere:

5. Vincenzo Raspa.

Ed alla gendarmeria inSala.

16. Nicola Antico.

Nel giorno primo luglio, dopo il conflitto di Padula, ed in quel luogo istesso erano assicurati dalla giustizia:

17. Nicola Simonetti — 18. Antonio Grosso — 19. Michele Novelli — 20. Emmanuele Bone. — 91. Raffaele Parola — 99. Domenico Catapane — 23. Lorenzo Sabelli — 24. Giambattista Jaccheo — 25. Ferdinando Cocchillo — 26. Frorindo Sette — 27. Bruno Botro — 28. Giuseppe D’Anna — 29. Giuseppe Frantonio Riggone — 30. Luigi Somma — 31. Domenico Sipione — 32. Antonio Vaiera— 33. Giuseppe Esposito — 31. Carmine Marotta 35. Antonio Venturino o Palladino — 36. Giovanni Policano -37. Pasquale Armeni — 38. Giuseppe Pellegrini — 39. Domenico Porre — 40. Pasquale Mezzacapo — 41. Michele Gallo — 42. Antonio Pianese — 43. Giulio Sorbo — 44. Domenico Mazzoni — 45. Giuseppe Tronchese — 46. Luigi Severino — 47. Felice Poggi — 48. Antonio Romano di Atena — 49. Girolamo de Felice — 50. Generoso Venezia — 51. Anselmo Esposito — 59. Cesare Sangiovanni — 53. Rocco La Cava — 54. Gennaro Gargiulo —55. Francesco Nocera — 56. Francesco Rauti — 57. Felice Moline — 58. Felice Mancini — 59. Achille Monaco.

Arrendevasi nel combattimento di Padula;

60. Gaetano Poggi.

Si dicono presentati:

61. Achille Mira — 62. Guglielmo de Respine — 63. Francesco Pedule — 64. Pietro Fusco — 65. Filippo Alzarmi — 66. Cesare Pendone — 67. Domenico Cerulli — 68. Luigi Ambroville.

Poco dopo la disfatta, venivano puranco arrestati in Casalnuovo, ignorandosi, come per quelli presi a Padula, se fossero stati arrestati armati:

69. Sabato Fusco — 70. Giuseppe Scarfaro — 71. Pietro Buongiovanni — 72. Francesco Scarfaro — 73. Vincenzo Gomito — 74. Giuseppe Limardi — 75. Antonio Limardi — 76. Vincenzo Cataldo — 77. Costantino Rudda — 78. Vincenzo Panza.

E nello stesso giorno erano arrestati da un gendarme.

79. Gennaro Botto — 80 Angelo Giovinazzo — 81. Giuseppe Lei — 82. Carlo Natale — 83. Luigi de Sio — 84. Giuseppe Cagnetta — 85. Domenico Janelli.

Nel medesimo giorno 1 luglio si presentava al giudice di Salerno;

86. Saverio Notera.

Nel ripetuto giorno 4. luglio si presentavano volontariamente ai sindaco di Sassano:

87. Davide Salamò — 88. Ferdinando Acquila — 89. Tommaso Galardo — 90. Francesco Monastero — 91. Giuseppe Sorelli.

E venivano nello stesso giorno arrestati armati:

92. Nicola Villani — 93. Vitantonio de Luca — 94. Emmanuele Genzano — 95. Giuseppe La Ferola — 96. Luciano Morino.

Si presentavano al capitano Luciani nel detto giorno:

97. Giuseppe Fiumara — 98. Vincenzo Moscia — 99. Carmine Ricca, e ciò verso le ore 13, giusta l’ufficio del maggiore, fol. 82 vol., 2. degli arresti.

Nello stesso giorno 1. luglio, e verso le ore 22, vennero condotti nel carcere di Motesano, per essersi presentati verso le ore 20 all'urbano Niccola Greco.

100. Pietro Pulice — 101. Luigi Silipo — 102. Luigi Colertarei — 103. Natale Cardamone — 104. Orazio Morelli — 105. Angelo Santo Esposito — 106. Giuseppe Giglioni.

Ed erano arrestati nel luogo detto Tempa degli Angeli, tenimento di Montesano, armati di fucili e boccacci.

107. Giovanni Maccarone — 108. Giuseppe Garofalo.

Si dicono presentarsi agli urbani di Montesano, ma non è riuscito liquidarsi;

109. Giovanni Mascaro— 110. Vincenzo Rosa.

Erano del pori arrestati, nelsuddetto giorno 1 luglio, in Buonabitacolo, giusta la dichiarazione di quel capo urbano, ma è meglio dire, verso le ore 20 si videro arrivare in Buonabitacolo, seguiti da una quantità di contadini armati di zappe e di legni 13 individui, e poco dopo altri tre se ne assicuravano, che dissero benanco di fuggire per presentarsi, ed altri ne furono trovati poco dopo accovacciati, i quali, nel vedere gli urbani, s’inginocchiarono, pregandoli per Dio onde non li avessero uccisi, non rilevandoti come gli altri tre fossero capitati in mano della giustizia.

Questi individui, che non sono nominati dagli urbani, ma per quanto risulta dagl’interrogatorii, sarebbero stati i seguenti:

111. Bruno Contemi — 112. Donato Palermo — 113. Giuseppe Montesano — 114. Nazzareno Molimi — 115. Giuseppe de Francesco — 116. Pietro Nastro — 117. Antonio Pirozzi — 118. Giovanni Medaglia — 119. Francesco Cacurullo — 190. Luigi Tolimieri — 191. Pasquale Costanza — 129. Domenico Cozzolino — 193. Vincenzo Esposito — 194. Ferdinando Vinci — 195. Pietro Carini — 196. Pietro Paolo Regina — 197. Pasquale di Manzo — 198. Fortunato Acunto— 199. Antonio Crisafi — 130. Gaspare Fiorenza — 131. Vincenzo di Gennaro — 182. Luigi Russo.

Dicono essersi pure presentati a' cacciatori in Buonabitacolo:

133. Alfonso della Manica — 134. Beniamino Argirò — 135. Pasquale Amoroso — 136. Consolato Nicolò — 137. Alessandro Cordone — 138. Pietro Lombardi.

Veniva arrestato a' 2 dello da soldati cacciatori.

139. Francesco Scozzi.

Era anche arrestato a dettadi dalla guardia urbana di Buonabitacolo.

140. Giovanni Battista Majorino.

V’ha ragione di ritenere che

141. Fortunato Sonetto in realtà si fosse disertalo dalla banda a tempo del disbarco, perché si presentava alla gendarmeria di Paola nel giorno 2 luglio 1857.

Era arrestato in Sala a' 9 detto:

142. Giovanni Camilluoei.

Venivano benanco arrestati, nello stesso giorno 9 luglio, nella contrada La Rossa dalla guardia urbana di Galicchio, in tenimento di Montemurro:

143. Michele Esposito — 144. Luigi Esposito — 145. Nicola Palanca — 146. Francesco Mastranza — 147. Alfonso Tarantini.

In Erboli poi nel medesimo giorno:

148. Luigi Reano — 149. Pietro di Stazio.

Nella contrada Pergola, in tenimento di Morsico, verso le oro 18 del 2 luglio, era arrestato: — 

150. Oronzo Nicola Valletta: e nello stesso giorno, nella campagna di Morsico Vetere, lo squadriglia Luigi di Pierri e l'urbano Giambattista Curdo arrestarono: — 151. Stefano Napolitano — 152. Francesco Cantatore — 158. Giovanni Domenico Sebastiello o Sabatino — 154. Luigi Melillo.

E nello stesso giorno ei presentarono volontariamente al giudice di Brienza; — 

155. Luigi LaSala — 156. Giuseppe Magno. Al capo urbano di Manico Nuovo: — 157. Giuseppe Altizzone — 158. Raffaele Foglia — 159. Antonio Resta — 160. Giovanni Guaiolino — 161. Donato Colapinto.

In Sassano, nel giorno 2 e 3 detto: — 

162. Giuseppe Mercurio — 163. Giuseppe Friuzzi. Al sindaco di Sala: — 164. Giuseppe Fabozzi — 165. Achille Godano — 166. Francesco di Martino — 167. Nicola Oliva.

Nello stesso giorno, si presentavano alla truppa de' cacciatori in Torraca: — 

168. Paolo Liguori — 169. Antonio Esposito — 170. Francesco Laure.

Nello stesso giorno 2 luglio, erano arrestati nel conflitto di Sanza: — 

171. Carmine Sorgente — 172. Paolo Esposito — 173. Pasquale Marannello —174. Giovanni Giglioni — 175. Carlo Rotta — 176. Giuseppe Santandrea — 177. Giovanni Nicotera — 178. Nicola Nicoletti — 179. Giuseppe de Felice — 180. Giuseppe Roma — 181. Antonio Romano di Napoli — 182. Giuseppe Olivieri — 183. Fortunato Flora — 184. Giuseppe Ajello Peli — 185. Giuseppe di Muzio — 186. Giovanni Crispi — 187. Luigi Lazzarero o Lazzaro — 188. Francesco Metuecè — 189. Gaetano Schiavo — 190. Giuseppe Moschetta — 191. Giacomo Confortino — 192. Antonio Santoro — 193. Achille Peruggi o Perucci — 194. Rosario Villari — 196. Luigi Smimmo — 196. Vincenzo Martino — 197. Francesco Romano — 198. Ora-zio Ferri — 199. Francesco Fauzzi — 200. Pasquale d’Angelo — 201. Oronzo Saccoccia.

Si dicono presentati al capo urbano di Sanza, a 2 detto: 202. Bartolammeo Naddeo — 

203. Rocco Orlando.

Venivano arrestati in Diano, nello stesso di 2 luglio: 

204. Salvatore Minieri — 205. Vincenzo dell’Oglio — 206. Domenico dell'Oglio. Ed in Casella, nel circondario di Sanza, alle ore 23: 207. Francesco Gallo — 208. Vincenzo Papero — 209. Salvatore Barberio — 210. Arcangelo Parigino. I primi erano armati di fucili a due colpi con canne inglesi a tortiglione e a fili di paglia, ed il Parigino di un boccaccio.

Si presentavano nello stesso giorno 2 luglio in San Giacomo: — 

241. Luigi Antonio Villani. — 212. Giuseppe Bartiromo, che si faceva chiamare Luigi Leazza. — 213. Domenico Coja, che si dice pure presentato — 214. Giovanni Bovilo, ch'è lo stesso di Luigi o Giuseppe de Sancii. — 215. Antonio di Napoli, che aveva assunto il nome di Giuseppe de Lisa.

Venivano assicurati nel suddetto giorno e successivi. 

216. Vincenzo Sforza — 217. Giuseppe Valenzese.

Nel medesimo giorno 2 luglio, arrestati dalla guardia urbana di Piaggine: 

218. Angelo Palermo — 219. Nicola Salomone — 220. Francesco de Costanzo — 221. Giuseppe Mariano — 222. Vincenzo Alberti 223. Pietro Rusconi.

Arrestati nel 3 luglio armati in Sassano: 224. Angelo Quaranta-In Caselle inerme: 

225. Vincenzo Agresti — In Castelluccio inferiore, lo stesso dì 3 luglio, nella contrada Corlici: 226. Francesco Tuoti — 227. Giuseppe Langellotti — 228. Domenico Richillo — Lungo la via da Latronico a Lagonegro: 229. Rosario Gioffri — 230. Tommaso Ziparo — 231. Pietro Gemmino. — Nel tenimento di Lagonegro, in prossimità del paese, vennero fermati dalla forza pubblica, a' 5 detto: 232 Pasquale Morinile — 233. Carmine di Domenico — 234. Ferdinando Priorelli — 235. Luigi Verna — 236. Giuseppe Caputo — 237. Vincenzo Bombara — 238. Francesco Mazzulli, nel luogo detto Monticelle sulla consolare — 239. Domenico Riviglio, in tenimento di Rivello — 240. Raffaele Reale, in Lauria — 241. Gennaro Tucci, iu Lauria; — 242. Domenico Fuccinito in Lauria.

Si presentavano: 

243. Domenico Chiatamo o Chianam— 244. Nicola Giordano — 245. Pietro Colica, in Casalnuovo — A’ 5 luglio si presentavano al capo urbano di Pollica: 246. Pasquale Esposito. — Rimanendo in dubbio se si fosse del pari presentato: 247. Salvatore di Padova. — Si presentavano volontariamente in Monteforte al tenente di gendarmeria: 248. Bartolommeo di Sapio — 249. Michele Bruno, in Monocalzati. — Nel giorno 4 si presentava volontariamente al giudice di Mormanno: 250. Michele Regina — ed al giudice di Morona: 251. Gennaro Mainieri — 252. Rocco Rosilo — 253. Rocco Signorelli, poi veniva a presentarsi in Catanzaro — 254. Gaetano Tropeano era assicurato alla giustizia nel giorno 5, presentandosi volontariamente al capo urbano di S. Pietro. — Nel giorno 9, per quel che dice il capitano di gendarmeria in suo uffizio: 255. Salvatore Genesi di Massafra, si presentò al supplente giudiziario di Petina. — Nel 12 luglio, erano arrestati dalla gendarmeria: 256. Carmine Alifano — 257. Nicola di Paola. — Nello stesso giorno 12 erano arrestati in S. Menna: 258. — Pasquale Peretta — 259. Alessandro Paulillo — 260. Pietrantonio Rotondo — 261. Domenico Vespa.

Nel giorno 7 settembre, si presentava al procuratore generale in Casalnuovo: 

262. Michele Tommarelli, di Montesano. — Nel giorno 8 luglio, si presentava al giudice istruttore di Potenza: 263. Domenico Passalacqua.

Nel dì 21 agosto, ai presentava al capitauo di gendarmeria reale di Casalvieri: 

264. Benedetto Fanelli, del medesimo Comune, ed interrogato diceva che, ad istigazione di alcuni esteri sbarcati in Ponza erasi, con molti altri relegati ex militi, unito ad essi e montati a bordo di un vapore, erano stati sbarcati alla spiaggia di un paese a lui ignoto; che ingolfatasi la massa in un bosco, fuggì, e di nascosto ai recò in provincia di Terra di Lavoro, ove serbossi latitante sino al dì della spontanea presentazione. Pertanto, da una istruzione compilata sul di lui conto, si desume che, durante la latitanza, apparve armato di fucile e di pistola per le campagne di Casalvieri, e raccontava aque’ naturali ch'era fuggito da Ponza, e che tra la massa e la forza regia eravi stato un conflitto, dal quale erasi salvato colla fuga; insinuato a presentarsi, ripigliava con dire che tra pochi giorni, sarebbesi cambiato il Governo, ed egli sperava la Costituzione; ed in altra occasione, parlando a taluni contadini, anche in campagna, di un tal Giovanni Pattò, altro relegato in Ponza, chiudeva il discorso con dire che «stessero allegramente perché quanto prima gl'Inglesi e Francesi sarebbero andati pure a liberare il Pattò, e poco altro tempo sarebbe rimasto in Ponza.»

Questi discorsi e l’asportazione d’arma Bono contestati da più testimonii.

I giudicabili medesimi subirono l’interrogatorio. — Giovanni Nicotera, dopo aver dette parole preliminari delle precedenti rivolture, in cui aveva figurato dal 1848 in Calabria, e quindi in Roma, incomincia a narrare che, allo scorcio di dicembre 1849, portossi in Torino, di là in Genova e Nizza, e di poi di nuovo in Torino, ove fissò domicilio; che in maggio ultimo venne invitato in propria casa da Carlo Pisacane a far parte di una spedizione ne’ reali dominii, e mostrandogli una lettera del Comitato napoletano l'assicurava della riuscita; che quando Pisacane si portò a tale oggetto in sua casa a Torino, si accompagnò alla inglese miss White: che la rivoluzione doveva accadere il dì 13 giugno, e non si effettuò per mancanza di cento fucili, che doveva portare un battello genovese, e fu protratta pel 29 detto mese; e Pisacane, accintosi all’impresa, si portò inGenova nel dì 20 e 21 detto, ove si provvide di danaro e di armi; che nel 25 si mosse dal porto di Genova sul vapore Cagliariper Ponza, ove dopo di aver disarmato la guarnigione, ed imbarcati molti relegati, si riprese la rolla per Sapri; colà si sbarcò, e si aveva disegno di conferirsi in Potenza, destinalo come punto centrale della ribellione, e quivi riunita la forza di 50.000 uomini, marciare sulla capitale, ed impadronirsi delle castella; che Pisacane era incaricalo dal Comitato napoletano di stabilire nesso di relazione anche nelle Calabrie. Spiegò che il biglietto in idioma inglese (corrispondente in italiano al soprascritto che principia: «Noi cerchiamo di evitare spargimento di sangue, ecc.)» sorpreso almacchinista Park, fu scritto da miss White per fargli comprendere di che si trattasse, ed ottenere la suacooperazione. — Riconobbe infine varii documenti del Pisacane e del Comitato di Napoli, e spiegando il senso di alcuni di essi, svela le tramecospiratrici ed i procedenti progetti per eseguire la ribellione.

Gaetano Pozzi dedusse che. reduce da un viaggio fatto in Inghilterra con Luigi Barbieri e Domenico Pozzo, erasi recato a Genova per trovar mezzi da vivere, e colà un tal Pietro Porro gli offrì di far parte di un viaggio per commettere un contrabbando e fino al tempo della partenza gli somministrò danaro; che venuto il tempo del viaggio, ebbe avviso di recarsi presso il voluto mercadante. e rinvenne invece Carlo Pisacane, nella di cui casa trovò il detto Luigi Barbieri, Felice Poggi, Domenico Paro, Francesco Metuscè, Lorenzo Giannone, un tal Cesare... un tal Messone, e tutti gli altri che poi vide a bordo del Cagliari;che i capi della insurrezione erano Pisacane, Nicotera. Falcone; che quanto operarono fu tutto effetto di violenza e minacce; che in Padula non prese parte nel conflitto.

E Felice Poggi e Domenico Porro fanno eco a Gaetano Poggi.

Francesco Metuscè, Domenico Mazzore e Giuseppe Mercuri sostengono che, trovandosi imbarcati sul Cagliari,i primi marinari, l’altro colla qualità di cameriere, furono forzali a far parte della banda ribelle, ma che non contribuirono alle eccedenze dalla stessa commesse.

Giovanni Camillucci, Cesare Faridone, Giuseppe Faelli ed Achille Perugi dicono di essere stati ingannali, i primi tre da Luigi Barbieri (mezzano di Pisacane) l'ultimo direttamente da Pisacane. che spingendoli ad imbarcarsi sul Cagliarifecero loro credere che avrebbero fatto un viaggio di contrabbando, e lungo la rotta capirono che trattavasi in vece di rivolta.

Pietro Ruscone afferma che partiva per Tunisi in buona fede, ma Pisacane P obbligò con violenza ed armata mano, a seguirlo con gli altri; ma per nulla cooperò alle inique azioni dei congiurati.

Giovanni Cagliari e Carlo Botta più franchi deducono che in Genova conobbero Pisacane. il quale assumendo il titolo di generale di una spedizione, gl'invitò a seguirlo in questo Regno, ov’era chiamato da' suoi compatriotti per una rivoluzione: lo seguirono ed in Ponza liberarono i relegati, e quindi operarono in Sapri, ed in altri luoghi del distretto di Sala, ove, attaccati dalla regia forza, furono arrestati.

In fine Giuseppe Santandrea afferma che, trovandosi in Genova come emigralo par gli affari del 1848, ebbe occasione di conoscere Pisacane; che costui l'incitò a seguirlo per promuovere una rivoluzione in Napoli, ed egli vi acconsentì per acquistare la libertà, e con effetto fece parte della spedizione inPonza, e quindi nel distretto di Sala, ove furono disfatti dalla pubblica forza.

Rocco la Cava e Giuseppe la Ferola fanno cenno delle proposizioni di taluni relegati in Ponza sulla precedente loro scienza di politiche novità.

Dallo insieme degl'interrogatorii di Domenico Catapane, Giuseppe Altizzone, Donato Colapinto, Giovanni Cazzolino, Giuseppe Bartirorno, Emmanuele Bove, Francesco de Costanzo, del suddetto Rocco La Cava, Ferdinando Cocchiello, Antonio Ciancio, Giambattista Jaccheo, Achille Mira, Luciano Marino, Pasquale Mezzacapo, Francesco Nocera, Antonio Pirozzi, Angelo Palermo, Antonio Pianese, Raffaele Parola, Antonio Romano, Pietro Paolo Regina, Lorenzo Saltella, Luigi Filippo, Domenico Sipone, Luigi Tolimieri, Antonio Ventorino, Antonio ValeraeGiuseppe Valenzese, si raccoglie la narrazione di tutti i misfatti, consumati dai rivoltosi in Ponza, e poi lungo il cammino da Sapri a Padula, e si desume del pari che in Sapri, Pisacane, Nicotera e Falcone andavano in cerea della famiglia Peluso per massacrarla, come quella che aveva fatto uccidere in luglio 1848 Costabile Carducci; che la moglie del barone Galloni ebbe contatto con gl’insorgenti: che in Torraca alcuni di quei naturali s’insignirono di nastri tricolori, e fecero plauso ad un proclama sedizioso, letto da uno dei capi della banda in quella pubblica piazza; che in Casalnuovo si tenne consiglio di guerra, ed Euschio Bucci venne dannato a morte, e fucilato; che de' componenti il Consiglio, Giordano si mostrava più accanito per la condanna, e che Domenico Catapane trasse a quello sventurato pure varii colpi di pugnale; che in Padula si tenne riunione in casa dei signori Romano che quivi gli esteri capi dell’orda esternavano la repubblica.

Miccia Giordano dice che, comunque gl'insorti avessero gridato «Viva la repubblica» pure il vero loro scopo era di ottenere l’indipendenza italiana; che il Consiglio di guerra eretto per la condanna di Bucci si compose da lui medesimo, capitano, da' tenenti Rosario Spadafora, ed Errico Celino, e dagli altri graduati Luisi I.a Sala, Francesco de Martino.

Varii indicano i capisquadra, e gli altri graduati, come appunto si raccoglie dal documento di sopra trascritto.

Inoltre, i suddetti e quasi tutti gli altri evasi da Ponza, si scusano con direche furono forzati ad imbarcarsi, e taluni aggiungono che, seguito lo sbarco in Sapri, riuscì loro disertare, e quindipresentarsi.

Ma le asserte violenze non sono sostenute dall'istruzione compilata in Ponza, ed è a dirsi in conclusione che tutti gli interrogatorii, anziché presentare posizioni da giustificare almeno in certo modo il malfatto, affermano l’accusa ormai basata sopra fatti, su documenti ineluttabili e su moltissimi testimoni.

Sitkzia nell'interrogatorio sostiene di essere stato violentato e trascinato da' congiurati colle armi impugnate, e di aver quelli passato il comando e direzione del Cagliarial capitano Daneri. Anche i cospiratori vorrebbero far credere che a viva forza eransi impossessati del piroscafo. Ma quelle violenze erano una simulazione già smascherata, appunto perché in caso di esito sfavorevole, avessero potuto essere giustificati (a loro modo d’intendere) l'amministrazione Rubattino, esso Silkzia. e gli altri dell'equipaggio, che partecipavano alla sedizione.

Ciò vien fatto chiaro dall'espressioni, usate nello scritto attribuito a miss White, in cui si accennava all'idea che sarebbe rimasta al sicuro l’amministrazione.

Il capitano Sitkzia potea imporre agli ammutinati ed ottenere la dichiarazione, che già si è riportata, e dovei poi sottostarepaziente alle violenze!

Tolti i passaggeri. che rimasero estranei al concerto, non erano i restanti in tal numero da imporre necessità ad un numero maggiore.

Né si potea usar delle armi, che furon tolte dopo che l’ammutinamento era avvenuto.

Né gli ammutinati potean sapere ch’esistevan armi sul legno.

Non può avere altra spiegazione la circostanza deposta di più che il fatto di voluta violenza avvenne dopo essersi percorse più miglia da Genova, se non quella di aver voluto preparare prima la giustificazione, ed il tempo corso prima delle volute violenze fu speso per là dichiarazione.

Le parole di violenza, dette da Nicotera e dai correi, lo furon per l'effetto del precedente concerto e per essere coerenti alla dichiarazione. — Se ciò dissero i passaggieri, lo fecero nel fine di render favore — E si ha pur anco in ciò un contrapposto nelle altre dichiarazioni.

Oltreché Mercuri fu arrestato in conflitto; Acquaronefu ferito, altri e non pochi discesero ed operarono.

Pertanto né l'amministrazione né Sitkzia, saprebbero conciliare il come avesse potuto il Cagliarifare un lungo viaggio sino al mattino del 29 giugno, in atto aveva una quantità di carbone sufficiente sino alla sera del 27. Sitkzia, Rocci e gli altri dell’equipaggio, dopo lo sbarco di Sapri, avrebbero dovuto portarsi immantinenti in Napoli od in altro luogo del Regno, per riferire quel che era successo alle autorità competenti, e l'avrebbero fatto qualora con effetti avesseroagito sotto la violenza, ma si rimasero bordeggiando ed aveano presa la direzione di Ponza, come siè cennato di sopra, tra il golfo Policastro e Capolicosa. Come poi può spiegarsi il silenzio, serbato daRibattino e Sitkzia, quando non era loro ignoto che alcuni de' cospiratori mentivano i proprii nomi? Non era possibile che non fossero stati da essi conosciuti, nel mentre il medesimo Rubattino, nel suo esposto dice che fra essi eravi gente aliena da qualunque macchinazione politica? Che si dirà della mancanza delle carte di passaggio degl'individui dalproprio equipaggio? Come spiegarsi infine che Rubattino, nel momento che ignorava il modo dello sbarco, diceva essere per luievidente che i congiurati si fossero impadroniti con violenza del comando del bastimento, e neavessero deviata la destinazione? Tolto ciò, congiunto alle operazioni del Sitkzia, e degli altri dell’equipaggio, dimostrò il precedente concerto fra esso Rubattino. Sitkzia e gli altri dell'equipaggio, con Pisacane, e compagni.

De’ nominati 284 imputati, 86 trovavansi in Ponza per espiare i la pena di relegazione inflitta loro per varii reali.

Trovavansi benanco nell'isola di Ponza altri come presidiarii per resistenza alla forza pubblica, omicidio, furto qualificato, ferita grave.

I giudicabili tutti sono stati dichiarati in legittimo stato di arresto, con decisione de' 24 settembre e 19 corrente.

Qui l'atto di accusa riferisce i nomi di tutti gl’imputati: indi prosegue accusandoli de' seguenti titoli:

I. Di cospirazione per distruggere e cambiare il Governo, eccitando i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’autorità reale ai termini dell'art. 125 delle leggi penali.

II. Di organizzazione di banda armata per invadere e saccheggiare piazze, posti militari, e per commetter attentato contro la sicurezza interna dello Stato, a termini dell'annunziato art. 123 e del-l'art. 133 delle leggi penali.

III. Di esercizio di funzioni e comando nella detta banda armata, per avervi avuto Nicotera il grado di colonnello, Giordano, Valletta e Priorelli i gradi di capitano, per essere stati nominati Luigi La Sala e Francesco di Martino tenenti e per avervi avuto tutti gli altri il grado di capisquadra, a termini del suindicato art. 133 delle leggi penali.

IV. Di associazione in banda armata, organizzata come sopra ai termini dell'art. 135 delle leggi penali.

V. Di attentato come sopra nello scopo di distruggere e cambiare il governo, e di eccitare i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro l'autorità reale, a termini dell'art. 123 delle leggi penali, con avere in banda armata, ed a capo di essi: Giovanni Nicotera, Achille Tornati Peruggi, Giovanni Gagliani, Giuseppe Faelli o Peli, Giuseppe Mercuri, Francesco Metuseè, Carlo Rolla, Giuseppe Santandrea, Pietro Rusconi, Giuseppe Barlimoro, Nicola Giordano, Giuseppe La Ferola, Nicola Valletta, Domenico Coja, Federico Priorelli, Luigi La Sala.

In Ponza

1. Violando le leggi sanitarie, sequestrando il pilota, provocando, vestendo camicie e berretti rossi, ed essendo armati di boccacci e di fucili, aggredito il posto della gran guardia, ed ucciso il tenente D. Cesare Balsamo, giusta gli art. 355 e 123 leggi penali;

2. Eruttato le grida sediziose di «viva la repubblica, viva la libertà» ed inalberata la bandiera tricolore, giusta l’articolo 140 delle leggi penali;

3. Oltraggiato sequestrato e condotto a bordo del CagliariD. Antonio Astorino, comandante dell'isola, D. Federico de Francesco aiutante, D. Antonio Ferrugia, aiutante maggiore, D. Mondano Magliozzi, capitano del porto, ed i deputati di salute, giusta gli art. 123 e 173 leggi penali;

4. Violentato il maggiore Astorino, facendogli sottoscrivere ordini per consegnarsi armi, munizioni; e per avere, anche con violenza ottenuta questa consegua, a termini dello stesso articolo 173 leggi penali, ed aggredito tutti gli altri posti armati, disarmala ed affondata la scorridoia reale, ed inoltre

5. Incendiata la caserma ili gendarmeria, ed il posto di polizia:

6. Infranto lo stemma reale situato in luogo pubblico d’ordine del Governo (posto di polizia) non per solo fine di disprezzo, e saccheggiata la caserma, e il posto anzidetto ma per provocare a consumare l’attentato, giusta gli articoli 439. 140 e 141 leggi penali;

7. Distrutto vario carte, registri e processi del Giudicalo regio di Ponza, e per aver rubalo varii oggetti di convinzione, danaro, armi ed altro, a termini degli articoli 259, 407, 408, 415, 421, 424 leggi penali;

8. Incendialo diverse carte e registri nella Cancelleria comunale di Bonza;

9. Incendialo dimise carte e registri nell'ufficio della relegazione, dopo di averli tratti sulla strada fuori dell’officina;

10. Incendiato altre carte nell’uffizio della Capitania del porto, saccheggiando la casa del capitano;

11. Violentatoil custode delle prigioni di Ponza, scassinando il cancello delle prigioni medesime e facendone uscire tre detenuti;

12. Scassinata la baracca ad uso del corpo di guardia nella contradadel Chiaro di Luna e diverte stanze della caserma di relegazione;

13. Infranto non per solo fine di disprezzo, tre stemmi regii sul botteghino de' generi di privativa alla strada Banchina, sulla officina della Porta, e su quella della Deputazione di salute, situativi d’ordine del governo: il tutto a termini degli articoli suindicati 140, 141, 123 e 439 leggi penali.

Con avere nel modo suindicato.

In Sapri

14. Espresso grida sediziose e sovversive, come sopra, eccitando eziandio, i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro l'Autorità reale, ai termini degli articoli 123 e 140 leggi penali;

15. Infranto non per solo fine di disprezzo, ma anche per provocare, uno stemma regio esistente in luogo pubblico, d’ordine del Governo (corpo di guardia urbana di Sapri), a termini degli articoli 140, 141 leggi penali.

In Torraca

16. Date fuori uguali grida, e ietto un proclama sedizioso, insignendosi, ed obbligando altri ad insignirsi, di nastri tricolori, a' termini del detto articolo 140 leggi penali;

17. Obbligato un uffiziale pubblico con violenza a fare atto dipendente dal suo uffizio, a termini dell’articolo 173;

18. Commesso attacco e resistenza con violenza e vie di fatto contro agenti della forza pubblica (guardia urbana di Tortorella), mentre agiva per esecuzione della legge d’ordine della pubblica Autorità, a' sensi dell’articolo 178, e del real decreto de' 9 dicembre 1825.

Sul Fortino

19. Abbattuto una trave del telegrafo elettrico, e reciso il filo corrispondente, articoli 123 e 140 leggi penali.

In Casalnuovo

20. Abbattuto altra trave del telegrafo elettrico e reciso il filo corrispondente: articoli 123, 140 leggi penali;

21. Infranto, non per solo fine di disprezzo, ma per consumare l’attentato, gli stemmi regii, e le auguste immagini del Re e della Regina, situate inluoghi pubblici d’ordine del Governo (officina postale, Cancelleria comunale, e corposi guardia urbana di Casalnuovo), a’ sensi degli articoli 125 e 141 leggi penali:

22. Consumata resistenza, con impugnazione ed esplosione di armi da fuoco, contro gli urbani di Casalnuovo, Michele Martino ed Angelo Costari: articoli 125, 178 leggi penali, e real decreto de' 9 dicembre 1825.

In Padula

23. Commesso violenze contro il custode delle prigioni di Padula, obbligandolo ad escarcerare tre condannati correzionali nel momento di tumulti popolari, a termini degli articoli 157, 158 leggi penali;

24. Infranto, non per solo fine di disprezzo, ma per consumare il reato di attentato, lo stemma regio situato in luogo pubblico d'ordine del Governo (corpo di guardia urbana di Padula) a termini degli articoli 123 e 141 leggi penali;

25. Commesso attacco e resistenza alla forza pubblica e militari in sentinella, in atto agivano per esecuzione della legge e d'ordine della pubblica Autorità, con omicidii consumali nelle persone del soldato de' cacciatori, Michele Salatino, dell’urbano di Padula, Antonio Boniello, del soldato congelato, Michelangelo Esposito, nonché dell'urbano di Sassano, Giuseppe Sista, e mancalo omicidio in persona del caporale di gendarmeria, Gioachino Ragonese, a' dì l.° luglio 1857 in Padula, a termini degli articoli 125 e 126 dell'ordinanza della gendarmeria reale de' 30 agosto 1827, legge de' 12 ottobre 1827, legge de' 9 dicembre 1825, ed articolo 125 leggi penali;

In Sanza

26. Commesso attacco e resistenza alla forza pubblica col modo come sopra, a' sensi degli articoli 178, e 123 leggi penali, e della legge de' 9 dicembre 1825.

VI. Di complicità dell'attentato per distruggere e cambiare il Governo, e per eccitare i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’autorità reale, per aver procurato e dato il mezzo necessario a commettere tutti i fatti enunziali di sopra, e per aver tutti, meno Antioco Sitkzia, Errico Wuott e Carlo Park, assistilo e facilitato gli autori principali ne’ fatti, che prepararono, facilitarono e consumarono i reati enunziati dal numero 1. al numero 14: articoli 123 e 74 num 3.° leggi penali.

VII. Di complicità nell'allentato, por avere scientemente assistilo e facilitato gli autori principali de reali ne’ fatti, i quali glihanno preparati, facilitati e comandati, a termini dell’articolo 74 numero4. leggi penali.

Alcuni fra gl’inquisiti sono inoltre accusati de' seguenti reati comuni commessi alla testa della banda armata;

In Ponza

VIII. Furto qualificato per la violenta, pel valore e per lo mezzo, accompagnato da violenza pubblica nella casa del giudice regio di' Ponza, D. Michele Mazzoccolo, del valore di ducati 150, tra contante e biancherie, non che furto con le medesime qualifiche a danno del gendarme Francesco Petillo, accompagnato dalla violenza pubblica, a sensi degli articoli 407, 407 numero 2.° 409, 410, 421, 423, 147, 149 leggi penali.

IX. Furto di varii abili qualificato pel valore e per la violenza, accompagnalo da violenza pubblica, a danno di D. Giuseppe Ciliberti: di un fucile e poca polvere a danno di Pasquale Matterà, contabile della Relegazione: e di una quantità di pane a danno di D. Michele Parisi, a' termini degli articoli 407, 408. 409, leggi penali.

In Sapri

X. Minacce di vita e danno volontario con la scassinazione di porte, in persona ed in pregiudizio di D. Vincenzo Peluso, capo urbano, e D. Leopoldo Peluso, sindaco di Sapri, reati accompagnati dalla violenza pubblica, a' sensi degli articoli 462 numero 5.°, 445, 446, 147 e 149 leggi penali.

XI. Arresto e sequestro illegale di D. Domenico Montesanto, impiegato telegrafico, Alfonso Panico e Filippo Fiorentino, guardie doganali, Domenico Mente e Salvatore Vitolo, urbani, Nicola Schettino e Giuseppe Pasquale di Sapri, liberandoli prima del terzo giorno compiuto, reato accompagnato dalla violenza pubblica, a' sensi degli articoli 172, 447 e 149 leggi penali.

XII. Furti di danaro, armi ed oggetti commestibili, qualificati pel valore e per la violenza, accompagnati da violenza pubblica, a danno di Pasquale Preda ed altri di Sapri, giusta gli articoli 407, 408 numero 2.° 409, 421, 423, 147, e 149 leggi penali.

XIII. Furto qualificato per violenza, per lo mezzo e per lo valore di danaro, fucili ed altri effetti a danno di D. Giovanni Peluso, ricevitore doganale, D. Nicola Timpanelli e Nicola Calderaro di Sapri, giusta gli articoli 407, 408, 409, 421, 423, 147 e 449 leggi penali.

XIV. Furti qualificati per lo-valore e per la violenza, accompagnati dalla violenza pubblica, consistenti in fucili, danaro contante, biancheria ed altri oggetti, a danno di D. Luigi Mercadante, capo urbano, D. Carmine Galloni, sindaco, Paolo Finizzola, Carmine Viaggiano e D. Antonio Flora di Tonaca, a' cenai degli articoli 408 numero 2.°409, 421, 423, 147 e 149 leggi penali.

XV. Furto di denaro contante ed altri effetti, qualificato pel tempo, mezzo, valore e per la violenza accompagnato da violenza pubblica, a danno di D. Francesco Rocco, di Tortorella, nella notte de' 29 a 30 giugno 1857, a' censi degli articoli 407, 408, 409, 421, 423, 147 e 149 leggi penali.

In Casalnuovo

XVI. Omicidio volontario, accompagnato da violenza pubblica, in persona di Euschio Bucci in Casalnuovo, a' 30 giugno 1857, giunta gli articoli 355, 147 e 149 leggi penali.

XVII. Furto di biancherie, utensili di cucina e danni volontarii, con la scassinazione delle porle, delle caserme di gendarmeria a cavallo ed a piede nel comune di Casalnuovo, qualificato pel mezzo, pel valore e per la violenza, accompagnato dalla violenza pubblica, a «eneo degli articoli 407, numero 2. 409. 421, 147 e 149 leggi penali.

XVIII. Furti di fucili, danaro ed altri effetti, qualificati pel valore e per la violenza, ed accompagnali da violenza pubblica, a danno di Domenico Cantina, Vincenzo Barra, Gennaro Germino, Paolino Bracco, e molti altri di Casalnuovo a' 30 detto, a' cenai degli articoli 407, 408 numero 2. 409, 421, 423, 147 e 149 leggi penali.

XIX. Omicidio volontario accompagnato da violenza pubblica, in persona di Rosa Perretti, di Casalnuovo, a' cenci degli articoli 355, 147 e 149 leggi penali.

In Padula

XX. Tentato furto qualificato pel tempo e per la violenza, accompagnato da violenza pubblica, e furto economato in ducati 60 in contante e di altri effetti, qualificato pel tempo e per la violenza, accompagnato da violenza pubblica a danno di D. Francesco Santo-mauro esattore fondiario di Padula, nella notte de 30 giugno 1857, giusta gli art. 407, 408 num. 2. 409, 421, 423, 147 e 149 leggi penali.

XXI. Tentati furti qualificati pel tempo e per la violenza accompagnali da violenza pubblica, a danno di D. Michele Vecchio, ricevitore del Registro e bollo, e D. Antonio Maina, cassiere comunale di Padula, a' termini degli art. 70, 407, 408 num. 2. 409, 424, 423, 147 e 449 leggi penali.

XXII. Di complicità ne’ reati di sopra espressi per aver prestata assistenza e facilitazione agli autori principali ne’ fatti che precedentemente si sono indicati dal numero VIIIal numero XXI a termini degli articoli 74 num. 4. leggi penali.

XXIII. Di fuga eseguita con violenza, da luogo di pena (isola di Ponza) in tempo di tumulto popolare a' termini degli articoli 253 e 257 leggi penali.

XXIV. Di volontaria ferita grave, a colpo di rasoio, che ha prodotto sfregio permanente in persona di Francesco di Gennaro, nonché di asportazione di detto rasoio, con animo di delinquere, reato avvenuto a 26 maggio 1857, a' termini degli articoli 358 leggi penali, e reali decreti 5 gennaio 1840 e 27 settembre 1844.

XXV. Di fuga violentata dalluogo di custodia, in tempo di popolare tumultò, a termini degli articoli citati.

XXVI. Di furto qualificato per la violenza, tempo e luogo accompagnato da violenza pubblica, a danno di Vincenzo Migro, Gio. Andrea Cuozzo, Vincenzo Soleo, e Michele Fortata, con percosse lievi in persona del Cuozzo, reato avvenuto nella notte de 9 a' 10 luglio ultimo, a' termini degli articoli 409 num. 2, 412, 429, 421, 422, 423, 147 e 149 leggi penali.

XXVII. Di voci e fatto pubblico, diretti a spargere il malcontento contro il Governo, a' 3 settembre ultimo, a termini dell'art. 142 leggi penali.

XXVIII. Di esportazione di armi vietate (pistole e stile).

XXIX. Di discorso in luogo pubblico, tendente a spargere il malcontento contro il Governo: reati avvenuti in luglio ed in agosto ultimo, a termini degli articoli 151, 142 delle leggi penali.

XXX. Tutti di reiterazione di più di due misfatti a' termini dell’articolo 86 delle leggi medesime.

XXXI. Di recidiva in misfatto, a' termini degli articoli 78 e 79 delle leggi penali.

Per lo che richiede che si proceda con le regole di rito innanzi la gran Corte speciale.

Salerno. 20 ottobre1857.

Soll. — Francesco Pacifico.


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CORTE D’ASSISE DELLA SENNA


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ATTO D’ACCUSA DEL 12 FEBBRAIO 1858.

L’imperiale procuratore dichiarava che dai documenti e dall'inquisizione risultavano i fatti seguenti:

Un nuovo attentato fu fatto contro la vita dell'Imperatore. S. M. n’andò illesa, ma molte vittime furono percosse intorno ad essa. Nulla arresta infatti, il furore delle passioni demagogiche. La pistola ed il pugnale lor non bastano più. A tali strumenti d’omicidio succedettero macchine immaginate e preparate con arte infernale. Una torma di sicarii, venuti dall'esterno, usciti ultimamente dall'Inghilterra, la cui ospitalità generosa è messa a profitto per esecrandi disegni, s’incaricò di scagliare contro l'imperatore que’ nuovi strumenti di distruzione. Per cogliere la sacra persona di lui conveniva condannare alla morte un'augusta principessa da noi conosciuta pe' suoi benefizii: conveniva altresì percuotere a caso, in mezzo alla folla adunata. I sicarii non indietreggiarono. Ma la provvidenza vegliava per la salvezza del paese: ella preservò la vita sì preziosa dell’imperatore, protesse del pari la nobile compagna accomunata a' suoi pericoli, infine permise che gli autori diretti dell’attentato fossero immediatamente catturati per venir a rispondere dinanzi alla giustizia di un crimine, volto contro la grandezza e la prosperità della Francia, del pari che contro la vita del Sovrano, ch’ella si diede.

Il giovedì 14 gennaio 1858 le LL. MM. II. dovevano assistere alla rappresentazione dell’opera. Gli apparecchiamenti esteriori, usati in simigliante occasione, annunziavano che elleno vi erano attese. Il corteo giunse verso le ore 8 4|2; la prima carrozza, occupata dagli uffiziali della casa dell'Imperatore, aveva già passato il peristilio del teatro; ell’era seguita da una scorta de' lancieri della guardia imperiale, precedente la carrozza in cui erano le LL. MM., e con esse il sig. generale Roguet. Giunta dirimpetto all’ingresso principale, la carrozza rallentava la corsa per mettersi nel passaggio riservato, all'estremità del peristilio. In quel memento, tre scopii successivi, paragonabili a cannonata, rimbombarono a pochi minuti secondi d’intervallo: il primo dinanzi la carrozza imperiale, e nella seconda riga della scorta de' lancieri; il secondo più vicino alla carrozza, e un po’ a sinistra; il terzo sotto la carrozza stessa delle LL. MM.

In mezzo alla confusione generale, il movimento unanime di quelli fra gli astanti, che non erano stati crudelmente feriti, fu di chiarire colle acclamazioni loro che l’imperatore e l’imperatrice erano stati preservali; il cielo infatti avea fatto loro scudo della sua più visibile protezione, poiché il pericolo, a cui erano sfuggiti si rivelava intorno ad essi con ispaventevoli pruove. Sino dal primo scoppio, i molti beccucci di gas, che illuminavano la facciata del teatro erano stati smorzati per solo effetto della commozione. I vetri del peristilio, e quelli delle case vicine, erano quasi tutti andati in frantumi. La vasta marquise,che ripara l’ingresso, era traforata in più sili, malgrado la sua grande solidità. Infatti, sui muri, sul selciato medesimo della via Lepelletier, si scorgevano tracce profonde, lasciate da proietti di ogni forma e grossezza.

La carrozza imperiale era a rigor di parola crivellata; ella fu colta nelle diverse sue parti da 76 proietti. De’ due cavalli chela tiravano, uno colto da 25 ferite, era morto sul momento; l'altro gravemente ferito, dovette essere ucciso. Parecchie scheggia erano penetrale nell’interno della carrozza, ed il sig. generale Roguet, seduto sulla panchetta dinanzi, aveva ricevuto nella parte superiore e laterale del collo, di sopra all'orecchio, una contusione violentissima, che produsse un enorme spandimento di sangue, estendentesi aino alla clavicola, ed accompagnato da grande gonfiezza.

L’Imperatore e l’imperatrice non ismontarono di carrozza se non dopo il primo scoppio. Ei non avevano cessato di essere tranquilli, e si mostravano principalmente preoccupati de' soccorsi da dare alle vittime. Sul suolo, sparso da rottami ed inondato di sangue, giaceva in fatti un gran numero di feriti, parecchi de' quali mortalmente percossi. I riscontri giudiziarii, certo inferiori ancora alla verità, chiarirono che 156 persone erano state cоlte; ed il numero delle ferite, egualmente riscontrato dalla perizia medica, ascende a ben 511. In tal lunga lista di vittime, si notano 21 donna, 11 fanciulli, 13 lancieri, 11 guardie di Parigi, e 31 tra agenti e preposti della Prefettura di polizia.

Convien aggiungere a compiere la descrizione dello spettacolo, presentato in quel momento dalla via Lepelletier, che oltre a' due cavalli del cocchio imperiale, 24 cavalli de' lancieri furono feriti, fra quali due morirono sul momento e tre il domani. — Qui il testo possa ad enumerare i feriti ed i morti, ed indi segue a dire: — La morte ed ipatimenti di tante vittime erano effetto dello scoppio di proietti vuoti, ch’erano stati slanciati dall'ultima fila de' curiosi, che occupavano il marciapiede dell'opposto lato della via Lepelletier, dinanzi la casa, che porta su quella strada il numero 21 in faccia all'ingesso principale del peristilio dell’Opera. Ciò risulta dalla deposizione del testimonio Michot, sottobrigadiere de' sergenti municipali, il quale si trovava, nel momento dell'attentato, sotto la marquise,a piè dei gradini del peristilio. Tal fatto venne da altra parte confermato dalle dichiarazioni degli accusati Gomez e Rodio, e ultimamente da quelle di Orsini medesimo. In altri termini, i sicarii, per commettere il loro misfatto avevano avuto la cura di mettersi al coperto dietro la folla.

Alcuni minuti soltanto prima dell'attentato, l’ufficiale di pace Hébert procedeva all'arresto dell'accusato Pieri, nella via Lepelletier presso la via Rossini. Espulso di Francia nel 1852, additato da quattro giorni, da un dispaccio del sig. ministro di Francia a Brusselles, come dovuto giungere a Parigi il 9 gennaio con un'altra persona nell'intenzione di uccidere l’Imperatore, Pieri era alacremente cercato dalla polizia. Si può dire che l’intelligenza e l’energia dell'ufficiale di pace, che fece tal cattura importante, contribuissero potentemente alla salvezza dell’imperatore.

Pieri fu trovato latore di una bomba fulminante, di una pistola girevole a cinque canne, carica ed inescata di un coltello a pugnale, di un biglietto del Ranco d’Inghilterra di 20 lire di sterlini e di una somma di 375 franchi in oro e argento di Francia. Un altra bomba fulminante di tutto simile, fu raccolta dal testimonio Vi Ila urne, alla cantonata delle strade Lepelletier e Rossini, nel rigagnolo presso il marciapiedi dal lato ad una striscia di sangue, lunga circa due metri. Alcuni istanti appresso, Quinette, brigadiere de' sergenti municipali, trovava un po’ più lontano nella via Rossini, quasi alla svolta della via Lepelletier, una pistola girevole a sei canne, carica ed inescata, la cui impugnatura era macchiata di sangue. Questi due corpi di delitto, consegnati tosto ad un ufficiale di pace, poi da questo ad un commissario di polizia, furono deposti prima in un armadio chiuso, nel gabinetto medico del teatro dell'Opera, e inviati alla sera alla prefettura della polizia.

Intanto e fin da' primi momenti le più attive indagini erano state ordinate nelle case situate in via Lepelletier, dirimpetto al teatro. Colà si trova segnatamente il trattore Broggi. Un giovine che pareva forestiero vi si era ricoverato. L’estremo turbamento, a cui era in preda, alcune parole frammiste alle lagrime, nelle quali si trattava del suo padrone, fermarono l’attenzione, ed in breve I sospetti, in quel giovine; esso venne arrestato. Alle prime domande, che gli ai volsero, rispose che si chiamava Swineyed era al servigio di un Inglese. Nella sera stessa una pistola girevole a cinque canne, carica ed inescata, era scoperta dal testimonio Diot, cameriere di sala, sotto una scanceria della trattoria Broggi. È utile aggiungere fin d’ara come fatto provato dall'inquisizione che quella pistola era stata appunto dal sedicente Swineynascosta nel sito indicato.

A l'ora dopo mezzanotte, un commissario di polizia si presentò all'Hotel de France e de Champagne, in via Montmartre n. 132, a Parigi, dove Pieri aveva dichiarato di soggiornare con altra persona. Colà, in una camera con due letti, si trovò un giovine coricato mezzo vestito, che dichiarò chiamarsi Da Sylva. Era munito di un passaporto con tal nome, consegnato a Londra, il 6 gennaio 1858 dal console generale del Portogallo, e col visto apposto nella stessa città per la Francia, il 7 gennaio, dal console di Francia.

Il sedicente Da Sylva era veramente il compagno di camera, con cui Pieri, aveva dichiarato di soggiornare all'Hotel de Franco et de Champagne. Pieri stesso si era fatto inscrivere nel libro di polizia di quell'albergo, sotto il nome d’Andreas. Ma in una sacca da notte che gli apparteneva, si trovò un passaporto in Mgua tedesca, consegnato a Dusseldorf (Prussia) l'8 febbraio 1858, a Giuseppe Andrea Pierey, per recarsi in Inghilterra, e munito di tre visti, l'ultimo de' quali era stato apposto a Birmingham pel Belgio, il 2 gennaio 1858, dal console generale del Belgio. Alla sola ispezione di quel passaporto, era facile scorgere ch'egli era sottostato ad una alterazione, e che il nome di Pieri, originariamente scritto, era stato convertito in quello di Pierey.

Si scoperseinoltre in un cassettone chiuso a chiave di cui fu mestieri sforzare la serratura una pistola girevole a cinque canne, carica ed inescata, ed una somma di 275fr. fra cui 270in oro. Infine fu provato dalle dichiarazioni della gente dell'albergo, conformi d’altra parte alle menzioni iscritte nel registro di polizia, che Andrea Pieri era entrato nell'Hotel de France et de Champagne, il 7 gennaio, in compagnia di un certo Swiney, e che il 12 gennaio, Swineyera stato sostituito da Da Sylva

Il solo riscontro di questi nomi di Pieri e di Swiney avrebbe bastato a mostrare alla giustizia ch'ella era nella via della verità. Il sedicente Swiney, interrogato dopo il suo arresto sul luogo di sua dimora, aveva indicalo l'Hotel de Saxe-Cobourg, in via Sant-Honoré, 223. Un commissario di polizia fu incaricato di trasferirvisi nella notte stessa, a 2 ore e 34 dopo la mezzanotte. Ei vi trovò coricata nel letto di Swiney una ragazza Manager, che fu arrestata, ma rilasciata poi, io virtù di un' ordinanza di licenziamento. Le indagini fatte nella camera produssero il sequestro di un passaporto a nome di Swiney, Peters-Brian, consegnato a Londra per Parigi il 24 gennaio 8157, dal console generale di Francia. Il prigioniero presente alla perquisizione, venne frugato e trovato possessore di una somma di 267 fr. Si verificò ch'egli era entrato all'Hotel de Saxe-Cobourg, il 12 gennaio, vale a dire il dì stesso, in cui Da Sylva aveva preso il suo posto all'Hotel de Franca et Champagne, e ch’era stato condotto dal portinaio della casa in via Mont-Thabor, 0, come servitore di un inquilino di quest'ultima casa. Invitato a far conoscere il nome del suo padrone, il sedicente Swiney rispose che il suo padrone chiamavasi Allsop, e ch'ei lo serviva da un mese.

Senza nessun ritardo il commissario di polizia, che aveva proceduto alla perquisizione nell'Hotel de Saxe-Cabourg, si recò invia Mont-Thabor, 10, al domicilio della persona designata sotto il nome d’Allsop; egli lo trovò coricato con alla testa una ferita senza gravità, ma che aveva dovuto sanguinare abbondantemente. Il sedicente Allsop dichiarò ch’era inglese e negoziava di birra. Si trovarono in suo possesso: 1. un passaporto a nome di Tommaso Allsop, consegnato a Londra il 15 agosto 1851, sottoscritto Palmerston, e munito di molti visti, i due ultimi apposti a Londra, cioè il primo pel Belgio, l’altro per la Francia, il 28 novembre 1857, dal console generale di Francia; 2. un biglietto di visita col nome di Tommaso Allsop; 3. una somma di 8125 franchi, composta di 500 franchi in oro di Francia e di 7625 in banconote. Nella mattina del dì appresso, una nuova perquisizione fece scoprire in una scuderia, dipendente dalla casa, un cavallo, di cui il sedicente Allsop era possessore.

Così in poche ore soltanto erasi potuto fare l'arresto di quattro persone, che l’inquisizione ulteriore ha in breve convinte d’essere gli autori diretti dell'attentalo, che aveva spaventato Parigi. La giustizia non tardò a lungo neppure a spogliar quelle quattro persone de falsi nomi, sotto a' quali elle avevano voluto nascondersi e ad ottenere da esse medesime la confessione del vero esser loro. Sin dal primo momento, erasi riconosciuto Giuseppe Andrea Pieri, di 50 anni, nato a Lucca in Toscana.

Ilfalso Allsop dovette confessare, dal canto suo, cheegli era Felice Orsini, di 39 anni, nato a Meldola, (Stati romani).

Il sedicente Swiney altri non era che Antonio Gomez, di 29 anni, nato a Napoli.

Infine, Da Sylva fu obbligato a riprendere il suo nome di Carlo di Rudio, di 25 anni, nato a Belluno, (Stati veneziani).

L’arresto delle persone era stato accompagnato, come ai vide dal sequestro degli strumenti del delitto, e particolarmente da due bombe fulminanti, simili second’ogni apparenza, a quelle di cui era alato fatto un ai terribile uso.

Qui segue l’esame dei periti sulle bombe ed indi l’inquisizione soggiunse:

L’atrocità del delitto aveva anticipatamente rivelato ne’ suoi autori l’esaltazione selvaggia dei demagoghi in rivolta contro tutte le leggi; l’inquisizione, altro non fece che confermare, per questo rispetto, quel ch’era nella coscienza di tutti. Orsini è da lungo tempo mescolato alle imprese del partito anarchico. Dopo di essere stato additato come un emissario di Mazzini, e’ la ruppe o fè sembiante di romperla con lui. Condannato infebbraio 1845 alla galera in vita dal Tribunale supremo di Roma, per cospirazione e trama contro il governo pontificio, fu amnistiato il 15 luglio 1846. Nel mese di marzo 1847 fu espulso dalla Toscana per maneggi e violenze anarchiche. Nel 1849 e’ si trovava deputato all’assemblea costituente romana. Nominato commissario straordinario ad Ancona, indi ad Ascoli. si dà ad eccessi, che di poi, nell'aprile 1855, dieder motivo alla sua condannain contumacia; pronunziala dal Tribunale supremo di Roma, per furti qualificati con violenza e per concussione ed usurpazione d’autorità. Costretto per la ristorazione del Governo pontificio, a prender la fuga, ei cercò da prima un rifugio a Londra.

Ei corse poi il Piemonte, la Svizzera, la Lombardia, ordendo da per tutto raggiri rivoluzionarli. viaggiando con falsi passaporti, nascondendosi sotto II nome di Pito Gelsi. Nel 1855, egli è arrestato a Vienna, sotto il falso nome d’Henvage. Si sospettava ch’egli avesse voluto attentare alla vita dell’Imperatore d’Austria, imprigionato a Mantova, e tratto dinanzi la Corte speciale per delitto di alto tradimento, riuscì a fuggire nella notte del 29 al 50 marzo 1856. Tre mesi appresso riappare a Marsiglia, e vi s’imbarca per Genova il 30 giugno 1856; infine torna a Londra, ove sembra avere per solito soggiornato da quel tempo.

Pieri fu condannato una prima volta ad un anno di prigione e 100 fr. di multa per furto, il 7 maggio 1850 dal Tribunale correzionale di Lucca. Processato di nuovo per furto nel 1853, recasi m Francia e vi ai presenta corno un profugo politico. Ammogliato a Lione nel 4834, egli ha a mano a mano abitato Lione, Avignone e Parigi, ov’esercitò l’industria di fabbricante di berrette. Sua moglie fu udita nell’inquisizione: ella depone che dopo aver vissuto alcuni anni con lui, fu obbligala a lasciarlo per sottrarsi a' suoi mali trattamenti. Nel 1843, Pieri militò in Africa nella legione straniera; di poi, riprese servigio in Toscana, ed occupò anzi il grado di maggiore ne’ bersaglieri, luiavendo abusato di tal grado per commettere esazioni e violenze, col favore delle turbolenze politiche, fu destituito nel 1849, in forza di un rapporto del Consiglio de' ministri di Toscana. Tornato in Francia dopo tale destituzione, fu espulso nel 1852, ed allora cercò diffinitivameute un rifugio in Inghilterra. Da Birmingham, ove s'era fatto maestro di lingue, andò a Düsseldorf nel mese di agosto 1855; ma la sua assenza durò solo pochi mesi, ed ei riapparve a Birmingham nel febbraio 1856.

L’inquisizione prova essere corse relazioni assai frequenti fra Pieri ed Orsini, specialmente nell’anno 1857. Un’antica sorva di Pieri, la ragazza Hartmann, dichiara che, ne' primi mesi di quest’anno, vide tre volte Orsini venir da Londra a Birmingham per vedere il suo padrone, e che una volta fra le altre pranzò in casa quest'ultimo.

In Inghilterra del pari, Pieri ed Orsini strinsero e rinnovarono conoscenza con Gomez e di Rudio.

Gomez, dopo aver militato in Algeria nella legione straniera, dal mese di maggio 1855 fino al mese di giugno 1855, si fece condannare a Marsiglia, il 7 settembre 1855, a 6 mesi di prigione e 25 fr. di multa, per abuso di fiducia. Il tempo della sua partenza per I' Inghilterra non fu esattamente determinato, ma è certo che vi era da un buon pezzo, quando furon fatti i primi apparecchiamenti dell'attentato.

Carlo di Rudio sembra appartenere ad una famiglia nobile, ma caduta in basso pel disordine più ancora che per la povertà. Suo padre e sua sorella furono processati per trama politica, suo fratello soggiacque ad una condanna per falsa testimonianza; egli stesso da parecchi anni condusse vita errabonda. Dopo essere stato involto nelle turbolenze politiche dell'Italia, disparve agli occhi della polizia, interessata a sopragguardarlo. Era in Inghilterra il 1. aprile 1856, poiché a questa data scriveva da Londra alla sua famiglia una lettera ch'è unita alla filza dagli atti processuali; ma di poi si era sparsa la voce della sua morte, ed egli stesso dicesi, s’era adoperato a dar credito a tal voce, per guisa che i suoi parenti medesimi v'aggiustarono fede.

Di Rudio, del pari che Gomez, non potrebbe negare le sue relazioni con Orsini e Pieri. Ei riconosce di avere incontrato quest’ultimo al Caffè Suine,Teachborn-street a Londra, vale a dire in luogo noto come ridotto dei rifuggiti molto pericolosi.

Una quinta persona, l’accusato Bernard, è uno de frequentatori più assidui del Caffè Suissedi Londra.

Simone Francesco Bernard nacque a Carcassone. Prima chirurgo di marina, poi estensore dell’Indépendante des PyréneesOrientalesa Perpignano, trovavasi a Barcellona, quando avvenne la rivoluzione di febbraio 1848. Fin dal mese di marzo di quell’anno, e’ fu visto accorrere a Parigi, ed in breve i suoi discorsi esaltati nei club gli fecero dare il sopranome ilClubista, sotto il quale è ancora conosciuto. Fu condannato per delitto politico dalla Corte d’assise della Senna, il 9 gennaio 1849 ad un mese di prigione e 100 fr. di multa, il 22 dello stesso mese a l'anno di prigione e 500 fr. di multa.

Per sottrarsi all’esecuzione di tali condanne, ei lasciò la Francia: andò prima nel Belgio, poi a Colonia, poi in Inghilterra; fu provata la sua presenza a Dresda nell’agosto 1853; infine sembra aver fermato dimora a Londra da parecchi anni.

Le ultime dichiarazioni, fatte nell'inquisizione dagli accusati presenti, sotto il peso delle pruove accumulate contr’essi, permettono di segnar l'origine e seguire gli svolgimenti della trama, che li condusse all’attentato del 14 gennaio. Orsini medesimo spiega che ai trattò fra Pieri e lui del disegno di uccider l’Imperatore al principiare dell’anno 1857. Tal disegno fri comunicato da essi a Bernard e dall'inglese Allsop; alcune entrature par siano state fatte anche ad un italiano, chiamato Carlotti.

Nel mesedi giugno 1857, Gomez, passando per Birmingham, andò a visitare Pieri, e ne ricevette una lettera di raccomandazione per Orsini, che allora era a Londra.

Ammettendo, come Gomez afferma, ch’egli abbia veduto Orsini per la prima volta in tal occasione, non si potrebbe dubitare che tal raccomandazione, data da Pieri, si collegasse al disegno d’attentato già formato.

Nel cono del mese di ottobre 1857, avendo Gomez incontrato Orsini e Bernard in una strada di Londra, il primo l’invitò ad andare il domani in casa sua, Graffon-street, n. 2. In quella visita, disse Gomez, Orsini gli fece osservare che il profeta(cosi ei chiamava Mazzini) perdeva tutte le sue forze, e che le sue imprese non riuscivano se non a far moschettare uomini inutilmente. Poi gli propose di prender parte a' disegni, ch’egli medesimo aveva formati per effettuare una sollevazione in Italia.

Da quel tempo s'incominciava ad occuparsi della fabbricazione delle b mbe. destinalo ad uccidere l'Imperatore. Orsini aveva fatto eseguire il modello in legno da un tornitore: ma la sua qualità di forestiere poteva impedirgli di trovar in Inghilterra un fabbricatore il quale acconsentisse a lavorargliele. In conseguenza l’inglese Allsop s’incaricò di tale bisogna. Allsop si rivolse a certo Taylor, ingegnere meccanico a Birmingham, Sotto la dettatura di Orsini, Bernard scrisse una nota, contenente le istruzioni per Taylor. Questa nota che porta la data del 16 ottobre 1857, è negli alti processuali e le particolarità ch'essa contiene, concordano appuntino colla descrizione già data delle bombe, adoperato per l’attentato.

Quattro lettere scritte da Allsop furono indirizzate a Taylor per affrettare la fabbricazione di quelli ch'ei chiamava modelli. Elle son date dall’Hotel Jinzer, ove Allsop dimorava a Londra, il 17, 19, 21, 22 ottobre 1857.

Infine con un' ultima lettera, in data del 28 novembre, unita agli atti come le precedenti, Allsop fece giungere a Taylor un mandato della Posta di 2 lire, 6 scellini, 6 pence, pel prezzo dell’opera falla.

Se non che, essendo parso che Gomez desse alcuni motivi di diffidenza a' capi della trama, Orsini l’aveva rimandato a Birmingham dove Pieri doveva tenerlo d’occhio.

Di là in data del 3 novembre 1857, egli scrisse ad Orsini una lettera, in cui protesta della sua divozione, e i cui termini sebbene un po’ mascherati, mostrano abbastanza ch’egli aveva piena conoscenza di quanto si trattava di fare: «Ora, ei diceva, vengo a chiedere a Vossignoria s’ella mi crede bastantemente degno della sua fiducia per adempiere la missione, di cui ella m’incaricasse. Il signor Orsini già sa ch'io non sono indotto a far le cose per interesse; non mi fa parlare il danaro: ma solo il sentimento e l’amore, che portai sempre e porto alla patria comune.»

L’accusato di Rudio s’è del pari spontaneamente offerto a cooperare a' disegni de' suoi coaccusati. Spiegò egli stesso che. nel mese di novembre 1857, certo Carlotti gli aveva chiesto il suo ricapito da parte di Orsini, perché quest'ultimo aver potrebbe bisogno di lui. Essendo trascorse più settimane senza che tal comunicazione avesse avuto altre conseguenze, di Rudio indirizzò ad Orsini, ch'ei credeva allora a Birmingham, una lettera la quale fu aperta da Pieri il quale s’incaricò altresì di rispondervi. La risposta di Pieri che giunse a di Rudio il giorno di Natale, l'invitava a pazientare, e gli annunziava la visita d'un signore, che si recherebbe da lui.

Di Rudio scrisse allora, il 29 dicembre, una nuova lettera, nella quale, per inspirar senza dubbio maggior fiducia, egli invitava Pieri a star in guardia contro Carlotti. contro un altro Italiano, chiamato Razzi, e parlava altresì di sollecitazioni, di cui era oggetto da parte d’un impresa rivale; ed il senso di queste parole fu di poi indicato da esso nell’inquisizione «lo intendeva con ciò, ei disse, Mazzini ed i suoi amici; aveva vedute, infatti Massarenti ed altri mazziniani conosciutissimi venir a girare a me intorno.»

Nel momento in cui tale corrispondenza era scambiata tra Pieri e di Rudio, Orsini, sotto il falso nome di Allsop, aveva già lasciato l’Inghilterra per condursi a Parigi. Egli aveva fatto apporrei Londra, al passaporto di Thomas Allsop, il visto pel Belgio in data del 94 novembre 1857, e per la Francia, in data del 28 dello stesso mese. Il 29 andava ad albergare a Brusselles, all'Hótel de l’Europe nella place Royale n. I.

Alcuni giorni appresso, Bernard giungeva anch'egli a Brusselles, con un passaporto pel Belgio, consegnato il 7 dicembre dal console generale di Francia a Londra. Egli erasi riservata la cura di far pervenire a Brusselles le bombe fabbricate da Taylor; perciò aveva ricorso a certo Giuseppe Georgi, il cui fratello tiene il Caffè Suinea Londra, e che doveva recarsi a Brusselles per esservi impiegato in un caffè anch'esso nominato Caffè Suine,nella Place de la monnaie n. 6. Giuseppe Georgi entrò in Brusselles per Ostenda il 6 dicembre 1857. Alla sua partenza da Londra Bernard gli consegnò dieci. palle di ghisa (vale a dire cinque bombe, divise in dieci pezzi) dicendogli che erano apparecchi di nuova invenzione pel gas, e che un Inglese abitante nella città di Liegi, andrebbe a pigliarle da lui al Gaffe Suisse. a Brusselles. Georgi presentò infatti quegli oggetti alla Dogana, come apparecchi pel gas, e pagò i dazii che gli furono chiesti, infine giunto a Brusselles, egli attendeva invano l’Inglese, che gli era stato annunziato, quando Bernard stesso si presentò a riprendere le dieci mezze palle.

A l'Hótel de l’Europe ov'era smontato sotto il falso nome di Allsop, Orsini aveva annunziato ch’ei si proponeva di recarsi a Parigi ma che attendeva per partire l'arrivo di un amico: quell'amico altri non era che Bernard. Infatti, non appena Bernard fu a Brusselles. si vide il falso Allsop apparecchiarsi alla partenza.

Egli aveva comperato un cavallo, di cui un uffiziale delle guide desiderava disfarsi; a colui che condor doveva quel cavallo a Parigi, egli affidò la cura di portarvi altresì le bombe, deposte appresso Giuseppe Georgi. Richiesto da Bernard ed Orsini, Georgi indicò certo Zeghers, giovine di servizio al Caffè Suine. 111 dicembre, poiché il cavallo fu collocato in un boxdella strada ferrata, Zeghers, al momento della partenza, fu incaricato da Georgi di portare in un sacco le dieci mezze palle in discorso, per consegnarle all’arrivo al padrone del cavallo. Così le bombe di cui doveva in breve tempo esser fatto sì reo uso, poterono entrare in Francia. Zeghers (secondo quanto disse egli stesso) le ha dichiarate alla Dogana come apparecchi nuovipel gas, e furono giudicate di si minimo valore che nessun dazio fu riscosso all'entrata. Orsini aveva preso per recarsi a Parigi lo stesso convoglio di Zeghers. Giungendo alla stazione il 12 dicembre di mattina, consegnò a questo una carta, incaricandolo di condurre il suo cavallo in un albergo, che Zeghers probabilmente per errore disse essere in via di Rivoli, ma che non è altro, secondo ogni apparenza, che l’Hótel de Lille et d'Albion in via Sant-Honoré, 211 ove Orsini entrò in fatti il 12 dicembre.

Zeghers dichiarò nell'inquisizione che aveva consegnato le dieci mezze palle in mano ad un giovane dell'albergo; e dal canto suo Orsini racconta nel suo ultimo interrogatorio, che pochi istanti dopo il suo ingresso nell'albergo, essendo sceso nell'anticamera, ei aveva veduto tutti i pezzi di bomba distesi sopr’un divano, a lato della spazzola e della stregghia del suo cavallo, e ch'ei si era affrettato di riprenderli per portarli nella sua camera.

Il testimonio Zeghers non passò a Parigi neppur la notte del 13 dicembre. Egli ripartì per Brusselles la sera del suo arrivo, dopo d'aver speso tutta la giornata in visite, che non parvero offrire alcun che di sospetto. Tornato a Brusselles ei dichiarò avervi riveduto Bernard alcuni giorni appresso; e siccome ei gli diceva d’aver condotto a Parigi il cavallo dell'Inglese, Bernard gli rispose che lo sapeva.

Orsini non soggiornò se non tre giorni nell'Ilótel de Lyon et de Albion, ov’era smontalo giungendo a Parigi. Il 25 dicembre, s’alloggiò in un quartiere mobiliato, in via Mont-Thabor, n. 10 a terreno. Il suo cavallo, che prima era stato collocato in una cavallerizza colà vicino, non tardò neppur esso ad esser condotto in una scuderia attenente alla casa medesima.

I coniugi Moran. portinai di quella casa, depongono ch'ei faceva frequenti passeggiate a cavallo, e che, ne’ primi giorni, non riceveva se non rare visite, fra le quali però il testimonio Moran potè nominare certi Hodge e Outrequin, di cui sarà parlato più innanzi.

In breve comparve Pieri che ei spacciava per tedesco, come Orsini si spacciava per inglese, poi Gomez, condotto da Pieri come servitore di Orsini, poi finalmente di Rudio. che si dava per commesso viaggiatore negoziante di birra.

L’inquisizione ciliari nel più sicuro modo, il tempo in cui questi ultimi tre accusati lasciarono l’Inghilterra per venir a raggiungere Orsini, il loro itinerario, e le particolarità del loro viaggi.

Il 6 gennaio 1858 Pieri e Gomez partirono insieme da Birmingham, e si fermarono a Londra, nella casa di Orsini, Grafton-Street n. 2; Gomez dichiara di averei veduto, poeta sopra un camminetto, una bomba, la quale non aveva in quel momento né tubi né capsule.

Bernard gli attendeva. Da lui fu consegnato a Gomez il passaporto a nome di Pelerà Bryan Swiney. trovato più tardi in possesso di quest'ultimo. Quanto a Pieri egli era munito di un passaporto, egualmente sequestrato di poi, e nel quale il vero suo nome era stato alterato e convertito in quello di Pierey.

Dopo di aver lascialo Londra nella giornata stessa, 6 gennaio, Pieri e Gomez sbarcarono a Calais il 7 a l'ora e 45 minuti dopo mezzanotte, dal piroscafo postale inglese, proveniente da Douvres.

Essi partirono immantinente per Lilla, ove la ferrovia li condusse a mattina. Lasciato Gomez a Lilla per alcune ore Pieri prese la via di Brusselles, e vi giunse abbastanza presto per passarvi la maggior parte della giornata.

La giustizia certo non è riuscita a conoscere pienamente P uso da Pieri fatto del tempo, eh" ei passò quel giorno a Brusselles; ma è fuor di dubbio ch'egli portò di là un'altra bomba. Sia che, dopo la partenza di Orsini per la Francia, Bernard avesse depositato a Brusselles nuovi strumenti d'omicidio, sia che una delle bombe, prima venute da Londra, fosse stata dimenticata a Brusselles da Orsini o da Zeghers, Georgi era ancora depositario il 7 gennaio di una palla di metallo, che parecchi testimoni! videro in casa sua, e la cui descrizione, data da essi, non permette dubitare della sua parità o della sua somiglianza con quelle adoperale per l'attentato. Secondo la raccomandazione espressa di Bernard, Georgi doveva consegnare quella palla alla persona, che gli presentasse uno scritto, prima convenuto. Dall'altro canto, risulta dalle dichiarazioni di Gomez che il 6 gennaio nella casa di Orsini a Londra, Bernard disse a Pieri, in presenza sua, di recarsi a Brusselles a prendervi un coperchio,. che il padrone aveva dimenticato.

Pieri si presentò in fatti a Georgi nella giornata del 7 gennaio, mostrò lo scritto convenuto, e ricevette l'oggetto, in quello scritto indicato. Parecchi testimoni aggiungono in questo riguardo le dichiarazioni loro a quelle di Georgi stesso. Così, certo Meckenheim accompagnava Pieri in una visita in casa di Georgi: la moglie di Meckenheim fu incaricata da Pieri di serbare e portare l’oggetto in discorso, durante una parte della giornata, e benché quell'oggetto fosse involto in carta, e’ poterono dare sì l'uno che l’altra, su qualità, il peso e la forma di esso, le spiegazioni le più precise e più concludenti.

Pieri riprese a Brusselles, il 7 gennaio, il convoglio, che partiva per Parigi alle 7 pom. Al suo passaggio per Lilla, Gomez che l’attendevi, vi montò con lui; e la prima lor curagiungendo a Parigi, fu di recarsi alla dimora di Orsini, in via Mont-Thabor, 10.

L'accusato di Rodio non fu men esatto a rispondere all’invito, che gli fu indirizzato.

Fin dal 9 gennaio, egli aveva ricevuto in casa sua a Londra la persona di cui Pieri nella sua lettera, giunta il giorno di Natale, gli aveva annunziata la visita; e quella persona altri non era che Bernard. Egli si diè a conoscere a di Rudio, gli consegnò 14 scellini, aggiungendo che s’incaricava di fargli avere un passaporto, ed infine lo invitò a tenersi pronto alla partenza.

L’8 gennaio Bernard faceva a di Rudio una seconda visita: in assenza di lui lasciava a sua moglie un biglietto, che di Rudio doveva portare a Graflon-Street, n.° 2. ove, aveva egli detto, gli verrebbe consegnala qualcosa. Di Rudio si recò al ricapito indicalo, vale a dire all’alloggio di Orsini, e ne usci con un paio di occhiali d'oro, che doveva servirgli di segno di riconoscimento. La sera dello stesso dì Bernard tornò u na terza volta in casa di Rudio, gli diede un’altra somma di 14 scellini, col passaporto a nome di Da Sylva, sequestrato poi nell’inquisizione, ed un biglietto di viaggio sino a Parigi pel domani mattina.

Infatti il sabato 9 gennai o, di Rudio lasciò Londra, dopo di aver ricevuto da Bernard la raccomandazione di recarsi al suo arrivo a Parigi, in via Mont-Thabor 10, da Allsop, edi consegnare a quello il paio di occhiali per farsi riconoscere.

La domenica 10 gennaio nella sera, di Rudio si presentava una prima volta in via Mont-Thabor 10, senza trovarci Orsini. Tornò la mattina seguente e questa volta il trovò.

Per tal modo i quattro principali accusati erano uniti a Parigi pronti ad eseguire il crimine, da lunga mano meditato e preparato da essi. Ne’ quattro giorni, che corsero da quel momento fino all’attentato, frequenti relazioni si avviarono e numerose visite ai scambiaron fra essi.

Gomez era entrato io casa di Orsini nella qualità più apparente che reale di servitore. Come s’è anteriormente veduto, egli aveva alloggiato prima con Pieri, in via Montmartre, all'Hotelde France et de Champagne; ma in breve, vale a dire il 12 gennaio, andò a pigliare una camera all'Hótel de Saxe-Cobourg. in via Saint-Honoré, n. 223.

Di Rudio, come fu detto ancora, si spacciava per un commesso viaggiatore incaricato di vender birra, ma fin dal dì seguente alla sua prima visita ad Orsini, la sua condizione vera, rispetto a quest’ultimo, si rivelava agli occhi stessi del portinaio della casa. Queltestimonio racconta infatti che l’11di gennaio di mattina estendo entrato nella stanza di Orsini, il quale faceva colazione con Pieri, vide Gomez che li serviva, e di Audio che stava in piedi nel contegno di un mercante, il quale offre servigi; ma in capo ad un quarto d’ora, il portinaio ch’era uscito rientrò d’improvviso, e questa volta trovò di Audio seduto a mensa, daccanto ad Orsini ed a Pieri, ed in atto di ragionar liberamente con essi, mentre Gomez, appoggiato al caminetto, ascoltava il loro colloquio.

Un altro fatto mostrerebbe al bisogno l’intrinsichezza, che fio da quel momento, correva fra essi; di Audio non aveva alloggio a Parigi, e Pieri s’incaricò di procacciargliene uno; egli il condusse all'Hotel de Franco et de Champagne, e gli diede il poeto che Gomez stava per lasciare.

Dal di stesso o dal dì seguente dell'arrivo di Pieri e Gomez a Parigi, Orsini comperava una pistola revolver dall’armaiuolo Deviarne. È quella stessa che dopo l’attentalo fu raccolta sul selciato della via Rossini. Risulta dalla deposizione del testimonio Plondeur, impiegato presso Deviarne, che facendo simile acquisto, Orsini era accompagnato da Pieri; ne risulta inoltre che abbisognando la pistola di cui trattasi, di qualche riparazione, Gomez fu incaricato di andarla riprendere il dì 12 gennaio, mercoledì. Pareva avesse gran premura, disse il testimonio, e mostrava grande impazienza per ottenere che quell'arma fosse gli consegnata senza indugio. —

Qui l’inquisizione segue a parlare delle pistole, della loro provenienza e prezzo; indi continua così:

Non rimaneva più se non a caricare le bombe, strumenti principali del delitto, che volevasi consumare. Sembra che la polvere fulminante adoperata a quest'uso, sia stata fabbricata da Orsini; o()almeno col suo concorso. Infatti l’inquisizione fece conoscere, che in Inghilterra egli aveva avuto relazioni con un professore di chimica, e che aveva ricevuto lezioni e consigli, de' quali quest'ultimo non avrebbe mai sospettato lo scopo. Dall’altro canto, l’accusato Audio dichiara che Orsini diss’egli sempre ch’era stato egli che aveva inventata e fabbricata la polvere, dalla quale si era servito; ed aggiunge che l'ultima volta che Orsini venne da Londra a Birmingham egli aveva l’interno delle mani e le punte delle dita abbruciate, e che aveva detto a Pieri ciò preveniva dalle sue esperienze.

Ciò null'ostante Orsini non confessa d’essere stato l’autore di questa fabbricazione; pretende che la polvere fulminante sia stata fatta a Londra da certo tale, ch’egli non vuol nominare, ma può convenire di averla portata egli stesso da Londra nel Belgio, poscia dal Belgio a Parigi. Indi egli entrò in particolari molto circostanziati sulle precauzioni che dovette adoperare intal faccenda. L'Orsini aveva collocata quella sostanza pericolosa nella sua sacca da notte, dopo d averla involta con un pannolino e con carta, che bagnava di tanto in tanto. L’involto così bagnato non pesava meno di due libbre inglesi.

Nel tempo che soggiornò nella via Mont-Thabor, egli si occupò di far seccare la polvere fulminante prima esponendola all’aria, poscia siccome non si asciugava con tanta prestezza, mettendola vicino al fuoco. Quest’ultima operazione era pericolosissima; l'Orsini sta-vasi davanti al cammino, coll'orologio in una mano ed un termometro nell'altra a fin di misurare con precisione le condizioni di tempo e di calore, nelle quali la polvere fulminante poteva rimanere al fuoco senz’accendersi. «lo arrischiava» disse egli stesso nel suo interrogatorio «di far saltar in aria me e tutta la casa.» Poiché le bombe furono caricate ci rea la metà della loro capacità interna, l’Orsini le chiuse col mezzo di viti adattate ai buchi praticati nella parte superiore di ciascun proietto, inoltre dichiara che fu aiutato in questa operazione da Gomez, la mano del quale più ferma della sua, faceva girare le viti con più forza.

Era giunto alla fine il 14 gennaio. lu quel giorno Orsini uscì di casa a 9 ore e 55 minuti del mattino, in una vettura della Compagnia imperiale portante il n. 5180, e condotta dal cocchiere Barthey; si recò prima nella via Saint-Denis 277, presso l'Outrequin, ove domandò se vi erano notizie di Bernard: essendo negativa la risposta, egli parve molto indispettito. Indi si fece condurre nella via Miromesnil, poscia all’Hotel de Franco et de Champagne, presso Pieri e Rudio, ove congedò la carrozza, Allora erano 11 ore non paranco suonate.

Dal canto suo Gomez venne a visitare Pieri e Rudio all’Hotel de France et Champagne; giungevi a cavallo, e mentre essi facevano colazione. I coniugi Moran portinai nella via Mont-Thabor n.0, dichiararono di fatti che in quel giorno Gomez era uscito verso il mezzogiorno, montato sul cavallo d’Orsini, e non ritornò che verso le 3 ore. Morand ha veduto l'Orsini e Gomez uscire ancora fra le 4 e le 5 ore. Si avverò pure che verso l’ora stessa, Orsini si recò una seconda volta presso Pieri e Rudio.

Fra le 6 e lo 7 ore di sera, Orsini rientrò in casa sua insieme con Gomez. che l’accompagnava o che l’aveva aspettato per alcuni istanti sotto la porta. Eglino furono ben presto raggiunti da Pieri e Rodio; poi infine, uscirono insieme tutti quattro. Allora appunto si rivolsero eglino verso il teatro dell’Opera.

Circa la precisa ora di quest’ultima uscita, vi ba contraddizione nel dire degli accusati e nelle disposizioni di parecchi testimoni. Gli accusati durarono fin all’ultimo a sostenere eh erano 8 ore, quand’eglino lasciarono la via Mont-Thabor; ma il testimonio Barge, cocchiere al servizio di un inquilino della casa d’Orsini trovavasi in quel momento sotto la-porta e li vide uscire tutti quattro. E notò perfino che Gomez recava, nella mane sinistra, qualche cosa in un fazzoletto a foulard rosso, e il testimonio afferma nel modo più positivo che allora erano 7 ore o meno.

La dichiarazione di Barge trova riscontro in quella ancora più grave di un altro testimonio, Kein, facchino incaricato della spazzatura delle vie. Nella sera del 14 Kein aveva a stendere sabbia nel sito riservato al passaggio dell’imperatore all’entrata dell’Opera. Verso le ore 7 e mezzo, ei fece uscire quasi a forza in onta alle loro ingiurie e minacce, due individui, i quali più volte erano penetrati nel passaggio riservato, e volevano rimanervi senza tener conto delle sue osservazioni. Confrontato coi quattro accusati, Kein non riconobbe né Orsini né Gomez, ma dichiarò riconoscere positivamente Rudio e Pieri. Comunque sia, la presenza dei quattro accusati sul luogo del delitto non potè esser da loro negata ancorché credessero poter attenersi ad un sistema assoluto, di negativa.

Pieri e Gomez infatti furono arrestati, il primo alcuni minuti innanzi l'attentato, nella via Lepelletier; il secondo alcun tempo dopo presso il trattore Broggi.

Rudio si limitò a un tentativo di negazione, nel quale tuttavia non insistette. Quanto a Orsini, la ferita ond'era offeso avrebbe bastato a rendere impossibile ogni negativa. Ma, inoltre e fin dalle prime verificazioni, erasi ottenuta una prova manifesta, non solo della presenza d'Orsini sul luogo, ov’era seguito l’attentato; ma eziandio della parte, ch'egli aveva preso a quell'esecrabile delitto.

Orsini era nel numero de' feriti che ricevettero i primi soccorsi nella farmacia Vautrain, posta in via Laffitte, tra le vie Rossini e di Provenza: un testimonio sig. Decailly, gli diè il braccio mentre usci, va. Da quella farmacia egli lo condusse alla stazione delle vetture, che si trova all’angolo delle vie Laffitte e di Provenza. Orsini non negò e non potea pensare che avrebbe avuto interesse a negare tal fatto. Egli era, d'altra parte formalmente riconosciuto dal testimonio Decailly. Appunto in quella via per cui bisogna necessariamente passare volendo andare dal teatro dell’Opera alla farmacia Vautrin. s’era troiata la medesima sera dell'attentalo, dapprima una bomba carica, poi un revolver: inoltre la bomba era stata raccolta vicino ad una, striscia di sangue, sgorgato abbondantemente da una ferita, e in fatti si riconobbe che la ferita di Orsini, benché poco grave, indicava per la sua stessa natura e pel atto della lesionò., come avesse dato gran copia di sangue. Finalmente il revolver trovato nella via Rossini, messo in presenza del testimonio Plondeur, fu costretto a confessare esser egli colui che l’aveva comperato.

Ad onta di tali fatti, che lo accusavano si chiaramente, Orsini persiste lungo tempo a negare la sua colpa. Giova qui ricordare come sia stato costretto dall’evidenza delle prove e delle confessioni diventate necessarie e nulladimeno rimaste ancora imperfette.

Gomez è il primo tra gli accusati, il quale abbia manifestata l'intenzione di dir il vero, ma le sue confessioni non seguirono se non successivamente. Mentre confessava alle prime, d’aver conosciuto il progetto dell'attentato, egli allegava come quel disegno non gli fosse stato comunicato che il 14 gennaio, nel momento della partenza dalla via Mont-Thabor, protestando inoltre aver egli soltanto assistito al delitto senza avervi dato opera alcuna. Ben presto fu costretto a confessare d’aver visto le bombe in casa d’Orsini, ma senza sapere ancora che cosa fossero, poi confessa che Orsini gliene aveva data una da portare, e che, giunto sulla piazza. Vandóme, aveva gli detto come si trattasse di uccidere l’imperatore con quelle bombe; che gli aveva consegnalo nel tempo stesso un revolver per difendersi in caso fosse assalito; e che finalmente nella via Lepelletier e’ gli aveva ritolta di mano la bomba, che portava per gettarla egli stesso davanti la carrozza dell'Imperatore.

Queste dichiarazioni, benché piene di reticenze, eran tali da compromettere gravemente Orsini. La sola presenza di quest’accusato dinanzi il giudice inquirente, al cui cospetto fu confrontato con Gomez, bastò a costringere questo a ridirsi; ma il dì appresso libero da quell'influenza, ritornò alle spiegazioni di prima e le ha perfino dappoi compiute. Rudio l’aveva precorso su questa via, non senza aver egli pure usato reticenze e menzogne nelle sue successive dichiarazioni. Dopo d’aver negato sulle prime, ogni sorta di partecipazione all'attentato, e provato di spiegar la sua presenza a Parigi, e le sue relazioni con Orsini, mediante il suo desiderio d'averne una lettera di raccomandazione pel Portogallo, dove aveva a condursi il 15 gennaio, Rudio confessa che Bernard lo mandò da Londra per far qualche cosa con Orsini; che aveva accettato la sua proposta credendo di non trattarsi che di un moto da provocarsi in Italia; che uscito d’inganno a Parigi soltanto, «rasi creduto troppo legato per dar indietro; che finalmente innanzi di partire dalla via Mont-Thabor, Orsini gli aveva consegnato una bomba, raccomandandogli di gittar-la contro la carrozza dell'Imperatore, non appena avesse udito il primo scoppio. Ma quest'ultima confessione era seguita dalle più inammissibili allegazioni. Volendo dargli fede, Rudio aveva accompagnato i suoi coaccusati soltanto fino al boulevard. Giunto in capo della via Lepelletier, egli era andato nella direzione opposta, e aveva gettato la sua bomba nella Senna, al ponte della Concordia. Nel suo interrogatorio del 24 gennaio, compiè finalmente le sue confessioni: prima della partenza erasi convenuto delle parti, che ognuno aveva a fare: Gomez ed egli ricevettero le due bombe più grosse. Orsini ne tenne due più piccole: Pieri prese la quinta, della grossezza di quelle di Orsini.

Si convenne che Gomez lancerebbe la prima bomba, Rudio la seconda; che Orsini opererebbe da poi, e Pieri da ultimo. Giunti in via Lepelletier i congiurati, all’avvicinarsi della carrozza dell’imperatore, eransi collocati ai loro posti in faccia all’entrata principale del peristilio, tra le case e la folla dei curiosi.

Tosto dopo il primo scoppio causato dalla bomba gettata da Gomez, Orsini disse a Rudio: Scaglia la tua Questi la lanciò in fatti, poi si rifuggi in una piccola osteria, dov'egli udì il rumore del terzo scoppio, e d’onde potè uscire favorito dal tumulto.

Il giorno stesso 24 gennaio Gomez si risolse anch’egli a dire la verità intiera sulla distribuzione delle bombe, sul disegno fatto fra gli assassini, e la sua esecuzione, e sulla parte da lui presa nel gettar la prima bomba; e confessò pienamente le dichiarazioni del suo coaccusato Rudio.

Queste sono le rivelazioni e le prove esterne, raccolte dall’inquisizione, che si opposero ad Orsini nel suo interrogatorio del 24 gennaio 1858.

Vinto dall’evidenza, ma non ancor domato, assunse la parte del millantatore, dichiarando di aver risoluto infatti di uccidere l’Imperatore per conseguire, mediante una rivoluzione in Francia, l’indipendenza d’Italia; ed aggiungendo d’aver formato da solo quel progetto, assumerne tutta la responsabilità, e aver fatto fabbricare le bombe fuori di Francia, ma non voler dire una sillaba di più. Poi tornando a pensare alla sua propria persona, ebbe cura d'aggiungere ch’ei non aveva gettato bombe, e che senza dubbio la sera onde aveva udito lo scoppio, era stata lanciata da un italiano, che si trovava colà per suo ordine, a cui egli l’aveva consegnata un istante prima, e che non era conosciuto d’alcuno de' suoi complici, nemmeno da Pieri.

Nel medesimo interrogatorio, Orsini aveva affettato generosità verso i suoi coaccusati, i quali potevano, diceva egli, parlar contro di lui, ma contro i quali ei non voleva dir nulla. La riflessione lo ricondusse ad altri pensamenti, come spiegò egli medesimo, quando comparve per l'ultima volta al magistrato inquirente. Ei dichiara dunque oggidì aver Gomez lanciato la prima bomba, Rudio la seconda, ma ch’egli non ne gettò alcuna; e volendo sfuggire su questo punto all’evidenza, che aveva a vincerlo, rimise in campo la favola ridicola di quel complice sconosciuto, che avrebbe preso il suo posto all'ultima momento.

L’accusato Pieri aveva immaginato nel suo primo interrogato-rio, una favola ancora più inverosimile; e vi persistette sino alla fine dell'inquisizione. Volendo dargli fede, ei parti da Londra per imprendere un viaggio in Italia; egli ricevette la visita di Orsini, sotto il falso nome di Allsop; quest'ultimo che non lo conosceva, gli parlò di una invenzione ond’era autore, vale a dire di una bomba fulminante della quale invenzione avrebbe avuto bisogno egli stesso pe’ progetti che lo conducevano in Italia. Un modello di quella bomba gli era stata portata dal preteso Allsop,. nella mattina del 14 gennaio, e si stabili di ritrovarsi alla barriera de' Martiri, per esperimentarla insieme con un revolver, che Allsop aveva comperato. Ma Alleop non venne alla posta data: costretto a rientrare a Parigi ei tenne indosso il revolver carico e inescato, e la bomba fulminante pronta a scoppiare. Ei ei condusse con quei si pericolosi oggetti presso un trattore, dal quale pranzò, e li serbò parimente nel suo passaggio su’ boulevards. Finalmente avendolo condotto il caso ne’ dintorni dell’Opera, e vi fu incontrato dall'ufficiale di pace Hébert, che credette di doverlo arrestare.

Niuna seria confutazione è da farsi a si miserabili invenzioni, e si può dire che equivalgono ad una confessione contro l’accusato, che osa presentarle alla giustizia.

In conseguenza Giuseppe Andrea Pieri, Carlo di Rudio. Antonio Gomez, Felice Orsini e Bernard Simone Francesco, quest'ultimo assente, sono accusati:

I. Orsini, Gomez, Pieri, di Rudio e Bernard d avere nel 1857 e 1858 concertata e fatta una risoluzione di operare, collo scopo: primo d’attentare alla vita ed alla persona dell’imperatore; secondo d’attentare alla vita o alla persona di uno de' membri della famiglia imperiale, la quale risoluzione d'operare fu seguita da un atto commesso o cominciato per prepararne l'esecuzione;

II. Orsini, di Rudio e Gomez d’avere il 14 gennaio 1858, commesso un attentato contro la vita e la persona dell'Imperatore; Pieri e Bernard di essersi al tempo medesimo fatti complici di quell’attentato: primo dando agli autori dell’attentato istruzioni per commetterlo; secondo procacciando loro armi, istruinenli e altri mezzi che servirono all'azione, sapendo che vi doveano servire: terzo aiutando e assistendo scientemente gli autori dell’attentato nei fatti, che lo preparavano, agevolarono e consumarono.

III. Orsini, di Radio e Gomez d’avere il 14 gennaio 1858 commesso un attentato contro la vita e la persona di uno dei membri della famiglia imperiali, Pieri e Bernard d essersi al tempo medesimo real complici di quell’attentato.

IV. Orsini, di Rudio e Gomez d’avere il 14 gennaio 1858 volontariamente e con premeditazione commesso omicidio sulle persone dei signori Battv, Riquier, Raffio, Haas, Chassard, Dahlen, Wateau e Dusaangé; Pieri e Bernard d’essersi al tempo medesimo, resi complici di detti omicidii;

Delitti previsti dagli articoli 59, 60, 86, 89, 295, 296, 297 e 372 del Codice penale.

Fatto alParquet della Corte Imperiale di Parigi il 13 febbraio 1858.

Il procuratore generale imperiale

ChaizD’ Est -Anos.


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CAPITOLO VII

Marzo, Aprile

Addì 4 marzo aprivansi in Genova le pubbliche aringhe degli avvocati difensori degli accusati per l’ultimo tentativo, ch’ebbe correlazione con quello operato dall’infelice Pisacane in Sicilia. Quegli avvocati ebbero molto a distinguersi nei loro giudizii e nel trattare la legge con somma abilità.

Verteva intanto in Torino, in modo assai aspro, la questione della Legge Deforesta presentata alla Camera elettiva: legge di restrizione della stampa e del mandato dei giurali provocala dall’allentato Orsini, da Cavour consegnata ad una Commissione coi relativi documenti, incaricata di offrirne giudizio.

Grande scalpore menavasi pure colà per l’affare del Cagliari non ancora assolto dalla Corte di Napoli per quantunque lo avvicendarsi di note diplomatiche tra i due governi giungesse a tanto da sperarsi dagli uni un prossimo scioglimento amichevole, e dagli altri da temersi una prossima rottura.

Nel Regno lombardo-veneto intanto attendevasi con alacrità allo studio ed alla attuazione di quanto potesse tornare utile e decoroso alle sue provincie. Le strade ferrate in primo luogo e le società commerciali ed industriali, non che tutto ciò che rifletteva direttamente od indirettamente alle arti monumentarie, trovavano nei Municipii, nei privati, e nel solerte animo del principe Ferdinando Massimiliano, copiosa esca di miglioramenti. E il Municipio di Venezia a mezzo del suo Podestà, nob. Marcello, presentava, nella pubblica udienza del 16, data nel Palazzo ducate, a S. A. I. tre indirizzi di ringraziamento. Il primo pel favore di avere a pubblico uso conceduto il viale del Giardino imperiale; il secondo pelle disposizioni prese sulla Stazione e Chiesa di S. Lucia, e la istituzione della Commissione eletta ad illustrare i monumenti e curarne la conservazione; il terzo pel benefico impulso impresso alla navigazione ed al commercio, e per la cura rivolta a' monumenti, ed in ispecie al Palazzo Ducate. S. A. I. avrebbe risposto a quegl'indirizzi le seguenti parole:

«Sono lieto di ricevere questi indirizzi dalle sue mani e di udire dalla sua bocca che Venezia conosce che tutti i Miei pensieri sono rivolti allo svolgimento materiale e morale di questa città storica. È mio dovere, mentre che preparo i mezzi di futura prosperità, di mai dimenticare il passato glorioso di questa metropoli marittima. Questo palazzo in breve ristaurato, e restituito ora dal nostro Sovrano agli alti solenni di Governo, darà testimonianza al mondo che Venezia vive e vivrà.»

Per quantunque fosse atto gentile è doveroso il testificare al principe Massimiliano sentimenti di grato animo per lo amor ch’egli portava specialmente alle nostre arti belle, e per le di lui cure veramente paterne nello alleviare il peso della miseria ai poverelli ed ai danneggiati dalle pubbliche atmosferiche calamità, ai quali con larga mano ed ovunque elargiva ingenti somme, pur non pertanto era anche doveroso lo esternare sensi di patria gratitudine a que' filantropi che primi vollero onorata la memoria dell'illustre concittadino allora allora mancato a vivi, Felice Bellotti. E si compiva quest’atto, perocché, allorquando i signori Gio. Gherardini, Gio. Antonio Maggi, F. Andrea Verga, presidente dell’istituto di Milano, Giuseppe Mongeri, f. f. di presidente dell’Accademia di belle arti, e B. Biondelli, direttore del Gabinetto numismatico, fecero agl’Italiani l’invito ad un’Associazione per l'erezione di un monumento a Felice Bellotti, eglino, quali promotori, trovarono dappertutto un’eco propizia di laude e di plauso. Ed eravi ben donde, avvegnaché, come esprimevasi il suddetto Invito, «la perdita, che testé amareggiò la città di Milano dell’integerrimo suo figlio, dottor Felice Belletti, che alla eminente facoltà del poeta, unendo, con difficile e non comune accordo, la dottrina di filosofo, arricchì l'italiana letteratura di una serie preziosa di monumentali lavori, e lasciò un" eredità universale d’affetti nella ricordanza delle angeliche virtù del suo cuore, faceva nascere in molti suoi concittadini il vivo desiderio di onorarne la sempre cara memoria, erigendogli un monumento, il quale valesse ad attestare ai posteri la gratitudine vivamente sentila dai contemporanei.»

Nel Regno delle Due Sicilie, mentre un decreto Sovrano del 12 marzo fondava una nuova casa della Compagnia di Gesù in S. Francesco Saverio di Pozzuoli, incaricandola della cura religiosa e morale ed artistica dei servi di pena, ristretti nei bagni della provincia di Napoli, ferveva, a scandalo di tutti, la questione artistico-politica del maestro Verdi. Oggetto di tale questione fu un’opera dal celebre maestro musicata per le scene del S. Carlo. Sapendo egli quanto si fosse severa ed oltre ogni credere irragionevole la Censura politico-teatrale di Napoli, mandò alcuni mesi prima la copia del libretto da musicarsi ed ottenne l’approvazione. Verseggiato il libro, lo vesti delle sue divine note, e lo recò, compito che fu, egli stesso alla Impresa Napoletana. Quel libro portava il titolo seguente: Una vendetta in domino. Ma la Censura politica, avutolo nelle mani, armossi di un rasoio tagliente, e senza pietà e riserbo tagliò giù da orba; titolo, epoche, località, situazioni, versi, scene, tutto fu tagliato, deturpato sacrilegamente ed assassinato. In somma divenne un altro libro senza nesso e sotto altro titolo. Il nuovo titolo era: Adelia degli Adimari. Verdi rifiutò di porre la sua musica sotto quella tavolozza di mille colori, sotto quella mostruosità. La Impresa allora propose al maestro di scrivere un nuovo libretto per un altro anno, ma le condizioni fatte non furono accettate da lui, epperò fecelo citare avanti il Tribunale di Commercio per ispese, danni ed interessi, con arresto personale. Il giornalismo del Regno delle Due Sicilie non potendo dir verbo sulla Censura politica, perché severamente vietatole sotto pena di processi e prigionie, si scagliò sull’impresa e la sferzò a destra ed a sinistra senza compassione, come senza compassione veniva rovinato il primitivo libretto del Verdi, quantunque fosse già stato, come dicemmo, preventivamente approvato da quella Censura. L'esempio di fulminare la Impresa Napoletana fu seguito anche dal giornalismo dello stato Pontificio, dei Ducati, e del Regno lombardo-veneto, salvando sempre la Censura politica di Napoli che fu la sola origine di tanto scandalo. Epperò fu quella la prima volta che il maestro Verdi, mentre in tutti i paesi dell'Europa, ove ammirasi il suo grande genio musicale trovò onori e ghirlande di fiori, in Napoli invece trovò liti, minaccie e guai! La liberale Euterpe europea non lasciò invendicato quel fatto cotanto cieco e brutale.

Comparve alla luce in Torino in sulla fine di questo mese un opuscolo del napoletano professore Scialoja intitolato: I bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi, il quale ebbe qualche importanza politica facendo il confronto della prosperità de' due paesi in consonanza colle leggi e col reggimento, nelle Due Sicilie assoluto, nel Piemonte costituzionale. Il sullodato professore trasse da questo confronto moltissimi corrollarii di altissima significazione politica. Il biasimo cadde su Piapoli, epperò il governo di quel regno se ne risenti, se ne offese. In risposta quindi a quell’opuscolo vennero affidate alla stampa in Napoli sette confutazioni, le quali però non valsero ad eliminare la impressione prodotta dallo scritto dell’emigrato Scialoja. I campioni avversarli furono: Agostino Magliani, G. Scalamandré, ufficiale al Ministero delle finanze, monsignor Salzano, consultore di Stato, Nicola Rocco, Pasquale Ceruso, canonico. Ciro Scotti, Federico del Re.

Nella Toscana, dal pubblico Ministero, addì 23 marzo nel processo del 30 giugno 1857 soltanto in quella data compiuto per l’attentato di Livorno, vennero condannati a morte gli accusati Giovanni Bigazzi, Giuseppe Camaiti, Antonio Chiti. Luigi Guelfi. Giovanni e Settimo fratelli Magnani, Bartolommeo Nelli, Giuseppe Nicoletti, Salvatore Pieroni e Francesco Rusconi. Alla casa di forza per anni 7, Ranieri Berlini, Costantino Cardini, Oreste Cremoncini, Santo Mcnicagli, Vincenzo Rondino, e Antonio Sardi; e per anni 12, Andrea Casareni, Guglielmo Pagani, ed infine per anni 15, Giorgio Pulcinelli. Tutti questi sciagurati vennero colpiti sotto l'atto d’accusa, che tacciavali di spirito di rivolta a mano armata contemplato dal codice criminale militare.

Addi 30 marzo, più che l’opuscolo dello Scialoja. menò grande rumore la condotta del governo di Napoli relativamente alla questione del catturato Cagliari Quella condotta fu oggetto più volle d’interpellanza al parlameato sardo, o la inquietudine negli animi crebbe a dismisura allorquando s’intese, aver il governo di Napoli respinta l'ultima nota del conte Cavour. Le relazioni diplomatiche fra i due governi quindi erano attaccate ad un filo che minacciava, da un momento all'altro, di spezzarsi. Laonde Cavour, considerando l’affare del Cagliari un argomento interessante non solamente le due potenze litiganti, ma sibbene ancora tutte le potenze marittime, risolse di spedire a queste ultime un suo Ultimatum, che porta la data del 30 marzo 1858, e che noi offriamo,per via di riepilogazione.

Il signor di Cavour incomincia col far conoscere l'importanza della questione. «Ella è questa una questione» egli dice «Internazionale che interessa la sicurezza del commercio marittimo di tutte le nazioni. Imperciocché si tratta della violazione flagrante di una legge comune a tutte le nazioni, e alla quale niuno Stato può sottrarsi senza correre il risico di subire tutte le conseguenze, alle quali giustamente attira una deviazione volontaria dei principii del diritto delle genti. Le spiegazioni cangiate sino qui tra i due gabinetti di Torino e di Napoli essendo state infruttuose, è imminente un grave conflitto. Imperciocché il governo Sardo ha il diritto di una riparazione, ed è deciso di ottenerla a qualunque costo, in qualunque maniera, fosse anche per rappresaglia, onde avere una soddisfazione per l'oltraggio fatto alla sua bandiera, ed una giustizia completa per lo spoglio fatto a' suoi soggetti.» Qui Cavour espone i fatti costituenti la cattura del naviglio già per noi narrati; ed indi prosegue: «La questiono è evidentemente internazionale, perché si tratta per la Sardegna della proiezione dovuta alla sua bandiera, al suo commercio marittimo, alle proprietà de' suoi nazionali.»

Qui cita i dispacci 16 e 18 marzo ed i dispacci napoletani del 30 gennaio;-ed indi pone in luce le conseguenze che emanerebbero dal sistema di difesa adottato dal governo di Napoli. «Ne seguirebbe» egli soggiunge «che i navigli da guerra avrebbero il diritto di catturare i navigli mercantili in libero mare ed in istato di pace, senza che si avesse loro a rimproverare un alto criminale o un allo ostile; ne seguirebbe inoltre che il fatto accidentale e transitorio di una rivolta di qualche passeggiere di un naviglio mercantile contro l’autorità del capitano, darebbe il diritto ai navigli da guerra posti alla sorveglianza dei mari di corrergli sopra, di catturarlo, e di farlo dichiarare di buona presa, anche dopo la fine dell'alto di ribellione ed il ristabilimento dell'ordine. Queste conseguenze sono mostruose.» Cavour niega assolutamente la regola invocata dal ministro Caraffa, che il fatto che originò la cattura del Cagliari sarebbe esclusivamente di competenza dei tribunali ordinarli, non potendo emergerne che un’azione civile, e perciò non poter essere il soggetto ti rappresentanze diplomatiche.»

Il gabinetto sardo sostiene in contrario «che si tratta di un punto di diritto puramente nazionale, che non può essere utilmente discusso che per via diplomatica.» Egli stabilisce «che il governo napoletano è incorso in una grave responsabilità, e che non può essere ammesso né in diritto né in fatto a coprirsi colla indipendenza de' suoi tribunali, o a ritirarsi dietro l’azione libera dei magistrati, perché si tratta di un atto eseguito dai navigli da guerra della marina reale delle Due Sicilie, e di una decisione del Consiglio delle prese di Napoli. Ora, i navigli da guerra della marina reale sono commissionati dal Re, ed il Consiglio delle prese è stato creato espressamente per dichiarare la validità della cattura. Egli è dunque il governo napoletano che ha egli stesso applicato in istato di pace delle leggi e delle istruzioni che non sono fatte che per uno stato di guerra.»

Il Memorandum svoglie abilmente le conseguenze di tale confusione. «Il Sovrano» egli dice «che ha commissionato i navigli da guerra è, checché se ne dica, il vero giudice della validità di una cattura operata da essi. Quale garanzia resterebbe egli agli stranieri cui vogliono spogliare le loro proprietà? Vi è là un disordine, che, rigorosamente parlando, può soltanto scusarsi in istato di guerra, ma che è incompatibile in istato di pace. Un Consiglio delle prese non può essere considerato che solamente come un instrumento di forza: egli è raramente e difficilmente un istrumento di giustizia. Gli stranieri che vogliono sottomettere in tempo di pace a simile giurisdizione, imposta dalla forza, non vi troveranno alcuna garanzia. Da ciò deriva, per il governo di questi stranieri, l’obbligo d’intervenire onde proteggerli, onde ricorrere, se fa d’uopo, sino alle rappresaglie.»

Il Memorandum chiama in appoggio delle sue dottrine l’autorità di Grozio nel suo Diritto delle genti, e quella di Wheaton ne’ suoi Elementi di diritto internazionale. «Gli è per questi motivi che il governo della Sardegna ha voluto, prima di andare più oltre, fare un appello a tutti i suoi amici ed alleati, e specialmente alle potenze marittime. Il governo sardo resistendo alle pretese del governo napoletano, non difende mica solamente i suoi proprii interessi, ma sibbene difende la causa di tutte le marine mercantili ed i principii salutari che hanno ricevuto una solenne consacrazione ed un nuovo sviluppo al Congresso di Parigi. Non sarebbe egli strano che l’Europa, dopo di avere proclamato il principio, che la bandiera protegge la mercanzia, anche in tempo di guerra, tollerasse poi le pretese di un governo che non vuole che la bandiera protegga gl’individui in tempo di pace?»

Il Libro Azzurro (Bluebook) pubblicato a Londra sull’affare del Cagliari manifestò ai pubblici commenti tutti i carteggi e le note dei gabinetti di Londra, di Torino e di Napoli sul catturato naviglio. Venne in luce pur anco la nota di Cavour diretta al gabinetto di Napoli e che fu rifiutata, per essere troppo dura, aspra, violenta all’asserire del ministro Caraffa. Quella nota terminava veramente in modo minaccioso.

Il governo di Napoli intanto imitò quello di Torino, e mandò egli pure un suo Memorandum a tutte le potenze estere. In quel documento egli si difendeva ribadendo le ragioni esposte dal ministro Cavour. Egli asseriva «che in seguito agli atti di ostilità commessi dal Cagliari a Ponza ed a Sapri, il governo napoletano aveva il diritto d’inseguire il bastimento e di sequestrarlo tanto in alto mare, quanto nelle acque territoriali delle Due Sicilie. La legalità della cattura traeva seco la legittimità dell'arresto delle persone, trovate a bordo della nave sequestrata, e ne risultava. secondo quel Memorandum, che tanto riguardo all’un punto, quanto riguardo all'altro, le Autorità napoletane agivano in conformità al loro diritto.»

Terminava col dire: «che tutte quelle questioni non potevano essere agitate se non dinanzi ai giudici locali competenti, e che non v’era alcun Tribunale, il quale potesse legalmente risolverle.»

A questa nota, ne tenne dietro un’altra del conte di Cavour, spedita alle potenze estere. Veniva in essa combattute vittoriosamente le ragioni della nota napoletana. Epperò il Cagliari, mercé quanto ne dissero i periodici ed i Gabinetti di tutte le nazioni, acquistò un’immensa notorietà. La Gran Brettagna più ch'ogni altra potenza favoreggiava la causa del Piemonte emettendo quasi le stesse opinioni sulla cattura di quel naviglio. L’Inghilterra nondimeno ottenne da Napoli tutte le soddisfazioni che aveva domandate, e la libertà accordata ai suoi sudditi trovati sul Cagliari ed imputati dello stesso gravame che i sudditi sardi, dimostrò in primo luogo che il governo napoletano non voleva né poteva lottare col governo inglese, ed in secondo luogo offriva campo al governo sardo di dedurne la seguente conclusione:

«Che se innocenti furono trovati i sudditi inglesi e quindi lasciati in libertà, innocenti pure dovevano essere considerali i sudditi sardi che formavano l'equipaggio del vascello in litigio e per ciò dovessero essere rimandati alle loro case in uno al catturalo vascello.»

Mentre dalla cattedrale di Velletri veniva rubata nella settimana santa l'immagine della Madonna con tutti i suoi preziosi adornamenti, occasionando grande tumulto nella popolazione di quella città rozza e religiosa, e scandali ed offese ai Gesuiti, su quali cadeva immediatamente il sospetto del sacrilego delitto; mentre il luogotenente di vascello 'della ligure marina signor Arminjon esperimentava in Genova (7 aprile) per ordine ministeriale le granale a percussione di sua invenzione e che l'esperimento coronasse di plauso il felice suo ritrovato, quantunque per l'accidentale esplosione di una di esso granale restassero mortalmente colpiti Gio. Cogliolo, capo-cannoniere, Lorenzo Desallo, caporale d'artiglieria, ed altri tre degli astanti marinai venissero gravemente feriti; mentre i condannati pei fatti di Genova, in numero di 15 e fra essi il sig Savi, venivano, il 10 aprile, dalla cittadella di Alessandria tradotti alle carceri del Senato di Torino, concependo per ciò non infondate lusinghe intorno a misure di clemenza che sarebbono state prese a loro riguardo; la legge Deforesta, riguardante alla restrizione della stampa e del mandato dei giurati, provocala dalla Francia per l’attentato Orsini, veniva respinta dalla maggioranza della Commissione nominata dal Parlamento Sardo coll'incarico di esaminarla e riferirne. Ma la minoranza di detta Commissione formulonne un’altra, la quale avea per iscopo di colpire colla reclusione la cospirazione o l’attentato contro la vita di un Sovrano o di un capo di un governo estero, l'apologia della cospirazione, dell’attentato o dell’assassinio politico; inoltre formulò un’altra legge più ristretta snlle attribuzioni e sulla scelta dei giurati. Quella legge della minoranza della Commissione trovò molti avversari nel seno del Parlamento e nel giornalismo della capitale e delle provincie. La lotta fu possente sostenuta da tutte le opinioni con somma abilità nell’aula parlamentare sarda. Gli oratori si disputarono il terreno a palmo a palmo per circa due settimane consecutive. Cavour, Revel, Brofferio primeggiarono nell’arringa. Revel accontentò il suo partito e i conservatori di tutto il mondo; Cavour non piacque, ma convinse e conservatori e liberali, ma non ottenne il favore dei repubblicani; Brofferio piacque, ma non convinse: piacque a tutti i partiti, ma disgustò i gabinetti di Francia, d’Austria e di Russia. Vennero riportati gli ultimi periodi del suo discorso quasi in tutti i giornali esteri, là ove la stampa non era cotanto ristretta, come a Napoli. a Roma, nei Ducati e nel Regno lombardo-veneto: essi dicevano: «Si è molto parlato dei pericoli dell’isolamento. Noi siamo uno Stato piccolo, ma forte per la sua posizione. Vittorio Emmanuele è il capo morale di una grande nazione, egli è rispettato e temuto in Europa. La bandiera tricolore raddoppia la nostra forza. Noi dobbiamo, più che in altri luoghi, cercare i nostri alleati in Italia. Abbiamo fede nella libertà e noi saremo forti. Siamo forti e noi saremo liberi, noi saremo italiani.» Ma finalmente nella tornata del 28 aprile 1858 la tanto contrastata legge Deforesta venne dalla Camera elettiva approvata con alcuni emendamenti da 110 voti contro 42.

Prima di abbandonare questo argomento siamo convinti della necessità di riportare il concetto tutto intiero del discorso tenuto dal conte Cavour, nella seduta del 16 aprile, che tanto peso ebbe sulla bilancia della decisione parlamentare a favore della legge Deforesta. Inoltre egli ci offre delle rivelazioni sino allora ignote a tutti. Eccolo:

«Se vi ha avuto vera pressione e conseguentemente offesa alla dignità nazionale nella presentazione della legge Deforesta, io mi maraviglio che la Commissione non abbia rigettata questa proposta anche prima di esaminarla: questo sarebbe stato il suo dovere. Ciò che mi fa credere che la Commissione non abbia trovalo un'offesa assai significante, si è che il deputato Valerio, incaricato del rapporto, n’ha parlato con una calma ed una moderazione che non sono di sua abitudine.

«Io non imiterò il doloroso esempio dato dal deputato Revel attaccando degli nomini, ai quali il Piemonte ha accordato una generosa ospitalità ((8)). e che in compenso eglino gli hanno resi immensi servigi; al bene del paese fa d’uopo sapere sacrificare anche i propri rancori personali. Io apprezzo meglio la maniera del conte Solaro della Margherita, fedele osservatore delle convenienze parlamentari e benevolo oratore. Egli si è acquistata la stima di tutta la Camera.

«Ora vengo alla questione politica

«Dopo ii disastro di Novara, due vie erano aperte al governo: rinunziare alle aspirazioni di Carlo Alberto, chiudere gli occhi per non guardare al di là del Ticino, abbandonarsi esclusivamente ai miglioramenti materiali interni, in una parola continuare la politica espressa nel Memorandum del conte Solaro; ovvero era necessario rispettare i trattati, mantenere le convenzioni, ma senza rinunziare al simbolo di Carlo Alberto, e continuare nella sfera politica l’impresa scossa sul campo di battaglia.

«Il primo sistema certamente era più facile, ma faceva d’uopo con lui rinunziare a tutta l’idea dell'avvenire, abbandonare le nobili tradizioni della casa di Savoia, ripudiare la trista ma gloriosa eredità di Carlo Alberto. Fra questi due sistemi, Vittorio Emmanuele non esita: egli sceglie il secondo, e sollecito, chiama alla direzione degli affari un uomo, il cui solo nome è un programma italiano: Massimo d’Azeglio. Questi si sforza di provare all’Europa che i popoli italiani sono maturi per la libertà, suscettibili di conciliarsi qui coi grandi principii dell’ordine sociale e di sostenere nel campo della diplomazia gl'interessi degli altri Stati italiani. Onore e riconoscenza a questo uomo di Stato che inaugura questo glorioso sistema politico! I suoi successori hanno cercalo di svilupparlo.

«Quando venne la guerra della Crimea, memorabile lotta di giustizia e di civilizzazione, noi volemmo prendervi parte per accrescere la fama della Sardegna e per acquistare un titolo alla difesa della causa italiana. La nostra speranza non andò fallita, e se la diplomazia ebbe qualche parte nel successo, la maggior parte però di questo successo fu dovuto all’ammirabile valore della nostra armata.

Nel Congresso di Parigi, l’Europa vide per la prima volta la causa italiana difesa da una potenza italiana. Se la nostra partecipazione alla guerra della Crimea non ha prodotto dei vantaggi materiali, ella produsse però degli immensi vantaggi morali. La nostra nazione si fece grande nella stima e nella fama appresso a tutte le altre nazioni del mondo, ed é stato proclamato in faccia all'Europa, che la condizione dell’Italia esige rimedii energici se si voglia che la pace generale sia duratura. Questo cangiamento morale ottenuto a favore dell’Italia, vale meglio, vale più di molte vittorie..

«Eccezionata la stampa ultra-reazionaria, tutta la stampa d’Europa ci è favorevole. I cittadini fli Boston, eglino stessi, ci hanno inviato un cannone, e non è forse sino all’impero dei Birmanni, ove un bravo officiale della nostra marina, ha inteso con grande soddisfazione a proclamare la lealtà del nostro Re e le virtù del nostro popolo, e fare dei voti per la prosperità e la gloria della nostra patria? Io ora chiedo alla buona lede del conte della Margherita: un simile risultalo, ci sarebbe egli stato concesso prima del 1848?

«Nondimeno era impossibile di continuare le -aspirazioni, e di seguire il programma di Carlo Alberto. senza attirarci la collera di qualche potenza vicina, e per neutralizzarne gli effetti, non abbiamo dovuto cercare l’alleanza degli Stati che non avevano interessi contrarii ai nostri.

«Il sistema delle alleanze è una delle basi fondamentali della nostra politica. E qui io incomincio a protestare contro le alleanze delle repubbliche, sterili in risultati, feconde di pericoli: n‘ e testimonio l’esempio delle due repubbliche francesi: la prima guerriera, e la seconda pacifica. La prima ha scacciato gl'Alemanni, ma per fare un mercato delle provincie conquistale; ha venduto Venezia er assicurare il Reno. E la seconda? Erano al governo i campioni della rivoluzione, Ledru-Rollin, Bastide, ecc,; ebbene? ci rifiutarono un soccorso d’uomini, di denari, d’armi e perfino ci rifiutarono d’imprestarci un generale, che noi abbiamo avuto il torto di domandar loro. E più tardi, allorquando (io non credo di essere indiscreto parlando di avvenimenti già passati da otto anni) allorquando noi avevamo domandato dei soccorsi al capo del governo francese, il quale era già stato disposto di dare un’assistenza efficace a Carlo Alberto, ne fu impedito dai capi dell’assemblea nazionale e dai ministri, fra' quali figuravano repubblicani vecchi e nuovi, lo posso esporre tutto ciò con piena confidenza, perciocché io lo seppi da un illustre scrittore, il quale ebbe il triste coraggio di vantarsi con me della parte da lui presa in questa risoluzione dei governo imperiale.

Io quindi proclamo altamente, insensato quell’uomo che crede che una rivoluzione mettendo in pericolo i principii sociali sarebbe favorevole alla causa della libertà in Europa; insensato colui che non sa, che non vede che il suo effetto il più sicuro sarebbe di far scomparire ogni libertà, e di farci ritornare al medioevo, insensato chi preferisce la rivoluzione all’Italia.

«Per mantenere le alleanze, è mestieri inspirare la stima, cercare di favorire gl’interessi comuni e far prova di benevolenza reciproca. Questa benevolenza noi l’abbiamo trovata presso i governi di Francia e d’Inghilterra. Giammai, in alcun tempo, le nostre relazioni non furono migliori. Dopo il Congresso, noi abbiamo ricevuto delle prove di simpatia sincera dalia Russia e dalla Prussia.

«Ma, in mezzo di una situazione soddisfacente, venne l’attentato del 14 gennaio a produrre una commozione considerevole per le circostanze che Io accompagnarono, per il numero delle sue vittime, pei mezzi adoperati, e per il pericolo al quale venne esposta una donna, stranierà ai partiti, e conosciuta soltanto per le sue beneficenze. Egli non è quindi da maravigliarsi se il governo francese si sia scosso e si sia rivolto agli Stati vicini per prevenirne il rinnovamento.

La Commissione ha giudicato che la nostra risposta confidenziale alla comunicazione che ci veniva allora fatta, sia stata conforme ai doveri di chiunque rappresenta un popolo nobile e generoso. Noi dichiaravamo essere tutti solleciti a fare tutto ciò che stasse in nostro potere a fine di prevenire tali atti, credendo sinceramente che l’applicazione delle nostre leggi fosse sufficiente.

«Il giorno 11 febbraio scorso, in un dispaccio 'diretto al nostro incaricato d’affari a Roma, signor conte della Minerva, io insisteva sopra gl’inconvenienti della emigrazione e sopra le sue funeste conseguenze. Io faceva osservare che gli uomini che sono costretti a passare in terra straniera senza mezzi di sussistenza, erano gli istrumenti dei fautori delle rivoluzioni. Da ciò l’estraordinaria vitalità del partito di Mazzini.

«In queste circostanze, la Ragione, ch’era stata perseguitata per l’apologia dell’attentato, fu dai giurati trovata innocente. Questo giudizio fece una grande sensazione fra noi ed in Europa. Prendendo in considerazione le circostanze politiche, io mi sono deciso a presentare' il. progetto di legge che vi è stato sottomesso.

«Io venni influenzato ancora da un’altra considerazione. Dopo l’anno 1831 si era costituita in Italia una settaria quale mossa da sentimenti patriottici tendeva all’indipendenza, epperò era cara alla gioventù italiana. Essendo andati falliti i suoi tentativi, anche prima del. 1848, quella setta perdette molto del suo prestigio. L’opposizione ch'ella fece a Carlo Alberto ha contribuito possentemente ai nostri disastri.

«Nel 1849, gli antichi governi essendo stati ristabiliti in Italia, questa setta disperata risolse di cangiare la spada nel pugnale e di ricorrere a mezzi tenebrosi, anziché slanciarsi in colpi di mano arditi. Questa metamorfosi disingannando molti, la setta perdette degli affigliati. Chiunque nutriva dei sentimenti onorevoli si allontanò da lei.

«La setta pruova allora di slanciarsi nella violenza estrema; ella si mise a giustificare nelle sue riunioni la teoria dell’assassinio politico. Ella è cosa dolorosa che a' nostri giorni una simile dottrina sia professala; ina ancora più egli è doloroso a pensare che queste dottrine sono germi che trovano in Italia un terreno bene preparato, terreno rimestato dalle opere della reazione.

«Egli è dunque interesse dell’Italia, che in Piemonte, solo Stato consacrato alla libertà, il governo coll’organo della grande voce della nazione, protesti contro le fatali dottrine dell’assassinio politico. Tal è la mobile politica della presentazione del progetto di legge; ma ve n’ha un’altra più delicata.

«Dopo l’attentato di gennaio, il governo del Re seppe che le sette erano più ardenti che mai, e che si parlava non solamente di rinnovare questo esecrabile attentato, ma ancora di tentarne contro altri sovrani. Non si trattava più solamente dell’imperatore dei francesi, ma bensì di un sovrano attorniato da tutta la nostra affezione.

«Questo avviso non ci veniva da un governo avente interesse di ottenere da noi delle misure preventive; egli ci veniva da una sorgente non sospetta, da un governo eccessivamente geloso del diritto di asilo. Che cosa fare allora? A dei dati positivi dovevamo noi opporre una scettica incredulità? Dovevamo noi respingerli? Poteva essere assolutamente cosa importante per le sette il non aver più avanti ai lor occhi Vittorio Emmanuele, il solo che avrebbe potuto vincerli ed annientarli.

«In faccia a tal periglio, limitarci a precauzioni di polizia e non cercare d'impedire gli assassini! con mezzi materiali e morali, sarebbe stato da nostra parte una condotta colpevole. La nazione ci avrebbe disdegnosamente cacciati; noi abbiamo creduto allora compiere un dovere sacro; ma chi potrà vedere in tutto ciò una pressione straniera? Se vi fu pressione, ella si fu una pressione, il cedere alla quale è cosa onorevole: fu la pressione della nostra coscienza.»

Cavour dopo di aver detto ch’egli lasciava al guardasigilli la cura di trattare la questione legale, e che se il ministro pensava di riformare il giurì era nell’interesse di quella istituzione ed alfine le leggi venissero eseguite e non fosse più permesso a un giornale (l'Italia del popolo) di violare impunemente ed in una maniera flagrante le leggi dello Stato, soggiunse:

«Dalla questione che vi è sottomessa dipende la sorte del ministero, e questo non già per effetto di un capriccio da nostra parte o di suscettibilità personale, ma per la forza stessa delle cose. Se voi dividete l'opinione della maggioranza della Commissione che il ministero non ha saputo conservare l’onore nazionale, voi non dovete più soffrire che questo ministero si presenti ancora innanzi a voi, né che continui a rappresentare il governo.

«Noi accoglieremo con rispetto la vostra deliberazione; ma se ci fosse contraria, noi dichiariamo francamente che la nostra coscienza non potrà confermare il vostro decreto. La nostra condotta può non andare esente da ogni errore: egli è possibile che io mi sia l'atto un’illusione sul progresso del paese; le mie forze hanno forse tradito il mio zelo; ma io ed i miei colleghi siamo almeno assicurali di una cosa, ed è, che tutto ciò che tocca le relazioni esterne, la nostra coscienza non ci rimprovera né un alto, né una parola, che non sieno state inspirate dall'amore ardente della patria, da un vivo desiderio di servire a suoi interessi, elevando la sua dignità, colla ferma risoluzione di mantenere intatto l'onore nazionale e di conservare, sui campi di battaglia e nell’arena diplomatica, pura da ogni macchia la bandiera tricolore confidata alla nostra custodia da tanti anni!»

Ma le misure prese dal governo Sardo non furono soltanto quelle che accennammo, imperciocché si estesero a sorvegliare la emigrazione in un modo spesso vessatorio e ad impedirne l’aumento collo spedire una nota al conte della Minerva, rappresentante della Sardegna a Roma, da presentarsi al cardinale Antonelli nello scopo di dimostrare le funeste conseguenze della espulsione di tanti romagnoli. Questa noia veniva letta alla Camera il 17 aprile, e conteneva il seguente concetto: «Il sistema di espulsione dagli Stati, viene esercitato sopra una larga scala dal governo pontificio; sul nostro solo territorio, il numero dei sudditi di S. S. espulsi si eleva a molte centinaia, e non può che produrre le più funeste conseguenze.

«L’esiliato in seguito a sospetti od a cattiva condotta, non è sempre un uomo perverso o affiglialo in maniera indissolubile a società rivoluzionarie; conservalo nella sua patria, sorvegliato, punito anche se occorresse, potrebbe ancora, emendarsi, o almeno non addiverrebbe un uomo pericoloso.

«Mandato in esilio, al contrario, irritalo da misure illegali, costretto a vivere fuori dell’onesta società e spesso senza mezzi di sussistenza, egli si mette necessariamente in rapporto coi fautori delle rivoluzioni. Egli è facile a questi di invilupparlo, di sedurlo, di affigliarlo alle loro sette. L’uomo guasto addiviene ben presto un settario, e un settario di una natura la più pericolosa. In conseguenza, si può con ragione assicurare che un tal sistema ha per effetto di fornire costantemente nuovi soldati ai ranghi rivoluzionarii.

«Sintanto che questo stato di cose durerà, tutti gli sforzi del governo per distruggere le sette saranno impotenti, imperciocché mentre gli uni vengono allontanati dai centri pericolosi, ne subentreranno degli altri spintivi in certo qual modo dal governo. Egli è a questo che fa d'uopo attribuire la vitalità straordinaria del partito mazziniano.»

Questa nota non ebbe alcun effetto, perché il sistema di espulsione presso il governo pontificio era credulo una necessità indispensabile al mantenimento dell'ordine.

Intanto che il governatore militare del LombardoVeneto, generale d’artiglieria conte Gyulai, stava per partire da Vienna, a quanto dicevasi, incaricato di una missione straordinaria presso le corti d’Italia, il Comando dello stato d'assedio di Carrara pubblicava la sentenza, con cui il Consiglio di guerra, radunatosi il 17 aprile 1838 condannava ad unanimità di voli: Come rei di appartenere ad una società secreta rivoluzionaria, i signori:

1. Berti Eugenio, di Cesena, ammogliato, d'anni 50, a 6 anni di galera;

2. Gattini Giovanni, di Noceto, ammogliato, d'anni 30, a 6 anni di galera; 301

3. Nicolaj Giovanni, di Bedizzano, ammogliato, di anni 25, a 7 anni di galera;

4. Babboni Giacopo, di Noceto, ammogliato, d'anni 40, a 7 anni di galera;

5. Cenderelli Angelo, di Carrara, ammogliato, d'anni 26, a 7 anni di galera;

6. Gianfranchi Giuseppe, di Gragnana, nubile, d'anni 27, a 7 anni di galera;

7. Conserva Bernardo, di Gragnana, nubile, d'anni 27, a 7 anni di galera;

8. Tenerani Domenico, di Carrara, ammogliato, d'anni 31, a 7 anni di galera;

9. Andreani Ceccardo, di Carrara, d'anni 51, ammoglia to, a 15 anni, con confisca di beni;

10. Figa Clemente, di Codena, d'anni 22, nubile, a 15 anni, con confisca delle armi:

11. Bianchi Giuseppe, di Fossola, d'anni 40, ammogliato, 1 anno;

12. Brizzi Domenico, di Mirteto, d'anni 23, ammogliato, a 6 mesi e confisca delle armi.

Questa sentenza è sottoscritta dal cav. De Wider-khern, maggiore.


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CAPITOLO VIII

Maggio, Giugno

Molti modenesi non contenti della educazione che veniva data ai loro figli dalle scuole di quel ducato li mandavano negli Stabilimenti educativi della Svizzera o del Piemonte. Tali innocenti determinazioni non piacquero al governo del duca, epperò egli volle impedirle con, una Notificazione del ministero dell’interno, pubblicata il 2 maggio 1838, la quale era concepita nei seguenti sensi:

«Per evitare gl’inconvenienti, che può portar seco la libertà illimitata, che finora esisteva, di porre fanciulli e giovani d’ambo i sessi in esteri Stabilimenti d'educazione, senza che il governo ne avesse notizia, e potesse quindi esercitare quella sorveglianza che troppo è necessaria, allo scopo si importante di regolare, cioè, e dirigere la pubblica educazione, S. A. R. l'augusto nostro Sovrano ha trovato opportuno, con venerata sua determinazione del 26 marzo p. p., di prescrivere che d’ora innanzi chiunque vorrà collocare i proprii figli, nipoti, parenti o tutelati dell’uno e dell’altro sesso in uno Stabilimento di educazione, o presso Università o maestri privati in Stati esteri, dovrà inoltrarne domanda al Ministero dell’interno, che la sottoporrà con votiva informazione a S. A. R.

«I giovani che clandestinamente fossero collocati all’estero in stabilimenti di educazione ed istruzione, non potranno in seguito essere ammessi a questa Università, o ad altre pubbliche scuole, né aspirare all’esercizio di conseguire professioni, o ad impieghi nello Stato estense.

«Quei genitori, parenti e tutori e curatori, che contravvenissero al disposto degli antecedenti articoli incorreranno in una multa dalle lire 500 alle 2000; ed inoltre, secondo i casi e le circostanze, nella perdila degli impieghi e delle onorificenze, che potessero avere, e gli ultimi, ossiano i tutori e i curatori, decaderanno ancora dalla tutela o cura.

Questa Notificazione destò sensi d’indignazione in tutti gli animi. Imperciocché sapevasi per fermo che chi avesse domandalo, nulla avrebbe ottenuto, e perché chiaro appariva il sistema di voler educata la gioventù cosi, da riuscirne ligia alla sacrestia, nello stesso tempo che il governo procacciavasi per si fatta guisa un nuovo mezzo di penetrare colle sue indagini di polizia nei più secreti penetrali delle famiglie. La stampa libera di quei giorni biasimò altamente tale misura, come quella che toglieva ogni più onesta libertà ai sudditi ed obbligava i genitori ad allevare ne’ proprii figli talpe in Modena senza alcuna libera e propria aspirazione, piuttosto che uomini all'estero.

Ma vennero a rallegrare gli animi le feste dello Statuto, che a Torino si celebravano in quell'anno con pompa inusitata spendendo somme enormi in sontuosi e sovrani addobbi della città, in corse magnifiche, in luminarie incantevoli, in pubblici concerti giganti, a' quali prendevan parte oltre a 500 suonatori, in teatri e banchetti patriottici ed allegrie di ogni maniera, il castello Valentino, pomposamente ristaurato, veniva aperto al pubblico in quei giorni, e gl'Italiani, accorsivi da tutte parti della Penisola, ammiravano colà la magnifica esposizione degli oggetti di manifattura e di industria nazionale, ove le locomotive di Sampierdarena, i velluti di Genova e le sete della Lombardia, ottennero un’assoluta preminenza sui prodotti di tal genere delle officine e delle fabbriche estere. La capitale e le provincie dello Stato Sardo erano in festa, il governo stesso, più ch'altri, era in festa per la vittoria ottenuta nella Camera tanto dalla approvazione della legge Deforesta, quanto dal prestito di 40 milioni, che stava per essere approvato. Aggiungeva materia al generale gaudio, l'assicurazione ministeriale, che la Darsena di Genova non verrebbe più trasportata alla Spezia, e che la questione del Cagliari, che per sì lungo tempo rammaricò gli animi, stava per subire una nuova fase, fase Mi miglioramento, ventilandosi la idea di ricorrere d’ambe le parti litiganti all’arbitraggio di una terza potenza.

Ma pur troppo la gioia non è sempre perfetta, ed i popoli non la gustano mai tutta intiera. Questa fatale verità provaronla le popolazioni tutte d’Italia. Grave malattia colpi in modo aspro e pericoloso due delle nostre più amate celebrità, Manzoni e Tommaseo, ambi caduti malati, il primo per morbo polmonare, il secondo. per morbo oftalmico. Epperò la gioia che in quei giorni brillava sul viso di lutti in vista della ricchezza dei prodotti nazionali, tutto in un tratto si adombrò, si ristette, e divenne cordoglio. Tutta Italia prendeva interesse alla salute di quei due sommi, i quali basterebbero eglino soli per arricchire di un tesoro inapprezzabile una nazione per quanto fosse civilizzata. Fortuna per noi, che dopo pochi giorni il giornalismo italiano annunziava in ambidue salutari miglioramenti. Laonde la gioia, per alcuni giorni repressa, riprese il suo riso, il suo brio, la sua vivacità.

Gli escavi di Ostia, ordinati da Pio IX, vennero coronati di grande successo, uscendo dall'obblio della tomba cento e cento oggetti preziosissimi di antiquaria e di numismatica. Pio IX, ed il re di Napoli onorarono delle loro presenze quel paese, che dentro alle viscere della sua terra racchiudeva tanto tesoro.

I romani e più ancora il governo pontificio venivano però angustiati per io sperpero d’ingenti somme sottratte alla cassa del santo Monte di Pietà. Sul capo dell’amministratore di quel pio luogo pendeva un processo criminale che agglomerava, lutti i capi d’accusa su quell’uomo facendolo autore di tale delitto. L’incoato giudizio veniva trattato con somma cautela e delicatezza perché l’accusato era un personaggio di gran conto.

In Roma intanto innalzavansi statue ai Santi, alla Vergine, a Gregorio XVI; in Napoli edificavansi templi ed erigevansi monumenti ai principi della Casa Borbonica, attendevasi ad ampliar porti, a costruir forti ed a cento altre materiali costruzioni utili allo Stato. A Torino, in poco tempo, i giardini pubblici accolsero nel loro seno molte statue, opera d’illustri scarpelli, erette a gloria dei grandi Italiani, che acquistarono celebrità nelle lettere, nelle scienze, nelle arti e nelle armi. Dappertutto in Italia attendevasi all’attuazione di opere o utili o decorose. Qua la rete delle ferrovie, mediante congiunzioni da uno Stato all’altro, acquistava sempre più una crescente estensione, là si asciugavano paludi con grandi dispendii per trarre poi, nella fertilità dei rinovati terreni, futuri lucri immensi; altrove le istituite società per opere di pubblica utilità proponevano od attuavano, su larghe basi, appunto opere meritevoli di grandi encomii, come sarebbe, la Società edificatrice di case per la classe povera, ed altrove i municipii si mostrarono indefessi nel proporre e favoreggiare pili che nell’attuare quanto al miglioramento delle classi sociali potesse tornar vantaggioso.

Cotanta alacrità non attestava però del tutto le aspirazioni politiche nel petto degli Italiani. Imperciocché le lotte che Austria dovette sostenere in quel mese contro i gabinetti delle altre potenze in riguardo alla navigazione del Danubio ed ai principati Danubiani reclamanti la loro riunione, essendo riuscite contrarie ed ostili alle sue viste, alla sua politica, a' suoi interessi, offrivano ampia materia agli italiani liberali o Cavouriani, sempre pronti a rivolgere a loro beneplacito le delusioni austriache, di aprire il loro cuore a speranze propizie alla loro nazionalità ed indipendenza in un avvenire più o meno lontano.

Le Conferenze di Parigi stavano per essere un fatto storico. In esse dovevansi trattare, dalle potenze che dovevano aver parte, fra le quali il Piemonte, la riunione dei Principati Danubiani per si lungo, tempo cotanto contrastata. Una volta in quel consesso venisse approvata quella unione, veniva nello stesso tempo constatato, stabilito e fissato in modo irrevocabile un nuovo principio politico, cui era oggetto la teoria dei fatti compiuti. Duella era la idea possente che teneva vivi ed agitati i popoli in Italia, perciocché «se ciò avvenisse, essi argomentavano, a favore dei Principati Danubiani, ciò pure potrà, quando che sia, avvenire in favore anche del nostro paese. Epperò lavoriamo, lavoriamo indefessi, accumuliamo ricchezze, onde trovarsi poi ricchi e pronti il di che suonerà l’ora delle pruove a pro della patria.» L’Austria vedeva tutto, considerava tutto, agiva quindi in conformità, onde scongiurare un tanto pericolo, ma, 'rimasta sola nel conflitto politico, non potè arrestare gli avvenimenti, o farli piegare a suo vantaggio. Aveva tentato ogni mezzo per far escludere dalle Conferenze il Piemonte, ma non era riuscita. Aveva cercato di ottenere almeno che non venisse posta sul tappeto le questione italiana né direttamente né indirettamente, in seno delle 'medesime, ma anche su questo punto i suoi dubbii non erano del tutto svaniti. Gl'Italiani, dall'altro canto, nutrivano fondate lusinghe, che quel Cavour che seppe con tanto coraggio parlare a pro dell’Italia nell’ultimo Congresso, non si sarebbe intimorito dei maneggi, e delle esigenze dell'Austria, ed avrebbe detta ancora una parola, avrebbe nuovamente perorato per la causa della patria comune. L’atteggiamento del Piemonte, dal Congresso di Parigi in poi, fu sempre, nella politica esercitala io quel paese, negli atti del governo e dei parlamento, una manifestazione continua appalesante senza reticenze e senza veli, direm così, il diritto di patronato nella questione italiana, in onta agli altri 'governi della Penisola. Laonde le lusinghe degli Italiani non erano destituite da validi appoggi. Per la qual cosa l’Austria adoperavasi in maniera presso tutti i gabinetti, affine non Cavour, ma sibbene un altro sedesse rappresentante il Piemonte nelle Conferenze, e vi riuscì.

Tutto ciò contribuì ben largamente ad allontanare dal principe Ferdinando Massimiliano le simpatie, che egli era&i acquistato nei primi mesi, che in qualità di governatore generale compariva nel Regno Lombardo-Veneto. Quel giovine generoso spendeva tesori nel regno, ma egli era tutto uno: lavava l’etiope. Egli vedeva quali erano i bisogni dei regnicoli, conosceva le loro aspirazioni, i loro desiderii, ed avrebbe avuto animo fors’anche di secondarli, di soddisfarli, ma i ministri di Vienna non pensavano cosi. Egli prometteva oggi per dover mancare domani. Giunto a questo punto estremo, egli si trovò in una posizione difficile: era scaduto di credito nel Lombardo-Veneto, e cosi pure a Vienna, qua pel troppo promettere e, nulla mantenere, là col troppo chiedere e nulla ottenere. Lo spreco dei tesori da esso lui gittali a profusione non valse a coprire la sua critica posizione. Epperò, allorquando conobbe, che il suo potere altro non era in realtà che un potere effimero, egli si abbandonò ai viaggi cd al fasto con tale trabocchevolezza di misura da non averne esempio, lasciando correre l’acqua alla china. Intanto il grido austriaco inalzavasi alle stelle magnificando le opere latte, o iniziate, o che stavano ancora in istato di progetto per cura dell'attivo principe. Rammentavasi con enfasi e forse con esagerazione il risorgimento di Venezia, dacché i suoi navigli mercantili aumentavano di giorno in giorno in confronto degli anni anteriori all'arrivo nel regno di Sua Altezza Imperiale; ramìnentavasi la idea da esso lui nutrita di approntare un programma per compiere quanto era necessario a fine di far entrare Venezia nel sistema delle piazze marittime europee. Quindi vedovasi in un avvenire non lontano, sia che si effettuasse il taglio dell'istmo di Suez, sia che no, la prosperità della veneta laguna. Citavasi condotta sulla via della pratica l'irrigazione di grande porzione del Friuli mediante il fiume Ledra, citavasi l’asciugamento delle grandi paludi veronesi mediante gli sforzi del principe governatore. A lui soltanto Como doveva il suo porto, ed il proposto asciugamento delle paludi del suo Lago nel Piano di Spagna, presso Colico. A lui i vallegiani della Valtellina dovevano l'aiuto ristoratore delle loro miserie prodotte dalla mancanza delle uve infette dalla crittogama. A lui Milano doveva la sua vita, il suo moto, il suo commercio, le sue industrie, la Piazza della Scala, la demolizione delle case adiacenti al Palazzo del Marino, i giardini pubblici; la fabbrica di un decoroso cimitero ed il progetto dello stabilimento della piazza del Duomo.

Tali magnifiche asserzioni, parte vere e parte incerte, intorno alle sollecitudini ed alla attività del principe Massimiliano avevano due scopi: il primo quello di attirare all’estero la stima verso di lui e possibilmente all'interno la gratitudine; il secondo quello di troncare le voci insorte, o (atte insorgere cioè: che egli non sarebbe più ritornalo nel Lombardo-Veneto dopo le delusioni avute a Vienna. Da ciò volevasi inoltre fosse dedotta la conseguenza: come mai può egli abbandonare quel paese dopo ch’egli per quel paese fece tanto? Ed inoltre: come mai possono quei popoli non amarlo dopo ch'egli fece tanto? Ed infine: egli lascierà quei paesi quando saranno terminate tutte le grandi opere da lui incominciate.

Dalle tetre considerazioni politiche passando all’arte in Italia cara più che ogni altra mai, la poesia, ci è dolce registrare che in questo mese delle rose, uscivano in luce a Venezia, dodici canti di Jacopo Ca-bianca col titolo: Il Torquato Tasso. Questi canti son figli di una musa forte e in uno gentile. Il Cabianca è un poeta che sta da sè, pochi de' contemporanei lo può raggiungere, nessuno superare, Ci sono ancora impressi nella mente e nel cuore il. suo proemio e la sua conclusione. Essendo state le ottave del proemio e della conclusione le prime che, staccate dal poema, videro la luce sui giornali del Lombardo-Veneto, ci è grato riprodurle in queste pagine, qual perla preziosa, che arrecherà, per il suo splendore, un qualche venia alla sterilità del nostro ingegno ed alla pochezza del nostro libro.

«Incontra quelle piagge, ove regina

Fra gli aranci ed i fior, Napoli siede,

Diviso della breve onda marina

Ch' entra quel seno e gli sussurra al piede,

Di cento colli, in dilatata china,

Un vago digradante ordin si vede,

E l' un giogo sull'altro alzar la fronte,

E perdersi col cielo all'orizzonte.


«Qui de' campi Flegrei rotto il terreno:

Qui narran d' altre età Gaeta e Cuma:

Di Baia alla rovine e di Miseno

Muor sospiroso il fiotto in bianca spuma.

Dorme Virgilio a Polisippo in seno;

Mergellina di rose si profuma;

E per l'ampio paese, in ogni canto,

Parlano vecchie istorie e nuovo pianto.


E a te, che levi la turrita cima.

Sul verde mar che alla sirene piacque,

A te il saluto dell'itala rima,

Inclita terra, ove Torquato nacque!

Perchè, Sorrento, tu blandivi in prima

I suoi riposi al mormorio dell'acque,

E la tenera bocca inebbriavi

Coll'olezzo de' fior, col mel de' favi.


«D'infra tutte bellissima e gentile

Gode Sorrento di un tepido cielo;

Qui il sol risplende d'un perenne aprile,


E le sue notti non conoscon velo:

Nè quando la stagion muta di stile

Intristisce il terren per nebbia o gelo;

Ma il cedro eterno tra la verde chioma

Spiega il tesor delle dorate poma.


«Contro la gelida Orsa il loco serba,

D'altissime montagne una ghirlanda.

Onde nè brina sulla tenera erba,

Nè settentrional vento si spanda:

Ivi d'ombre e di secoli superba

Una foresta cresce in ogni banda,

E corrono le facili pendici

Freschi zampilli e linfe irrigatrici.


«Cosi dalle feconde acque d'argento

Ride impinguata la famosa valle,

Dove all'aperto ciel serenan cento

Presepii di giovenche e di cavalle.

Là mugghia, re del folleggiante armento,

Il nero toro dalle larghe spalle;

Quivi il puledro, come amor to accende,

Si slancia, corre e al zeffiro contende.


«O figlie del mio cor, Lina, Antonietta,

E tu dagli amorosi occhi, Lucia,

O ciascheduna a me tutta diletta


E ben supremo della vita mia!

Suoni nel vostro nome benedetta

L'ultima rima, e il vostro nome sia

Quel bacio sovra cui, mentr'altri il sugge,

Beatamente l'anima si fugge.


«Come il tempo passò! Fra quante e quai

Liete e meste fortune a me d' accanto

Stette questo poema, e il labbro mai

Non seppe modulare un altro canto!

Io col Tasso ho vissuto e seco amai,

E seco spesso dolorando ho pianto

La speme ingannatrice e i rapidi anni

Ove più del piacere valser gli affanni.


«Ed or che presso il termine veloce

Corre l'onda del verso, e i rivi io chiudo,

Contro l'ingiusto obblio, che a tutti nuoce,

Chi al poeta verrà campione e scudo?

Non suona maestosa la mia voce,

E come fiore alpin, su gambo ignudo,

Va basso basso il poveretto ingegno

Ne della palma del trionfo è degno.


«Che se, dilette mie, perenne viva

La mia memoria oltre l'avello, e poi

Che io più non sia, di me si parli e scriva:

-Fu mite, onesto; amò la patria e i suoi —

Se non morrà quest'eco fuggitiva,

Contento io mi terrò solo per voi,

Giacché quel nome che si cole ed ama

Rifiorisce nel cor per bella fama.


«E quando la gentil, che a me compagna,

E madre è a voi d'amor santo, verace,

Per entro la funerea campagna

Vi guiderà dove il mio corpo giace,

Voi, col lamento di chi in duol si lagna.

Non piangete di me, che sarò in pace

Aspettando quel di, che al seno mio,

Care immortali, vi ritorni Iddio.

E quel di aspettato dall'illustre poeta, era pur troppo giunto per lo scultore Gaetano Motelli di Milano. Egli moriva il 27 maggio 1858 compianto da tutti gli artisti che perdevano in lui una delle sue glorie. e da tutti i suoi compatriotti, che piangevano uno de' suoi onoratissimi cittadini. Egli sostenne con grande onore l’arte scultoria italiana nelle mondiali Esposizioni di Londra, di Parigi, e di Nuova Vork.

Addì 12 giugno, Cavour annunziava alla Camera la soluzione, in modo pacifico e senza arbitraggio di altra potenza, della questione del Cagliari. Il re di Napoli cedeva e naviglio ed equipaggio. Questo annunzio venne accolto con somma gioia, e Cavour, che riportò un si segnalato trionfo in questo emergente, venne applaudito, encomialo, festeggiato da lutti i rappresentanti del popolo e della nazione.

Il ministro degli affari esteri di Napoli, Caraffa, annunziava al conte di Malmesbury la determinazione del suo sovrano di cedere il Cagliari colla seguente lettera, in data 8 giugno 1858.

«Milord.

«In replica alla pregevole lettera, che V. E. mi ha fatto l’onore di dirigermi in data del 25 dello scorso maggio, mi reco a premura manifestarle che il governo del re, mio augusto Sovrano, non ha mai immaginato, né può immaginare di avere i mezzi da opporsi alle forze, di cui potrebbe disporre il Governo di S. M. Britannica.

«E scorgendo dal tenore della accennata lettera che l’affare del Cagliari, siccome l’E. V. chiaramente annunzia, a niuno può essere di più grande importanza che alla Gran-Brettagna, non rimangono al governo napoletano, altri ragionamenti ad esporre, né altre opposizioni a fare..

«Quindi ho l'onore di prevenire V. E. che, da questo momento trovasi versala presso questa Casa di commercio Pook, a disposizione del Governo inglese, la somma di lire sterline tremila (Indennizzazione che l’Inghilterra chiese a Napoli per la cattura dei due inglesi che trovavansi a bordo del Cagliari).

«Per quanto concerne i componenti l’equipaggio del Cagliari, giudicabili dalla gran Corte Criminale di Salerno, cd il Cagliari medesimo, sono in grado di annunziarle essere stati si gli uni come l’altro posti a disposizione del sig. Lyons segretario dell’Ambasciata inglese a Napoli, e per la consegna tanto del piroscafo quanto dei cennati giudicabili, la cui partenza dipenderà dal sig. Lyons, sono stati dati gli ordini alle autorità competenti.

Ciò premesso, il Governo di S. M. siciliana non ha bisogno di accettare mediazione, rimettendo lutto all’assoluta volontà del governo britannico..

«Ho l’onore di essere con la più alta considerazione, Di V. E.

«Dev. obbl. servitor.

«Caraffa.»

Genova intanto, e la Società Rubattino preparatasi a ricevere con festa il Cagliari, che doveva essere come lo fu colà condotto dal console inglese Barbai e consegnato al governo Sardo in modo ufficiale. Cavour nondimeno non mandò a riceverlo che un impiegato di secondo ordine, perché sembrava non gli garbassero le sollecitudini dell'Inghilterra, in quanto che potevano essere collegato ad una condizione dannosa al Rubattino, quella cioè non dovesse costui chiedere al governo napoletano alcuna indennizzazione pel catturato vascello e per la prigionia dell’equipaggio. La condotta di Cavour spiacque quindi al governo inglese ed al console che accompagnava e consegnava il Cagliari alle autorità di Genova. Ma il Rubattino volle inserite nel verbale di restituzione del Cagliari, le seguenti riserve e proteste:

«1. Che egli riceve la restituzione del piroscafo il Cagliari, di proprietà della sua compagnia, in soddisfazione intanto di altro dei diritti, che alla compagnia stessa appartengono e competono verso il governo di Napoli; 2. Che protesta fin d’ora per lo stato di deterioramento, in cui il piroscafo si trova, tanto nello scafo, come nelle macchino, attrezzi, utensili, corredo, e tutti in fine gli oggetti che vi si contengono, egualmente che protesta per la mancanza di molti degli oggetti che componevano il corredo ed armamento del piroscafo stesso al momento della illegale cattura; 3. Che all’oggetto di precisare l’importanza dei danni e delle mancanze, si riserva di far procedere alle opportune perizie avanti l’Autorità, cui spelta; 4. Che infine protesta di ricevere la consegna e restituzione del piroscafo, e di ciò che vi si trova, senza pregiudizio, ed anzi colla più formale ed espressa riserva della indennità, dovuta tanto alla Compagnia proprietaria, (pianto all’equipaggio, in dipendenza della illegalità di detta cattura sofferta in mare, come altresì del lungo arresto in Napoli e di quello eziandio di tutto l’equipaggio, non che in dipendenza del giudizio, parimente illegale, instituito abusivamente avanti i Tribunali di Napoli, affatto incompetenti.

«E sotto cotali riserve e proteste, delle quali chiede concedersegli atto, il predetto sig. Rubattino ha dichiarato e dichiara di accettare, come accetta la consegna del piroscafo il Cagliari, e di ciò che attualmente vi si trova.»

Nello stesso tempo il tribunale superiore delle prede marittime di Napoli rendeva sentenza favorevole alle conclusioni della parte civile e del procuratore generale. Quella sentenza riteneva. -1. la competenza del tribunale; 2. l’indipendenza del Giudizio di presa del Giudizio penale di Salerno; 3. la legalità della cattura; 4. condanna i proprietarii ed il capitano della nave alle spese.

Se non se, la questione del Cagliari fu seguita da altre di non minor importanza politica. Tenne il primo luogo quella dell'ammutinamento e della sollevazione dei forzati della darsena di Genova. I quali iti numero di 1200 ruppero il freno e minacciarono d’uscir di là e spargere nella città lo spavento e la rovina. Quella ribellione venne sedata dalla forza e molte vittime furono lamentate da una parte e dall’altra. La condotta di quegli sciagurati che offrivano un oggetto di perenne terrore alla città, fu aizzala dal contegno troppo severo e spesso violento di quel comandante dei Bagni; epperò sembrava dovesse essere giunta a tal punto da reclamare urgenti e validi ripari da parte del governo. Ma il governo in quei momenti era già molto occupato per il prestito dei 40 milioni approvalo dalle Camere, e per le voci di nuovi moti insurrezionali, che dovevano quà e là scoppiare per opera di Mazzini, che credevasi personalmente nello Stato sardo. Molli furono quindi gli arresti operati sulla linea ferroviaria di Novara, di Stradella e su altre, credendo di porre le mani sull'apostolo dell'idea. Gl'intendenti si portarono in persona alle Stazioni delle ferrovie per dirigere un sì importante arresto. Gran lusso di guardie e di carabinieri venne sfoggiato dappertutto. I telegrafi fra Genova, Torino e Ciamberi lavoravano indefessamente. Tutti i convogli venivano visitali, perlustrali, ed i rigori e le vessazioni della polizia angustiavano i viaggiatori. Ma gli agenti perlustratoci ricevono un dispaccio telegrafico: Mazzini, Stazione Chambery, Convoglio prima classe. Si raddoppiò quindi la forza e la vigilanza. Giunto il convoglio: presto ferma, nessun si muova, l’intimazione fu falla. Entrarono i perlustratori nei convogli di prima classe; qua niente, là niente; ma eccolo finalmente, eccolo, è lui. Siete arrestati, gridarono i perlustratori, ed arrestarono due donne ed un signore alto, grigio-nero, signorilmente vestilo, che condussero all’intendente già accorso alla Stazione. Quel signore era un gentiluomo bolognese, Biancani Ferdinando, fu medico di Nicolò alla Corte di Russia. Mazzini intanto da Bellinzona rideva, ed in un banchetto datogli da' suoi amici il di dopo, veniva celebrato con un brindisi il famoso arresto.

Addì 22 giugno 1858, il maggiore comandante lo stato d’assedio, cav. Ile Widerkhern, pubblicò nel Ducato di Modena, in data di Carrara, una Notificazione, la quale colpiva i condannati ((9)):

«I. Giuseppe Cozzani, detto il Carrarino, del fu Francesco, nato e domiciliato in Miseglia, d’anni 28, cattolico, ammogliato, segatore, altre due volte processato senza risultato in via criminale, ed una volta condannato, non che punito più volle in via di polizia; come reo confesso.

«a) di partecipazione a società secreta rivoluzionaria;

«b) dell’omicidio proditorio di Pietro Fioretti.

«c) di correità nell’assassinio di D. Francesco Andrei. parroco di Miseglia, e contemporanei ferimenti di Gian Domenico Fabbricotti e Carlo Del Nero.

«d) di complicità nell’omicidio insidioso di Giuseppe Fantoni.

«e) di ritenzione di armi; – Alla pena di morie colla forca.

«2. Egidio Lodovici, detto Barella ed anche Calanina, del vivente Giulio, nato a Carrara, e da alcuni mesi domiciliato a Miseglia, d’anni 23 compiti, cattolico, ammogliato, segatore di marmi, mai processato; come reo confesso.

«a) di partecipazione a società segreta rivoluzionaria; b) dell’assassinio di Don Francesco Andrei, parroco di Miseglia, e contemporanei ferimenti di Gian Domenico Fabbricotti e Carlo Del Nero; c) dell’omicidio insidioso di Giuseppe Fantoni; d) di tentato omicidio di D. Francesco Conserva, parroco di Sorgnano; Alla pena di morie colla forca.

«3. Francesco Ticini, detto fondiglio, ed anche Tignoso, del vivo Michele, nato e domiciliato a Mise-glia, d'anni 23 compiti, cattolico, nubile, lavoratore di marmi, altre volte querelato e processalo; come reo confesso: a) di partecipazione a società segreta rivoluzionaria; b) di correità nell'omicidio proditorio di Pietro Fioretti; — Alla pena di morie colla forca..

«4. Agostino Caffaggi, detto fognino, del fu Gian Domenico, nato alle Grazie nel golfo della Spezia, domiciliato a Miseglia, d’anni 21, cattolico, nubile, possidente, cavatore, mai inquisito; come reo confesso: a) di partecipazione a società segreta rivoluzionaria; b) di correità nell'omicidio insidioso di Giuseppe Fantoni; — Alla pena di morte colla forca.

«5. Alessandro Galli, detto Poldin, del vivente Domenico, nato a Carrara, domiciliato a Codena, d'anni 22, cattolico, nubile, cavatore, soldato del 4.° battaglione di linea in riserva, altra volta processato; come reo confesso: a) di partecipazione a società segreta rivoluzionaria; b) di complicità nell’omicidio di Giuseppe Fantoni: c) di retenzione d’armi; e come convinto dalla congruenza delle circostanze; d) dell’aiuto prestalo ai delinquenti; — Alla pena di galera per venti anni.

«6. (I. Carlo Barbieri, del fu Giuseppe, nato e domiciliato a Sorgnano, d’anni 26, cattolico, ammoglialo, possidente, cavatore, altra volta processato, come reo-confesso: a) di partecipazione a società secreta rivoluzionaria; b) di correità nel tentalo omicidio di D. Francesco Conserva; — Alla galera per 16 anni.

«7. Bernardo Magnani, detto Capriglia, del vivente Jacopo, nato e domiciliato in Miseglia, d anni 18, cattolico, nubile, cavatore, una volta processato in via di polizia; come reo confesso: a) di partecipazione a società secreta rivoluzionaria; b) di complicità nell'omicidio insidioso di Giuseppe Fantoni; in vista della di lui età inferiore ai 18 anni all'epoca del delitto; — Alla galera per 10 anni.

«8. Cesare Pianadei, dello Zenghal, del in Gian Domenico, nato e domiciliato in Miseglia, d'anni 25 cattolico, ammogliato, possidente, cavatore, due altre volle carceralo; come convinto dalla congruenza delle circostanze: a) di partecipazione a società segreta rivoluzionaria con circostanze aggravanti; — Alla pena di galera per 10 anni.

«9. e 10. Ferdinando Baratto e Carisio Tonelli, per partecipazione a società segreta e rivoluzionaria; alla galera per 8 anni ciascuno.

«11. 12. e 13. Jacopo Girolami, Bartolammeo Bombarda, e Andrea Cozzoni, per partecipazione a società segreta rivoluzionaria; Alla galera per 6 anni ciascuno.

Tutte le suddette condanne furono da me, in via di diritto, pienamente confermate, e pronunziata la pena di morte sui Giuseppe Cozzoni ed Egidio Lodovici, questa mattina fu eseguita mediante fucilazione; in quanto alli Francesco Piccini ed Agostino Caffaggi ho commutata, in via di grazia, la pena capitale in quella della galera in vita.

Carrara, 22 giugno 1858.

«Il maggiore comandante lo stato d’assedio,

Cav. De-WIDERKHERN.»

Altre tre Notificazioni uscivano in luce in data di Modena 25, 24, 25 giugno 1858. colle quali lo stesso Comandante condannava, per delitti di simil genere, i detenuti:

1. Giovanni Bubboni, alla galera per 20 anni e confisca di beni;

2. Jacopo Baratta, alla galera per 18 anni;

3. Ceccardo Pianadei, id.

4. Francesco Santucci, alla galera per 20 anni;

5. Francesco Giorgi, alla galera per 6 anni;

6. Sebastiano Guadagni, alla morte colla forca;

7. Battista Coccarda, alla galera per 20 anni;

8. Carlo Guadagni alla galera per 8 anni;

9. Giuseppe Corsi, id.

10. Andrea Danesi, id.

Anche nel regno delle due Sicilie, la gran Corte criminale di Catania, costituita in Corte speciale, emanava (il 14 giugno) condanna, più o meno lunga, più o meno dura a seconda delle circostanze attenuanti, contro gl'imputati di tentativi, tendenti a voler mutata la forma di governo, signori: Don Luigi Pellegrino; Giovanni Bancardo; Sebastiano Arena; Rosa Corvia; Saverio Cortese; Salvatore Remirez; il sacerdote Salv. Cacciola; Giuseppe Musso; Luigi Crime; Natale De Deo; Filippo Monforte; F. Caminiti; Giuseppe Curreri; V. Vadala; Sav. Collurà; Carro. Barea; Carmelo Cristina; Sebastiano Toscano; Salv. Russo; Giovanni La Rosa; Fori. Campagna; R. Cucinotto-Russo; Filippo Maguera; Gaetano Licciardello; A. Carro. Toro asello; Salvatore Dragonata; Giuseppe Mar-mazzo; Gaetano Reitano; Carro. Silv. Scaziletto.

Ma da queste condanne atroci e crudeli, manifestatoci di più crudeli ed atroci delitti, scaturiti dalla corruzione de' governati e de' governatori, passando ad altro argomento men truce e men sanguinoso, ce ne affaccierà alla vista uno del tutto singolare per non dire ridicolo. Chi ce lo offre è il generale Govon, supremo comandante della spedizione di Roma. Il suo procedimento fu trovato nuovo dai romani, e non mai veduto e non mai provato sotto gli antecessori di lui Rostolan, Baraguay-d'Hilliers, Gémeau e Montreal, sebbene le risse, i ferimenti e gli odii tra soldati francesi e pontificii non fossero mai cessati dacché esisteva l’occupazione straniera nello Stato del Papa. Il generale Govon, esigendo maggiori onori degli altri che lo precedettero, faceva pattugliare grossi corpi di soldati per le vie della città di giorno e di notte ed emanava ordini del giorno, che arrecavano grande vessazione e scontentamento ai cittadini. Il governo romano, il corpo cardinalizio e la popolazione non osavano opporvisi, ché temevano le conseguenze, le loro dimostranze essendo più volte ritornate infruttuose presso il governo di Parigi. Uno di questi ordini del giorno è il seguente che per la sua singolarità lo riportiamo, atteso che egli manifesta a chiarissime note a qual allo grado fosse colà giunto l'antagonismo fra la popolazione e le due armate (pontificia e francese) tra i soldati del Papa e quelli del generale, tra il governo di Roma ed il governo militare francese. Govon era mal veduto da tutti, perfino dai cardinali, ch'è tulio dire: egli fra le altre stranezze che spesso commetteva, lacerasi accompagnare da torcie accese come il Santissimo, allorquando usciva di casa per andare in gran gala alle solenni funzioni del Vaticano.

Ma ecco il suo ordine del giorno in data di Roma 25 giugno 1858.

«I dispiacevoli conflitti, che si sono rinnovati da qualche tempo fra le due armate, le quali dovrebbero tenersi unite, perché hanno il medesimo scopo, quello dì sostenere l’autorità pontificia e la quiete dello Stato, e che unir deve il medesimo sentimento di rispetto e di profonda divozione verso S: S. Pio IX, è tempo che abbiano Un termine, giacché i buoni consigli e l’esempio dato dagli uffiziali e sottufficiali sono rimasti senza effetto; e da oggi avranno principio le seguenti disposizioni:

1. Vi saranno quattro compagnie di picchetto nell'annata pontificia e nella francese; le caserme ove saranno queste compagnie, verranno ogni giorno indicate nel rapporto della piazza, che viene mandato al quartier generale.

2. Gli ufiziali comandanti le compagnie resteranno colla truppa dal mezzogiorno alle 9 pomeridiane, e non andranno a pranzo che uno alla volta. Il comandante di ogni compagnia spedirà pattuglie di 24 uomini, alternativamente comandate da uffiziali, o dal sergente maggiore della compagnia in mancanza d'un ufficiale. Quando non potesse l’uffiziale od il sergente maggiore, vi sarà destinato un sottuffiziale, di modo che in ogni compagnia vi siano quattro capi di pattuglie.

3. Le pattuglie saranno in giacchetta e senza sacco; gli uomini di secondo rango non porteranno che la daga o la baionetta entro il fodero: così questi, essendo più liberi, saranno adoperali in caso nel fare arresti.

4. Tutte le pattuglie che s’incontreranno, si saluteranno militarmente; ciascuna prenderà la dritta, lasciando libero il passo all'altra sulla sua sinistra.

5. Le pattuglie si faranno col più grande ordine, marciando militarmente a passo lento, senza tamburo, fermandosi di tanto in tanto sull’imboccatura delle strade per sorvegliare e sentire se vi sia qualche novità.

6. Qualunque pattuglia che avesse fatto arresti, condurrà gli arrestati alla propria caserma, prevenendone la piazza, col far conoscere l’arma ed il corpo cui appartiene l’arrestato. La guardia nel condurre gli arrestati prenderà le vie meno frequentate e le più isolate.

7. Se i posti di sicurezza della piazza eseguissero degli arresti, conserveranno gli arrestati nel corpo di guardia prevenendone il comandante di piazza, che li manderà a prendere da soldati cui distaccherà da questa guardia o da quella di piazza Colonna, sempre per le vie le più isolate.

8. In seguito alle disposizioni sopra emanate, il posto della piazza e quello della piazza Colonna saranno aumentati secondo la capacità dei corpi di guardia.

9. Due uffiziali dell'armala pontificia saranno alternativamente di servizio alla piazza, per prestare il loro concorso, e cosi conosceranno il modo imparziale di tutto giudicare.

10. Il signor tenente Latour del 25 sarà nuovamente comandante di servizio alla piazza.

11. Allo stato maggiore di piazza vi saranno uniti duo uffiziali di ciascuna armata.

12. Fino a nuovo ordine non sarà accordato alcun permesso serale che ai sottufficiali. Tutti i soldati devono essere presenti all’appello serale.

13. Alle 5 della mattina batterà la diana, e le truppe saranno occupate alla manovra fino all’ordinario della mattina, che sarà alle 9, ora in cui si farà l’appello per sapere se tutti sono presenti. Dopo l'ordinario, la truppa resterà in caserma a ragione del caldo, fino alle 3 pomeridiane. Ricomincieranno quindi le manovre, e quei di libertà potranno uscire.

14. Il Colosseo, l'orto botanico, e le vicinanze di questi luoghi, sono proibiti a tutta la guarnigione.

15. Le pattuglie eseguite dalle compagnie di picchetto, riceveranno l'ora di partenza, e l'itinerario delle vie da percorrere. Le pattuglie incomincieranno il servizio dalle 3 pomeridiane alle 9 e 12; allora gli uffiziali potranno ritirarsi, ma dovranno restare alle proprie case. Le compagnie di picchetto rientreranno nelle loro caserme, come pure i sott'uffiziali e se occorrerà verranno richiamali gli uffiziali.

16. Per gli arrestati civili si prenderanno le stesse deposizioni che per gli arrestati militari: soltanto che dalla piazza si condurranno a Monte Citorio, ove resteranno a nostra disposizione, e se la polizia pontificia vi ponesse qualche difficoltà, saranno condotti al forte S. Angelo.

17. Ogni aggressore od istigatore, militare o borghese, % contro un soldato dell’una o dell’altra armata, sarà giudicato da un Consiglio di guerra dell'armata francese, che si farà stare permanente, giacché l’ordine dev’essere ristabilito. Solo gl’italiani avranno un avvocato loro connazionale.

18. Il saluto militare dev’essere reso da tutt'i subalterni di ciascuna armata ai loro superiori. I posti della piazza delle due armate devono rendere gli onori agli uffiziali generali in uniforme.

19. Non vi è che un generale in capo per tutte le truppe, che fanno stanza in Roma, e quando si presenta, già ne ha preso il comando. Ciò non impedisce che non si debbano rendere secondo la consuetudine gli onori al Sovrano ed ai Cardinali: ma non si devono rendere onori ad altri uffiziali, che passano davanti ad una truppa per recarsi ai loro posti.

20. Il generale co. di Govon, comandante le due armate, è per questo titolo il generale in capo di Roma; lo sa, lo rammenta al bisogno, intende e vuole che i suoi ordini siano religiosamente eseguiti e raccomanda a tutti la calma, l'ordine, la moderazione in tulio. Disposto alla clemenza sarà severo al bisogno.

Dal quartiere generale di Roma, il 25 giugno 1858.

Goyon.

Per vero dire le relazioni politiche tra il generale francese e le Autorità costituite di Roma erano molto lese e compromesse: il padrone colà era Govon. Se non sei, sette giorni dopo comparve in luce un altro suo Ordine del giorno, col quale toglieva ogni misura eccezionale; non per ciò diminuì colà l'avversione per quella occupazione straniera.

Alla fine di questo mese S. S. Pio IX graziava colla piena libertà i detenuti politici: Giuseppe Maccari di Bologna; Pietro Neri di Bologna; Antonio Pattueli di Castel Bolognese; Evaristo Rondini di Montenovo; Luigi Versa-ri di Faenza; Innocenzo Gappucori di Roma; Francesco Mannucci di Foligno; Girolamo Ruslichelli di Faenza; Livio Menghi di Rimini, e Gaetano Francia di Roma.

Altri 40 vennero inoltre graziati con diminuzione di pena.


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CAPITOLO IX

Luglio, Agosto

La Corte di cassazione di Genova terminava i suoi giudizii, e confermava la sentenza già data dalla Corte d’Appello pei moli mazziniani di quella città. I condannati quindi non avevano più a sperare che nella clemenza sovrana, che sembrava non lontana a lenire le loro pene.

Il processo del marchese Campana amministratore del Monte di Pietà, toccava pure la sua fine in Roma coi primi di luglio. Egli veniva condannato alla pena del carcero per 20 anni: non gli restava che interporre, come fece, appello alla Consulta. Il danno intanto che ne risentiva il tesoro dello Stato era di un milione di scudi.

Mentre un Ciro Cirri ed il vicegovernatore di Cesena venivano assassinali proditoriamente nella piazza di Forlì; mentre le pioggie dirotte e le gragnuole e le bufere devastavano le campagne in molte provincie d’Italia, e specialmente nelle due Sicilie; mentre i regnicoli sardi accorrevano a portare il loro voto all'urna per la nomina dei loro deputati, e le elezioni già riuscivano favorevoli al ministero, Domenico Buffa di Ovada mancava a vivi la mattina del 19 luglio 1858. Egli fu da giovine poeta lirico filosofico umanitario; adulto fu ministro nel 1848, indi plenipotenziario a Genova. Come deputato fu oratore logico, castigalo. Fu intendente generale di Genova. Godette stima di cittadino colto, probo, cristiano. Il Parlamento perdette in lui uno de' suoi più belli ornamenti. Tutto il regno ne pianse l’irreparabile perdita, il Re Vittorio Emmanuele beneficò la famiglia di lui, che rimaneva povera, cen un'annua pensione di lire italiane 1500.

Ai primi di questo mese videro la luce in Parigi due opuscoli; l’uno sotto il titolo: Napoleone III ed i Principali Danubiani; l’altro L’Austria ed i Principati Danubiani. Il primo manifestava le idee napoleoniche in riguardo a questi due principati, e già vaticinatasi come cosa decisa, la unione di questi due regni in uno solo; il secondo compendiava «Il sistema degli atti di violenza e di senso equivoco esercitati dall'Austria per impadronirsi di fallo di quei due regni.» Questi due opuscoli vennero letti in Italia con avidità, e diedero argomento per alcun tempo, ai partiti di ogni colore, alle loro conversazioni, ai loro commenti, alle loro polemiche. Valsero se non altro a distrarre gli animi delle popolazioni del Regno lombardo-veneto, già troppo poc’anzi occupali nel censurare gli imposti dal viennese ministero, nuovi bolli della caria bollata, e nuovi balzelli e nuove imposizioni che ognor più crescevano in misura e valore a mano a mano che crescevano le industrie patrie. Le quali, per vero dire, all'opinare del veneziano dott. Treves se non vivevano di una vita d’adulle, godevano quella per lo meno di adolescenti. Epperò il loro sviluppo maggiore richiedeva aggevolezze, protezione, e provvide istituzioni, che se non del lutto, in gran parte mancavano sventuratamente. Un terzo opuscolo usciva pure in luce intitolalo: Italia contemporanea; in questo mettevansi a nudo le piaghe, che per opera dei governi retrogradi che reggevano il bel paese, grondavano sangue da tutte parti d'Italia. Epperò tutti i governi colpiti senza compassione dalla penna dal sig. Aboul consegnarono alla stampa, sui loro giornali, lunghe polemiche, le quali altro scopo non avevano che di dichiarare menzogne, sfacciate calunnie le asserzioni di quell’autore. Ma queste arti governative non valsero a sradicare dalla mente e dai cuore dei lettori le verità accennate con tanto calore in quell'opuscolo.

Ma l'attenzione pubblica venne in un subito portata sopra una Circolare pubblicata dall'Italia del Popolo ed attribuita al Governo sardo, diretta a' suoi agenti delle due riviere per prevenirli dello sbarco di bombe e di granale destinate a qualche movimento politico, e quindi per ispronarli a raddoppiare la loro sorveglianza alfine di praticarne il sequestro. Questa circolare sarebbe la seguente:

«Il R. Governo è stato informato che una considerevole quantità di bombe o granale, destinate a ricevere polveri fulminanti e coperte di cuoio, sono già state spedite, o debbono essere fra breve dall’Inghilterra, e «sotto la denominazione d’istrumenti di ginnastica, a diversi punti del Mediterraneo e dell" Atlantico per essere Quindi spediti, sia nell’interno d’Italia, sia verso la frontiera di Francia.

«La gravità e l’importanza delle cose richiedono che sia usata la maggior possibile vigilanza onde scoprire il tentativo di simili introduzioni, nell’arrestare siffatti proietti all’atto dell’introduzione; lo scrivente prega l’ispettore di tosto dare confidenzialmente ai capi dei due servizi! ordini precisi affinché sia raddoppiata rigorosa vigilanza lungo il litorale di giorno e di notte, nelle visite a bordo dei bastimenti ed agli sbarchi dei colli e casse delle merci, nonché degli effetti d’equipaggio dei passeggieri, avvertendo che i proietti in questione potrebbero per avventura anche trovar posto nelle casse di mercerie, e debbono da quanto pare, essere unite a due a due per mezzo di una catena di ferro, sono di piccola dimensione, e portano per marca le due parole Duma-Cell. ..

«Quest’uffizio attenderà,che il sig… gli riferisca colla massima sollecitudine ogni scoperta traccia od indizio, che gl’impiegati delle dogane o gli agenti del servizio attivo potessero conseguire relativamente allo sbarco che si fosse eseguito, o che si tentasse di eseguire, di detti proietti, alleviatura, provenienza, o destinazione dei medesimi; nonché riguardo alla prova che direttamente o indirettamente ne tentassero l’introduzione nei RR. Stati, e quindi l’invio e passaggio alla Francia ed agli Stati d’Italia..

«Non fa mestieri di soggiungere al sig… che, facendosi scoperte di tali proietti, il servizio attivo o sedentario dovrà provvedere in modo che i proprietarii, consegnatarii, o conducenti, siano provvisoriamente trattenuti e consegnati alla sicurezza pubblica, dalla quale saranno «late le ulteriori disposizioni al riguardo.»

Questa circolare sembrava avesse dovuto tenere in grande attività gli agenti delle Intendenze nello scopo di scoprire e catturare lo scarico delle bombe annunziato. Però più che questa circolare, scosse l’attenzione degl'italiani il viaggio di Cavour in Svizzera, e perdi là a Plombiéres ove sarebbe giunto il giorno 21. Colà trovatasi l'imperatore Napoleone III. I commenti intorno a questo viaggio del ministro sardo, intorno a questa preconizzata visita, vennero latti in anticipazione ed appena se n’ebbe il sentore, senza velo e senza misura. Le speranze le mille volte agitate nei paesi italiani, elle la Francia concorresse a spalleggiare il Piemonte in riguardo alla causa italiana sursero di nuovo e si propagarono di uomo in uomo colla rapidità del lampo, e corredale da un tale presentimento, da farle considerare, non come le altre volte, fallaci ed rotondate. Forse quella vicina visita di Cavour all’imperatore de' francesi, e le ansie agitatrici degli italiani per quell'insperato avvenimento, giacché come tale veniva comunemente riguardato, influirono più che i reclami dei regnicoli del Lombardo-Veneto fatti al loro governatore generale Ferdinando Massimiliano, ed intenti a conseguire delle migliorie, specialmente delle riduzioni alle imposte prediali, le quali aumentavano in proporzione di territorio, più gravanti di quelle che pagavansi negli altri dominii della Monarchia, influirono, dicemmo, ad ottenere da S. M. l’Imperatore Francesco Giuseppe un suo motuproprio conforme alle proposte fattegli dall’Arciduca governatore suo fratello. Questo motuproprio è il seguente:

«Caro sig. fratello

«Arciduca Ferdinando Massimiliano..

«Col mio motu-proprio del 28 febbraio 1857, le ho ingiunto di riconoscere i bisogni del paese in tutto ciò che ne concerne lo sviluppo intellettuale e materiale, e prendere a tempo e validamente l’iniziativa rispetto ai provvedimenti ed alle istituzioni atte a soddisfarvi. In conseguenza alle proposte da lei fattemi per adempiere scrupolosamente questo suo dovere, ho risoluto quanto segue.

«Poiché occorsero richiami sopra la misura della imposta prediale, prescritta al Regno lombardo-veneto in confronto a quella esistente nei Dominii tedeschi e slavi, ordino venga istituita una Commissione speciale, la quale fondatamente e coscienziosamente esamini, se conforme al motu-proprio del 23 dicembre 4817, siasi stabilita una giusta proporzione tra il Regno lomb.-veneto e i detti dominii nella determinazione dell'imposta prediale, avuto riguardo alla differenza del catasto stabile vegliante per l'uno e pegli altri. Questa Commissione speciale della quale il luogotenente della Lombardia barone di Burger assumerà la presidenza, si comporrà di tre deputati a scegliersi da ognuna delle due Congregazioni centrali fra i suoi proprii membri, e di altri che verranno scelti dal mio ministro delle finanze. Sarà essa autorizzata a giovarsi, per l'accurata esecuzione del suo mandato, dell’opera de' periti giurati addetti alla Giunta del censimento, e dove occorra, ad invocare da Lei il permesso di far eseguire nuove stime di esperimento. I risultamene delle indagini praticate, e le relative proposte verranno assoggettate alla mia decisione.

Il privilegio fiscale, che in forza delle leggi 12 luglio 1805 e 17 aprile 1806, si estende ad ogni sorta di crediti erariali, in avvenire dovrà essere ristretto ai crediti erariali di diritto pubblico, e viene esso abolito in generale perciò che concerne credili dello Stato di diritto privato. Una legge, da promulgarsi in breve, determinerà il modo di esecuzione di questo mio sovrano volere..

«Avuto riguardo ai peculiari interessi delle belle arti in Italia, approvo che le Accademie di Milano e Venezia siano convertile in Sezioni degli Istituti di scienze lettere ed arti ivi eretti. L'ordinamento di queste nuove Sezioni degli Istituti, da sottoporsi alla mia sovrana decisione, dovrà collegarsi all’organismo di entrambi quegl’istituti. Avranno quindi un presidente, un numero conveniente di membri effettivi, per metà stipendiati, e per l’altra metà onorarli e socii d’arte. Sarà in generale debito di queste Sezioni, siccome autorità nel campo delle belle arti, di usare i loro lumi alfine di porgere all’esercizio delle arti belle ed a giudizii relativi un indirizzo che valga a far. rivivere le antiche glorie dell’Italia nel fatto delle arti; e ciascuna stenderà specialmente i programmi per i concorsi ai premi accordati da me, e pronunzierà il giudizio sui lavori che si presenteranno a concorso; darà parere intorno ai lavori artistici da eseguirsi per commissione imperiale, o a quesiti artistici, e proporrà a Lei il conferimento di stipendii ai più valenti discepoli..

«Gli studii elementari d’ora in poi avranno a farsi alle scuole reali, ma quanto all’istruzione superiore, i giovani alunni l’attigneranno presso rinomati maestri di loro scelta. Ai bisogni dell’architettura sarà soddisfatto, mediante speciale ordinamento dell'istruzione in questo ramo dell'arte. In causa di tale riforma delle Accademie, nessuno sarà pregiudicato nello stipendio, che gode colla definitiva nomina ad un impiego. I risparmi i che per queste nuove disposizioni risulteranno nell'assegno di dotazione delle Accademie, concedo vengano impiegati in opere d’arte, che illustrino la storia dell’impero e del paese, e tornino ad onore e vantaggio, si degli artisti lombardo-veneti, come di esso, paese.

«A migliorare la condizione dei medici condotti approvo le proposte, che, dopo di aver consultato le Congregazioni centrali Ella mi sottopose, e lascio a Lei la cura di regolarla con ispeciale Ordinanza conforme a' principii da me sanciti.

«Concedo per atto di grazia, riguardo al contingente di reclute, assegnato al Regno lombardo-veneto per l’anno 1858, che venga condonato il residuo debito del contingente medesimo; non si farà quindi luogo alla revisione delle liste di coscrizione pel corrente anno, come era stato ordinato. Finalmente Ella avrà facoltà di dispensare dal servigio militare gli studenti, che d’anno in anno le verranno notificati dai Rettori delle due Università del Regno lombardo-veneto, come i più distinti per ingegno, diligenza, cognizioni e buon costume, o che, per proprio avviso, Elia giudicherà degni di questa grazia.

Laxenburg, 16 luglio 1858.

Francesco Giuseppe m. p.

Questo motu-proprio fu combinato a Vienna più per rendere possibile il ritorno del principe Massimiliano nel lombardo-veneto che per soddisfare ai reclami delle popolazioni. E difatti come avrebbe potuto egli ritornare, egli che aveva promesso tanto, senza alcuna concessione? Non si sarebbe forse compromesso? Tali riflessioni più che, altro decisero Francesco Giuseppe a rilasciare nelle mani di lui quel documento, sperando che i popoli sarebbono rimasti contenti, e la scaduta confidenza nel loro governatore generale sarebbesi rinfrancata. Ma ciò non fu. Imperciocché ognuno conobbe in primo luogo, che la nomina di una Commissione incaricata a decidere sul giusto riparto delle imposte prediali, non era che un puro ripiego, un ripiego di mera apparenza, che sarebbe soltanto riuscito a distruggere gli effetti della concessione sovrana, in quanto che quella Commissione doveva essere scelta tra i membri componenti le Congregazioni centrali, ch'erano tutti austriaci per principii, per carattere, per convinzione. Epperò essendo quei membri creature del governo, non poteano che favorire il governo stesso, manomettendo gl'interessi del proprio paese. Dall’altro canto, quella Commissione doveva sobbarcarsi in una operazione che non aveva fine, perpetuandosi intanto uno stata quo di una provvisorietà pure senza fine. Tanto videro a prima vista quei popoli e lo scontentamento apparve sul viso, di lutti in virtù del proverbio italiano: dal detto al fatto havvi un gran tratto. Laonde per questa prima concessione, il principe Massimiliano, il quale credeva forse in cuor suo di aver molto ottenuto, s’avvide al suo ritorno nel lombardo-veneto, ed in progresso di tempo, che non aveva ottenuto niente, mentre la simpatia dei regnicoli si allontanava ognor più da lui, segno evidente di animo esacerbalo ed indispettito.

lu secondo luogo la seconda sovrana concessione, quella di formare delle Accademie di belle arti di Venezia e di Milano tante sezioni da unirsi agli Istituti ivi esistenti, veniva considerata non una concessione sovrana, ina sibbene come una restrizione in danno e disonore delle Accademie stesse. Provocò frattanto una lotta crudele, e lettere, e discorsi ed opuscoli vennero in campo a combatterla, ed il campione che la promosse, marchese Pietro Selvatico, direttore dell’Accademia di Venezia, cade in un precipizio, dal quale non è più risorto. Intanto, dopo un lungo ed accanito guerreggiarnento, quella risoluzione sovrana restò come non avvenuta, continuando le Accademie ad essere quello che erano per lo passato senza anima, senza vita, senza guiderdone.

Il principe Massimiliano, che tanto erasi avanzato nel cuore degli artisti in sui primordii della sua carica, per quella sovrana concessione dovette indietreggiare, e nel suo totale indietreggiamento si allontanò dal cuore quegli amatori delle arti belle e quegli stessi artisti che sino allora avevano considerato in lui un sostegno ed un protettore. Laonde la illusione nei popoli lece passi giganti, ed il Principe che in apparenza reg-gevali, quantunque fosse dotato di molte virtù e di buona volontà, nondimeno ne patì le conseguenze con lutto il loro ingente peso; laonde per sentirlo meno che fosse possibile, egli si diede a tutta possa a raddoppiar il lusso e le spese private, ed a favorire gli spettacoli dell’Arena di Milano ed i baccanali dei giardini pubblici di Venezia.

Addì 31 luglio, il, comandante dello stato d assedio per la città e comune di Carrara pubblicava la seguente Notificazione:

«Scoperti gli autori de' principali delitti di sangue, commessi nel territorio di Carrara, e puniti molti di essi, essendo ormai stabilita la quiete e la sicurezza io questo territorio, S. A. R. l’augusto nostro Sovrano, raggiunto cosi lo scopo, pel quale aveva sottoposto il territorio medesimo allo stato d’assedio, si è degnata, nella sua connaturale clemenza, di tosto ordinare la cessazione di tale misura straordinaria, cui la sola necessità di reprimere gli avvertiti misfatti le avevano fatto adottare..

«In conformità pertanto de' comandi della prelodata R. A. S., portati da venerato decreto del I. corrente, si fa conoscere quanto segue.

«1. Col giorno l.° agosto p. v. viene tolto lo stato d’assedio per la città e comune di Carrara.

«2. I processi però in corso instaurati dal tribunale militare, dovranno compirsi dal medesimo, col metodo con cui furono incominciati.

«Il comando militare di piazza conserverà fino a nuov’ordine la polizia della suddetta città e comune, riattivando le norme del vigente Regolamento di polizia.

Carrara, 31 luglio 1858.

«Cav. De Wìderkhern, maggiore»

Da questa Notificazione risultava che veniva tolto bensì lo stato d’assedio in quel territorio, ma che la polizia restava tuttora nelle mani del Comando militare; ciò era quanto si dicesse, «vien data una buona apparenza, ma restava sempre la fatale sostanza.»

Addì 17 agosto, gli ufficii amministrativi del Regno lombardo-veneto ricevevano una Circolare di S. A. I. l’arciduca Ferdinando Massimiliano, colla quale egli riuscì ad affezionarsi nuovamente molte persone, a far svanire molti dubbii dagli animi della gente di difficile accontentamento, a cattivarsi molti altri che gli si erano allontanati, a fiduci are molti delusi, a tranquillare molti irrequieti, ed infine a far piegare momentaneamente la opinione pubblica a suo favore. Epperò quelli che formavano il vecchio suo partito ritornarono per la maggior parte a ricoverarsi sotto il di lui patrocinio, inalzandolo ancora a cielo, magnificandone le glorie, mentre altri non del lutto a lui propizii e non del tutto a lui contrarii, stavano mi vedremo, né osavano di pronunziarsi temendo d’ingannarsi; Ciò formava contrasto coi gridi di molti altri ch'erano veramente a lui contrarii ed avversi, i quali con chiarissime note esclamavano: «sono parole, che finiranno in niente, come tante altre». Nacque intanto ancora un nuovo antagonismo, che spingeva la situazione politica del paese sovra di un’altra fase: antagonismo sorretto da una parte dai partigiani del principe e dall’altra dal partito piemontese. Ecco la Circolare:

«Dopo un soggiorno di tre mesi in Vienna, ove dalle labbra del Sovrano udii parole di compiacenza sull’avviamento quà iniziato, e ove attinsi alla fonte dei potere le norme fondamentali, cui attenermi, io ritorno nel Regno lombardo-veneto; e recandomi di nuovo in mano le redini del Governo affidatomi, stimo opportuno, a schiarimento del presente e dell’avvenire, alcune parole, che si col legano come progressiva conseguenza alle prescrizioni da me impartite, quando lo assunsi.

«Il primo anno di questa nuova era amministrativa fruttò nel Sovrano Autografo testé emanato non irrilevanti risultati. Colla Commissione speciale per le imposte prediali è facilitata la soluzione definitiva di un quesito gravissimo. Il ristringimento dell'esecuzione. fiscale entro il vero suo limite, toglie un' anomalia rimasta dai' tempi del Governo francese; Colla riforma delle Accademie è dato un più sicuro indirizzamento ed una più siculi vitalità alle arti del disegno, fulgidissima gloria dell’Italia. Le disposizioni in vantaggio dei medici condotti, maturamente studiate dalle Congregazioni centrali, corrispondono giustamente ai loro adoparamenti ed alle condizioni del paese. E negli obblighi di coscrizione S. M. ha permesso pel corrente anno importanti facilitazioni.

«Avvalorato dalla sovrana approvazione di queste proposte, progredirò nella via segnata dalla legge, dalla equità, e dar pubblico bene. E rivolgendo lo sguardo alle mie succitate indicazioni sulla condotta degli UScii amministrativi, che dettai nel venire al governo di questo paese, non trovo oggi di averne a modificare i principi!. M’accorgo che se n’è compreso lo spirito e in qualche cosa incamminata li effettuazione. Vedo altresi con piacere e Comuni e Corporazioni e persone singole coadiuvare con alacrità di mente e di azione il conseguimento dello scopo comune.

«Le due capitali, Milano come ricco centro di una operosità intellettuale e pratica, Venezia, bella d’arti e monumenti, come città commerciale e marittima, hanno ripigliato il moto di un crescente progredimento.

«Le Congregazioni centrali, provinciali e municipali diedero alcune prove del maggior zelo per la cosa pubblica ed offersero elaborate proposte, che ottennero pieno il Sovrano aggradimento ed avranno per la maggior parte attuazione.

«Ma perché gli uomini, i quali si adoperano cordialmente pel bene, non rallentino il proprio fervore, uopo è (ed a ciò mi propongo di mettere speciale attenzione) che non vengano loro frapposti importuni inciampi sulla via; anzi si giovino invece di pronto aiuto.

«Opere grandiose sono in corso, le quali porgono agii organi dell’Amministrazione dello Stato l’opportunità di mostrare che sanno mettere in movimento e guidare l’attività degli amministrati, senza trascorrere da un contegno moderato e per cosi dire sussidiario ad una tutela esuberante ed ambiziosa.

«Sono da annoverare fra queste opere il progresso d'irrigazione del Friuli per mezzo del Ledra e dell'Agro superiore di Verona; l’immissione che si farà-in breve del Gua nel Chiampo; rasciugamento delle vaste paludi lungo le coste dell’Adriatico; il compimento della rete di ferrovie; la copia di acqua potabile nella città delle lagune; i molteplici adattamenti a formare di questo antico emporio dei traffici una piazza di commercio rispondente all'uopo dei tempi odierni.

«Tanto in questi fatti, quanto nella prossima regolazione della pubblica istruzione e negli spedienti a sollievo de' miserabili territorii colpiti da calamità elementari, cui mi propongo di rivolgere sollecite cure, avranno i pubblici Uffizi occasioni di mostrarsi con intervento ben misurato; uè sfuggirà al mio sguardo la mala tendenza del padroneggiare io chi non è in costanza che un servitore dello Stato ed un cooperatore nel conseguimento del pubblico bene.

Per ciò che concerne la trattazione degli affari, desidero, che gli impiegati dello Stato servano di modello ai Corpi rappresentativi nelle forme dello scrivere semplice, ma succoso e robusto. Né posso lasciare senza biasimo l’abitudine, pur troppo generalizzata, di stendere relazioni assai prolisse le quali rammentano il detto: che dietro all’ampollosità delle frasi sta nascosta la superficialità. Ed in pari tempo dichiaro, che userò una rigida severità verso coloro, i quali, particolarmente presso le Autorità superiori, spicciano gli affari con formule inconcludenti al solo fine di procrastinarne la decisione in inerito.

«I principii, che reputo necessario d'inculcare, acciocché siano coscienziosamente osservati da tutti gli ufficiali civili, sono i seguenti:

«Ognuno dovrà prima di tutto aver sempre e rigorosamente presenti agli occhi del pensiero i precetti dell’equità e della legalità. Abborro l'abuso e l’arbitrio, e li saprò certamente scoprire e punire.

«Oltre a ciò è di sommo rilievo il non deviare mai da una diritta logica e dalla netta chiarezza delle idee, specialmente in questi paesi, in cui la rapida intelligenza e la squisitezza del fatto morale non sono un privilegio di pochi, ma si una dote quasi comune.

«Le Autorità, camminando coll’equità e col ragionamento le vie legali, dovranno opporre una calma dignitosa ed un’immobile fermezza ad ogni tentativo d’illegalità e di prevaricazione.

«Come non tollererò l’arbitrio, cosi né pure la debolezza: anch’essa trascina ad illegalità, chi v’incorre per connivenza si merita un castigo, e gli verrà pronto; chi vi ha una tendenza congenita, o se la è lasciata inoculare nel sangue, non è idoneo ai pubblici uffizj, e ne sarà tosto rimosso. Per la fermezza, molte difficili congiunture passarono senza conseguenze dannose; e ad essa bastò molte volte il solo mostrare, pur non l’adoperando, la propria forza.

«I nemici dell’ordine fanno sempre calcolo sulla mancanza di fermezza e sulla irresoluzione nell’uso dei mezzi efficaci in que’ momenti decisivi, in cui si possono sottrarre i popoli ad incalcolabili danni, lo sono determinato di far uso di questi mezzi, qualora si rendesse necessario: lo sono tanto più, in quanto che riconosco, stimo e coltivo i pregi della nazione, che a giusto diritto si vanta della più antica civiltà. Ma dovendo proteggere con mano vigorosa ed equa la pacifica via del suo svolgimento morale e materiale, insto premurosamente, acciocché gli Ufficj amministrativi secondino le ragionevoli aspettative e i retti desiderii del paese suscettibili di-effettuazione.

«È questo il diritto del paese verso il Governo; e cosi ha il Governo verso il paese il diritto di fedele sudditanza; ciò che io, posto alla cima del Governo, voglio indubitatamente assicurare con quella fermezza, che è una parte del retaggio della nostra Casa.

«Esigo dunque da lutti gl’impiegati senza eccezione (lo ripeto con insistenza) l’adempimento de' loro doveri, cioè vèrso di me la verità intera e nuda; verso il pubblico un contegno manieroso, ma fermo; dalla loro coscienza la giustizia; dai loro onore la diligente e coscienziosa trattazione degli affari. Tutto ciò; ed inoltre a ciò zelo instancabile e fedele pel servigio, ii quale sarà poi guiderdonato di certa preferenza nel caso di promozioni.

«Fino ad oggi ho lasciato tempo a me stesso ed agli Uffizj pubblica amministrazione di studiare accuratamente i fini, ed i mezzi per conseguirli; allo studio della riflessione segua ora il periodo dell’azione.

«Ferdinando Massimiliano, m. p.

La buona lede e l'animo buono ed intelligente del Principe, veramente informato dello spirito di giovare, in modo dignitoso e senza ledere le suscettibilità nazionali, agli interessi del paese sotto la sua governamentale reggenza, palesavasi in ogni passo della citata Circolare, ma, come dicemmo altrove, avendo egli sventuratamente le mani legate, il tutto finiva colla esternazione di pii desiderii. Nondimeno in quella sua Circolare egli scopri molti abusi ed arbitrii, che non vennero mai tolti; egli denudò sino dal suo ultimo lino molte piaghe esistenti nel seno amministrativo, che non vennero mai cicatrizzate; egli svelò molti bisogni nello Stato, che non vennero mai sopperiti. SE quindi abusi, arbitrii, corruzione, piaghe e bisogni esistettero sempre: copia fatale agli interessi dell’Austria, e propizia a quelli della causa italiana.

Terminatasi (30 luglio) il gran processo di Sapri sui motti provocati da Pisacane. Sette accusati furono condannati all'estremo supplizio: gli altri a più o men lungo tempo di carcerazione: ma non si tenne parola in quella sentenza dei sudditi sardi ed inglesi che si trovavano a bordo componenti l’equipaggio del Cagliari. Il Re di Napoli fece grazia ai sette condannati, tramutando a Nicotera e due suoi compagni, la pena di morte alla galera in perpetuità-, agli altri quattro ai ferri per 25 anni.

Altre due sentenze venivano pubblicale in Genova (14 agosto) della Corte d’Appello di quella città. Culla prima condannavansi i contumaci:

Mazzini Giuseppe, fu Giacomo, d’anni 50, avvocato, dimorante a Londra;

Mosto Antonio, fu Paolo, » 32, negoziante

Mangini Angelo, d’Ambrogio, » 27, confettiere

Casoreltu Giu. Battista, » 31, facchino;

Lastrico Michele, d'anni 32, marinaio;

Pittaluga Ignazio.

Tutti questi condannati alla pena di morte ed a 300 franchi di multa ciascuno, siccome convinti di cospirazione, scoppiata il 29 giugno 1857, avente per oggetto di cambiare la forma del governo.

Colla seconda sentenza condannavasi alla morte Pontier Luigi, padrone della feluca La Corridora Elba, per ribellione alla giustizia.

A queste morti compiute dalla giustizia umana, venne contemporanea quella di Michele Leoni, compiuta dalla natura. Il Leoni fu uno dei più distinti dotti italiani e dei più cari amici di Ugo Foscolo. Pubblicò molti libri in poesia ed in prosa e ne tradusse molti altri dalle lingue latina, tedesca ed inglese. Tanto le site opere originali italiane, quanto le sue traduzioni racchiudono molti pregi. Furono encomiate, tra le altre, il suo carme La guerra, ed i suoi versi La Campagna di Polonia. Fra le traduzioni primeggiano, tragedie di Shakspeare, e le Georgiche di Virgilio. Mori in Parma ove era professore di letteratura italiana e secretarlo dell’Accademia di belle arti.

Sulla fine di questo mese sorsero, già preconizzali qualche tempo prima, nuovi allarmi per nuovi sbarchi e nuovi moti insurrezionali alla Spezia ed a Sarzana, che dovevano nuovamente incogliere tra le vampe mazziniane i popoli di quei territorj. Epperò le Intendenze dello Stato sardo e la polizia militare dei Bacati limitrofi sfoggiarono grande apparato di forze, onde evitare il pericolo. Ma quel pericolo era sognato, ed i rapporti spediti ai governi interessati dall’Inghilterra e dalla Francia erano vuoti di fondamento, e non fruttarono che arresti di precauzione da una parte e dall’altra.

Contemporaneamente venne assassinato proditoria mente in Isvizzera Casimiro Parodi di Genova, già imputato come complice od attore negli ultimi tentativi del suo paese. Questo assassinio che vollero compiuto per vendetta privata, provocò polemiche e note fra i due governi, sardo ed elvetico, e fu origine di molti arresti operati per sospetti dalle due polizie.

Le Conferenze di Parigi intanto toccavano la fine: nulla però, a quella data, potevano sapere delle medesime i popoli dei Principali danubiani che le avevano provocale. Non mancarono nondimeno le induzioni ed i vaticinai, che le dichiararono favorevoli alla reclamala cessione dei due principali, ed ostili all’Austria in quanto spettava la navigazione del Danubio..

Una fantesca di Bologna che diede l’acqua del battesimo ad un fanciullo, figlio di un ebreo di quella città (certo Morlava) fu causa, pure sulla fine di agosto, d'interminabili scissure e lamenti e proteste tra israeliti e cristiani. Quel fanciullo per opera dei preti fu portato a Roma ed i reclami del padre suo per riaverlo furono vani. La stampa si scagliò inviperita e spietata sopra il clero della Chiesa cattolico-romana, e su di lui vennero vomitate contumelie ed obbrobrii da lutti quei paesi ove la tolleranza religiosa ha forza di legge. E non solamente in Inghilterra ed in Piemonte, ma ancora. nel Belgio, in Germania ed in Francia si bestemmiò contro quel fatto, che, nato sul dominio. della Santa Sede, destò maggiormente le animaversioni dei popoli, condannando il proselitismo, operalo con alti clandestini e violenti. Ecco un estratto del memoriale spedito alle competenti autorità pontificie dal padre del fanciullo rapito:

«A Bologna, il 24 giugno. 1858, il fanciullo Edoardo Mortara, d'anni selle, venne rapito ai suoi parenti, col pretesto ch’egli fosse stato clandestinamente battezzato. Il padre, desolato, chiede più volte, ma invano, le circostanze dettagliate per le quali gli veniva rapito il figlio suo. Spirate alcune settimane, egli seppe, per via indiretta, solamente, che una certa Anna Morisi, altre volte domestica in casa sua, aveva detto alcuni mesi prima ad un’altra serva, ch’ella aveva, ad istigazione di un certo Lepori, droghiere, battezzato il piccolo Edoardo, senza testimoni, all’età di un anno, allora quando veniva colpito da grave malattia..

«Mortara, conoscendo alla fine i fatti, pensò poter obbiettare che in vero Edoardo all’età di un anno ebbe una piccola malattia prodotta da febbri verminose sì comuni ai fanciulli, ma che il suo stato non dava alcun timore a chi che sia. Dunque la condizione che permette di dare il battesimo ai figli degl’infedeli, invitis parentibus, non esiste né punto né poco, cioè la certezza di una morte inevitabile. Difatti, sarebbe cosa contraria alle massime della Chiesa sopra l’autorità paterna, il credersi autorizzata a battesimare i figli prima che la morte vicina non minacciasse di sottrarli all’autorità del padre e della madre.

«L’avvenimento, come viene riportato, non ha mestieri di esame; mentre che non si strapparebbe giudiziariamente la più piccola proprietà senza l’appoggio di pruove irrefragabili, come si può, per la semplice e nuda asserzione di una serva, stabilire un fatto che avrebbe per conseguenza di privare un padre ed una madre dei loro figli.

«La domestica Morisi non ha parlato che dopo cinque anni. Non si può sospettare quindi ch’ella non abbia compiuto tutte le esigenze del rito battesimale con quella rigorosa precisione ch’è richiesta per la validità del sacramento? E tanto ch’ella, allora, non era ancor arrivata all’età di 46 anni, e ch’era incolta ed ignorante fra quante mai?»

Qui il memoriale si estende sull’esame di argomenti sacri generali, ed indi cita i testi dei Santi Padri della Chiesa per fortificare le sue asserzioni: «Il battesimo» indi segue «conferito ad un adulto senza il suo consentimento, è tenuto per nullo; perché non si giudicherà lo stesso di quello amministrato ad un piccolo fanciullo invitis parentibus? L’atto non è egli egualmente odioso alla chiesa? Non viola egli nella stessa maniera le regole del suo governo? L’autorità del padre sopra i suoi figli è ella forse meno certa e meno assoluta che quella ch’egli ha su lui stesso? Havvi niente che possa appartenerci con più giusto titolo de' nostri figli, sangue del nostro sangue, parte migliore di noi stessi destinata a perpetuare la nostra esistenza colla catena delle generazioni, sacro deposito che la divina Provvidenza ci confida per domandarcene conto ella stessa? Quando il completo sviluppo si è compiuto, apportando la conoscenza delle proprie azioni, il figlio resta legato al padre dai legami del rispetto, della riconoscenza, dell’amore figliale; ma sino a tanto ch’egli non sia arrivato a questo periodo della vita, le leggi divine, né le leggi umane non riconoscono in lui una distinta emancipazione dall’autorità paterna.

«Egli è nella educazione dei figli, primo dovere inerente alla qualità di padre, che questa autorità paterna riceve maggiore forza e solennità. Un figlio che la Provvidenza abbia dato ad un israelita, deve essere tutto ed in tutto israelita, sino a tanto che il padre, o il figlio stesso, divenuto adulto, non decidesse altrimenti Non vi ha potere, che possa, nei limiti del giusto e dell’onesto, imporgli altre credenze che quelle ricevute nel tetto paterno. Ella è questa la dottrina di S. Tommaso (Dos infideles,3, 9, 67). Se i figli degl’infedeli non hanno l’uso del libero arbitrio, secondo il diritto naturale, essi appartengono alle cure del padre e della madre per tutto quel tempo ch'essi non possono provvedere a loro stessi. Ed è per questo che si dice che i figli degli antichi sono stati salvati nella fede dei loro padri, salvabanlur in fide parenlum. Conseguentemente egli sarebbe contro la giustizia naturale che tali figli fossero battezzati contro il volere dei loro parenti, e precisamente come se si battezzasse qualcuno avente l'uso della ragione contro la sua 'volontà..

«Con una moltitudine di altre citazioni, considerazioni ed argomentazioni, il memoriale prova la nullità del battesimo invitis parentibus. Inoltre cita i differenti giudizii de' Papi e di vescovi che hanno promesso che i figli israeliti battezzati io identiche circostanze, venissero rilasciati ai loro parenti. colla ingiunzione soltanto di presentarli all'età di 42 anni.» Finalmente «segue il memoriale» in Roma stessa nel 1840 la forza armata presentami alla casa dei coniugi Cremieux, israeliti francesi, reclamando una giovinetta perché era stata clandestinamente battezzata a Fiumicino. I parenti la nascosero e la rifiutarono. Dopo una lunga discussione, l’autorità superiore ha giudicato in proposito di non parlarne più.»

Ma era la Francia che in allora si frappose onde proteggere i suoi sudditi, e le ragioni. teologali reclamanti quella giovanetta fatta cristiana, trovarono, nella loro elasticità, argomento di desistere dalle loro pretese, ben sapendo che colla forza la teologia è un nome vuoto di senso da non ammettere nemmeno il coraggio di una legale protestazione.

L’israelita Mortara non avea per suo difensore che la pubblicità, la quale altamente condannava quell’alto clericale, chiamandolo contrariò ad ogni legge divina ed umana.

I ladri e gli aggressori intanto nella Liguria, in Piemonte, in sul Ferrarese e Bolognese e nelle marche di Ancona infestavano i paesi, e come ne’ tempi passali, impunemente commettevano grassazioni, assassinii e delitti di ogni genere. Impotenti sembravano quelle locali polizie ad arrestarne o diminuirne il flagello. Una petizione quindi veniva spedila al legato di Bologna coperta di oltre a 1000 firme, e colla quale gli impauriti cittadini chiedevano misure di riparo. Quella petizione ebbe l’onore della stampa sui fogli del Piemonte e della Francia, ed eccitò gli avversi al regime clericale a dettar commenti di un peso crudele, caricando la responsabilità di tanti mali sul governo di Roma.

La nascita del principe ereditario al trono d’Austria mosse lo zelo delle italiane Congregazioni centrali, provinciali e comunali a dettare, pubblicare per i-slanipa, e presentare indirizzi caldi d’affetto e di gioia a S. M. l’imperatore Francesco Giuseppe. E quello zelo nel magnificare il fausto avvenimento fu spinto sino all'entusiasmo, e quindi invece di assumere il carattere di un atto di dovere, indossò quello di una politica dimostrazione. Da ciò i vituperi scagliati contro i membri componenti quelle Congregazioni dalla stampa liberale e dagli uomini che avevano interesse di custodire la dignità della nazione.

Ma una gioia ben più sincera od esilarante, si fu quella dimostrata dalle Società operaie degli Stati sardi, radunatesi a Torino nella occasione della solennità della distribuzione dei premi ai capi d'opera d’industria e manifattura nazionale della grande Esposizione del Valentino. Gli operai colà scorrazzavano le vie con bandiere tricolori inalberate, accompagnati da bande civiche, sedevano a lauti banchetti di oltre a 1000 coperte, ove, favoriti da Cavour, si tenevano assembrali in fratellevole maniera, ascoltando discorsi, che i più caldi d’amor patrio, pronunziavano con sincerità d’affetto, e facendo brindisi ed evviva alla salute dello Stato e dell’Italia. Il loro nobile entusiasmo trovava eco anche nelle altre parti d’Italia ed una generosa invidia nei lontani faceva desiderare quei luoghi, quegli uomini, e quella vita di patria ebrezza.

Ma quella gioia veniva sventuratamente funestata dallo apparire, in quei di, in Italia, tre danni, l’uno peggiore dell'altro.

Il primo colpiva tutte le provincie italiane in generale; ei fu la tema della febbre gialla di cui qualche caso quà e là avvenne, portata negli scali marittimi da bastimenti americani. Epperò da tutti i governi indistintamente furono prese delle precauzioni sanitarie e con quarantene e con altri provvedimenti, i 'quali, per quantunque salvassero da si orribile flagello i nostri paesi, pur non pertanto arrestarono per qualche tempo i traffichi ed il commercio a danno delle nazionali speculazioni.

Il secondo danno colpiva spietatamente il territorio di Savona. Un uragano, accompagnato da fulmini e da alluvioni d’acqua si precipitò su quel territorio, ed in poche ore lo mise a nudo, devastando le campagne, schiantando alberi, crollando case e ponti e recando danni di varii milioni. Savona quindi ricorse alla pubblica pietà, e ben presto le casse municipali e cittadine furono aperte a suo soccorso.

Il terzo danno finalmente colpì il Regno Lombardo-Veneto, e si fu il nuovo sistema monetario, che il ministero delle finanze di Vienna volle introdurre, ritirando le monete vecchie e sostituendone di nuove coll’idea di costituire un’eguaglianza di monete in tutta la monarchia; ma ciò si fu veramente soltanto un mezzo per incassare, con un colpo di mano, in poche settimane, molti milioni, a danno,ingente dei capitalisti. Grandi e lunghi quindi furono i mormorii ed i lamenti dei danneggiati e specialmente del minuto popolo.

Questa legge monetaria fece prendere in proposito delle misure anche dai governi dei Ducati, misure pesanti perché dannose a quelle popolazioni.

In sulla fine di questo mese di agosto, non erano ancor cessate la voce e la tema di un prossimo sbarco di bombe all’Orsini provenienti dalle officine di Londra, ed apparecchiate per venire usate in Italia ed in Francia. Questa voce e questa tema esistevano non solo in Piemonte e nei Ducati, ma sibbene ancora in Napoli ed in Sicilia. Le bombe all’Orsini dovevano essere inviate in forma di frutta di zucchero, dal Belgio a Malta, e di là nel Regno delle Due Sicilie. Il Governo di Napoli emetteva circolari a' suoi agenti doganieri, onde stassero all’erta ed usassero la più scrupolosa sorveglianza. Eccone una inviata al direttore della dogana di Catania:

«Signore, è pervenuto avviso al real governo di essere state costrutte in Inghilterra delle piccole granale fulminanti della forma di piccoli frutti, ricoperti di vetro, le quali, come confetti, sono riposte in iscatole.

«È stato pure riferito, che già un competente numero delle stesse sia partito da Malta su di un bastimento a vela, e che sia stato diretto al rifuggito F.... dal quale per mezzo di piccole barche, saranno trasportate nei reali dominii.

«Ritiensi per fermo che tali strumenti omicidi, usciti dalle officine rivoluzionarie di Londra, servano per compiere gravi attentati, onde sovvertire l’ordine pubblico.

«Nell’affrettarmi a rendere lei riserbatamente consapevole, la prego disporre la più severa sorveglianza nella Dogana di sua dipendenza, per impedire l'entrata di questi formidabili strumenti di morte, che in questa età uno spirito infernale di sovversione elabora nel segreto e nel mistero a danno della società.

«Palermo, 18 agosto 1858.

«Il controllore generale, direttore generale

«March. Mortillano.»

Addì 25 agosto 1858, la Società del teatro drammatico di Torino, favorita indirettamente dal governo, capitanata dal valente G. Stefani pubblicava il suo programma.

Eccone il suo scopo:

«1. Alla formazione ed al susseguente esercizio di una Compagnia da intitolarsi: Compagnia drammatica italiana, composta dei migliori artisti che si potrebbero raccogliere nelle condizioni presenti dell’arte e dei contratti in corso. Essa dovrebbe constare di tutte le parti necessarie nella rappresentazione d’opere appartenenti ad ogni scuola drammatica, dovrebbe agire sotto la direzione tecnica di un artista, che sovrastasse per voce autorevole ed esempio fecondo, per poi diventare modello e stimolo di emulazione nell’arduo cammino che avrebbe a percorrere. Sarebbe perciò fornita di ricco, elegante e severamente appropriato vestiario, analogo addobbo di scene e decorazioni rigorosamente caratteristiche.

«Questa Compagnia agirebbe per un corso annuo di 100 rappresentazioni, in uno fra primarii teatri di Italia, e per altrettante in uno dei principali teatri di Milano, impiegando il rimanente dell'anno nel percorrere le principali scene d’Italia, e tra queste segnatamente quelle di Genova, Firenze, Venezia e Trieste.

«2. Alla istituzione di un Ginnasio drammatico, o nucleo di artisti, che si chiamerebbero attori allievi, destinati a compiere ed innovare la Compagnia: giovani educati, di bella apparenza, incaricati di sostenere ne’ primordii della loro carriera, le seconde e terze parti, che sono, quasi sempre, una delle piaghe del nostro teatro. S’aprirebbe un concorso, e gli attori allievi avrebbero ad essere scelti fra concorrenti, i quali offerissero condizioni migliori di attitudine e di coltura. L’insegnamento gratuito teorico e pratico sarà ad essi impartito per cura della Direzione da abili maestri, e coll'esempio efficace degli attori primarii della Compagnia, giusta speciale Regolamento disciplinare di istruzione, da pubblicarsi..

«3. Alla compilazione di uno scelto e purgato repertorio composto delle migliori opere tratte dal moderno teatro italiano, fiancheggialo da quelle dei teatri stranieri, convenientemente tradotte, le quali andranno diramandosi in proporzione della progressiva inserzione delle italiane, che pure saranno intercalate da rappresentazioni o accademie del teatro classico antico, e dei capolavori antichi stranieri, inglesi, tedeschi e spagnuoli, dei quali, come dei più recenti, saranno affidate le traduzioni e le riduzioni a penne di nota perizia tecnica e di pari intelligenza nelle lingue straniere e nell’italiana.

«L’ammissione delle nuove produzioni sarà decisa da una Commissione esaminatrice, una specie di giuri letterario, scelto tra letterati di lama, trai sottoscrittori-promotori, e tra gli artisti della Compagnia. S’intende che per le nuove rappresentazioni originali italiane la Direzione determinerà le regole del compenso. Ai più lodati viventi scrittori drammatici sarà fatto speciale invito, colle debite offerte di premii e compensi, acciò vogliano concorrere con apposite produzioni ad arricchire il repertorio italiano.

«4. A propagare il diritto della proprietà drammatica, procurando presso i Governi d’Italia che, almeno per le opere del nuovo repertorio, si adotti, rispetto agli autori, il regolamento, eh è in vigore in Francia. Quando i Governi avranno provveduto a tutelare questo diritto, avranno già fatto molto a prò del teatro italiano.

«La Direzione inoltre si farebbe editrice. di una pubblicazione periodica, col titolo: Archivio del teatro drammatico italiano, in cui verrebbero inserite le migliori produzioni accettate nel repertorio, la critica ragionata di tutte quelle rappresentate dalla Compagnia, le notizie drammatiche italiane e straniere, con lezioni di storia, di estetica, di costumi applicati alle scene, ecc.

«Per meglio raggiungere lo scopo accennato al N.° 4, verrebbe fondata Un’Agenzia di tutela pei diritti degli autori drammatici, e sarebbero iniziale presso il nostro Governo e il nostro Parlamento le pratiche opportune per promuovere anche dagli altri Governi italiani il giusto rispetto della proprietà drammatica.

«Nelle città, in cui si troverà la Compagnia sa ranno invitati dalla Direzione alcuni uomini autorevoli ed amanti del teatro, scelti a preferenza tra i soscrittori-promotori, a far si che le deliberazioni, che si dovessero prendere, sieno sempre conformi all'indirizzo del programma e dei regolamenti.

«Sembrano per avventura soverchi siffatti intenti? L’attività di un Comitato direttore, che abbia la coscienza del proprio mandato, è sufficiente a raggiungerli, essendo tutte conseguenze di un solo principio, anelli di una stessa catena.

«A cautelare in parte il rimborso delle ingenti anticipazioni, necessarie all'avviamento e al successivo esercizio economico di questa nuova istituzione, destinata a favorire i progressi dell’arte drammatica italiana, si aprirà una sottoscrizione in quelle città, che la Compagnia sarà destinata a percorrere, alle condizioni che verranno indicale da speciale regolamento.

«Una Commissione per l'esame dei progetti artistici, e per fissare le basi economiche della società del Teatro drammatico italiano, si è costituita fin d’ora a Torino nelle persone dei signori.

«Ala Ponzoni, marchese Filippo — Alfieri conta Carlo, deputato — Berti Domenico, professore —Brof-ferio, avvocato Angelo, deputato — Capellina cavaliere Domenico, professore — Castelli comm. Michelangelo, -deputato — Correnti Cesare, deputato — Gazzoletti avvocato Antonio — Nigra cavaliere Costantino — Tommaseo Nicolò — Ventura Giovanni..

«Torino, 25 agosto 1858.

«Guglielmo Stefani pei soci fondatori».

Il programma dell'animosa società subalpina trovò in Italia molti partigiani, sinceri amatori delle buone istituzioni, ma trovò eziandio molti avversari. I primi lodarono la nobile impresa, la portarono a cielo, perché derivata dal Piemonte, ove sempre aveva la prima intuizione tutto ciò che all’universa Italia poteva riuscir utile e decoroso, e si proposero di aiutarla con tutte le loro forze. I secondi (che prano gli invisi al Piemonte), la condannarono con isprezzo, con isdegno, tentarono di gettarla a terra appunto poiché proveniente da colà e si proposero di menomarne l’importanza. La stampa austriaca per impulso del governo (il quale certamente non poteva ammirare con piacere che i sudditi suoi si aggregassero a società sarde, tanto perché anche quello era uno dei diecimila modi adoperali dalla propaganda piemontese per attirare a sé anche le notabilità artistiche e letterarie delle altre parti d’Italia, quanto perché gli era un rimprovero mordente, specialmente essendo quella impresa favoreggiata da Cavour, che gli intuonava all'orecchio lo dure parole: «Io Piemonte, faccio, e tu, governo d’Austria, non fai mai niente», la stampa austriaca, dicemmo, chiamò una talentella ridicola la impresa di quella società, parole pompose che non avrebbono avuto alcun effetto, foglie e non frutta, sogni da malato, utopie da pazzi. «Ci voleva ben altro «ella diceva» che la panacea universale del signor Stefani.» E il biasimo per quella impresa durò lungo tempo e venivano presi di mira e notati sui libri secreti delle polizie austriache quei valenti che direttamente od indirettamente vi prendevano parte o come sodi, o come protettori. Epperò dal carattere artistico che in origine ebbero quelle società, passò in progresso di tempo ad averne uno tutto politico, che corrispose egregiamente da un lato a mantenere anche sulle arti del teatro sempre vivo il patronato piemontese, e dall’altro contribuì grandemente alla fraternizzazione dei popoli italiani nell’altissimo scopo della loro patria rigenerazione.


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CAPITOLO X

Settembre, Ottobre

Ai primi di settembre 1838 le scosse di terremoto, ripetutamente spaventarono le popolazioni non solo nel Regno delle due Sicilie, ove a lungo andare si erano già abituate, ma eziandio degli Stati sardi e romani. Anche la scoperta della nuova cometa Donati aumentava le apprensioni sul volgo.

L’arte drammatica italiana trovava in Cavour una valida protezione, e la società che la rappresentava in Italia lavorava alacremente per ricostituirla in fiore. La Compagnia comica Pieri ebbe l’onore d’ititi telarsi Compagnia Sarda. Essa debutò in quella sua nuova qualità al teatro Alfieri di Torino colla tanto acclamala produzione di Paolo Ferrari, la Satira e Parini, capo d'opera che fece il giro di tutti i teatri d’Italia e dappertutto ottenne ghirlande di fiori ed ovazioni.

Sui primordii pure di questo mese pubblicavasi in Napoli un libro in tre lingue, italiana, latina, greca. Ei portava per titolo: La prodigiosa salvezza di S. M. Ferdinando li. Gli argomenti trattati in quel libro etano tnlti svolli sulla stessa prodigiosa salvezza. Ei si fa un omaggio della città di Barletta, ove si tenne un' Accademia nella quale vennero letti i componimenti contenuti su quel libro. Non lo si vendeva in Napoli e nei

357 Regno, ma lo si regalava: fu mandalo a tutte le Cori d'Europa. Il soldato Milano che attentò la vita del Re, ebbe in quel libro una celebrità insperata.

In data di Bologna 8 settembre comparve in luce una rettifica sottoscritta A. Berli intorno alla supplica, che come dicemmo, oltre a 1000 cittadini trasmettevano nelle mani del cardinal legato, chiedente la sicurezza delle sostanze e della vita contro i ladri e gli assassini. I corrispondenti romani delle Gazzette estere avevano pubblicato: che quella supplica veniva mandata al Legato col mezzo della posta, e che assumeva più che altro un carattere ostile al governo, col pretesto di lamentare i danni che potevano essere anche immaginarli od esagerati, prodotti dai ladri. La rettifica quindi fece noto a tutti, che quella supplica veniva recata al Legato da un marchese Pepoii e da un principe Simonetti, e non esprimeva un opera di opposizione, ma sebbene di sentimento e di bisogno comune a tutti.

La verità è questa: essendo sotto il governo clericale proibita ai privati la petizione, quella mandata al Legalo per una circostanza cosi legittima e cosi urgente, venne considerata come un abuso di potere, o come un arbitrio dei cittadini sottoscrittori. La massima che proibiva le petizioni voleva lo stesso che dire: avete il cancro che vi rode, non importa, non zittite, perché se chiedete riparo, siete subito passati nella categoria dei rivoltosi. Con un governo che aveva vita da tali elementi, quali migliorie si potevano mai aspettare le soggette popolazioni? Ma un altro motivo spettante alla politica poteva aver indotto il governo papale a far si che i suoi organi ufficiali od ufficiosi attribuissero un altro carattere alla cennata petizione, tranne del suo vero e naturale. Lo Stato pontificio. veniva considerato come un semenzaio di ladri ed assassini da lunga pezza. Sempre si era attribuita la colpa alla impotenza delle leggi esistenti, alla noncuranza dei magistrati, insomma al cattivo regime di quello Stato. Dappertutto esistevano, anche negli altri Stati d Italia, ladri, assassini e delitti, ma venivano presi di mira e flagellali dalla stampa di tutti i colori soltanto i misfatti commessi in quel regno. Ciò significava in primo luogo che il governo aveva interesse di dare un altro colore a questa petizione affine restasse almeno in dubbio la esistenza dei ladri e degli assassini; in secondo luogo, egli voleva tenersi fermo, come salda colonna, nei non accordare giammai ad alcuno il diritto di petizione, perocché accordato anche una volta sola, ne emergeva la conseguenza di doverlo accordare ancora successivamente. E siccome i lamenti delle popolazioni potevano essere infiniti, come infiniti erano i bisogni da riparare, le piaghe da sanare, così guai se si avesse avuta la debolezza di cedere anche una volta soltanto un palmo di terreno, guai, sarebbe statolo stesso che togliere il prestigio della santa inquisizione, e gli effetti utili al clericume, dannosi alle popolazioni, scaturiti, sotto il manto della religione, da un governo santo!

Dalla questione dei ladri e degli assassini, che interessava più eh ogni altro il governo pontificio, si passò ben presto ad un altro argomento che assunse il carattere di una questione quasi europea, vogliaur dire, la cessione che il governo Sardo fece del porto di Villafranca alla Russia. L’Inghilterra fu la prima a reclamare, a mandar note al governo Sardo, indi la Francia, l'Austria, la Prussia fecero alla lor volta dimostrazioni, chiedendo ragione di quel fatto, che comprometteva il commercio del Mediterraneo, e poneva la nordica potenza con un porlo navale nel cuore de' loro interessi. Allo scalpore che fecero i gabinetti sembrava che Villafranca dovesse quanto prima essere tramutala in un’altra Sebastopoli. Aveva un bel dire il gabinetto di Torino «che non trattavasi già di cedere quel porto al governo dello Czar, ma sibbene di concederlo provissoriamente, gratuitamente e per un tempo determinato ad una Società privata, la quale avrebbe fatto in esso soltanto un punto d'appoggio a' suoi interessi marittimi.» Queste assicurazioni del governo Sardo non valsero a dissipare le inquietudini degli esteri, epperò continuarono le note e le polemiche fra diplomazie e diplomazie. I popoli italiani intanto, specialmente quelli del partito piemontese, aprirono il cuore a novelle speranze, propizie alla loro causa, vedendo lo Stato Sardo fatto forte anche della protezione della Russia, una caparra «essi dicevano» l’abbiamo nella cessione di Villafranca; per niente il governo non l’avrà ceduta; convien ritenere per fermo che fra i due governi sieno state stabilite della intelligenze secrete, che a suo tempo ridonderanno a vantaggio dell'italiana indipendenza. Mentre si pensava in simil modo, il granduca Costantino grande ammiraglio di Russia, giungeva a Villafranca a prenderne il possesso, accompagnato dalla moglie e da piccola flotta, ed il ministro Cavour, lasciando che la Stampa inglese ed i gabinetti facessero quanto rumore volessero, riceveva con festa il potente personaggio, e non mancarono in quella circostanza le pompose scorte di vapori da guerra sardi, e gli accompagnamenti regali sino a Nizza, ove la Granduchessa prendeva albergo per tutto l’inverno. L’arrivo di questo principe in quelle acque fu soggetto di molti commenti.

Ma un altro arrivo alla capitale Sabauda, d’importanza politica, fu lo scopo di molte cittadine dimostrazioni, vogliam dire l’arrivo dell'avvocato Giulio Favre, difensore di Orsini. Egli, dopo di aver visitata la Tosca» na, giunse a Torino, ove venne largamente festeggiato, ed ove riceveva le medaglie che i sardi coniarono a suo onore. I ritratti di lui già erano venduti a caro prezzo, ed in tutte le case se ne trovavano. Non mancarono serenate al suo albergo, inviti a numerosi banchetti, poesie e discorsi pronunziati a suo onore, e cento altre dimostrazioni di simpatia, d alletto e di stima. Egli, nondimeno, per far cosa grata al governo, (il quale temeva che le dimostrazioni si facessero universali e giganti e quindi spiacessero alla Francia) si allontanò da Torino ben presto, portandosi a Genova, ove altre dimostrazioni, forse più vive, perché meno frenate dall'Intendente della città, lo aspettavano.

La questione frattanto, che per si lungo tempo aveva animato la stampa, la mente e le speranze degli italiani, la questione dei Principati Danubiani, posta alle Conferenze di Parigi, toccò finalmente la sua fine, e soltanto il 30 settembre 1858 venne conosciuta in Italia la sua soluzione, benché la Convenzione fosse stata sottoscritta dai plenipotenziarii sino dal 19 agosto p. p. Il ritardo di pubblicità provenne dalle rettifiche diplomatiche. La vittoria brillò a favore della unione dei principati della Moldavia e della Vallacchia, e ciò in onta alle ostilità interposte da varie potenze, fra le quali, in primo ordine, l'Austriaca, e quella vittoria fu di buon augurio ' agii italiani, i quali speravano, in un più o men tardo avvenire, a loro favore una simile sorte. Il governo del Piemonte crebbe d influenza in Italia anche per tale avvenimento. L’ Austria come era disorganizzata nelle sue finanze, dovendo ricorrere sempre a nuovi prestiti mercé un sistema d’amministrazione combattuto dagli interni, combattuto dagli esteri, così si trovò pure disorganizzata nella politica per il trionfo della questione dei Principati Danubiani. A lei in quell'affare non restava che la parte odiosa: il risentimento provocato a suo danno nella Corte di Parigi. Quel risentimento, unito all’altro ancor pendente sulla navigazione del Danubio, e ad un contegno provocatore, doveva presto o tardi scoppiare sul suo capo, tremendo e fatale. Tanto vaticinavano i popoli italiani, vedendo inaugurato, in quell’avvenimento, il principio delle annessioni mediante la sovrana volontà del popolo. Fu quello un primo passo precursore di altri mille, un punto stabilito dalle potenze segnatario quella Convenzione, ai quale gli altri regni e gli altri popoli d'Europa che si trovassero quando che fosse nelle identiche circostanze dei Principati Danubiani, potevano a buon diritto appoggiarsi, onde ottenerne un eguale risultamento. La Francia ebbe il primo merito in quella pendenza, e se l’Italia liberale la magnificava e ne menava vampo, n’avea ben donde. «Aspettiamo, aspettiamo che si maturino i tempi si dicevano l’un all'altro i popoli italiani «ed avrem noi pure un’eguale giustizia.»

Quelle generose illusioni però venivano funestate nelle popolazioni del Lombardo-Veneto da una realtà crudele qual si era quella derivante da una Notificazione che il consigliere ministeriale, prefetto delle finanze, Holzgethan, pubblicava il 2 ottobre 1858, in data di Venezia 18 settembre p. p. Quella Notificazione intimava ai regnicoli nuovi balzelli, le imposte prediali, il contributo arti commercio, e le imposte sulle rendite, onde sopperire a bisogni della Monarchia: bisogni non mai cessati dal 1845 in poi, e de' quali il barone di Bruck seppe costituirne ima piaga perpetua, tenuta sempre sanguinosa ed incancrenita nello scopo di levare sino l’ultimo obolo dalle casse dei martoriati possidenti e dagli esercenti arti ed industrie.

A questa crudele realtà, costituita già a pubblica calamità. seguì ben presto-la seconda ancor più crudele e spietata perché non rapiva le sostanze dei popoli, ma le persone, ma i figli delle famiglie, non rispettando alcuno senza alcun umano discernimento, e si fu la Patente pubblicata il 9 ottobre da S. M. I Imperatore d'Austria, dal suo castello di Laxemburg, in data 29 settembre 1858, obbligatoria per tutto l’impero, colla quale emanava e poneva in attività dal primo novembre in poi, una nuova legge sul completamento dell'esercito. S. M. si esprimeva cosi: Onde uniformemente regolare per tutto l’impero il completamento del nostro esercito, abbiamo, dopo intesi i nostri ministri ed udito il nostro Consiglio dell'Impero, dato la nostra approvazione alla legge sul completamento dell'esercito, ed ordiniamo, abolendo tutte le leggi e prescrizioni, finora in tale argomento emanate, che la presente legge entrar debba dal 1. novembre 1858 in attività in tutto l'impero.

«E per aver in ciò riguardo anche alle circostanze famigliari di quelli, che, secondo disposizioni che sussistettero finora, erano esenti dall'entrare nell'esercito, e che, secondo la presente legge, noi sono più, vogliamo far ulteriormente sussistere, anche attivala la presente logge, l’esenzione finora goduta da' suddetti individui, nel caso in cui, prima del giorno della pubblicazione di essa legge, si sieno ammogliati e debbano aver cura del mantenimento della loro moglie, o di un figlio, presupposto che, in quanto dimostrino di aver adempiuto le condizioni dalle quali, secondo le prescrizioni finora sussistenti, dipendeva il riconoscimento del titolo di esenzione.»

Ma la esenzione goduta dai sudditi dal servizio militare, che S. M. voleva far sussistere a malgrado l’attuazione della suddetta legge, era un’esenzione affatto illusoria, e concepita nel testo dell'atto Sovrano in modo da essere resa se non nulla, certamente a pochi profittevole Eccone il testo, al Capitolo IV. $ 13: «É esente dall’obbligo d’entrar nell’esercito: 

«1. Il figlio unico di un padre di 70 anni, o di madre vedova.

«2. Dopo la morte d ambi i genitori, il nipote u-nico di un avo di 70 anni, o di ava vedova.

«3. Il fratello unico di fratelli o sorelle del tutto orfani.»

Ma però per acquistare il diritto all'esenzione, oltre all'avere il padre o l’avo di 70 anni, faceva d'uopo, che quell'unico figlio, nipote e fratello.

«a) fosse legittimo e naturale,

«b) dalla cui presenza nella famiglia dipendesse il sostentamento de' suoi genitori, avi, o fratelli e sorelle e

«c) che il padre e l'avo settuagenario fossero colpiti da difetti insanabili di corpo o di mente, e resi inabili ad ogni guadagno.

Al pari di un unico figlio «segue il testo» nipote o fratello è trattato anche quello, il cui fratello unico, o gli altri fratelli:

aa) servono nell'esercito, se anche soltanto come soldati di riserva, non però come supplenti; o

«bb) abbiano meno di 15 anni; o finalmente

cc) siano inabili ad ogni guadagno, pei difetti insanabili di mente o di corpo.

«4. Chi, dopo essere uscito dalla seconda classe di età, o chi prima, col permesso dell'Autorità politica, si sia ammogliato, ed abbia oltrepassato la seconda classe di età allorché in ambi i casi sieno in vita la moglie od un figlio, od egli sia indispensabile in casa, pel loro sostentamento.

Il paragrafo 8 era concepito cosi.

«Chi non è legalmente esente dall'entrare nell'esercito, o chi manifestamente non è inabile, o chi, secondo la decisione di una Commissione di arruolamento, non è per sempre inabile al servigio dell’esercito, non può ammogliarsi.

«Il Governo politico è autorizzato di dare, in via di eccezione, permesso di matrimonio in caso ch'esistano circostanze degne di particolare riguardo, ma tale permesso non è fondamento di veruna esenzione dal dovere di arruolamento durante la prima e la seconda classe di età.»

Questo Capitolo IV distruggeva totalmente la esenzione dell'obbligo di entrare nell'esercito, e quindi veniva offerta I apparenza e non la sostanza, le foglie e non il frutto, e quindi tutti indistintamente venivano colpiti. E che fossero realmente tutti, ce lo diceva il paragrafo 5. «se nei completamenti ordinarli dell'esercito non bastassero le cinque classi di età, potranno, secondo il bisogno, essere requisite anche la sesta, e finalmente la settima classe di età. Epperò deggiono essere chiamate all'arruolamento tante classi di età quante presumibilmente sono necessarie a soddisfar al bisogno.

Questa Patente imperiale, disestando gli interessi delle famiglie, urtò le fibre le più delicate dei regnicoli e suscitò la esacerbaziene in tutti gli animi. Laonde distrusse colla sua inesorabile realtà la simpatia per il principe Ferdinando Massimiliano, alcun tempo prima acquistatasi colla proclamazione della famosa sua circolare agl'impiegati. Imperciocché quelle due leve (le imposte e la coscrizione senza esenzioni), cosi vessatorie, cosi oppressi» e, cosi calamitose, poste in confronto alle parole del Principe governatore, alle sole parole che non riuscirono mai a' fatti, furono di un potere si grande da provocare prova di indegnazone anche in quelli che per lo passato teneri della causa austriaca, tolleravano ogni gravame ed ogni mala amministrazione della cosa pubblica, con santa rassegnazione. E cotestoro, versando lagrime di sconforto, mormorarono, forse per la prima volta, contro quei sistemi, che rapendo alle famiglie le sostanze ed i figli, rendevano periclitante il benessere sociale. Alle loro lamentazioni faceva eco la stampa subalpina ed estera, la quale., senza riserva e senza pietà, vomitava il biasimo sopra quelle misure, che manifestarono chiaramente un duplice scopo, quello d’impoverire le provincie Lombardo-Venete, e quello di formare una grossa armata quasi si prevedesse e si temesse dal governo di averne quanto prima il bisogno. Ne dava motivo specialmente la situazione assai tesa del gabinetto di Vienna nei rapporti diplomatici col gabinetto di Parigi. Da questa tensione poteva nascere una rottura, ed ecco il caso per il quale fosse necessario il completamento dell’esercito austriaco. I politici ed i liberali avrebbono pur desiderato questo caso, onde trarne profitto nelle loro idee di riscatto italiano.

Le relazioni diplomatiche fra le due corti, Roma e Torino, non erano per vero dire ancora ravvicinate ad un miglioramento, quantunque la stampa subalpina e ligure si mostrasse da qualche tempo meno ostile, e quantunque venissero dal governo sardo nominati varii vescovi e dal governo pontificio approvati ed installati alle loro diocesi. Certo è, che forse da una parte e dall’altra desidera vasi la pace, onde tranquillare i partiti, che tratto tratto tra loro cozzavano con urti virulenti e tremendi, ma nessuno voleva essere il primo in un atto che sembrava racchiudesse in sé qualche senso di bassezza. Pure vi fu un momento nel quale credevasi vicino il tempo della pacificazione, quando S. S. Pio IX spediva la somma di lire 300 pei danneggiati di Savona; ma quel momento spari, e basto una nota sul foglio uffiziale che constatasse il fatto, e nulla più. Tanta recrudescenza spiacque a Roma ed a tutti i cattolici amanti del regime clericale. Quella circostanza propizia passò quindi, e quinci quel dono fu gradito come tutti gli altri doni, che da ogni parte d’Italia giungevano a lenire il peso delle passate calamità Savonesi. Pio IX, venne considerato un obblatore come tutti gli altri.

Le relazioni diplomatiche tra le corti di Napoli, Parigi e Londra, erano in una decisa e permanente rottura, e da che dalla partenopea capitale partirono i rappresentanti della Francia e dell’Inghilterra, anziché raddolcirsi, si erano invece inasprite sempre più. Intanto, fosse per arte o per politica, facevasi circolare un dispaccio, che attribuivasi dal governo di Napoli indirizzato al principe Petrulla, suo rappresentante a Vienna. Questo dispaccio, che si riferiva appunto alle relazioni diplomatiche fra la corte di Napoli e le Potenze occidentali, era concepito nel seguente tenore:

«Il Re, nostro augusto Signore, non ha mai derogato al suo dovere in favor di chi che sia, né in alcuna congiuntura. Ei potè essere obbligato, malgrado la sua volontà, dalla forza e dalla violenza, a soggettarsi ad atti, contro a' quali protestano la ragione, la giustizia e la legge; ma quegli atti non avranno mai la sanzione della sua coscienza, e S. M. li considererà sempre come un oltraggio alla sua sacra persona, oltraggio, a cui ella non ba il mezzo d’opporsi. Il cuore di S. M. non sa dimenticare.

«S. M. fu profondamente ferita, quando la Francia e l’Inghilterra, senza motivi, contro alla legge internazionale, e per cagioni che in realtà non erano che pretesti, ritirarono i loro ministri dalla sua Corte. Essendo stato offesa, e non essendo l’offesa stata mitigata di poi dal contegno di quelle due Potenze, S. M. siciliana si sentirebbe umiliata a' proprii suoi occhi, agli occhi de' siioi sudditi e dell’Europa, se pigliasse disposizioni per produrre una riconciliazione.

«Quando i rappresentanti delle due corone soggiornavano qui, tutt'i movimenti del Governo erano spiati e misurati, ed ogni atto indipendente di sovranità era sottoposto ad un’investigazione importuna quanto oltraggiosa. Dacché il governo è liberato da tale intervenzione e da tal riscontro ingiustificabile, i suoi movimenti furono più liberi e rapidi, ed i sudditi fortunati di S. M. godettero del benefizio di tal cangiamento.

«Tutto ciò che potè essere fatto o detto a Cherburgo in tale proposito, non ci riguarda; poiché nulla di ciò, che vi fu fatto o detto, non fu suggerito da noi, ma risulta probabilmente dal desiderio, espresso alla Corte d’Inghilterra dalle Potenze amiche del nostro Sovrano, e soprattutto dalla Prussia e dalla Baviera.

«Ciò non implica più che una riconciliazione colle due Potenze europee non ci fosse molto gradita; ma, siccome da scissura non fu prodotta dal Re, il Re non farà i primi passi verso la riconciliazione....»

Intanto che si alteramente si parlava e si faceva parlare alla Corte di Napoli, il cancro politico rodeva le viscere dello stato e le società secreto della propaganda italiana si moltiplicavano ogni di più minacciando di sangue i loro-influssi dappertutto. Veniva uccisa una guardia al palazzo reale in sul far della sera da una pugnalata data da mano ignota, in sui primi d’ottobre, e però vennero fatti molti arresti. Fama correva, che ritrovato in mare un cadavere, gli si fosse trovato indosso un elenco di nomi di persone, che congiuravano alla rovina del Re e del suo governo: anche per questo motivo le vittime che subirono la prigionia ed i ferri furono moltissime. I fogli pubblici del Piemonte esageravano questi fatti, che, veri nel suo fondo, non ebbero altro effetto che quello di accrescere il numero degli alunni nel martirologio politico.

Come si era data pubblicazione a mezzo di fogli esteri (11 Globe) al dispaccio di Caraffa al Petralia, per noi riportato in via di riepilogo, e che poi dalla Gazzetta ufficiale dei Regno delle Due Sicilie ne venne smentita l’autenticità, e cosi pure a mezzo dei fogli esteri (l’Indépendance belge) veniva pubblicata una Circolare dei governo di Napoli, la quale, come il Dispaccio girò, da un polo all'altro, riprodotta sempre su esteri giornali nello scopo di magnificare (ih quanto al dispaccio) la fermezza eroica del Re nel tener il bronchio alle Potenze occidentali, e di celebrare, (in quanto alla Circolare) la saggezza del governo del Re nell’amministrazione della giustizia. Questa circolare era diretta ai Magistrati del Regno, ed era del tenore seguente:

«È venuto alla conoscenza sovrana del Re, nostro Signore, che la discussione pubblica de' processi non é sempre osservata davanti i Collegi giudiziarii, incaricati di pronunziarsi su tali processi. S. M. vuole che nell’esame delle cause civili, e specialmente de' processi importanti, non sia negato alcun mezzo per giungere all’alto scopo dell’esatta ripartizione della giustizia. In conseguenza, nel Consiglio ordinario di Stato del mese corrente, tenuto ad Ischia, mi ha ordinato di ricordare a VV. SS. che la discussione pubblica ne’ giudizi! civili tende a scoprire la verità, che suol essere offuscata dalla complicazione de' fatti, gli artifizii della difesa e le passioni ardenti de' partiti; che per questa ragione, fosse anche col consenso degli avvocati, non si può far a meno, nelle cause importanti, di questa garantia solenne; e che la giustizia non si contenta delle deduzioni giudiziarie degli atti e delle informazioni private, praticate fra quelli che giudicano, ma vuole eziandio che la loro mente sia illuminata e la loro coscienza rassodata da quelle convinzioni ferme, che produce la discussione pubblica.

«Questo sistema di discussione, condotto con una intelligenza conveniente da quelli, che sono chiamati a dirigerla, secondo che ei fissano o restringono il tema, che merita di essere sviluppato e dilucidato dalle parole de' difensori, oltre che risponde a' fini della giustizia, serve pure di esercizio a quelli, che si dedicano all'uffizio della difesa, soddisfa alle esigenze degli avvocati, eccita il buon volere de' giovani professori, e migliora le condizioni di esistenza del [foro. S. M. ha domandato inoltre che il Ministero dalla clemenza sovrana affidato alla mia direzione, consideri come un dovere d’invigilare a che questa disposizione sia esattamente ' osservata, e che di tempo in tempo se ne dia a lui conto.

«Ed io, a nome del Re, partecipo alle VV. SS. questa determinazione sovrana; comunicatela a' presidenti ed a Collegii rispettivi, acciocché osservino ciò che li risguarda per la esecuzione obbligatoria della volontà del Re.

«Una copia del presente rescritto reale resterà affissa nelle sale di udienza del Collegio.

«Napoli, 18 settembre, 1858.

«PlONATI.»

Quella fu la prima volta dacché la Casa Borbone è in Napoli che si sanzionò il sistema di difesa pubblica nei tribunali civili; ma nei tribunali, ove si trattavano cause politiche, la cosa non andava cosi: colà non difesa pubblica, ma silenzio, mistero, secreto, porte chiuse. Non vi era fatta pubblica che la sentenza, ed anche allorquando la sua pubblicità non arrecasse, verun nocumento alla politica del governo. Molle volte furono condannati individui per reali di lesa maestà, e la loro condanna fu involta dalle tenebre del mistero e del silenzio, e non se ne seppe mai più niente. Molti individui scomparivano dalla società, ed il pubblico non sapeva se si fossero affogati in un’acqua e non ne fosse più di loro rimasta reliquia, ovvero so si fossero dati all'esilio in estranee terre; ma invece gemevano nel fondo delle carceri, processati o non processati, condannati o non condannati, rei o innocenti, per tutta la loro vita. Per quantunque lo stato della polizia di Napoli, ne’ suoi giudicii, fosse in queste barbare condizioni, pur non pertanto, si spendeva da quel governo ingenti' annue somme per inserzioni su fogli esteri di articoli, che, svisando le cose, snaturando la verità, portavano a cielo la clemenza del Re, la rettitudine dei magistrati e la giustizia imparziale de' tribunali. Quest'arte malevola però fu conosciuta da tutti e da per tutto, e giunse a non ottenere più alcuna credenza, a perdere tutto il suo prestigio.

Nei primi di ottobre, il cardinale Antonelli, presidente del Consiglio dei ministri, e pro-ministro delle armi, pubblicava in Roma un nuovo Regolamento sull’amministrazione interna dei corpi di truppa, da porsi in attività col primo gennaio 1859. Questo Regolamento abbracciante 342 paragrafi racchiudeva i seguenti capitoli:

1. Disposizioni preliminari;

2. Composizione dei Consigli di amministrazione;

3. Installazione dei medesimi:

4. Loro attribuzioni;

5. Sedute;

6. Responsabilità pecuniaria di essi;

7. Il tenente colonnello relatore nei Consigli;

8. Il tesoriere;

9. L’ufficiale di abbigliamento;

10. Comandanti dei corpi, o di porzione di corpo, che non hanno Consiglio di amministrazione;

11. Comandanti di compagnie, di squadroni, di batterie;

12. Valute in cassa;

13. Depositi al tesoro pubblico;

14. Ricuperamelo delle imputazioni prescritte in conseguenza della verifica dei conti;

15. Delle perdite e mancanze dei fondi;

16. Natura dei registri da tenersi in ogni corpo;

17. Oggetto dei medesimi, e natura dei documenti che li concernono;

18. Dei libretti degli uomini di truppa;

19. Trattamento degli ufficiali;

20. Del prestito;

21. Oggetto delle masse;

22. Introiti e spese delle masse;

23. Acquisti degli effetti di piccolo equipaggio;

24. Ricevimenti di effetti di piccolo equipaggio;

25. Distribuzione di effetti di piccolo equipaggio;

26, Riparazione di effetti a carico della massa individuale;

27. Effetti di piccolo equipaggio forniti alle porzioni di corpo, che hanno una distinta amministrazione;

28. Regole generali sulle masse;

29. Loro scopo;

30. Massa di mantenimento della bardatura e della ferratura;

31. Dei fondi speciali;

32. Disposizioni generali e speciali "per servigio dell’abbigliamento nell’interno del corpo;

33. Acquisto delle materie di abbigliamento;

34. Confezione degli effetti;

35. Loro classificazione riguardo alla durata;

36. Loro marca;

37. Distribuzione e versamenti dei medesimi;

38. Effetti fuori di uso;

39. Disposizioni diverse;

40. Documenti da trasmettersi dai Consigli eventuali ai Consigli di amministrazione centrale;

41. Controlleria amministrativa' dei corpi di truppe;

42. Destinazione da darsi ai registri e documenti, che cessano di essere utili;

43. Disposizioni relative alla gendarmeria.

Inoltre a questo regolamento modellato su quello di Francia, attendevasi pure alla nuova organizzazione dell'amministrazione centrale, alla organizzazione del corpo dell’intendenza militare, del corpo degli ufficiali di amministrazione, della contabilità in denaro del Ministero delle armi, e del servizio di marcia. Non veniva trascurato uno speciale regolamento per la formazione dei crediti generali da destinarsi a far fronte alla totalità delle annue spese del Ministero delle armi, per la delegazione di una parte di questi crediti agli ordinamenti secondarii, e per la ordinazione delle spese e del modo di giustificare l'impiego dei fondi. Parlavasi eziandio della istituzione di un Giornale militare, e di un Bollettino delle nomine e delle promozioni.

Tutti i popoli della Penisola si maravigliarono vedendo il governo di Roma porsi finalmente. nella via delle riforme ed incominciare dalla più difficile, la riforma militare. Ma, pur troppo, le maraviglie cessarono ben presto all’idea, che quello non era che un Regolamento, vale a dire, parole sopra parole, che alla fin dei conti sarebbono riuscite come tante altre a lavare l’etiope, e nulla più. Questa tema, fondata sulla esperienza di un lungo passato, da parte degli increduli, veniva tacciata dai clericali da malvagità, da spirito di animavversione verso tutto ciò che facevasi a Roma: nondimeno ella esisteva, e non a guarì molto trovava argomenti favorevoli comprovanti la sua esistenza.

Nei primi di questo mese surse una polemica assai viva tra i fogli del Piemonte e quelli del Lombardo-Veneto sul soggetto di un nuovo Giornale che doveva comparire in luce a Milano col titolo: Gazzetta italiana. L’iniziatore di questo nuovo periodico sarebbe stato l’avvocato Giovanni Vincenzo’ Bruni. La stampa proverbiava sul titolo della Gazzetta, e la diceva già agli stipendi governativi, ispirata dall'alto organo del principe Massimiliano. Ma in data di Bormio 9 ottobre il sig. Bruni difendeva la sua gazzetta nascitura. Egli la diceva «non alimentala da capitali ufficiali, non al servigio di chi che sia, ma che doveva essere e sarebbe quale il suo nomo la indicava, essendo santo il suo scopo. Egli asseriva di avere già 1000 abbuonati anche prima che ne uscisse il primo numero. Qualche tempo dopo non s'intese più parlarne: forse sarebbe morta prima di nascere, o forse, (tale n’era la fama), il principe Massimiliano, che avrebbela coperta della sua influenza, ne sconsigliò la pubblicazione, ovvero aggiornolla, appunto per le polemiche assai vivaci che al suo primo annunzio seppe destare.

L’attenzione dei Lombardo-Veneti intanto passava, dalla Gazzetta italiana del Brune ad un decreto del Ministero del culto e della istruzione, col quale pubblicavansi le disposizioni della Sovrana Risoluzione 8 ottobre -1858 «sulla sistemazione degli studii politico-legali alle Università di Padova e di Pavia, sull’abolizione degli esami annuali e semestrali presso le Facoltà filosofiche delle suddette Università, e sull’istituzione di esami di Stato teoretici.

Le materie d’insegnamento pegli studii politico-legali erano le seguenti: «Primo anno: Diritto romano colla storia del medesimo, e storia austriaca, lezioni di filosofia e di etica. — Secondo anno: Diritto canonico e storia del diritto canonico; filosofia del diritto od enciclopedia delle scienze legali politiche. — Terzo anno: Procedura giudiziaria civile austriaca in affari contenziosi e non contenziosi; diritto commerciale, cambiario e marittimo austriaco; scienze politiche; statistica austriaca.

Oltre alle sovraindicate materie, doveva essere obbligatorio anche lo studio;

a) Diritto delle genti;

b) Diritto montanistico;

c) Legislazione austriaca, amministrativa e finanziaria;

d) Eradica e Relatoria del diritto civile e penale austriaco;

e) Diritto feudale austriaco;

f) Statistica degli Stati europei;

g) Medicina giudiziaria;

h) Contabilità dello stato.

Tutto questo dedalo di materie dovendo essere svolto e studialo in soli 4 anni, offriva immediatamente agli occhi degli studenti quella facoltà politico-legale, la impossibilità di trarne un profitto tale, da poter eglino colle cognizioni apprese addivenire utili alle loro famiglie, al foro, alla patria. Da enciclopedie politico-legali che dovevano venire gli studiosi a mente di quel sistema ammalgamatore di materie sopra materie, non divenivano alla fine de' loro studii, che poveri iniziati in ogni ramo delle materie non istudiate, ma appena sfiorate a fior di memoria ed a vapore.

A questo sistema di studii pelle Università tenne dietro poco dopo la riforma ginnasiale: intricato laberinto, ove una volta entrata la gioventù non ne usciva che a grande fatica e germanizzata. Questo sistema trovò tanti oppositori quanti erano gli uomini pensanti in Italia. Trovò eziandio molti ostacoli nella sua attivazione ripugnando a tutti lo spogliarsi del carattere nazionale per vestire la livrea tedesca! Lunghe polemiche pro e contro continuarono per lunga pezza a riempiere le colonne dei giornali; quelle derivanti dal partito austriaco portanti a cielo il combattuto sistema, e quelle del partito italiano lo profondarono negli abissi.

Ma la questione dell'ebreo Mortara tornò ancora sul tappeto passando dai diritti del giornalismo e della conversazione a quelli della diplomazia e dei gabinetti. Vuoisi che gl'israeliti degli Stati sardi facessero istanza al conte di Cavour, supplicandolo di accorrere egli in aiuto allo sventurato padre, a cui la Santa Sede aveva rapito un figlio. Vuolsi che Cavour a quella istanza non potesse resistere, e quindi mandasse al conte della Minerva, incaricato d’affari presso la Corte di Roma, una nota, nella quale esprimesse protestando il suo rammarico pel fatto accaduto. Vuoisi infine che la Santa Sede mandasse pur essa alle Corti estere una memoria riacchiudente il racconto del come e del perché venisse dal Legato di Bologna levato dalla casa paterna il figlio del Mortara: quella memoria pontificia sarebbe stata anche corredata da un esemplare della istanza fatta dal Mortara, reclamante la restituzione del figlio suo.

La stampa europea, che aveva, già anche troppo inveito contro il governo di Roma pel fatto dell'ebreo cristianizzato, ebbe materia alla fine di ottobre di levare ancora una volta la sua voce virulenta e raccapricciata e d’irrompere contro il clero pontificio per un nuovo delitto consumato nel villaggio di S. Giulianello presso Velletri per opera di un prete.

«Il parroco di S. Giulianello (tanto narravano i fogli esteri: vedi il Journal des Débats, 28 ottobre) veniva derubato di una piccola somma.»

Egli concepiva sospetti sopra di un tale e lo denunziava e faceva imprigionare; ma per mancanza di pruove venne assolto e lascialo in libertà. Il parroco montò sulle furie e per il denaro che gli era stato rapito, e per la libertà concessa all’imputato. E per ciò, cieco dallo spirito di vendetta, risolse di procacciarsi egli stesso le pruove, che la polizia non seppe rinvenire. Chiamato a sé il figlio dell’uomo su cui aveva posti i suoi sospetti, lo indusse a seguirlo in una piccola passeggiata al monte. Il giovanetto dell’età di 15 anni obbedì al proprio parroco, ed andò seco lui. Giunti in un certo luogo, ove trovavasi una grotta, il parroco vi spinse dentro il fanciullo, già legalo per sorpresa con una fune, e lo sottomette ad una specie di tortura facendogli nel corpo delle incisioni leggiere con un coltello, nello scopo d'indurlo a confessare che suo padre gli aveva rubato il denaro. Sia che il fanciullo non ne sapesse, sia che gli ripugnasse di accusare il padre, il fatto è che non proferì verbo. Inviperito e furioso il; parroco raddoppiò le ferite e tanto oltre si spinse da lasciarlo cadavere sul terreno coperto di sangue sgorgato da 32 fori.

Scoperto all'indomani il cadavere, il parroco andò a levarlo di là per condurlo alla sepoltura. Bai, popolo che accompagnava quell'infelice fu rimarcato qualche insolito conturbamento nel volto e nel contegno del parroco. |1 giorno dopo il brigadiere dei carabinieri vide quel turbamento ancor più vivo, ancor più significante mentre gli chiedeva la lede mortuaria. I sospetti -ben -presto caddero su lui: venne arrestato.

La stampa dello Stato pontificio, dei Ducati, del Lombardo-Veneto, e del Regno delle Due Sicilie, tenne occultato; questo delitto, sin che sei potè, perché commesso da un prete!

Andò segnalato questo mese per frequenti suicidii per cause di amore, per dirotte pioggie, per un freddo intenso che recò la morte a molti, per bufere devastatrici, e per burrasche di mare, fra le quali fu celebre quella del 29 al 31 ottobre nei paraggi dello Stato Pontificio, e di Napoli che portò perdite immense cagionando danni a oltre 200 navigli.


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CAPITOLO XI

Novembre e Dicembre

Lachiusura dell’Accademia di belle arti del Regno Lombardo-Veneto (che non ebbe mai luogo malgrado un decreto sovrano che imponevala e che destò si forti attriti di opinioni diverse, e tanto fuoco di polemiche mordaci ed avvelenate, germogliò i suoi frutti anche in Toscana, ove, appunto per le insorte cozzanti opinioni lombardo-venete non si volle, ad imitazione ilei governo austriaco, uscir fuori a dirittura con una abolitone delle Accademie, ma si tenne una via di mezzo perirne destare tanti suscettibilità, coi né le si erano sventuratamente suscitate nel Lombardo-Veneto. Epperò si ricorse ad un palliativo, che servisse iti duplice Scopo, e di sospendere una parte delle scuole dell’Accademia, per no tempo indeterminato, che valeva in sostanza ad un’abolizione, e di non suscitar discordie, fortificando quella misura di sospensione del pretesto di attendere a riforme. che alle Accademie stesse tornassero salutari e decorose. Quindi si emanò in data di Firenze 14 novembre 1858, un decreto granducate, del quale noi riportiamo i seguenti due articoli:

«Convinti che l'insegnamento dell'Accademia delle belle arti di Firenze, per le mutale condizioni dei tempi, ha bisogno di essere riordinato, acciocché meglio risponda al fine per cui venne istituito, ed alla fama del paese, che sempre andò pregiato per insigni opere d’arte; e volendo che, mentre andrà operandosi siffatto riordinamento, non venga a mancare l’istruzione elementare, ne resti preclusa la via a chi con felici disposizioni sia già incamminato nella carriera artistica.

«Sentito il nostro Consiglio dei ministri.

«Abbiamo decretalo e decretiamo:

Art. I. L’insegnamento superiore dell'Accademia, delle belle arti di Firenze, nelle tre Sezioni di pittura scoltura, architettura, è sospeso; salvo, quanto pell'architettura, la limitazione di che, ecc. ecc.

Art. 2. Le scuole che rimarranno aperte, sono le seguenti:

a) La scuola degli elementi del disegno in figura, e quella dei basso-rilievi;

b) La scuola del nudo;

c) La scuola di anatomia pittorica;

d) La scuola degli elementi di architettura, e quella di prospettiva;

e) La scuola dell’ornato… ecc. ecc. ecc.»

La esposizione di questo decreto, malgrado lo stratagemma usato, non andò esente ili severa critica; e quindi da tutti colà gridavansi che quella sospensione equivaleva ad un abolizione, e quinci si ripeteva con amaro risentimento che il governo granducale altro non faceva che seguire in tutto e per tutto l’andazzo del governo austriaco.

Ma la questione sulle arti belle alla fin fine si esaurì, ed i gagliardi lottatori deposero le anni stanchi sino alla noia di tanto battagliare, mentre le arti belle restarono più cenciose che prima, e per soprasello col crepacuore e colla vergogna di essere state manomesse da tanta gente a destra ed a sinistra, senza Alcun loro profitto. Sepolta quella questione malaugurata, l’attenzione pubblica trovò materia d’occupazione e di largo alimento in una lega o confederazione italiana, che sarebbe stata proposta dall’Austria alle Corti di Napoli, di Roma, di Firenze, di Parma e di Modena, nello scopo d’isolare, nella sua politica, il Piemonte. L’Austria trovò in tal progetto un campione ardito e zelante nel duca di Modena, il quale visitò tutte le Corti d’Italia, tranne quella di Torino, avendo per oggetto di piegare, co’ suoi sforzi, le Potenze italiane alla politica del gabinetto di Vienna.

L’Austria, per vero dire, trovavasi più che in altri tempi, a inai partito: rose le sue finanze da un venne struggitore che le signoreggiava, invisa ai governi di Russia e d’Inghilterra, trascurala dalla Prussia, molestala in ogni canto, in ogni verso, senza cessa, senza posa dal Piemonte, tornati inutili gli sforzi dell’arciduca Massimiliano intenti a cattivarsi gli animi dei Lombardo-Veneti, vinta negli affari dei Principati Danubiani, in pericolo in quelli della navigazione del Danubio, osteggiata dalla Francia, certamente, l’Austria, non poteva che desiderare una Confederazione italiana, la quale abbracciando la sua politica, le fosse di appoggio contro ogni eventualità provocata dal Piemonte. Egli è quindi superfluo il riferire tutte le arti da lei poste iti opera onde riuscire nel suo intendimento. E vi riuscì? Se poniam mente, ch’ella. più che i governi locali della Penisola, dominava già da gran tempo dappertutto, noi dobbiamo rispondere che sì. Erano già da gran tempo accostumati i popoli a considerarla mercé irrefragabili prnove di fatto, non come amica, non coi né alleala, ma sibbene conio padrona tanto a Bologna, quanto a Napoli, a Firenze, a Parma ed a Modena. Qual maraviglia adunque se ella avesse ottenuto anche quest'ultimo suo intento? Del resto tutte le Potenze italiane, dipendenti dalla volontà del governo austriaco, avevano un politico vitale interesse di unirsi fra loro in una lega offensiva e difensiva coll’Austria, onde nella loro unione trovar la forza necessaria di cozzare contro il Piemonte, il cui partito in Italia ormai erasi fatto possente, diramandosi dall’uno all’altro mare. Se non se, quella lega sembrava più ch'altro un risultamento della condizione politica della Penisola in quei tempi. I popoli d'Italia, e per dir meglio il fiore dei popoli italiani, gli uomini pensanti, capaci d’alti propositi, si erano già uniti fra di loro nei differenti Stati, e tutti insieme collegati con nodi indissolubili di fratellanza e di amore per la indipendenza della patria si erano già dati al Piemonte, loro rappresentante. Se era nata questa unione tra popoli e popoli coi Piemonte, perché non poteva nascere anche quella fra principi e principi coll’Austria, onde perpetuare in Italia quell'antagonismo, che a suo tempo avrebbe fruttata là patria rigenerazione? Fu dunque una conseguenza della posizione politica della Penisola la lega tra principi e principi da una parte, e la lega tra popoli e popoli dall’altra. Un moralista la addimanderebbe Un effetto della divina Provvidenza. Quale poi delle due leghe fosse la più possente, ce lo dirà la storia degli avvenimenti, con tanta arte, con tanta pazienza ed abnegazione preparati.

In Napoli intanto, non io forza di quella lega che fu sempre tenuta secreta, ma bensì ad imitazione dell'Austria, passavasi dal sequestro, che pesava sui beni dei compromessi politici pei fatti del 1848, alla confisca; e quei beni venivano assegnati a' Comuni per risarcirli de' danni cagionati loro dalla insurrezione. Avevano i liberali un bel gridare la croce addosso ai governi retrogradi quando commettevano atti di barbarie, o di lesione ai diritti delle genti, perocché le loro grida erano sparse al deserto, e quei governi, facendo le orecchie da mercante, tiravano dritti dritti sulla loro via a seconda che la passione li guidava. Nondimeno quelle grida servivano, come altrettante proteste, ad incrudelire sempre più la lolla tra popoli e governi, tra governi e popoli, insorta in questi ultimi dieci anni in Italia. La storia ne teneva conto per poi perpetuarla ad esempio dei posteri.

La voce pubblica, che aveva dichiarato che il principe Ferdinando Massimiliano non avrebbe più posto il piede nel Regno Lombardo-Veneto perché alla fin fine da egli stesso si era già convinto che la sua autorità, come governatore generale, non era in verità che una autorità impotente, la voce pubblica, dicemmo, dovette smentirsi, perocché sui primi di questo mese, il principe. dopo lunghissima assenza, arrivava a Venezia e di là percorreva tutto il Regno. Dappertutto, in passando, lasciava. traccie della sua generosità Sei seppero la moglie di Marcello, podestà di Venezia, ch’egli onorò di un presente, i luoghi pii e le chiese, a quali elargì cospicue somme. Ma sventuratamente egli giungeva in un critico punto. Agitavasi nel Regno la questione suscitata dalla Cassa di Risparmio, la quale non voleva più ritirate le mezze svanziche e le intiere di conio non austriaco, e per il decreto che poneva in corso la nuova moneta, che non era ancora comparsa. Le cambiali non venivano scontate, non per l’insolidarietà dei traenti, ma per la mancanza di valuta. Questi fatti Calamitosi erano in fatto seguiti, e le borse, i commercii, le industrie, i banchieri ed i possessori in generale di tali valute, uscite? fuor di corso, e delle cambiali, mentre le zecche dello Stato non mettevano ancora in circolazione la nuova moneta? ne risentivano danni immensi, e le loro mormorazioni quindi stavano in proporzione alle perdite avute. L'arrivo dei principe però passò quasi inosservato alla moltitudine se si voglia far astrazione dal rumore menalo dalle moltissime persone e dalle Corporazioni beneficate da lui con singolare munificenza veramente principesca. Aureo sistema di beneficare, adottalo dal principe forse per isfogare l’animo suo contristato dall’essergli anche in quella volta andate fallite le sue speranze. i suoi voti, le sue dimostranze sui bisogni dei Lombardo-Veneti presso il soglio del suo fratello. Lo schiamazzo intanto durò qualche giorno in Milano mentre le monete fuor di corso venivano spedite all'estero quasi per un nonnulla. Il piccolo negoziante, l’operaio ed il proletario soffrirono più di ogni altro ceto, e più di ogni altro ceto quindi alzarono la voce colle loro lamentazioni. Il governò fu quindi costretto a mettere alta zecca motori a vapore onde più presto provvedere il paese di moneta, e di accordate, in esaudimento' alle moltissime rappresentanze ch'ebbero. luogo per quell'incidente, che la rata prediale di Milano potesse venir pagata in moneta di convenzione estera.

Il mormorio monetario di Milano andò socio in quanto all’epoca ad un altro mormorio religioso sorto nel convento degli Oblati di Torino. Se ben ci rammentiamo gli Obblati ed i Frati Minori Osservanti non vennero colpiti dalla legge, che aboliva le Comunità religiose negli Stati sardi. Nella seconda settimana di questo mese di novembre, il cav. Broglia, capo dell’Amministrazione della Cassa ecclesiastica, riceveva ordine dal ministro Deforesta di far isgombrare dalla chiesa e parrocchia, la Consolata, tutti gli Oblati e d’installarvi in loro vece i Tomaloni, cioè i Minori Osservanti della chiesa di S. Tomaso. Da ciò ebbero origine le proteste sopra proteste, la ostinazione da una parte e la forza dall’altra, le mormorazioni, le ire, e cento altre ostilità a danno del potere che voleva rispettate le leggi, e delle Corporazioni religiose, che volevano rispettali i loro diritti. Sembra però che alcun tempo dopo la Corte di Roma appianasse quel parapiglia, quantunque rimpetto alla Corte di Torino nuotasse in acque limacciose, né vi fosse prossima speranza di pacificazione.

Addì 18 novembre 1858, alcune fregale russe presero possesso del porto di Villafranca: queste fregate erano da guerra e precedevano l'arrivo di una flotta, che avrebbe accompagnato l’arciduca Costantino sino a Nizza. L’Austria e l'Inghilterra rinnovarono i loro reclami ed i loro comenti, e «perché, gridarono, perché fregate da guerra e non legni mercantili? Non fu dunque ceduto il porlo di Villafranca ad una privata Compagnia di navigazione, ma sibbene al governo Russo?» Cavour non rispondeva, faceva il sordo e lasciava che il possesso di quel porto venisse preso con pompa e con festa. Gli italiani sorridevano all’idea di un’alleanza sardo-moscovita.

Ma una festa ben più solenne e più cara al cuore degl'italiani ebbe luogo, in Torino, in quei di, nella felice occasione che scopri vasi per la prima volta, innanzi al palazzo di città (municipio) la statua marmorea rappresentante il Re Carlo Alberto. V’intervennero il sindaco col corpo municipale, un ministro della Casa reale, lo stato maggiore, le deputazioni della guardia nazionale, e bande militari, e civiche, e drappelli di donzelle con ghirlande di fiori e immenso popolo. Fu memorabile il discorso pronunzialo dal signor Notta, sindaco della città, in quella circostanza, e fece profonda impressione sugli animi dei presenti e dei lontani. L’Austria si arrovello veggendolo stampato, direm così, con gioia sui giornali di Francia e d’Inghilterra. Quel discorso finiva colle seguenti parole: «Se la divina provvidenza non ha permesso che si compisse la rigenerazione italiana, io nutro almeno la speranza che ella non sia che differita, perché tanti esempli di virtù, tanti alti di coraggio e di generosità emanati dalla nazione non saranno inutili, e le avversità passato consiglieranno i popoli d’Italia ad essere più uniti un’altra volta per essere invincibili!» Fece grande impressione altresì il discorso che il Re Vittorio Emmanuele avrebbe indirizzato in una rivista alla brigata Savoia, racchiudente il seguente concetto:

«Il contegno delle truppe mi piace infinitamente; esso è veramente guerriero. Ciò mi rallegra, giacché se dovessi nella prossima od in altra primavera uscire in campagna, potrei contare sulla eccellente disposizione dell’esercito.»

Per vero dire a Parigi si era gittato il dado dai fogli semi-ufficiali, si era scagliato la minaccia di una possibile guerra, non lontana, in Italia, tra Francia ed Austria, e ciò per tasteggiare la opinione pubblica, per scrutarne le tendenze, le passioni, l’opportunità, ma poi, sentilo l'allarme universale prodotto da quella asserzione, fu cura dei fogli ufficiali ili ritirare la mano che aveva scagliato il dado, e di far concepire al mondo la sicurezza che Napoleone III era ben lontano da pensare a guerra non essendovene alcun legittimo motivo. Ma però quelle ufficiali assicurazioni di pace non erano del lutto persuasive lasciando travedere lontanamente una possibilità contraria a quanto asserivano. Questo contegno incerto, sibillino avvalorava sempre più la opinione negli italiani, che Napoleone nutrisse idee favorevoli alla causa italiana.

I fogli piemontesi che riprodussero il discorso del signor Nolla, lo accompagnarono con invettive acri e mordenti contro l'Austria. Anche il giornalismo francese mostravasi velenosamente ostile a questa potenza. Vi furono perfino dichiarazioni di guerra. Sì volevano vedere queste dichiarazioni anche nei discorsi pronunziati nel Corpo Senatorio di Parigi; ma i fogli semiufficiali francesi le smentirono. Austria, Piemonte e Francia intanto armavano. Inghilterra. Russia e Prussia stupefalle chiedevano «perché voi armate?» Le altre tre Potenze rispondevano «non è vero.» Mai più per lo addietro fu gittato addosso all'Austria un cumulo di accuse così grande. cosi tagliente e sanguinoso come in allora.»

L'Austria dominava scelleratamente (tali erano le accuse) «non solo tutta Italia, ma lutti i governi italiani; ella minacciava continuamente il Piemonte, il solo Stato che non potè signoreggiare, coll’accumulare forze sopra forze nel Regno Lombardo-Veneto e nei Ducati; ella si opponeva ad ogni progresso, ad ogni aspirazione utile e decorosa; ella torturava, ammanettava, imprigionava e snudava con imposte e gravami le popolazioni, ed era addivenuta la malefica personificazione del genio del retrogradame e della tirannia. Epperò non essere più sopportabile la sua presenza in Italia: ella doveva andarsene, altrimenti l'Italia tutta, se altre Potenze non l’avesse fatto, sarebbesi levata per cacciarla.»

Queste materie d'accusa, vomitale in tuono imperioso e bellicoso sull’Austria, trovando eco in ogni angolo d’Italia, rendevano la posizione dell’arciduca Massi indiano nel Regno Lombardo-Veneto in uno stato assai compromettente e disastroso. Che cosa far egli polea? Nulla. Cangiar i tempi, farsi ancora un partito, scongiurare la situazione, gli sarebbe stato impossibile. La polizia intanto del Regno ricorreva a misure di rigore assai forti; la censura politica fu data in mano a uomini severi; il Panorama, giornale umoristico, fu sospeso, un altro dello stesso genere fu ammonito Si stava all’erta, e gli armamenti continuavano, le orde croate incominciavano a popolare i paesi e le fortezze del famoso quadrilatero.

La stampa austriaca intanto, onde temperare l'ardore dei popoli italiani-sotto il dominio dell’Austria, ardore suscitalo dalle vampe di fuoco irrompenti dalla stampa subalpina ed estera, raccoglieva tutte le sue forze nello scopo di 'persuadere «che non vi era alcun motivo di apprensioni e di timori di guerra, perché una guerra, particolarmente contro l’Austria, sarebbe stata ingiusta e perniciosa a tutta l'Europa; che in Piemonte ove la si desiderava maggiormente, mancavano i mezzi necessarii ad eseguirla con probabilità di successo; che il Piemonte aveva innanzi a se il 48 che gli serviva di ammonizione salutare; che guai a lui se facesse un passo ostile, sarebbe lo stesso che volere il ristagno del suo commercio, lo sciopero della sua industria, l'impoverimento della sua popolazione, il trionfo del partito anarchico contro al suo governo; che non si fidasse della Francia, nemmeno della Russia e di alcuna altra potenza, perché nessuna per lui avrebbe voluto esporre un’arma, un uomo, un obolo.

Tale era il linguaggio austriaco, e gl’Italiani indoor loro dicevano: «l’Austria ha paura!»

Addì 30 novembre 1858 moriva in Torino da colpo di apoplessia l’abate Ferrante Aporti: egli fu il primo filantropo che introdusse in Italia gli Asili infantili. Un’altra vittima non da malattia, ma da colpi d’arma comburente si fu il dottor Andrea Guidotto; rinvenuto ucciso lo stesso giorno 30 novembre in Castiglione, sotto la Villa di Salto, frazione del Comune di Montese nel Ducato di Modena. Il Ministero di buon Governo pubblicava un avviso in data del 4 dicembre, col quale riferiva il doloroso annunzio, e «premetteva di corrispondere la somma di 5000 franchi a chi fornirebbe dati conducenti a conoscere l’autore dell’annunziato grave delitto, e somministrerebbe insieme le relative prove di reità.

Anche il governo del duca di Modena fu oggetto di severe accuse da parte della stampa liberale italiana. Egli si difendeva inserendo articoli su varii fogli esteri, ma non potè dissipare dalla mente dei lettori la convinzione, che in quel ducato, più che altrove, si fossero quasi perpetuati gli assassinii politici, gli stati d'assedio, gli arresti, le condanne ed ogni sorta di sevizie e di tirannie, da eguagliare se non superare Napoli. Roma ed Austria, e compromettere le industrie, i commerci e la sicurezza delle individualità personali di quelle misere popolazioni.

Torino intanto s’abbelliva a festa per magnificare clamorosamente l'arrivo del fratello dello Czar di Russia, granduca Costantino, lo quella circostanza vi furono a Corte grandi inviti e dimostrazioni, al Teatro Regio gran di spettacoli, al Carignano Sivori ottenne plausi, alle piazze grandi riviste militari, e concerti e canti e luminarie, ed evviva in ogni lato. Un egual ricevimento ed eguali dimostrazioni il principe russo si ebbe a Genova ed a Nizza, ove, in questa ultima città, inauguravasi la fondazione di un tempio greco russo. Un tanto strepito ufficiale e non ufficiale, che eccheggiò dappertutto in Italia, avvalorò, pure dappertutto, la persuasione, già da tempo Concepita, di una secreta alleanza tra il Piemonte e la Russia. Anche questa persuasione indispettiva l’Austria, ed appunto a motivo del dispetto che eccitava, sempre più estendeva le sue radici nella pubblica opinione.

Il Commercio di Genova volle approfittarsi dell'arrivo colà del conte Cavour per presentargli un indirizzo che fosse un omaggio di stima e di gratitudine per quanto il presidente dei ministri aveva fatto a pro del paese, e nello stesso tempo fosse una esposizione di quanto gli restava ancora da fare. Genova, sede di una gran parte dell’emigrazione italiana, colla sua popolazione industriale, attiva, intraprendente, fu sempre una spina molesta al governo, e credendo che il sistema d’amministrazione cavouriano tendesse esclusivamente ad arricchire Torino a danno di lei, portò più fiate molti imbarazzi al Potere colla sua intolleranza, col suo malumore, col suo discontentamento.

Cavour, che aveva intrapreso, prima dell’arrivo a Torino del granduca Costantino, un viaggio nelle province, ove ebbe ovunque pubbliche dimostrazioni ed ovazioni, restò alquanto sorpreso, giunto a Genova, nel non trovarvi che rispetto e freddezza. La sua sorpresa però non gli impedì a por la mente sopra certe considerazioni che persuasero l’animo suo a giustificare in certo modo il contegno genovese. Epperò accettò con piacere l'indirizzo suaccennato, il quale era sottoscritto da oltre 200 commercianti. Quell'indirizzo in data di Genova 30 novembre 1858 era concepito cosi:

«Eccellenza

«Il commercio di Genova pruova il bisogno di manifestare a V. E. la sua gratitudine per la visita colla quale Ella ha voluto onorare il nostro paese.

«Egli riconosce in V. E., il riformatore che ha dato una si grande spinta alle intraprese industriali e commerciali, l'uomo di Stato eminente che ha saputo mettere la nazione al suo posto nelle negoziazioni delle più alte questioni europee.

«Prima delle riforme adottate da V. E. i cereali erano colpiti d’imposte, la cui maggior parte pesava sulla classe povera, specialmente nella Liguria; le altre derrate erano aggravale da diritti assai pesanti; la marina mercantile compressa da diritti di navigazione, di ancoraggio, di cancelleria e d’imposte sanitarie; il porto non era sicuro a causa della sua poca profondità, e le sue comunicazioni colf interno della città non avevano il grado di facilità che ottengono oggidì pei procedimenti in uso; i mezzi del credilo erano troppo ristretti e non convenientemente sviluppali.

«Tutti questi mali sono diminuiti sotto la vostra amministrazione; i cereali sono esenti da tutte imposte; la tariffa della dogana è stata ridotta quasi esclusivamente in favore del nostro commercio; l’industria nazionale è stata rigenerata; la marina mercantile è sollevata da una parte delle imposte che la gravavano;

«Il porto incomincia a migliorare per la prolungazione del molo, per lo sgombro e gli escavi del suo fondo, e per la costruzione delle spiagge di discesa; le ferrovie destinate ad alimentare il commercio della nostra città colle provincie italiane vicine sono terminate. Tutte queste instituzioni, create o protette, ci hanno permesso di traversare con minori danni la crisi, che durante l’anno passato, ha pesato si fatalmente su tutte le nazioni.

«Il commercio di Genova apprezza al suo giusto valore tutto quello che V. E. ha fatto, ed è ben fortunato di potere esprimere i suoi più vivi sentimenti di gratitudine al grande economista, all'uomo di Stato, che ne fu il creatore e il promotore. Il commercio di Genova temerebbe nondimeno di presentare a V. E. un omaggio men degno di Lei, se le lasciasse ignorare i bisogni, ai quali potranno rimediare l'alta sua intelligenza e la possente sua influenza.

«Il nostro porto, benché vasto, non é ancora sufficientemente sicuro, ed il prolungamento di 150 metri che viene eseguito in Questo momento non è sufficiente per l'approdo. I lavori intrapresi camminano lentamente, sono dispendiosissimi, a motivo dei numerosi reclami fondali su certi privilegi; i nostri magazzeni non sono bene situati per il servizio del commercio; le nostre strade ferrate non sono ancora di tutta quella utilità che noi avevamo il diritto di attendere, per ciocché le Alpi ci escludono ancora da molti mercati.

Le riforme dei regolamenti marittimi, i nuovi lavori nel porto, la facilità di disbocco e di deposito, l'apertura delle strade, che mettano in comunicazione le parli più difettose ed insalubri della nostra città colle principali vie carrozzabili, la strada ferrata internazionale delle due riviere, ecco quello che desidera principalmente il commercio di Genova.

«Questi desiderii sono grandi, ma degni di essere esauditi da V. E.

«E se il suo nome va unito, per qualcuno, all’idea di nuove imposte (come avviene sempre a quello, il quale, avendo di mira i principii incontestabili di giustizia piuttosto che l'ostentazione di una popolarità temporaria, ha il coraggio di sostituire l’imposta diretta colla imposta indiretta, che di rado colpisse con equità) nessuno può ragionevolmente negare che i pesi ai quali si deve sottomettersi per arrivare alle riforme, cominciano ad essere mitigati, e in poco tempo saranno più che ricompensati dai beneficii sicuri che produrrà lo sviluppo della libertà industriale e commerciale.

«Se, a motivo del suo corto soggiorno in questa nostra città, non fu permesso ai sottoscritti di esprimere a V. E. come lo desidererebbero, i sentimenti donde sono animati, hanno voluto almeno farle pervenire questo testimonio dell'alta stima, della profonda divozione e dell'intiera confidenza, dei quali essi sono penetrali per V. E.

«Genova 50 novembre 1858.»

Cavour rispose a quell’indirizzo parole di ringraziamento, e fece concepire negli animi la idea che subito egli sarebbesi posto all'opera. I genovesi commercianti speravano ed attendevano; ma le società operaie e la scolaresca le quali forse ignoravano il contesto dell’indirizzo, non si persuasero di attendere, e, concertate fra loro, stabilirono, approfittandosi del prossimo anniversario patriotico del 10 dicembre 1746, di fare una grandiosa pubblica dimostrazione: legale e pacifica dimostrazione, colla quale intendevano da una parte di spronare il governo alle riforme, richieste dal paese, col nobile mezzo della Camera di Commercio, e, dall’altra, d’inveire con pubbliche manifestazioni di sprezzo e di collera contro l’Austria, perché appunto l’anniversario rammemorava la cacciata dei tedeschi da Genova.

Era già in quel tempo che la Lombardia e specialmente Milano, assumeva un aspetto grave, severo, minaccioso. Il contegno della popolazione era veramente ed apertamente ostile al governo. Sembrava dovesse da un momento all’altro scoppiare una rivoluzione. La nobiltà e la ricca borghesia non andavano più al corso; i teatri erano spopolati; il militare evitalo con cura, non si fumavano più sigari; gli uomini vestivano abili di velluto nero e portavano il cappello a cono. I crocchi si aumentavano nelle piazze, il mormorio cresceva, la probabilità di una prossima guerra si faceva ogni di più, tanto grande quanto grande era l’attitudine dell’Austria per ismentirla. L’arciduca Massimiliano viveva isolato, non usciva più di palazzo, né per andare al corso, né per andare alla Scala, e se usciva, nessuno più si levava il cappello innanzi a lui per salutarlo. A Pavia si erano udite più volte le grida — riva Italia — uscite dalla bocca degli studenti. I sintomi' di uno scoppio vicino erano quindi molto decisivi ed allarmanti.

La Francia, che aveva, quantunque in modo elastico e dubbio, smentito officialmente il grido di guerra che sembrava essere di là partito, obbligò il Governo del Piemonte ad evitare ogni qualunque pubblica manifestazione popolare, che a quel grido di guerra porgesse radice e sostegno. Laonde, avvertito il ministero di Torino del concertato disegno dei genovesi per il giorno 10, diede ordini alle Autorità locali di non permettere alcuna dimostrazione oltre la solita cerimonia nel Santuario di Oregina.

Giunto il giorno 40, mediante avvisi affissi ai muri, gli studenti e gli operai radunatisi in un prefissato luogo, si diressero in massa al Santuario calmi e tranquilli: colà, trovato un grande apparato di forza pubblica, che il questore sig. Musso fece disporre all’uopo, assistettero alla funzione, e nessun disordine venne a turbarla.

Verso le 2 pomeridiane, reduci del Santuario, accennavano di portarsi in Portoria ove il popolo è più agglomerato, ma in piazza dell'Annunziata gli agenti della polizia intimarono loro di sciogliersi, e se volevano andare in Portoria di andarvi ad uno ad uno, individualmente, e non in massa bisbigliante e minacciosa. Ciò fu fatto, ma i gruppi disciolti, si rannodarono ben presto, e nel giungere in Via Giulia incontrarono le guardie di pubblica sicurezza, le quali si opposero a che proseguissero il cammino, snudando le sciabole e facendo man bassa sul popolo. Il disordine fu grande, i cittadini inermi si separarono colla fuga, nondimeno uno di essi, certo Raffetto, muratore, restò vittima in quel tafferuglio, colpito da un colpo di daga nel ventre, e mori 18 ore dopo all’ospitale. La indegnazione per quel fatto miserando fu universale, ed il biasimo venne scagliato contro il governo da tutti i partiti. Però fu ordinata un’inchiesta onde meglio porre in luce i fatti, ed il questore Musso che agi a seconda degli ordini ricevuti, venne dimesso dal suo posto. La guardia che colpì il Raffetto si costituì ella stessa alle pubbliche Autorità. Alla notte furono operati molti arresti, all'indomane però la maggior parte degli arrestati fu posta in libertà.

Anche la gioventù che fu arrestata a Pavia per le grida: t'iva Italia, fu posta a piede libero per ordine dell'arciduca Massimiliano. Fu fatta correre voce intanto, onde calmare l’agitazione, che la legge sulla co. scrizione, che irritò ogni celo di popolazione, sarebbe modificata. Il minuto popolo forse vi prestava fede, gli altri tutti ponevano quella asserzione nel numero delle diecimila promesse non mai mantenute.

I fatti di Genova per quantunque non avessero un carattere insurrezionale, nondimeno produssero i suoi effetti in Sarzana, ove contemporaneamente vi furono subbugli e disordini, che la forza pubblica, come al solito frenò e strusse cogli arresti ed altre misure sino dal loro primo apparimento.

Addì 16 dicembre, il professore di veterinaria nell'Università di Pavia dottor Emilio Briccio, venne trafitto a tradimento per via da un colpo di pugnale. Egli spirava il giorno dopo. Venne immediatamente avviata l’investigazione giudiziaria.

Questa uccisione fu operata da mano pagata, non per colpire l’infelice professore, ma sibbene per colpire il consigliere Rossi, capo della polizia Pavese, che era odiato, pei suoi rigori troppo spinti ed esagerati. Il Briccio era uscito in quella sera avente al braccio la moglie del Rossi che conduceva a casa. L’assassino, conosciuta la donna, disconobbe l'uomo che l'accompagnava, e credutolo suo marito, vibrò il colpo fatale e fuggi.

In questa stessa data, la Luogotenenza delle Provincie Venete pubblicava una Notificazione del conte Bissingen portante: «che l’eccelso Ministero delle fi nanze, con ossequiato Dispaccio 11 corr. N. 6281 F. M., ha trovato di disporre che, durante il corrente mese di dicembre, in cui nel Regno Lombardo-Veneto ha luogo il cambio eccezionale di favore dei pezzi di 5 centesimi del conio del 1852, le ii. rr. Casse debbano sospendere la estradazione dei pezzi medesimi. Il giornalismo torinese intanto pubblicava:

«L’Austria è ancora in tempo; renda essa al Piemonte il Regno Lombardo-Veneto, e noi possiamo assicurarla che finiranno tutt'a un tratto i suoi pericoli, i suoi impacci finanziarii, e le sue apprensioni politiche.»

L’Austria a mezzo della Gazzetta Ufficiale di Vienna rispondeva: Se la cosa continua a questo modo, si potrà arricchire d'un nuovo capitolo il diritto pubblico europeo. Il capitolo s’intitolerà: «Della vendita delle Provincie all’asta pubblica, e recherà in appendice i principii del 1789.» Usciva intanto in luce a Milano il giorno 21 dicembre, una nuova Sovrana Risoluzione in data del 10 corr. in base della quale «Il contingente, assegnato alla Lombardia per La leva 1839, resta fissato in 6844 reclute, cifra minore nella sensibile misura di uomini 1513, in confronto a quella di 8357, che era stata assegnala al Dominio Lombardo, tanto nel reclutamento dell’anno 1857, come in quello 1858. Lo stesso signor conte Bissingen, pubblicava in data di Venezia 22 dicembre 1858, la seguente Sovrana Notificazione.

«S. M. 1. R. A., con Sovrana Risoluzione 15 del corrente mese, ha graziosissimamente ordinato che sia fatto dovere alle Autorità del Dominio, ed in particolare alle Commissioni delegatizie, chiamate a giudicare dei titoli di esenzione, di procedere, nell’applicazione delle disposizioni del 13 della Sovrana Patente 29 settembre a. c. sul completamento dell'esercito, con ogni equo riguardo alle circostanze famigliari, in ispecie al lorché si tratti di figli propriamente unici.

«Inoltre, in benigna contemplazione del caso di que’ coscritti, che, in base alla legge anteriore, avrebbero goduto dell'esenzione dal servizio militare per matrimonio contratto dopo compiuto il 22.° anno di età, l’alterata M. S. si è degnata di accordare ai medesimi, in via di grazia, la esenzione degli obblighi militari, in quanto essi, sebbene noo appartenenti ancora alla terza classe di età, ciò nondimeno si sieno ammogliati nell'età di 22 anni, e precisamente nell'intervallo dal 7 ottobre a. c., giorno della pubblicazione della nuova legge sul completamento dell'armata, al I. novembre, in cui la medesima entrò in attività.

«Il che si deduce a pubblica notizia, in seguito ad ossequiato Dispaccio 22 corrente mese N. 1268—A, di S. A. I. il serenissimo Arciduca Governatore generale del Regno Lombardo-Veneto.

«Venezia 22 dicembre 1858.

«Il Luogotenente di S. M. 1. R. A. nelle Provincie Venete.

«Conte Bissingen.»

Erano queste forse le misure salutari e larghe, domandate ed ottenute certo dal principe Massimiliano, colle quali il governo di Vienna voleva scongiurare la tempesta che sembrava minacciasse la tranquillità pubblica delle provincie Lombardo -Venete I E mentre il principe di Monaco manifestava idee ostili al Piemonte per una caserma da ristaurarsi, occupale da truppe sarde e di spettanza di lui, onde svincolarsi dal protettorato di Casa di Savoia, agognando in vece quello della Francia, quella tempesta, che tanta materia di timore offriva ai governi dei duchi, del Papa, del Re di Napoli e di Vienna, non era, per vero dire, ancora giunta al suo più alto culmine, né poteva con uno scoppio immediato trambasciare le popolazioni. Faceva mestieri attenderne la maturità. Ella era come un cielo d’estate, gravido di nubi, ammonticchiate le une sulle altre, nere nere da far spavento, sospinte da diversi venti impetuosi, cozzanti fra di loro, sibilanti, tumultuanti, provocatori di un terribile uragano, rischiarate tratto tratto dal bagliore di elettrica fiamma, guizzante, ab-barbagliante, provocatrice di brividi orribili nel cuore del pauroso ed attonito spettatore, scosse dallo scoscendimento fragoroso e ripetuto delle folgori, e dal rumoreggiamento incessante e cupo del tuono, ma non un grano di gragnuola era ancora sceso sulla terra a devastare la campagna, non una goccia d’acqua si era sprigionata ancora dal seno di quelle nubi, non un fulmine era ancora scrosciato sulla terra. Tutto stava sospeso in aria, l’uragano, il turbine, la tempesta, e non era attesa che una scintilla, una sola scintilla e lo scoppio tremendo, immenso, universale, era là! Dieci anni di guerre tra governi e popoli d’Italia prepararono la situazione. L’Europa tutta risentiva il peso di un lavoro sì lungo, si ostinato, e sì maestrevolmente condotto. Il sangue sparso in lotte parziali, in tentativi falliti, il martirio di tanta gioventù generosa, l’annegasene di un popolo grande e colto sottoposto ad uno straniero barbaro e ladro prepararono la situazione. Il faro di salute e di splendida luce emanando dallo Statuto sabaudo democratizzando i popoli italiani, fraternizzò pur anche e li uni fra loro con nodi indissolubili, e, nel decenne lavoro, l’odio contro lo straniero divenne si intenso si grande e si generalizzato da creare in lutti gli animi una sola idea, una sola aspirazione. un solo scopo: fuor lo straniero.

L’Austria intanto, il granduca di Toscana, i duchi di Parma e di Modena, il Papa-Re, e Ferdinando 11 di Napoli, tutti uniti insieme nella stessa reproba politica, onde sussistere nei loro troni, passarono dal dominio arrogante, superbo, insopportabile, alla crudeltà la più inaudita, dalla crudeltà alla ferocia, dalla ferocia alla tirannia la più stupida e brutale, ma altro non fecero che perpetuare in Italia per dieci anni continui una lotta di antagonismo, la quale, se da un canto scaturì sui popoli della Penisola per opera di que’ governi retrogradi e crudeli, miserie di ogni genere, di ogni forma, di ogni misura, fu dall’altro un areopago di ogni scienza politica, una maestra che condusse gl'italiani a maturità nell’arte di reggersi a libertà, ed infine suscitò un’ansia che passò da' padri a’ figli, da' figli ai nepoti, un’ansia ardente indomabile di redimersi dalla schiavitù.

In questi dieci anni uno solo fu il campo su cui fervette la grande lotta, Italia: centro spaventoso, che tenne permanentemente in periglio la pace d’Europa.

Da una parte i popoli italiani ed il Piemonte, e dall'altra l'Austria ed i suoi gregarii governi d’Italia. Qua il nazionale, là lo straniero.

Da una parte la bandiera tricolore italiana, dall’altra lo stendardo giallo-nero austriaco.

Da una parte il morale, dall'altra la forza.

Qua aspirazioni d'indipendenza e libertà, cospirazioni, rivoluzioni; là cannoni, armi ed armati, flagelli e supplizii, carcerazioni ed esilii. Qua il grido di libertà, là il grido di oppressione.

Una gioia di un’ora per dieci annidi tormenti; una speranza di emancipazione per dieci anni di schiavitù, un raggio di luce per dieci anni di tenebre; dieci anni di sconfitte, per la lusinga di una sola vittoria!

Ecco l’epitome di un’intiera storia d’Italia!

Questa lotta decenne con forze ineguali combattuta eroicamente dagli italiani contro l’Austria e suoi settarii, non solo tenne perplessa e tremebonda Europa tutta, ma ancora per la sua perseveranza, per la sua generosità, per la sua grandezza si attirò la estera simpatia ed estimazione, isolò l’Austria, la svergognò ovunque, e fece cadere sul di lei capo tutto l’obbrobrio della odiosità e della risponsabilità. Il sangue dei martiri italiani imporporò lo scabello di Dio, e la santa causa dei popoli oppressi germogliò nel seno di Napoleone III sensi di riscatto. Austria fremette ed aguzzò il suo ingegno, le sue arti, onde avviluppare nelle reti della sua politica quei sentimenti di redenzione, ma il Napoleonide giurava in cuor suo di farla pentire da sezzo. Quel giuro fu provocato dalla decenne opera degl’italiani: opera sublime e grande, che formò la situazione politica spingendola al suo stremo, ed agglomerando la procella degli avvenimenti futuri. Non mancava ancora un sol punto, nna sola percossa, e la scintilla scaturiente lo incendio in tutta Italia, sarebbe scattata! La Provvidenza di Dio guidava il braccio che stava per dare l’estrema percossa!

FINE DEL VOLUME II

NOTE

(1)In quale concetto fosse tenuta la donna presso la geulil. tà dt-1-T Oriente, si raccoglie pur troppo dalle condizioni anche odierne. L’apoteosi, che fece delle sue etèreil paganesimo greco, rivela il difetto di una civiltà alla quale mancava un supremo elemento, la riverenza alla donna; il Gineceo della Grecia arieggiava l'harem. Temperato alla dignità matronale Un dall'aulica Roma, esso iniziò la famiglia de' redenti, dalla cui religione Costantino autenticava in Milano la liberti Roma pagana deputò le Vestali, come più degne di ascolto, a impetrar dagli dèi la futura grandezza della patria. Chi non ricorda il poeta men castigalo dell'surra latinità, il quale, pennelleggiando Lucrezia, trafittasi nel cospetto de' suoi, esclamava:

Tum quoque cum cadere! ne non procumbat honeste

Respicit; haec etiam cura cadentis erat?

Stupendo esemplare che fino da allora, fra le dissolutezze del politeismo, nobilitava la donna italiana! Anche il mondo germanico, sublimandola e attribuendone il vaticinio al pudore, nell’osservanza di casa figurava un’imagine, un presentimento confuso del cristianesimo. Da questi duo grandi popoli la filosofia della storia riconosce il merito insigne di avere addotta la pienezza dei tempi alla civiltà della Croco.

(2)Autarimanda a domandare sposa Teodolinda, figlia di Garibaldo, duca di Baviera. (Cantù. Storia universale (racconto),tomo III,p. 121.)

(3)«Quel gran pontefice (Gregorio Magno) acquistò la confidenza di Teodolinda e con frequenti lettere ne sostenne Io zelo, ond’essa ridusse alla vera fede lo sposo suo; e sull’esempio loro l’intera nazione abbandonò l’idolatria e l'arianismo. Fatti cattolici, i Longobardi zelarono il culto e moltiplicarono le chiese, che in alcune città salivano a centinaia; ed eccetto le parrocchiali, a tutte eran congiunti o monasteri o spedali per Infermi e pellegrini. Teodolinda fece restituirvi i beni rapiti e di nuovi ne aggiunse; e per sé, pel marito,ifigliuoli, e le figliuole e tutti i Longobardi d’Italiafabbricò la basilica di San Giovanni Battista in Monza, decorandola con molti ornamenti d'oro e deponendovi una corona. Colà pure aveva un palazzo, arricchito di pitture rappresentanti costumi nazionali: lo che mostra come le arti non fossero perite. La tradizione popolare attribuisce infinite opere alla pia Regina, la cui memoria vive tra il nostro volgo in benedizione». (Cantù, ib p. 123).

(4)«Barnabò Visconti aveva date le sue figlie in matrimonio a potenti signori. La casa d’Austria. la casa di Baviera, il re di Cipro, la casa di Witemberg. la casa di Turingia, i Gonzaghi avevano principesse figlie di Barnabò. La principessa ch’entrò nella gloriosissima casa d’Austria, si chiamava Verde Visconti. Ella sposò il duca Leopoldo. Questo principe venne a Milano nel 4365, ed il giorno 23 di febbraio celebrò le sue nozze nel palazzo del signor Barnabò Visconti presso S. Giovanni in Conca… Da queste nozze discende l’augusto Botrano (Giuseppe li). Chi bramasse più minute notizie di queste memorabili nozze (per le quali il sangue dei Visconti, sublimalo a più elevata condizione e depurato colla virtù e colla beneficenza di quattro secoli, trovasi attualmente sul trono dal quale i milanesi ricevon legge), vegga il nostro conte Giulini, che ne ba pubblicali i monumenti finora inediti.» (Storia di Milano del conte Pietro Verri, capo XVI).

(5)Per veritàin fatto di passaporti si gode gran libertà all'interno e quasi tutti quelli che sono rientrali dall'emigrazione non ebbero a soffrire veruna vessazione. Anzi nel principio del corrente 1860 furono tolte anche le vidimazioni dei passaporti ai confini.

(6) Per perturbazione di tranquillità, individui N° 68

Per alto tradimento alla Maestà,» » 90

Per pubblica violenza, » » 532

Per abuso dei potere d’ufficio,» » 60

Per falsificazione di carte di eredito e di monete. » » 62

Perturbazione della religione,» » 81

Per istupro ed altri oltraggi al pudore. » » 188

Per orme·dio.» » 140

Per uccisione,» » 113

Per procurato aborto ed esposizione d’infante, » » 106

Per gravi lesioni corporali. » » 1270

Per duello,» » 4

Per appiccato incendio, » » 245

Per furto., infedeltà e truffa, » » 18093

Per rapina,» » 534

Per rapina con omicidio, » » 23

Per bigamia,» » 15

Per calunnia,» » 96

Per aiuto prestato ad autori di crimini, » » 1043

Per diserzione, » » 264

Per crimini contro la forza militare dello Stato, » » 29

Contro la pubblica tranquillità ed ordine » » 5466

Per offese reali e verbali d’impiegati e guardie » » 1289

Per delitti contro i pubblici Istituti e disposizione » » 72034

Por violazione dei do\eri di un pubblico uffizio » » 655

Contro la sicurezza della vita » » 46504

Contro la salute » » 13444

Contro la sicurezza della proprietà» » 77756

Contro la sicurezza dell’onore» » 926

Contro la pubblica costumatezza» » 47871

Per trasgressioni delle leggi sul porto d'armi » » 2003

Per eccessi, vagabondaggio, mendicità » » 70194

Contro le leggi caccia, pesca, boschi» » 2508

Per trasgressione della Patente di commercio » » 1415

Trasgressioni delle poste ed altre pubbliche rendite» » 5818

Per fuga dal reclutamento » » 555

Totale degl'individui creduti colpevoliN° 341289

(7)Allude alla statua di Cario Alberto, che egli regala al Senato.

(8)Nella tornata del 10, il conte Revel disse:. Tutte le volte che qui vengono trattate delle questioni, la natura delle quali provoca dei movimenti oratorii, vi sono degli onorevoli deputati, che non sono nati in questi Stati, ma che sono alati naturalizzati, colmali di grazie e di onori, i quali non mancano mai di censurare un passalo che essi nonconoscono.»

A cui il deputato Farini rispose: «Dopo sette anni che Ito l'onore di sedere in questa Camera, la quale mi renderà la giustizia di riconoscere che io non ho mai mancato ai riguardi dovuti alle persone ed alle opinioni de' miei avversari politici; il deputato Revel non sa qual ferita profonda sia per il cuore di un uomo, il quale èvenuto a cercare una patria libera, e cheper lungo tempo calpestò la terra dell’esilio, il sentirsi dire questa parola: straniero?lo aggiungo, o signori, che io devo agli elettori l'onore che ho di sedere in questa Camera, e alla magnanimità delRe la mia naturalizzazione: perciò la mia divozione e la mia riconoscenza sono dovute al Re ed al paese, fo rispetto le persone e le opinioni degli altri, ma io domando la indipendenza e la libertà per me cosi come quello che ebbe il vantaggio di nascere in questo regno.

«lo mi appello alla nazione contro le restrizioni che il deputato Revel vorrebbe apportare al mio mandato, io sono riconoscente dell'onore che mi è stato fatto dal Re e dalla nazione: io ho trasmesso a due dei miei figli, che hanno la felicita di servire il Re ed il paese nell'armata, il mandato di riconoscenza che sarà ereditario. Per quanto grande sia stato il benefizio che ii Re e la nazione hanno voluto farmi nel dotarmi, egli è poco generoso e cortese da parte del deputato Revel, il gittarmelo così in faccia!»

Queste parole del deputato Farini trovarono eco in tutta la Camera, la quale con segni hon equivoci fece giustizia al giusto risentimento di lui. La commozione era generale e sincera.

(9)E ommessa la testa di questa Notificazione che spiega le circostanze dii delitti commessi dai condannati.





















Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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