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I MISTERI DEL FERRARI di Zenone di Elea - Dicembre 2022

I

MISTERI D’ITALIA

GLI ULTIMI SUOI SEDICI ANNI

(1849-1864)

DI

A. FERRARI

_____________

VOLUME TERZO

VENEZIA

PREMIATA TIPOGRAFIA DI GIO. CECCHINI EDIT.

1867

1865 01 I Misteri d’Italia - Gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864) di A. FERRARI HTML ODT PDF
1866 02 I Misteri d’Italia - Gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864) di A. FERRARI HTML ODT PDF
1867 03 I Misteri d’Italia - Gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864) di A. FERRARI HTML ODT PDF

CAPITOLO I
Gennaio ad Aprile 1859

CAPITOLO II
Maggio e Giugno - Ai miei popoli!

CAPITOLO III
Agosto, Settembre, Ottobre, Novembre, Dicembre
CAPITOLO IV
Anno 1860 - Gennaio, Febbraio e Marzo
CAPITOLO V
Aprile
CAPITOLO VI
Maggio - Colonnello e sotto capo
 
CAPITOLO VII
Giugno
CAPITOLO VIII
Luglio - Proclama di S. M.
CAPITOLO IX
Agosto
CAPITOLO X
Settembre -«Al popolo di Napoli!»
CAPITOLO XI
Ottobre
CAPITOLO XII
Novembre - «Ai popoli siciliani e napoletani

CAPITOLO XIII
Dicembre - S. M. Francesco II
 
CAPITOLO XIV
Anno 1861 - Gennaio

CAPITOLO XV
Febbraio
CAPITOLO XVI
Marzo fino a Dicembre
CAPITOLO XVII
Anno 1862
CAPITOLO XVIII
Anno 1863
CAPITOLO XIX
Anno 1864
NOTE

LIBRO TERZO

CAPITOLO I

Gennaio ad Aprile 1859

Vedemmo già come in sul finire dell’anno 1858 le varie riforme dell'Austria avevano esacerbati gli animi dei suoi sudditi in Italia e come il Piemonte ne approfittava per accrescere lo scontento in quelle popolazioni.

Principali tra queste riforme, erano la legge di Coscrizione che l’imperatore d'Austria emanava in data 29 settembre dal suo castello di Lussemburgo, ed il nuovo sistema monetario.

Fra il movimento che manifestavasi nell'Italia austriaca, e più prepotente invadeva le città, cominciò a divulgarsi la voce di un vasto progetto secondo il quale il Piemonte sarebbesi collegato alla Francia, onde espellere dalla Italia il dispotismo austriaco, e quella caparbia potenza vide che poteva divenire il bersaglio ad un duplice assalto.

Per quanto lento e celalo progredisse un tale indirizzo, l’Austria ne conobbe l’importanza, e ne vedeva per essa le fatali conseguenze.

Adottava perciò delle misure di precauzione col mantenersi in una grande riserva rimpetto alle altre potenze, nello scopo di evitare qualsiasi occasione che potesse produrre una qualche scissura, ma provvedeva d’altronde alla sua sicurezza coll'inviare nuove truppe nelle sue possessioni italiane, rinforzandovi la sua posizione militare.

L’imperatore Napoleone III, vivamente impressionato dall'attentato di Orsini, assoggettava frattanto la Francia, fino da quell'epoca, al più assoluto despotismo, ma vedeva altresì che un simile stato di violenza non era sopportabile ad una nazione fervida come la francese.

Era d’uopo quindi distrarla volgendone l’attenzione all'esterno, e certo quelle audaci fantasie si sarebbero esaltate all’idea di liberare dalla pressione straniera un popolo intelligente che anelante cospirava per la sua liberazione.

L’imperatore Napoleone vedeva benissimo che mediante una guerra egli avrebbe riacquistata l'aureola di popolarità, che gli scemava in causa delle sue leggi, e non solo dall’esercito ma benanco dalla intera nazione.

E tanto più in quanto che la nuova guerra doveva compiersi sui campi d’Italia, i quali ricordavano tuttavia le gloriose memorie dei trionfi ivi riportati dal capo della sua dinastia. Egli ne avrebbe seguitale le orme, assumendo il comando supremo dell'armata.

Né del tutto estranea a siffatta deliberazione si fu la credenza superstiziosa nella predizione d’una Zingara.

Narrasi che questa avesse predetto all’Imperatore che egli avrebbe riportata in Italia una grande vittoria.

Inoltre nell'autunno dell'anno testé scaduto appariva in Cielo una splendida cometa che dall’Oriente guardava minacciosa l’Occidente, e scomparve retrocedendo colà donde era venuta; l’attentato d'Orsini gli rammentava i giuramenti da esso pronunziati nei 1830 alla giovine Italia, e gli obblighi, che mediante quei giuramenti egli avevasi imposto.

Fu quindi fuori di dubbio che egli volesse intervenire negli affari d’Italia a favore del Piemonte, contro l’Austria.

Si avvicinò quindi alla Sardegna, scostandosi dall’Austria, e la stampa periodica francese manifestava quella sua volontà in vaghe discussioni.

Il territorio pontificio era occupato dalle armi austriache e francesi, e già alle Conferenze di Parigi erasi trattato dell'impossibilità di una più lunga durata di quella occupazione, dovendo questa mantenersi fintantoché gli Stati della Chiesa fossero perfettamente tranquilli. Ma questa tranquillità non poteva succedere senonché mediante salutari riforme. La consigliava la Francia come il solo mezzo a render la calma e la quiete in quella popolazione, ma l'Austria costantemente vi si opponeva.

Ecco dunque un motivo di rimprovero all’Austria, del quale valevasi la stampa, ed uguali rimproveri venivanle indirizzati in causa delle sue relazioni con Napoli. Ne venne quindi il celebre complimento del capo d’anno che l’Imperatore Napoleone diresse al barone di Hubner ambasciatore austriaco a Parigi colle seguenti parole: «Mi duole che le nostre relazioni col vostro governo, non sieno tanto buone come per lo passato, vi prego per altro di dire all'Imperatore che i miei sentimenti personali verso di lui non sono cambiati.»

Il governo austriaco in seguito a quelle parole dovette quindi rinforzare il proprio esercito in Italia ed infatti nei primi giorni del gennaio 1859 avviavasi già da Vienna verso le sue provincie italiane il 3.° corpo d'esercito austriaco e parecchi reggimenti confinari. Tutte queste truppe venivano trasportate sulla ferrovia fra Vienna e Trieste, e però il movimento di esse in pochi giorni era interamente compiuto. In questo frattempo il re Vittorio Emmanuele apriva le Camere del parlamento Sardo.

Era il 10 gennaio allorquando preludeva con queste parole:

«Signori Senatori, Signori Deputati,

«L’orizzonte, in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è pienamente sereno; ciò non di meno vi accingerete colla consueta alacrità ai vostri lavori parlamentari.

«Confortati dall'esperienza del passato, andiamo risoluti incontro all'eventualità dell'avvenire.

«Quest'avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della patria.

«Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli dell'Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie ch'esso inspira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore, che da tante parti d’Italia si leva verso di noi.

«Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza.»

A quel discorso faceva seguito una Circolare del conte di Cavour agli agenti diplomatici di S. M. Sarda presso le Corti straniere, e questo fu il primo documento pubblico che rischiarò alquanto la situazione delle cose.

li co. di Cavour ricordava il Congresso di Parigi e le simpatie che vi si erano manifestate in favore dell’Italia:

«L'Italia allora sperò, egli diceva, e parve che gli animi si calmassero, ma le speranze fatte nascere da quella manifestazione d'interesse per parte delle potenze, a poco a poco svanirono. Lo stato d Italia non si modificò, l’influenza preponderante esercitata dall'Austria fuori dei limiti stabiliti dai trattati e che costituisce una costante minaccia per la Sardegna, si aumentò anziché siasi diminuita.

«Altri Stati della Penisola persistettero in un sistema di governo, il risultamento del quale non può essere che il malcontentamente di una popolazione ed una provocazione al disordine.

«Quantunque i pericoli da cui era minacciata la Sardegna in causa di questo stato di cose fossero divenuti più gravi e più imminenti, la condotta del governo del re è stata sempre dominata da uno spirito di convenienza e di riserva, che tutti gli uomini di buona fede non potrebbero non riconoscere.

«Se il governo di S. M. respinse altamente le pretensioni dell’Austria che voleva fossero modificate le istituzioni del paese, esso non assunse un’attitudine ostile a suo riguardo allorquando il gabinetto di Vienna ritenne di dover cogliere un pretesto, giudicato futile da quasi tutti gli uomini degli Stati europei, per rompere affatto le relazioni diplomatiche colla Sardegna.

«La Sardegna si limitò a far presenti di tempo in tempo ai governi, coi quali stava in amichevoli relazioni, le tristi previsioni che i fatti ogni giorno verificavano ed a richiamare la loro sollecitudine sulle condizioni della Penisola»

Indicava poscia il conte di Cavour l'attitudine ostile dell'Austria e le misure militari che prendeva evidentemente ostili e dirette contro il Piemonte, e soggiungeva:

«Queste misure straordinarie inducono il governo del Re senza sortir dalla sua riserva a premunirsi contro un pericolo che può divenire imminente.»

In pari tempo le truppe piemontesi richiamate dalle parti più lontane dello Stato, specialmente dalla Savoja e dall'isola di Sardegna, venivano concentrate presso i confini austriaci intorno ad Alessandria e verso il Ticino.

In Piemonte s’instituirono altresì uffici d’arruolamento ai confini per raccogliere in essi i disertori ed i giovani provenienti dagli altri Stati d’Italia ed esercitarli al combattere.

Un altro avvenimento non meno notevole aveva luogo in quei giorni, ed era quello del matrimonio del principe Napoleone colla figlia maggiore di Vittorio Emanuele, la principessa Clotilde, per cui il principe approdava a Villafranca ai 30 dello stesso mese.

Maggiore estensione prendevano gli armamenti della Francia fino ad ora limitati all'acquisto di materiale per l'artiglieria e la flotta, facevansi grand'acquisti di cavalli specialmente in Germania; procedevasi al concentramento d’un forte esercito delle Alpi; navi da guerra si dirigevano da Tolone ad Algeri per trasportare dalle colonie truppe già agguerrite, e tali grandiosi apprestamenti mostravano apertamente come tra la Francia ed il Piemonte esistesse un’alleanza offensiva e difensiva.

Una tale posizione inspirava certo al governo austriaco una grave inquietudine, perlocché il conte Buol credette indirizzare a tutte le Corti germaniche il seguente dispaccio:

«La grave inquietudine, che dal principio dell'anno corrente aggrava la situazione politica dell'Europa, è stata profondamente provata anche in tutte le parti della Germania. Con sorpresa dei governi e dei popoli, che desiderano la pace ed i cui sforzi sono indirizzati a tanti oggetti importanti e dipendenti dalla pace, la fiducia generale nell'avvenire fu deplorabilmente scossa. Non havvi tra le Potenze dissidio, che spiegar possa tale scossa; ma, quanto meno gl'insorti timori possono essere attribuiti a legittime cause, tanto più lentamente sembra che vogliano dar luogo a modo più favorevole di considerare lo stato delle cose.

«Se si dee vivamente deplorare ch'esista quel sentimento, ampiamente diffuso, d’incertezza, ne sono però di già effetto utile non disconoscibile l’unanimità e la risolutezza, con cui la pubblica opinione della Germania si pronunciò a favore di un energico operare comune a fronte delle eventualità guerresche, che vengono credute vicine.

«Tal fatto, che lutti deggiono riconoscere, è un lieto punto luminoso nel tenebroso aspetto della giornata.

«Il linguaggio degli uomini di Stato e della stampa della Germania ha favorito in ampie cerchie l'impressione, che la Germania si riterrebbe, come Potenza unita, esposta a pericolo, allorché l’Austria, mediante ingiusto attacco ai proprii possedimenti d’Italia, si vedesse chiamata alle armi contro una delle grandi Potenze militari dell'Europa. Le convinzioni di tutta la Germania si unirono nel protestare energicamente contro il ritorno dei tempi della Confederazione del Reno. Con accordo che impone rispetto, si è resa prevalente l’idea che, se una violazione del diritto europeo minacciasse una Potenza della Germania anche nei propri territorii non tedeschi, tutt'i confederati di essa dovrebbero con essa far causa comune, a fin di conservare la pace per la forza morale di tanto potente unione; e che, se ciò, contro ogni aspettazione, non riuscisse, que’ confederati dovessero in comune difendere l’intaccalo possesso di un membro della Confederazione e la santità dei trattati, e tutelare così al tempo stesso l'onore e la dignità, la sicurezza e la potenza dell'unita Germania.

«Non pochi gabinetti della Germania in queste circostanze ci espressero desiderio che venisse discussa dappresso la questione, con quali determinate decisioni ed in quali forme potesse essere, a giusto tempo ed in modo opportuno, assicurato un insorgere solidario, nel caso che l’Austria venisse attaccata. Da varie parti fummo interrogali sulle nostre idee, sulla situazione delle cose, spezialmente eziandio se fosse tempo di promuovere una decisione da parte dell’organo costituzionale della Confederazione germanica o di predisporre le risoluzioni, che questa eventualmente dovesse prendere. Noi dobbiamo sentirci quindi eccitati a comunicare, pieni di fiducia, ai nostri confederati, come la pensiamo sulle esigenze della situazione del momento.

«Questa situazione si distingue pel miglioramento dei sintomi politici, che in grado minore mostrano che esista pericolo immediato di guerra. Al tempo stesso però, si distingue per la mancanza di ogni guarentigia,( )che in qualche momento e sotto qualche pretesto, lo scoppio di una guerra in Italia non minacci di nuovo e gravemente la pace dell'Europa. Fedele alla propria moderazione ed all'amore che ha per la pace, la Corte imperiale austriaca tutto adopererà per ovviare ad ulteriori complicazioni. Ma non possiamo nasconderci che, fino a tanto che la politica della Sardegna conservar possa l'attuale suo carattere contrario al diritto delle genti, e fino a tanto che possa fondare i suoi calcoli sulla rivoluzione e sulla guerra, la guerra si presenta quale conseguenza possibile della ferma nostra risoluzione di difendere i diritti dell’Austria in Italia, conformi ai trattati, contro ogni attacco.

«Ai nostri occhi, per certo, aver dee grande valore di riconoscere intorno a queste circostanze indubbiamente radicata in Europa la convinzione che l'Alemagna, strettamente unita, non soffrirà quell'attacco.

«Non deduciamo però da ciò che sia già giunto il momento opportuno di pertrattazioni a Francoforte, e di decisioni determinate della Confederazione germanica.

«In ciò fa d'uopo avere molti riguardi, e pel probabile effetto all'esterno, e per le interne condizioni della Confederazione. L’influsso necessario di quei riguardi ci rende per ora piuttosto inchinevoli all'opinione che il fissare espressamente la comunanza della Germania e dell'Austria in caso di guerra, assumere non debba le forme obbligatorie della Costituzione federale, fino a tanto che non si verifichi determinatamente la contingenza, per la quale quella comunanza è indicata. Non abbiamo però bisogno d’assicurare che alle opinioni, le quali in tale importante riguardo manifestassero i nostri eccelsi confederali, sarebbe in prevenzione rivolta la più grave nostra attenzione, e che avremmo per esse la più volonterosa considerazione.

«Invece, fin da quest'ora, ci sembra decisamente desiderabile che i Governi della Germania scambino fra essi, come membri di un gran tutto, le convinzioni, dalle quali sono animati in faccia a pericoli non disconoscibili dell'avvenire, e che si preparino per tal modo, mediante fermo accordo, a tenere nel punto opportuno, sia colla Sardegna, sia colla Francia, sia con ambedue que’ Governi al tempo stesso, concordemente linguaggio efficace ed adattato alle circostanze. Riceveremo con vivo interesse, del pari che con calda riconoscenza, l’assicurazione che siffatto punto di vista è adottato da' nostri confederati; e che specialmente il Governo, presso il quale ella ha l'onore di essere accreditata, sia inclinato da sua parte a contribuire che venga reso pienamente sicuro nell'argomento l’insorgere comune dell’Austria e della Germania: fatto questo, il cui successo sarebbe massimamente assicurato mediante la scelta del vero momento e delle forme più adattate.

«Ella viene autorizzata a fare il presente dispaccio oggetto di comunicazione confidenziale a....

«Riceva, ecc.»

Buol, m. p.

Il 7 febbraio aprivansi in Francia le Camere e l’imperatore Napoleone nel discorso che tenne in quella solenne occasione confessava, che la situazione dell’Italia inspirava alla diplomazia serii timori, tuttavia mostra va di sperare che la pace non sarebbe turbata.

Riportiamo per intiero quel discorso pel quale l’opinione pubblica dividevasi in varii partiti, ma dal quale appariva chiaramente come vi si propugnavano i diritti della nazionalità e la necessità della revisione dei trattati.

«Signori Senatori, Signori Deputati,

«La Francia, lo avete veduto, ha da sei anni scorto aumentarsi il suo benessere, crescere le sue ricchezze, sparire i suoi interni dissidii e aumentare il suo credito. E pure, ad intervalli, in mezzo alla quiete ed al ben essere generale, sorge inquietudine indeterminata, sorda agitazione, che, senza motivo esattamente determinato, s’impadronisce di alcuni animi, e turba la pubblica fiducia. Deploro tali scoraggiamenti periodici, senza meravigliarmene in una società, come la nostra, commossa da tante rivoluzioni. Il solo tempo può consolidare le nostre convinzioni, raffermare i caratteri, e creare una fede politica L’agitazione, che, senz’apparenza di minaccianti pericoli, si è or ora manifestata, dee a ragione arrecare stupore, giacché essa prova al tempo stesso e troppa sfiducia e troppo timore. Pare che si abbia dubitato, da un lato, della moderazione di cui diedi tante prove, e dall’altro, dell'effettiva potenza della Francia. Per fortuna, la massa del popolo è ben lontana dal provare simili impressioni.

«Oggi è dover mio esporvi di nuovo quanto sembra essere stato dimenticato, in che cosa abbia incessantemente consistito la mia politica; vale a dire nel tranquillare l’Europa, nel ridonare il suo vero grado alla Francia, nello stringere più intimamente la nostra alleanza coll’Inghilterra, e nel regolare il grado della mia intimità colle Potenze del Continente in conformità all'armonia delle nostre idee, ed alla qualità del loro procedere verso di noi. Cosi ne venne che, nella vigilia della mia terza elezione, dichiarai a Bordeaux essere l’Impero la pace; con che volli dimostrare che, se l’erede dell’Imperatore Napoleone fosse asceso al trono, non avrebbe cominciato un’era di conquiste, ma avrebbe inaugurato un sistema di pace, che non avrebbe potuto essere turbato se non per la difesa di certi nazionali interessi. In quanto riguarda l'alleanza della Francia e dell'Inghilterra, adoperai ogni mia persistenza a consolidarla, ed io ho trovato dall'altro lato del Canale reciprocità felice di sentimenti tanto da parte della Regina della Gran-Brettagna, quanto da parte degli uomini di Stato di tutte le opinioni. Onde raggiungere questo scopo, tanto favorevole alla pace del mondo, sono in ogni occasione andato al di sopra di tutte le memorie del passato, delle accuse di calunnia, e perfino dei pregiudizii nazionali del mio paese. Quell'alleanza ha portato i suoi frutti. Non solo acquistammo in comune in Oriente gloria durevole, ma abbiamo eziandio aperto testé agli estremi confini del mondo un regno immenso ai progressi della civiltà ed alla religione di Cristo.

«Dopo la stipulazione della pace, le mie relazioni coll'Imperatóre di Russia assunsero carattere di franca cordialità, perché noi ci trovammo concordi su tanti punti di questione. In egual modo deggio rallegrarmi delle mie relazioni colla Prussia, che non cessarono di essere animate da vicendevole benevolenza. Il gabinetto di Vienna ed il mio, all’incontro, il dico con dispiacere, si trovarono spesso in dissidio su quistioni principali, e ci volle un grande spirito di conciliazione per giungere alla loro soluzione. Così, p. e., la ricostituzione dei Principati danubiani non potè essere terminata senza numerose difficoltà, che impedirono che venisse data soddisfazione piena ai loro più legittimi desiderii, e se mi si domandasse quale interesse abbia la Francia in quei lontani paesi, bagnati dal Danubio, risponderei che l'interesse della Francia trovasi dovunque dee farsi valere una causa giusta e civilizzatrice.

«In tale stato di cose, non fu nulla di straordinario che la Francia si unisse più dappresso al Piemonte, il quale durante la guerra fu tanto affezionato, e durante la pace tanto fedele. Il felice connubio del mio amato cugino, il principe Napoleone, colla figlia del Re Vittorio Emanuele, non è quindi nessuno di quegli avvenimenti straordinarii, sotto i quali si dovesse cercare una ragione nascosta; ma è la conseguenza naturale della comunanza degl'interessi d’ambedue i paesi, e dell'amicizia di ambidue i Sovrani.

«Da qualche tempo cagiona, a ragione, inquietudine alla diplomazia lo stato dell'Italia e la sua situazione anormale, ove l'ordine non può essere conservato se non mediante truppe straniere. Malgrado a ciò, questo non è motivo sufficiente per credere alla guerra. La invochino pure gli uni con tutt'i loro desiderii, senza giustificato motivo: si compiacciano gli altri di mostrare alla Francia i pericoli di una nuova coalizione, io persisterò irremovibilmente sulla via del diritto, della giustizia e dell'onore nazionale; ed il mio Governo non si lascierà né strascinare né intimorire, perché la mia politica non sarà mai né provocatrice, né pusillanime. Rimangano dunque lontane da noi queste false inquietudini, questa ingiusta sfiducia, queste debolezze degli interessi. La pace, lo spero, non verrà turbata. Ripigliate dunque con tranquillità il corso ordinario dei vostri lavori.

«Vi ho francamente esposta la situazione delle nostre relazioni esteriori; e tale esposizione, in armonia con ciò che da due mesi mi affaccendai a far sapere e all'interno ed all'esterno, vi proverà voler io credere volentieri non aver la mia politica cessato neppure un momento di essere ferma bensì, ma conciliatrice. E conto anche sempre con fiducia sulla vostra assistenza e sull’aiuto della nazione, che mi ha affidato i suoi destini. Quand'uno, portato dai desiderii e dai sentimenti del popolo, ascende i gradini di un trono, ei s’innalza, mediante la più grave 'di tutte le responsabilità, da quella bassa regione, nella quale combattono fra loro gl'interessi di qualità ordinaria, ed ha per primi impulsi e per ultimi giudici Dio, la propria coscienza e la posterità.»

Quasi a lenire ogni sinistra impressione leggevasi nel Moniteur le seguenti considerazioni:

«La condizione delle cose in Italia, quantunque già antica, prese in questi ultimi tempi, agli occhi di tutti, una tale gravità, da dover naturalmente fermare l’attenzione dell’imperatore; imperocché al capo di una grande Potenza come la Francia non è lecito isolarsi dalle questioni, che interessano l'ordine europeo. Animato da uno spirito di prudenza, ch’ei sarebbe colpevole di non aver avuto, egli si preoccupa lealmente della soluzione ragionevole ed equa, che potrebber ricevere tali delicati e difficili problemi.

«L’Imperatore null’ha da nascondere; nulla da disconfessare, né nelle sue preoccupazioni, né nelle sue alleanze. L’interesse francese domina la sua politica e giustifica la sua vigilanza.

«A fronte delle inquietudini mal fondate, ci piace crederlo, che commossero gli animi in Piemonte, 1‘Imperatore promise al Re di Sardegna di difenderlo contro ogni atto aggressivo dell'Austria; ei non promise nulla di più, e si sa ch’egli manterrà la parola.

«Sono questi pensieri di guerra? Da quanto in qua non è più conforme alle regole della prudenza di prevedere le difficoltà, più o meno vicine, e ponderarne tutte le conseguenze?

«Abbiamo indicato quant'ha di vero nei pensieri, nei doveri, nelle disposizioni dell'Imperatore; tutto ciò, che le esagerazioni della stampa ci aggiunsero, è immaginazione, menzogna e delirio.

«La Francia, dicesi, fa considerevoli armamenti. Questa è una imputazione affatto gratuita. Non fu oltrepassato lo stato effettivo normale, ammesso due anni fa dall'Imperatore per I assetto di pace. L'artiglieria compera 4000 cavalli, per raggiungere quei limite prestabilito. I reggimenti di linea hanno 2000 uomini, ogni reggimento di cavalleria 900.

«Si dice altresì che i nostri arsenali ricevettero un impulso straordinario. Si dimentica che abbiamo tutto il corredo della nostra artiglieria da cangiare, e tutta la nostra flotta da trasformare. Quest'ultima impresa, da lungo tempo risoluta per dare alla nostra flotta il sue stato normale, è sancita da' voli annui del Corpo legislativo; e, malgrado l'alacrità più lodevole, parecchi anni saranno ancor necessarii al compimento di quei lavori.

«Finalmente, si piglia inquietudine pegli apparecchi della nostra marina. Tutti quegli apparecchi si limitano all'armamento di quattro fregate pel trasporto delle truppe di Francia in Algeria e d’Algeria in Francia, e di quattro trasporti misti, destinati a provvedere alle diverse eventualità, segnatamente al servigio di Civitavecchia ed al rifornimento della nostra spedizione di Cocincina, per Alessandria.

«Questi sono i fatti. Essi debbono rassicurare completamente gli animi sinceri sui disegni attribuiti all’imperatore, e far giustizia delle asserzioni degli uomini, interessati a sparger dubbi su’ pensieri più leali e nuvole sulle situazioni più chiare.

«Non è egli tempo di domandare quando cesseranno le vaghe ed assurde voci, diffuse dalla stampa da un capo all'altro dell'Europa, che rappresentano da per tutto alla credulità pubblica lo Imperatore come provocante la guerra, e fanno responsabile lui solo delle inquietudini e degli armamenti dell'Europa? Chi può avere il diritto di traviare così oltraggiosamente gli animi, d’inquietare cosi gratuitamente gl'interessi?

«Dove sono le parole, dove sono le Note diplomatiche, dove sono gli atti, che implichino la volontà di provocare la guerra per le passioni ch'ell'appaga, o per la gloria ch'ella procaccia? Chi ha veduto i soldati, chi ha noveralo i cannoni, chi stimò le provvisioni, aggiunte con tanta spesa e tanta fretta allo stato normale e regolare dell'assetto di pace in Francia? Dove sono le leve straordinarie, le chiamate di classi anticipate? In qual di si richiamarono i soldati in congedo rinnovabile? Chi potrebbe mostrare infine gli elementi, per minimi che si vogliano, di quelle accuse generali, che la malignità inventa, la credulità diffonde e la stoltezza accetta?

«Senza dubbio, come dicevamo, l’Imperatore veglia sulle cause diverse di complicazione, che possono sorgere sull’orizzonte. È proprio d’ogni saggia politica cercar di scongiurare gli avvenimenti o le questioni, che possono turbare l’ordine, senza del quale non è possibile alcuna pace, alcuna transazione. Non occorre tregua a' veri affari, ma sicurezza e avvenire.

«Una siffatta previdenza non è né agitazione, né provocazione. Studiare le questioni non è crearle; torcere da esse gli sguardi e l'attenzione non sarebbe neppure rimuoverle, né scioglierle.

«Del resto, l'esame di tali questioni è entrato nella via diplomatica, e nulla autorizza a credere che l’esito non ne sia favorevole al consolidamento della pubblica pace.»

Si volle tentare una mediazione e l'Inghilterra associata alla Russia volle esserne la promotrice. Lord Cowley ambasciatore inglese a Parigi stretto in intima amicizia con Napoleone, come col conte Buol ministro austriaco degli affari esterni, dovette dirigere l'opera della mediazione coll'appoggio del barone di Werther nuovo ambasciatore di Prussia alla corte di Vienna.

Lord Cowley si recò il 27 febbraio a Vienna, ed in pari tempo il governo inglese dirigeva ai governo piemontese una nota nella quale chiedeva che venissero formulati i reclami del Piemonte contro l’Austria. Il co. di Cavour presidente dei ministri di Sardegna rispondeva all'invito con un memorandum in data 1. marzo 1859 nel quale prendeva specialmente in esame i trattati dell’Austria cogli Stati dell’Italia centrale e per essi mostrava come fisse eccessivamente ampliato il suo potere nella penisola e scemato quello del Piemonte. Questi trattati venivano giudicali quali punti di aperta discussione.

Le proteste del conte di Cavour venivano prese di concerto in esame dal conte di Buol e da lord Cowley. Il primo sosteneva che non si potesse contrastare all’Austria il diritto di stipulare quei trattati e per conseguenza negava che venissero assoggettati a discussione; che ogni Stato sovrano aveva il diritto di concludere trattati con un altro Stato pure sovrano, ed infine dichiarò che l’Austria non si rifiuterebbe di partecipare ad un Congresso nel quale si discutesse la questione italiana sempreché però ne venissero adempite alcune condizioni.

Principali tra queste erano che venissero adottati mezzi acconci per mantenere stabilmente la tranquillità in Italia; che venisse vietato alla Sardegna di porre in campo le sue pretensioni come grande potenza italiana; che venissero presentali al congresso i trattati conchiusi cogli Stati Italiani dalle altre potenze che formassero parte del Congresso; e finalmente che le trattative fossero dirette semplicemente e puramente sulla base del trattato finale di Vienna del 1815, il quale doveva essere mantenuto fermo ed inviolabile.

Frattanto che lord Cowley si affaticava a Vienna onde porre in assetto la sua opera di mediazione, correva un animato carteggio fra il governo francese ed il russo, ed il gabinetto di Pietroburgo aveva proposto un congresso delle cinque potenze perché vi fosse trattata la questione italiana.

Lord Malmesbury ministro inglese degli affari esterni veniva istrutto dall'ambasciatore francese a Londra di tale proposizione della Russia, ed inoltre delle intenzioni della Francia di accettarla.

Stabili quindi da parte sua quattro punti che dovevano servire di base alle trattazioni del Congresso.

Il barone di Brunnow ambasciatore russo a Londra dichiarava d essere pienamente d’accordo nella scelta di questi punii.

Essi erano i seguenti:

1. Scelta d’opportuni spedienti per assicurare la conservazione della pace fra l’Austria e la Sardegna.

2. Evacuazione delle truppe straniere d'occupazione dagli Stati Pontifici, ed esame delle riforme da introdursi negli Stati italiani.

3. Adozione di un mezzo atto a compensare i danni derivanti dai trattati che esistevano tra l’Austria e gli Stati italiani.

4. Intangibilità delle relazioni territoriali e dei trattati dei 1815.

Al 21 di marzo il conte Balabine ambasciatore russo presso la Corte di Vienna dava partecipazione al co. Buol della proposta del congresso, ed al 28 lord Loftus ambasciatore inglese a Vienna presentava a sua volta le basi stabilite da lord Malmesbury pel congresso.

Il conte Buol riscontrava il 23 di marzo la nota di Balabine nei seguenti termini:

«Il sottoscritto ecc. ecc. fu sollecito di sottoporre a S. M. I. R. A. l’entratura che il sig. Balabine ecc. ecc. gli ha fatta a nome della sua Corte, comunicandogli un telegramma del sig. principe di Gortschakoff in data del 21 del corrente mese, in cui è detto che l’imperatore Alessandro, desiderando con uno sforzo supremo di preservare la conservazione della pace, propone la radunanza d’un Congresso delle grandi Potenze, il quale cercherebbe di appianare le complicazioni italiane, e che questa proposizione fu già accettata dai Governi di Francia, della Gran Brettagna e di Prussia.

«In esecuzione degli ordini di S. M. I., il sottoscritto ha l’onore di fare al sig. Balabine la risposta seguente pregandolo di volerla portare a conoscenza della sua Corte.

«Apprezzando ai giusto loro valore i sentimenti, che hanno inspirato a S. M. imperiale di tutte le Russie l’entratura, ch’ella gli ha fatto fare, desiderando di prestare il suo concorso ad un’opera, che deve sanzionare di nuovo gl’impegni consegnati nei trattati, e la totalità dei diritti, che ne derivano, l'imperatore Francesco Giuseppe accetta, da parte sua, la proposizione di cui si tratta.

«Secondo il parere del Gabinetto imperiale, tutta la difficoltà si riassume nel sistema politico, cui s’attiene la Sardegna nelle sue relazioni esterne. Metter fine a tale stato di cose che inquieta l’Europa, e prevenirne il ritorno, tale sembra essere la parte riservata alle Potenze, chiamate in prima linea a tutelare l’ordine sociale.

«Se tuttavia, oltre codesta questione, che il sottoscritto considera come la sola essenzialmente importante per la pacificazione morale dell’Italia, entrasse nell’intenzione delle Potenze di metterne altre ancora in discussione, sarebbe necessario ch’esse fossero esattamente precisate in antecedenza; e, in quanto esse toccassero il reggime interno d’altri Stati sovrani, il sottoscritto non potrebbe dispensarsi dall’insistere sopra tutto perché si procedesse in tal caso conforme alle regole formulate dal protocollo di Aquisgrana in data del 15 novembre 1818.

«Terminando, il sottoscritto dee insistere sopra un’ultima considerazione. Voler intavolare deliberazioni pacifiche in mezzo allo strepito delle armi e degli apparecchi di guerra, sarebbe, non solo materialmente pericoloso, ma moralmente impossibile. È dunque indispensabile, secondo l’opinione del Gabinetto imperiale, la quale, il sottoscritto non ne ha verno dubbio, sarà condivisa da tutte le Potenze, che, preliminarmente a qualunque conferenza, la Sardegna operi il suo disarmamento.

«il sottoscritto coglie ecc. ecc.»

La risposta diretta al co. Balabine dal co. Gortschakoff alla nota suddetta era formulata nei seguenti termini:

«Ho posto sotto gli occhi di S. M. I. la Nola, direttavi nel 23 corr. dal conte Buol, quale risposta alla proposizione, che siete stato incaricalo di fargli in nome di S. M. I., intorno all’unione di un Congresso delle grandi Potenze. Quella comunicazione, che ha per oggetto di appianare le difficoltà sorte in Italia, e di assicurare la conservazione della pace, è un nuovo segno che il nostro augusto signore ha voluto dare dei sentimenti che lo animano. S. M. ha provato viva soddisfazione nel vederla apprezzata da S. M. l’imperatore Francesco Giuseppe.

«Mentre il conte Buol vi rese nota l’adesione di S. M. I. R. A. alla nostra proposta, v’indicò il plinto di vista, sotto il quale il Gabinetto di Vienna considera le condizioni necessarie al suo eseguimento. Esso ha manifestato il desiderio che le quistioni, che dovessero essere discusse, venissero precisamente determinate prima. Esse sono determinate dai quattro punti fissati dal Governo di S. M. britannica, ai quali il Gabinetto imperiale ed i Governi francese e prussiano hanno dato la loro piena adesione.

«Il sig. co. Buol ha inoltre dichiarato che in quanto quelle questioni riguardar dovessero il Governo interno di altri Stati, il Gabinetto di Vienna persisteva che si procedesse conforme alle regole formulate nel protocollo d’Aquisgrana del 15 novembre 1818. Quel protocollo dice testualmente: Nel caso che un Congresso abbia per oggetto affari, che riguardino specialmente altri Stati europei, essi non verranno trattati se non in seguito a formale invito da parte degli Stati che i suddetti affari riguardano, e sotto l’espressa riserva del loro diritto di prendervi parte direttamente o mediante i loro plenipotenziarii.»

«L’importanza della presente situazione fa che si possa perfettamente prescindere dalla prima condizione, accennata in quel protocollo, di un invito formale da parte degli Stati italiani. Le Potenze non possono aspet tarlo, per cercar di allontanare i pericoli che minacciano la pace, e siamo convinti che il Gabinetto di Vienna citando le stipulazioni di Aquisgrana, ha lasciato egli stesso cadere quell’idea. In quanto alla seconda, l'unica alle quale possa riferirsi la menzione l'alta in quel protocollo, vale a dire la partecipazione degli Stati italiani ad una discussione, nella quale sono direttamente interessali, ci è sembrata tanto giusta, da non poter noi nulla opporvi.

«Finalmente, il sig. conte Buol ha fatto notare essere materialmente pericoloso, e moralmente impossibile, cominciare discussioni amichevoli in mezzo allo strepito delle armi ed agli apparecchi di guerra. Tale osservazione é tanto evidente, che i Gabinetti non avrebbero potuto non riconoscerne l’aggiustatezza. In seguito a ciò, venne proposto di ottenere da S. M. l'imperatore d’Austria e da S. M. il Re di Sardegna promessa di non attaccare, e di tenere le rispettive loro truppe ad eguale distanza dal confine del Ticino. Questa combinazione, a nostro avviso, toglie sufficientemente la presupposta sconvenienza dell’unione del Congresso.

«In quanto riguarda il disannamento preventivo della Sardegna chiesto dal conte Buol, del quale, come ci annunciano posteriori vostri telegrammi, il Gabinetto di Vienna fa una condizione sine qua non del proprio entrare nel Congresso, vogliamo credere che, dopo maturo esame, lo stesso Governo di S. M. I. R. A. riconoscerà che siffatta condizione, ch'esclude ogni reciprocanza, non sarebbe conciliabile con un equo apprezzamento della condizione reciproca dei due Stati.

«Secondo ciò che prima accennammo, possiamo constatare che le varie questioni indicale nella Nola del sig. ministro degli affari esterni d'Austria come condizioni: indispensabili dell’unione del Congresso, sono a sufficienza schiarite per lo spirito conciliante che in ciò mostrarono i Gabinetti. Le quattro basi delle discussioni furono fissate ed accettate. In quanto riguarda la compartecipazione degli Stati italiani, è soddisfatto alle stipulazioni di Aquisgrana. Finalmente, sono indicate le necessarie misure di precauzione per impedire, durante il corso delle discussioni,ogni conflitto fra i due eserciti, che si stanno a fronte.

«Queste pratiche preliminari ci; sembrano ora tanto avanzate che nessuno de Gabinetti cimi vi presero parte potrebbe assumersi, in faccia all’opinione dell’Europa ed alla propria coscienza, la responsabilità di far andare a vuoto con pretensioni inammissibili l’opera di riconciliazione, della quale il Governo imperiale preso l’iniziativa. La maggior parte di queste considerazioni è già nota allo stesso sig. ministro degli affari esterni d’Austria. Ve le ho fatte pervenire mediante il telegrafo, del quale l’urgenza delle circostanze ci sforza ad approfittare. Siccome però i| conte Buol vi ha esternalo desiderio di avere risposta scritta alla Nota che vi ha indirizzato, siete autorizzato, per ordine di S. M. a leggergli il presente, dispaccio ed a lasciargliene copia.»

Il conte Buol, tentava di mandare a vuoto la mediazione inglese che: era molesta tanto a lui come alla Russia, ed alla nota di lord Loftus. dava il seguente riscontro:

«Il sottoscritto ecc. è sollecito di accusare il ricevimento della Nota, che lord A. Loftus gli ha fatto l'onore d’indirizzargli in data del 28 corrente, e che contiene le condizioni alle quali il Governo di S. Mi Britannica è pronto ad accettare la proposizione d’un Congresso delle grandi Potenze, che prenderebbe in considerazione le’ complicazioni sorte in Italia.

«Avendo il Governo britannico espresso inoltre il desiderio di veder aderire il Governo imperiale a quelle proposizioni, il sottoscritto ha preso a questo riguardo gli ordini dell’Imperatore, sud augusto Signore.;

«Egli si trova Ora autorizzato ad informare lord Loftus che il Governo imperiale; apprezzando altamente i motivi, che guidano il Gabinetto britannico, ed i sentimenti di franca amicizia, da cui egli è animato verso l’Austria, accetta, nella misura precisata nel foglio qui annesso, le basi di discussione, proposte dalla Nota di Sua Signoria.

«Un quinto punto di deliberazione, ch'egli ha creduto' dover aggiungere, quello d’un accordo sopra un disarmamento simultaneo delle grandi Potenze, sarà senza alcun dubbio accolto da tutte le Potenze come una nuova testimonianza delle intenzioni pacifiche dell'Austria.

«Risulta ancora dalla Nota di lord. A. Loftus che, se il Governo imperiale accetta, alle condizioni menzionate qui sopra, la proposizione d’un Congresso, il Governo britannico inviterà quello della Francia, in forma pressante, ad insistere in comune con lui; acciocché la Sardegna disarmi immediatamente, e a dargli una garantia collettiva per l'Adempimento dell'impegno preso verso di lui.

«Questa pratica, che il Gabinetto britannico si propone di fare dv concerto col Governo francese, è tanto più conforme all'interesse generale; che sarebbe moralmente impossibile, come il Governo imperiale l’ha già fatto rilevare colla, sua Nota indirizzata al sig.° Balabine in data del 25 di questo mese, di attendere ai deliberazioni pacifiche in mezzo allo strepitò delle armi.

«Il sottoscritto dee tanto più vivamente desiderare che tali sforzi uniti abbiano il loro pieno ed intero effetto, che l’Austria non potrebbe presentarsi al Congresso, se non quando la Sardegna avesse operato il disarmamento, ed avesse proceduto al licenziamento dei corpi franchi.

«Adempiute ed eseguite queste condizioni, il Governe imperiale si Schiara pronto a dare, nel modo più formale, l'assicurazione che l’Austria non attaccherà la Sardegna durante il Congresso, e finché questa rispetterà il territorio imperiale e quello de' suoi alleati.

«Pregando lord A. Loftus di, portare il contenuto, di questa Nota a conoscenza del suo Governo, il sottoscritto coglie ecc.. ecc.»

I. Mezzi di assicurare la conservazione della pace tra l’Austria e la Sardegna.

«Il Congresso esaminerà i mezzi di ricondur la Sardegna allo adempimento de' suoi doveri, internazionali, e penserà a' provvedimenti da prendersi per evitare il ritorno della complicazione attuale.

II. Sgombero degli Stati Romani da parte dei corpi d'occupazione esterni, e presa in considerazione delle riforme da farsi negli Stati italiani.

«La questione dello sgombero degli Stati pontificii potrà esser discussa. Il Congresso abbandonerà alle tre Potenze, direttamente interessale, le particolarità dell’esecuzione. La questione delle riforme amministrative potrà esser discussa. S’andrà d’accordo sui consigli da dare; ma la loro attuazione definitiva resta subordinala alle decisioni degli Stati direttamente interessali.

III. Combinazione da sostituirsi a' trattati speciali
tra l'Austria e gli Stati italiani.

«La validità de' nostri trattati non potrebb’esser discussa; ma se tutte le Potenze rappresentate al Congresso convengono tra esse di produrre i loro trattati politici cogli Stati italiani, l’Austria vi si presterà anch’essa da parte sua. Ella s’intenderà co’ Governi Cointeressati per poter presentare ì loro trattati comuni al Congresso, e per esaminare in qual misura la loro revisione potrebbe essere riconosciuta utile.

IV. Non saranno in veruna forma toccale le disposizioni territoriali ed i trattati del 1815.

«Pienamente inteso che non,verranno menomamente toccate le disposizioni territoriali esistenti, né i trattati del 1815, né quelli conchiusi in esecuzione di que’ trattati.

V

«Accordo sopra un disarmamento simultaneo delle grandi Potenze.»

Certamente gli animi in Italia erano in. una grande tensione su tali trattative. Vedevano di mal animo che si adunasse un Congresso, imperocché non riponevano alcuna speranza nell'assestamento delle cose d’Italia, mediante tale Congresso.

L’Austria doveva essere espulsa dall'Italia, mentre il suo reggimento era divenuto ormai insopportabile alle sue popolazioni.

«É un fatto, diceva il conte di Cavour, in una nota ch'egli diresse all'Inghilterra allora quando veniva invitalo a spiegarsi' chiaramente, cui egli faceva coll'energia d una profonda convinzione.

«È un fatto che la dominazione austriaca inspira una ripugnanza invincibile all'immensa maggioranza degli Italiani che vi sono soggetti e che i soli loro sentimenti verso quelli che li governano sono livore è ripugnanza.

«La sola, la vera causa del malcontento dei Lombardi è quella di essere governali, dominati dallo straniero verso del quale non hanno alcuna analogia né di razza né di costumi né di lingua.

«I milanesi ed i veneziani rimpatriati poiché ebbero visitati i popoli che godono di un governo nazionale sentirono più vivamente l'umiliazione ed il peso del giogo straniero. ’

«Basta percorrere il Lombardo ed il Veneto per convincersi che gli austriaci non si stabilirono ma' a accamparono in quelle Provincie. Tutte le case dalla più umile capanna al più sontuoso palagio sono aperte agli agenti del: governo, nei luoghi pubblici, nei teatri,nei caffè, nelle strade v'ha un’assoluta separazione tra essi e gli abitanti del paese e crederebbesi una contrada invasa da un armata nemica che si è resa odiosa colla sua insolenza e la boria.

«Questo stato di cose non è un fatto transitorio, ma dura e riaggrava da mezzo secolo, per cui se la civiltà dell’Europa non lo arresta diverrà peggiore.

«Tale condizione di cose non è certo contraria ai trattati, ma è contraria ai grandi principii di equità sui quali riposa l’ordine sociale. E si opponeva!. precetto proclamato dal moderno incivilimento, non esservi governo legittimo da quello infuori, che è accettato dai popoli se non riconoscenti almeno rassegnati.»

Così parlava quel grand'uomo che oggi ancora Vita lia rimpiange ed erano quelli i sensi dell'orgoglio nazionale umiliato o lo sdegno da. tanto tempo represso.

Verso gli ultimi di marzo l'imperatore Napoleone chiamava a Parigi il conte di Cavour ed egli se ne ritornava del tutto rassicurato.

Il congresso è una macchina di guerra: Ecco il motto che correva nel pubblico e voleva significare, che si erano intavolate quelle trattative al solo scopo d acquistare il tempo necessario a compiersi gli armamenti ed usarne al Congresso per istigar l'Austria ed isolarla gettando in fine su essa la responsabilità della guerra; cedere in apparenza molto, ma poco in effetto, nella lusinga che cedendo la Francia e dando in tal modo prova sollenne dei suoi desiderii di pace il Piemonte dovesse promuovere nuove difficoltà.

La Sardegna però dichiarava di non poter aderire al disarmamento se prima non le venisse accordato il diritto, di sedere al Congresso e di tenervi un posto eguale a quello delle altre Potenz.

Ecco come rispondeva il conto di Cavour al marchese d’Azeglio ministro di Sardegna a Londra intorno al disarmamento del Piemonte

«Sir James Hudson, in una Nota in data del 14 di questo mese, di cui troverete qui unita una copia, mi domandò in nome del suo Governo se la Sardegna fosse disposta a seguir l'esempio dell'Austria, dichiarando in modo formale come fece il conte Buol nel suo dispaccio al conte Appony del 25 febbraio, ch’essa non aveva alcuna intenzione di attaccare la sua potente vicina.

«Apprezzando i sentimenti, che hanno ispirato questo passo per parte del Gabinetto di S. Giacomo, noi non esiteremo a rispondergli colla più completa franchezza, come abbiam fatto pochi giorni sono, allorch'esso ci domandò di esporre in modo chiaro e preciso le querele dell’Italia contro l’Austria, e d'indicare i mezzi di recarvi rimedio.

«In faccia agli atti aggressivi (e con qual altro nome chiamarli?) commessi dall'Austria, al concentramento di forze imponenti, sulla frontiera sarda, alla collocazione dell’esercito d’Italia sul piede di guerra, alla costruzione ed occupazione di nuove fortificazioni sopra un territorio che non le appartiene, all'occupazione, decennale delle Legazioni, alla violazione dei pubblici trattati, il Governo del Re avrebbe il diritto, secondo la legge, internazionale, di provvedere alla difesa contro l'Austria persin col mezzo delle armi. L’Inghilterra ha riconosciuto implicitamente questo diritto, allorch’essa non è per anco gran tempo, mediante l’organo del suo ministro degli affari esterni, condannando con tutto il peso della sua grande autorità, e colla solennità d’un atto diplomatico, la severa disposizione dei sequestri, posti dall'Austria sui beni dei sudditi sardi, notava che, se in questa circostanza era. riuscito di scongiurare i pericoli, d'una guerra, questo risultato, era dovuto esclusivamente alla grande moderazione di cui il Governo sardo aveva dato prova.

«Tuttavia poiché il Governo britannico riconobbe lo stato anormale dell'Italia e promise mila Sardegna di sforzarsi a recarvi rimedio, il Governo sardo, prendendo alto di questi impegni e riserbandosi la sua libertà di azione pel caso che l'Austria non si Astenesse in avvenire dal commettere atti aggressivi, è pronto a dare l’assicurazione che non è punto sua intenzione di attaccar l'Austria; ed esso acconsente a fare in tal riguardo una dichiarazione identica a quella contenuta nel precitato dispaccio del conte Buol, che non è, a dir vero, se non una lunga ed. amara requisitoria contro la Sardegna e la politica del Gabinetto che ho l'onore di presedere.

«I discorsi proferiti dinanzi al Parlamento per ispiegare la nostra politica, i dispacci e le circolari, che avete dovuto comunicare al Gabinetto di S. Giacomo, e segnatamente il Memorandum indirizzato all’Inghilterra e alla Prussia, al quale lord Malmesbury si compiacque di render piena giustizia, spiegano è giustificano in modo abbastanza compiuto la nostra condotta; ondeché mi credo dispensato dal cogliere quest'occasione per confutare ad uno ad uno gli argomenti, di cui il conte Buol si serve del suo dispaccio, per rappresentare la' Sardegna come la vera causa della condizione anormale dell'Italia.

«D’altra parte gli argomenti non potrebbero avere alcun valore per ogni persona imparziale, che abbia conservato esatta memoria dei fatti, 'che si sono succeduti dopo il principio di quest'anno.

«Tutt'i provvedimenti militari presi successivamente dall’Austria; di cui vi ho intrattenuto nel mio dispaccio del marzo corr., precedettero gli atti del Governo sardo, che avrebbero potuto giustificarli. Il discorso della Corona, all'apertura del Parlamento di Torino, non fu pronunciato se non il lo gennaio, e sin dal 3 dello stesso mese un nuovo corpo d'esercito era stato mandato precipitosamente in Italia.

«Il nostro prestito ebbe luogo soltanto molto tempo dopo il tentativo fatto dall'Austria di contrarne uno ben più considerevole a Londra.

«Finalmente, se noi abbiamo chiamato sotto le armi i nostri contingenti, lasciando le nostre riserve nelle loro case, ciò non avvenne se non allorquando l’Austria, decretando, che i corpi d’esercito d’Italia fossero messi in completo piede di guerra, ci convinse che ci saremmo trovati ben presto in faccia al più forte degli eserciti, che abbia calcato il suolo italiano.

«Questi fatti formano uno strano commento delle proteste pacifiche con cui termina il dispaccio austriaco, e sarebbe difficile conciliarli fra loro, se in questo stesso documento diplomatico non si trovasse espressa l’essenza del pensiero dell'Austria sulla questione italiana.

«Il conte Buol, dopo aver ritratto rapidamente, dal suo punto di vista, gli avvenimenti che si succedettero dal 1848 in poi, finisce col dichiarare che, se l’Italia è agitata profondamente, se le popolazioni vi sono malcontente, se i Governi non han fatto nulla per soddisfare i desidero legittimi de' loro sudditi, ne son colpa i sentimenti e lo spirito turbolento, cui la libertà ha sviluppato in Piemonte, e per servirmi delle parole stesse del conte Buol, l’aver introdotto in quel paese istituzioni, che agiscono mirabilmente colà ove furono sviluppate e maturate dai secoli, ma che non sembrano conformi al genio, alle tradizioni ed alle condizioni sociali degli Italiani.

«Quindi il conte Buol indica come precipuo rimedio’ a questo stato di cose, del quale non si dissimula la gravità, un’azione comune delle grandi Potenze sulla Sardegna per forzarla a modificare le sue istituzioni.

«Si soffochi la libertà in Piemonte, e la Lombardia, la Venezia e gli altri Stati della penisola ridiverranno tranquilli.

«Senz’ammettere questa conchiusione, pur essendo convinti che la distruzione delle istituzioni liberali del Piemonte, invece di ricondurre la pace, avrebbe per effetto di gettar nuovamente nelle vie della rivoluzione gl'Italiani, ridotti alla disperazione, noi non esitiamo a riconoscere che c’è molto di vero nel pensamento, che ispirò questa parte del dispaccio del ministro austriaco.

«Il contrasto, che presenta il Piemonte colle Provincie soggette al dominio austriaco e cogli altri Stati della penisola, è troppo patente perché l’Austria non ne sia profondamente irritata. L’esempio di questo paese, provando, all’opposto delle asserzioni del conte Buol, che gl'Italiani sono suscettivi d’un reggime liberale e progressivo, rende più odioso ai popoli della penisola il sistema, che si appoggia sul reggime militare, sulle punizioni corporali, sulle imposte opprimenti, sulle disposizioni finanziarie disastrose, sull'abbandono al clero dei più sacri diritti dello Stato e dei cittadini.

«Adunque la libertà in Piemonte è, noi lo riconosciamo, un pericolo ed una minaccia per I Austria. Per rimediarvi, essa non ha se non due partiti a prendere: distruggere il reggime liberale in Sardegna, o estendere il suo dominio su tutta l’Italia, per impedire che il contagio possa cogliere gli Stati della penisola, che non hanno a lor disposizione forze bastanti per comprimere i voti delle popolazioni. Essa ha abbraccialo il secondo partito, aspettando di riuscire più tardi, per una via indiretta, all'attuazione del primo fra' mezzi indicati.

«L’Austria riuscì finora, mediante i suoi trattati particolari con Parma, Modena e la Toscana, mediante l'occupazione indefinita della Romagna, che non è vicina a cessare, per confessione delle stesse Corti di Vienna e di Roma, mediante le fortificazioni ch'essa vi eseguisce, a rendersi padrona effettiva degli Stati dell'Italia centrale e a circondare il Piemonte d'un cerchio di ferro.

«Egli è contro tale condizione di cose, cui i trattati di Vienna non giustificano menomamente, che la Sardegna non cessò di protestare da molti anni, invocando l’intervento e l’appoggio delle grandi Potenze soscrittrici di que’ medesimi trattati.

«È questa condizione di cose, che costituisce da lunga pezza una minaccia ed un pericolo per la Sardegna, aggravata di recente dagli armamenti straordinari e dagli altri atti aggressivi dell'Austria, che forzò il Governo del Re a prendere provvedimenti di difesa ed a chiamare sotto le armi i contingenti.

«Cessi questa condizione, rientri il dominio austriaco in Dalia ne limiti che gli vengono assegnati da patti formali, l’Austria disarmi: e la Sardegna, pur deplorando la sorte infelice delle popolazioni dell'altra sponda del Ticino, limiterà i suoi sforzi, come I Inghilterra le consigliò tante volte, ad una propaganda pacifica, destinata ad illuminare sempre più l’opinion pubblica in Europa sulla questione italiana, ed a preparare cosi gli elementi per la sua futura soluzione.

«Ma, finché il nostro vicino aggrupperà intorno a sé e contro di noi gli Stati d’Italia, che ci circondano, finché potrà far marciare liberamente le sue truppe dalle rive del Po sino alla sommità degli Apennini, finché serberà Piacenza, trasformata in piazza di prim'ordine, come una minaccia continua sulla nostra frontiera, ci sarà impossibile, pur mantenendo la dichiarazione contenuta nella prima parte di questo dispaccio, di non restare armati, di non conservare la nostra giusta diffidenza verso l’Austria armata e provocatrice.

«Il Governo di S. M. Britannica è troppo illuminato e troppo leale per non ammettere che noi non potremmo seguire altra norma di condotta senza tradire i nostri doveri, senza mancar all'onore, qualunque sia il nostro desiderio di dissipare le nubi, che minacciano la pace del mondo, e di aderire alle istanze di ima Potenza come l'Inghilterra, per la quale abbiamo altrettanta deferenza che amicizia.

«V’ incarico, sig. marchese, di dar lettura e copia di questo dispaccio al conte di Malmesbury, e colgo ecc.

Sott. Conte Cavour.»

In mezzo a tante ambagi era difficile di conservare la pace. L'Austria l’avrebbe accettata ma a grandi condizioni, e forse segretamente inclinava alla guerra nella speranza di trar seco la Germania.

Ma fra questa nazione vi erano delle opinioni disparate, mentre nella parte meridionale l'opinione pubblica mosiravasi favorevole all'Austria, nella Germania settentrionale erano pochi quelli che aderivano alla sua politica.

Gli uni pensavano doversi unire all’Austria per essere questa uno Stato tedesco, gli altri pensavano, e non senza ragione, che erano minacciati dello stesso pericolo che minaccia l’Austria.

Ed in fatti dicevano questi, l’Austria ad un tratto è divenuta uno Stato tedesco perché abbisogna del nostro ajuto, ma essa in una popolazione di trent’otto milioni di sudditi non conta senonché otto milioni di tedeschi.

L’Austria non ha mai difeso gl’interessi della Germania, all’opposto fu pronta sempre a sagrificare i paesi tedeschi quando trattavasi d’accrescere il proprio territorio. Nel 1850 essa adoperò ogni mezzo per umiliare la Germania ed abbandonare in un abbietto servaggio lo Schlewisg-Holstein, che è un paese tedesco. Non vogliamo parteggiare per l’Austria la quale per l’egida del concordato priva i suoi popoli di ogni fermo proponimento.

Se l’Austria ritorna vittoriosa dal conflitto mediante il sussidio d’eserciti tedeschi essa non si distoglierà dal sottomettere la Germania al giogo di Metternich e fors’anco a quello della Santa Sede.

Ciò nullameno in parecchie Camere tedesche si fecero dimostrazioni in favore dell’Austria.

Il Nassau la Baviera e l’Annover seguivano l’esempio dell’Austria nel proibire l’esportazione dei cavalli nei loro Stati per impedire che ne acquistasse la Francia.

La Russia però si uni coll'Inghilterra nell'opera della mediazione. Essa vedeva prossimo il conflitto che stava per accendersi e giudicava non essere obbligata ad assistere l’Austria quando questa veniva assalita nelle sue Provincie Italiane.

La stampa prussiana, ch'era l’organo della maggioranza, propugnò il principio del non intervento a favore dell’Austria, richiedeva almeno che in cambio d’un suo ajuto l’Austria mutasse radicalmente il suo sistema di governo specialmente riguardo al concordato che in Prussia era accolto sinistramente.

L’Imperatore d’Austria spedi a Berlino nei primi giorni di aprile l’arciduca Alberto colla missione di porgere schiarimenti al governo prussiano sulle risoluzioni prese dall’Austria ma ben anco per conoscere Ano a qual punto poteva fidarsi della Prussia.

A Berlino vennero fatte liete accogliente all’arciduca Alberto. Esso aveva guidato nel 1849 sui campi di Mortara e di Novara e specialmente in quest'ultima battaglia avea proseguito il combattimento finché Radetzkv era riuscito di concentrare lutto l’esercito. Ma quando l’arciduca espose le deliberazioni dell’Austria, la corte di Berlino affacciò un contrario consiglio.

Lasciavasi bensì intravedere una promessa di soccorso, ma volevasi però che l’Austria lasciasse procedere tranquillamente l’opera della mediazione senza turbarla con ultimali.

La corte di Berlino comprese l'impazienza dell’Austria, ma l’Austria d’altronde non poteva ammettere una dilazione perché era nella ferma intenzione che questa avrebbe offerto agio al nemico di compiere i suoi armamenti.

D’altronde l’opinione di dover combattere, era già diffusa a Vienna, ove era numeroso il partito propenso alla guerra.

Epperò l’arciduca Alberto ritornò da Berlino colla sola assicurazione che la Prussia si sarebbe data tutta la cura di proteggere i confini tedeschi al Reno.

Era corso alcun tempo né sorgeva speranza che le Potenze mediatrici potessero conciliare le discordi opinioni dei gabinetti di Vienna, di Torino e di Parigi.

Ai 17 di aprile l’Inghilterra di concerto colla Prussia volle tentare un nuovo esperimento di conciliazione.

Veniva questo compendiato nelle quattro seguenti proposizioni:

«1. Che anzi tutto avrebbe luogo un disarmamento generale e simultaneo.

«2. Che questa disarmamento sarebbe regolato da una commissione militare o civile indipendente dal Congresso. La commissione verrebbe composta di sei commissarii, uno per cadauna delle cinque potenze e la sesta per la Sardegna;

«3. Che appena la commissione si fosse riunita ed avesse incominciato l'incarico, il Congresso si riunirebbe e procederebbe alla discussione delle quistioni politiche.

«4. Che i rappresentanti gli Stati italiani sarebbero invitati dal congresso, appena riunito, a sedere coi rappresentanti delle cinque grandi potenze, precisamente come al congresso di Lubiana del 1821.»

Troppo tardi arrivavano le rappresentanze della Sardegna riguardo al licenziamento dei corpi volontari; tuttavia la Francia e la Russia accettavano immediatamente le proposte dell’Inghilterra, perché avessero fine le oscitanze dell'Austria, esposta oramai all'isolamento nel caso di un suo rifiuto.

E difatti non poco restò confusa l’Europa allora quando l'Austria vinta fors’anco dalla sua impazienza scioglievasi dai vincoli della mediazione e inviava un’intimazione al conte di Cavour, la quale annunziava I ultimo suo volere riguardo agli affari d Italia.

Questo scritto che riportiamo nulla sua interezza in data del 49 aprile veniva presentato al Conte di Cavour il 23 dello stesso mese alle 5 ½ pomeridiane.

Suonava cosi:

«Il Governo imperiale, V. E. lo sa, si è affrettato di aderire alla proposta del Gabinetto di Pietroburgo di adunare un Congresso delle cinque Potenze per cercar di appianare le complicazioni insorte in Italia.

«Convinti tuttavia della impossibilità d’intavolare, con probabilità di successo, deliberazioni pacifiche in mezzo allo strepito delle armi ed ai preparativi di guerra continuati in un paese vicino, noi abbiamo domandato che venisse posto sul piede di pace l'esercito sardo, e che venissero licenziati i corpi franchi o volontari italiani prima della riunione del Congresso.

«Il Governo di S. M. Britannica trovò tale condizione tanto giusta e tanto conforme alle esigenze della situazione, da non esitare ad appropriarsela, dichiarandosi pronto ad insistere congiuntamente alla Francia sul disarmamento immediato della Sardegna, e ad offrire a questa in ricambio, contro ogni attacco da parte nostra, una garantia collettiva, alla quale, ben s’intende, l'Austria avrebbe fatto onore.

«Sembra che il Gabinetto di Torino non abbia risposto che con un rifiuto categorico all'invito di porre il suo esercito sul piede di pace e di accettare la garantia collettiva che gli era offerta.

«Quel rifiuto c’inspira rincrescimenti tanto più profondi, quanto che, se il Governo sardo avesse assentito ad offrire la testimonianza de' sentimenti pacifici, che gli era chiesta, noi l'avremmo accolla come un primo indizio della sua intenzione di concorrere dal suo lato a migliorare le relazioni, sventuratamente tanto tese da alcuni anni fra' due paesi. In quel caso, ci sarebbe stato permesso di fornire, mediante la dislocazione delle truppe imperiali stanziate nel Regno Lombardo-Veneto, una prova di più ch'esse non vi furono radunate in uno scopo aggressivo contro la Sardegna.

«La nostra speranza essendo stata finora delusa, l’imperatore mio augusto Signore, si è degnato ordinarmi di tentare direttamente uno sforzo supremo, per far recedere il Governo di S. R. Sarda dalla decisione che sembra essere da lui presa.

«Questo è, signor Conte, lo scopo della presente lettera. Ho l’onore di pregare V. E. a voler prenderne nella considerazione più seria il contenuto, ed a voler farmi sapere se il Governo reale acconsenta, sì o no, a mettere senza dilazione il suo esercito sul piede di pace, ed a licenziare i volontarii italiani.

«Il latore della presente, al quale vorrete, sig. Con»te, far consegnare la vostra risposta, ha l’ordine di tenersi a tale effetto, durante tre giorni, a vostra disposizione.

«Se allo spirare di quel termine non ricevesse risposta, o se questa non fosse compiutamente soddisfacente la risponsabilità delle conseguenze, che seco trarrebbe quel rifiuto, ricadrebbe tutta intiera sul Governo di S. M. Sarda. Dopo avere invano esauriti tutt i mezzi conciliativi per procurare ai propri! popoli la garantia della pace, sulla quale l’Imperatore ha diritto d’insistere, S. M. dovrà, con suo grande dispiacere, ricorrere alla forza delle armi per ottenerla.

«Nella speranza che la risposta, che sollecito da V. E., sia per essere conforme ai nostri voti, tendenti al mantenimento della pace, colgo ecc.»

Nel frattempo a mezzo del telegrafo tutte le potenze erano venute a cognizione della nota del Conte Buol, prima ancora che giungesse e fosse consegnata.

Giù dai 20 d’aprile erano compiti tutti gli apprestamenti per l’invio d’un esercito francese in Piemonte.

Le prime schiere venivano dirette pel Rodano e per Chamberv verso il Moncenisio. Le altre potevano dirigersi da Tolone, Marsiglia per Genova, né mancò il giornale ufficiale dell'Impero francese a promulgare questa grave notizia con le seguenti parole:

«L’Austria non ha aderito alla proposta fatta dall’Inghilterra ed accettata dalla Francia, dalia Russia e dalla Prussia. Inoltre sembra che il gabinetto di Vienna abbia deciso di dirigere una comunicazione al gabinetto di Torino per ottenere il disarmamento della Sardegna. Alla presenza di questo fatto l’imperatore ordinò che venissero concentrale parecchie divisioni sui confini del Piemonte.»

Nello stesso giorno il conte di Cavour, presidente del Consiglio sardo, presentava alla Camera dei deputali un progetto di legge che dava a Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele i poteri esecutivi e legislativi in caso di guerra coll'Austria.

Questo progetto veniva adottalo senza discussione, per cui il conte di Cavour poteva rispondere alla intimazione austriaca nei seguenti termini cioè:

Torino, 26 aprile 1859.

«Signor conte,

«Il barone di Kellersperg mi consegnò, nel 23 corrente a cinque ore e mezza pomeridiane, la lettera che Vostra Eccellenza mi fece l'onore di dirigermi nel 4 9 del presente mese, che m’intimava di rispondere a nome del governo imperiale con un sì o con un no all'invito che ci venne fatto di ridurre I armata sul piede di pace e di licenziare i corpi formati di volontarii italiani, soggiungendo che se, trascorsi tre giorni, Vostra Eccellenza non ricevesse alcuna risposta, o se la risposta non fosse pienamente soddisfacente. S. Maestà l’imperatore d’Austria era decisa di ricorrere alle armi per imporci colla forza le misure che formavano l'oggetto della sua comunicazione

«La questione del disarmamento della Sardegna, che forma la sostanza della domanda che Vostra Eccellenza mi dirige, ha formato l'oggetto di molte negoziazioni tra le grandi potenze ed il governo di S. Maestà. Queste negoziazioni si risolsero in una proposta formulata dall’Inghilterra. alla quale aderirono la Francia, la Prussia e la Russia.

«La Sardegna l'accettò senza riserva e senz’alcuna mira segreta. Siccome Vostra Eccellenza non può ignorare né la proposta dell'Inghilterra, né la risposta della Sardegna, io non saprei che aggiungere per farle conoscere le intenzioni del governo del re riguardo alle difficoltà che si oppongono alla riunione del congresso.

«La condotta della Sardegna, in tale circostanza, è stata stimata dall'Europa. Qualunque potessero essere le conseguenze ch'essa produce, il re, mio augusto padrone, è convinto che la responsabilità peserà su quelli che per primi si armarono, che rifiutarono le proposte formulate da una grande potenza e riconosciute giuste dalle altre, ed ora vi sostituiscono una minacciosa intimazione.

«Colgo quest'occasione, ecc.

«C. Cavour.»

La Russia, di cui si disse che avesse conchiusa un’alleanza segreta offensiva e difensiva colla Francia, fece anch'essa degli apprestamenti di guerra collocando corpi militari d’osservazione ai suoi confini occidentali, ma fece intendere le sue assicurazioni di non voler prender parte alla guerra fìntanto che altre potenze e specialmente la Germania si fossero mantenute neutrali.

Vedemmo come il governo napoletano, facesse solleciti apprestamenti di guerra, dichiarando però di mantenere un’altitudine neutrale. Il papa fino dal febbraio: 1859, aveva notificalo a Parigi, ch’egli rinunziava all’ulteriore protezione dei francesi in Roma, né avrebbe fatto opposizione allo sgombro de' suoi Stati della guarnigione austriaca piuttosto che succedesse sul territorio della Chiesa una lotta fra le due grandi potenze cattoliche.

La Porta decaduta e sconcertata, attenta però alle complicazioni di cui era minacciata l'Europa, inviò dei corpi di truppe da un lato verso il Danubio, dall'altro verso la Grecia.

Della Spagna si disse che si era avvicinata alla Francia, e così pure il Portogallo era naturalmente indotto a seguire la politica dell'Inghilterra.

Già in precedenza di questi fatti la Svizzera aveva diretta una nota a tutti i Governi rammentando il suo diritto di perpetua neutralità e prometteva di osservarla anche durante i fatti che andavano a compiersi.

Epperò il Consiglio federale destinava, alcune brigate di militi pella sorveglianza dei confini più. prossimi al teatro della guerra.

Finalmente i piccoli Stati tedeschi prendevano norma dal contegno' della Prussia.

L’intimazione dell'Austria e la risposta data dai conte di Cavour rendevano imminenti le ostilità. Le potenze avevano provveduto ai loro compito in questo emergente, e ad ogni istante era da attendersi la notizia che le armate austriache avessero passato il Ticino.

Il Re Vittorio Emanuele pubblicava intanto il seguente Proclama al suo Esercito:

«L’Austria, che ai nostri confini ingrossa gli eserciti, e minaccia d’invadere le nostre terre, perché la libertà qui regna con l’ordine, perché non la forza ma la concordia e l’affetto tra popolo e sovrano qui reggono lo Stato, perché qui trovano ascolto le grida di dolore d’Italia oppressa; l’Austria osa intimare a noi, armati soltanto a difesa, che deponiamo. le armi e ci mettiamo in sua balìa. L’oltraggiosa intimazione doveva avere condegna risposta, lo la ho disdegnosamente respinta. Soldati! Ve ne do l’annunzio, sicuro che farete vostro l’oltraggio fatto al vostro Re, alla Nazione. L’annunzio che vi do, è annunzio di guerra. All'armi dunque, o soldati. Vi troverete a fronte di un nemico che non vi è nuovo; ma, s’egli è valoroso e disciplinato, voi non ne temete il confronto, e potete vantare le giornate di Goito, di Pastrengo, di Santa Lucia, di Sommacampagna, di Custoza stessa, in cui quattro sole brigate lottarono tre giorni contro cinque corpi d’armata. Io sarò vostro duce. Altre volte ci siamo conosciuti con gran parte di voi nel fervore delle pugne; ed io, combattendo a fianco del magnanimo mio Genitore, ammirai con orgoglio il vostro valore. Sul campo dell’onore e della gloria, voi, sono certo, saprete conservare, anzi accrescere la vostra fama di prodi. Avrete a compagni quegli intrepidi soldati di Francia, vincitori, di tante e segnalate battaglie, di cui foste commilitoni alla Cernaia, e che Napoleone III, sempre accorrente la dovei vi è una causa giusta da difendere e la civiltà da far prevalere, c'invia generosamente in aiuto in numerose schiere. Movete dunque, fidenti della vittoria, e di novelli allori fregiate la vostra bandiera; quella bandiera, che co’ suoi tre colori, e colla eletta gioventù, qui da ogni parte d’Italia convenuta e sotto a lei raccolta, vi addita che avete a compito vostro l’indipendenza d’Italia; questa giusta e santa impresa, che sarà il vostro grido di guerra.»

In tale frattempo la Prussia e l’Inghilterra, facendo mostra di nutrire ancora un’ultima speranza di mediazione, presentarono una nuova proposta, quella cioè di riprendere i negoziali dal punto nel quale gli aveva lasciati lord Cowley, ed avevano chiesto una dilazione di altri due giorni prima di cominciare le ostilità. L'Austria accettava quella proposta, ma veniva rigettata da Napoleone. Per cui il 29 d'aprile dopo il mezzogiorno gli austriaci varcarono il Ticino.


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CAPITOLO II

Maggio e Giugno

Ai 29 aprile gli austriaci varcarono il Ticino, quindi sul territorio sardo stavano di fronte gli eserciti nemici ed era incominciata la guerra. Gli ambasciatori, chiesti i loro passaporti, abbandonavano le loro residenze e i governi impegnati nella lotta pubblicarono dei manifesti, giustificando mediante note diplomatiche il loro contegno.

La responsabilità degli avvenimenti veniva addossata all'Austria come esponeva il ministro francese Walewsky in una nota circolare agli agenti diplomatici all’estero:

«La comunicazione che fu fatta, dicevasi in quella nota, per ordine di S. M. al Senato ed al Corpo legislativo, mi dispensa di riparlare degli emergenti, di cui l’opinion pubblica si era preoccupata da alcune settimane, e che furono oggetto de' miei ultimi dispacci. La gravità della situazione è divenuta estrema, e lo scioglimento, che si annunzia, non sarebbe sgraziatamente quello, che leali e perseveranti sforzi si erano applicati a preparare. In congiunture Tanto gravi, è un gran sollievo pel Governo dell’imperatore, di poter sottoporre senza timore al giudizio dell'Europa la questione del sapere a qual Potenza incoill'ba la risponsabilità degli avvenimenti.

«Che la condizione dell’Italia fosse anormale; che il malessere e la sorda agitazione, che ne risultavano, costituissero per tutti un pericolo; che la ragione consigliasse di scongiurare, con una sana previdenza, una crisi inevitabile, ecco quanto l’Inghilterra, la Prussia e la Russia pensarono in pari tempo che la Francia. La unanimità delle apprensioni creò tosto la conformità dei sentimenti e delle pratiche. La missione del conte Cowley a Vienna, la proposizione d un Congresso, emanata da Pietroburgo, l'appoggio prestato dalla Prussia a questi tentativi d'accomodamento, la sollecitudine della Francia ad aderire alle combinazioni che si succedettero fino all'ultima ora; tutti questi atti, in una parola, furono ispirati da uno stesso movente, dal vivo e sincero desiderio di consolidare la pace, non chiudendo più gli occhi sopra una difficoltà che minacciava tanto evidentemente di turbarla.

«In questa fase della questione, signore, il Governa dell’Imperatore ebbe la sua parte d’iniziativa e d'azione; ma questa parte, mi preme constatarlo, si è; sempre: confusa in un’opera collettiva. La Francia offerse semplicemente il suo soccorso, in qualità di grande Potenza europea, per regolare, con uno spirito d’accordo di fiducia negli altri Gabinetti, una questione, ch’eccitava le sue simpatie, io non lo dissimulo, ma in cui essa non iscorgeva ancora né doveri particolari da adempiere, nò interessi urgenti da difendere. Nel giorno in cui il Gabinetto di Vienna aveva promesso, mediante dichiarazioni solenni, di non cominciare le ostilità, egli stesso aveva, sembrato presentire l’attitudine, che imporrebbe infallibilmente al Governo dell'imperatore qualunque aggressione diretta contro il Piemonte.

«Simile assicurazione dando alla mediazione delle Potenze il tempo di esercitarsi, permetteva di sperare la prossima convocazione del Congresso. In fatti, ringhiò terra aveva determinato, coll'assenso della Francia, della Prussia e della Russia, le ultime condizioni della riunione di quell'assemblea, ove il posto, che la giustizia e la ragione assegnavano agli Stati italiani, era loro accordato. La Sardegna, dal canto suo, aderiva al principio del disarmamento simultaneo e preliminare di tutte le Potenze, chedà qualche tempo avevano aumentato il loro effettivo militare. A questi presagi di pace, il Gabinetto di Vienna oppone tutt'ad un tratto un atto che, per caratterizzarlo come dev’essere, equivale ad una dichiarazione di guerra.

«Per tal modo, l’Austria distrugge isolatamente, e con proposito deliberato, il lavoro seguito con tanta pazienza dall’Inghilterra, secondato con tanta lealtà dalla Russia e dalla Prussia, agevolato con tanta moderazione dalla Francia. Non solo essa chiude alla Sardegna la porta del Congresso, ma le intima, sotto pena di vedervisi costringere dalla forza, di porre giù le armi senza condizione alcuna e nel termine di tre giorni.

«Un formidabile apparato di guerra si spiega in. pari tempo sulle rive del Ticino; ed è, a dir vero, in mezzo ad un esercito in marcia, che il generale supremo austriaco aspetta la risposta del Gabinetto di Torino.

«Voi conoscete, signore, l'impressione cagionata a Londra, a Berlino ed a Pietroburgo dalla risoluzione tanto inopportuna e tanto fatale del Gabinetto di Vienna. La sorpresa e il dispiacere delle tre Potenze si tradussero in una-protesta, di cui l'opinione pubblica si rese oggi l'eco in tutte le parti dell'Europa.

«Se l’Inghilterra, la Prussia e la Russia, mediante il passo che si affrettarono a compiere, poterono sciogliere pienamente la loro risponsabilità morale e soddisfare alle esigenze della loro dignità offesa, il Governo dell'Imperatore, mosso d’altronde da considerazioni analoghe, aveva a far rilevare maggiormente la sua attitudine, e gli erano imposti altri obblighi. Nulla modifica la solidarietà che si era stabilita da principio fra noi e le Potenze mediatrici; la questione, in fondo, rimane la stessa, ma noi abbiam troppa fiducia nelle disposizioni, di cui queste Potenze ci porsero splendide testimonianze, per dubitare un solo istante ch’esse si ingannino sul significato della politica, che antiche tradizioni e imperiose necessità di posizione geografica c’indicano tanto naturalmente.

«La Francia, da mezzo secolo in poi, non pretese mai di esercitare in Italia un influenza interessata, e non è dessa certamente che si può accusare d’aver tentato di risvegliare la memoria di lotte antiche e di rivalità storiche. Tutto quello ch'essa ha domandato finora, e i trattati concordano co’ suoi voti, era che gli. Stati della penisola vivessero della lor vita propria, e nelle loro faccende interne, come ne'loro rapporti coll’estero, non avessero a consultare altri che sé stessi. Io non so se in tal riguardo si pensi a Londra, a Berlino ed a Pietroburgo in altro modo che a Parigi; comunque sia, le circostanze investirono l'Austria, verso le varie Potenze d’Italia, d’una situazione considerata unanimemente preponderante.

«La sola Sardegna sfuggi sinora ad un’azione, che, per confessione generale, ha alterato in una parte importante d’Europa il sistema d’equilibrio, che si aveva voluto stabilirvi. In ogni altro luogo, tal fatto era molto grave; ma, quali che fossero i nostri intimi sentimenti, poteva bastarci, colle opinioni che riconosciamo negli altri Gabinetti, di additar loro il male da correggere.

«Tale riserbo, signore, trattandosi della Sardegna, diverrebbe una dimenticanza de nostri interessi più essenziali. La configurazione del suolo non copre da questa parte una delle frontiere della Francia: i passaggi delle Alpi non sono nelle nostre mani, ed a noi importa al più alto grado che la chiave ne rimanga a Torino, unicamente a Torino. Considerazioni francesi, ma considerazioni eziandio europee, finché il rispetto dei diritti e degl'interessi legittimi delle Potenze continueranno a servire di norma ai loro rapporti reciproci; queste considerazioni dico, non permettono al Governo dell'Imperatore di esitare sulla condotta ch'esso ha da tenere, quando uno Stato tanto considerevole come l’Austria assume verso il Piemonte il tuono della minaccia e si prepara direttamente a dettargli la legge. Quest’obbligo acquista una gravità nuova dal rifiuto dell’Austria di discutere prima di agire. Noi non vogliamo, ad alcun prezzo, trovarci in faccia ad un fatto compiuto, ed è questo fatto che il Governo dell'Imperatore è risoluto ad impedire. Non è dunque un atteggiamento offensivo, ma un provvedimento di difesa che noi adottiamo in questo momento.,

«Alla Sardegna ci uniscono antiche memorie, la comunanza delle origini e un recente parentado delle famiglie sovrane. Queste sono serie ragioni di simpatia che noi apprezziamo in tutto il loro valore, ma che forse non basterebbero a decidersi. Quello che ci segna sicuramente la nostra via, è l’interesse permanente ed ereditario della Francia;'è l’impossibilità assoluta pel Governo dell’Imperatore di ammettere che un colpo violento stabilisca appiè delle Alpi contro i voti d’una nazione amica e la volontà. del suo. Sovrano, una condizione di,cose, che abbandonerebbe tutta l'Italia ad un influsso straniero.

«S. M. imperiale, strettamente fedele alle parole che pronunciò, allorquando il popolo francese lo richiamò al trono del capo della sua dinastia, non è animato da alcun’ambizione personale, da alcun desiderio di conquista. Il tempo non è lontano, in cui l’imperatore ha provato, in una crisi europea, che la moderazione era l'anima della sua politica. Tale moderazione, a quest’ora, presiede colla stessa forza ai suoi disegni, e, pur tutelando gl’interessi che la Provvidenza gli ha affidato, S. M. non pensa, potete darne intorno a voi l’assicurazione più positiva, a separare le sue vedute da quelle de' suoi alleati. Lungi da ciò, il suo Governo, riferendosi agli emergenti, che contraddistinsero le trattative delle settimane precedenti nutre la ferita speranza che il Governo di S. M Britannica continuerà a perseverare in un contegno che, unendo con un vincolo morale la politica dei due paesi, permetta ai Gabinetti di Parigi e di Londra di spiegarsi senza riserbo, e di combinare, secondo le contingenze, un accordo destinato a preservare il Continente dagli effetti, della lotta che può sorgere ad una delle sue estremità, La Russia, ne abbiamo la profonda convinzione, sarà sempre pronta a indirizzare i suoi sforzi verso lo stesso scopo. Quanto alla Prussia, lo spirito imparziale e conciliativo ad un tempo, di cui essa fece pruova fin dall’origine della crisi, è un sicuro mallevadore delle sue disposizioni a non trascurar nulla per circoscriverne l’esplosione.

«Noi desideriamo in modo affatto particolare che le altre Potenze, le quali compongono la Confederazione germanica, non si lascino forviare dalle memorie di un’epoca differente. La Francia non può vedere se non con rammarico l’agitazione che si è impossessala d’alcuni Stati della Germania. Essa non comprende che quel paese ordinariamente tanto pacato e imbevuto patriotticamente del sentimento della sua forza, possa credere minacciata la sua sicurezza da avvenimenti, il cui teatro dee rimanere lontano dal suo territorio. Il Governo dell’Imperatore vuol credere pertanto che gli statisti della Germania riconosceranno ben presto che dipende in gran parte da essi medesimi di contribuir a limitare la estensione e la durata d’una guerra cui la Francia, se l’è d’uopo sostenerla, avrà almeno la coscienza di non aver provocala.

«V’invito, signore, ad ispirarvi alle considerazioni svolte in questo dispaccio nel vostro più prossimo abboccamento col sig... ed a lasciargliene copia. In faccia alla schiettezza di linguaggio, che vi tengo qui per ordine dell’imperatore, e che implica, nel pensiero di S. M., il desiderio di offrire agli altri Gabinetti tutte le guarentigie possibili per indurli ad un vero apprezzamento della situazione e rassicurarli, per quanto li concerne, sulle sue conseguenze, mi è difficile supporre che il Governo di... non accolga le nostre spiegazioni con una fiducia eguale a quella che me le ha dettate.

«Ricevete ecc.»

Di fronte al suddetto dispaccio comparve il proclama di Francesco Giuseppe «ai miei popoli»

Eccone il testo:

AI MIEI POPOLI!

«lo ho dato l’ordine alla mia fedele e valorosa armata di porre un termine alle ostilità, commesse già da una serie di anni dal limitrofo Stato la Sardegna, ed in questi ultimi tempi giunte al colmo a pregiudizio degli incontrastabili diritti della mia corona e dell’inviolata conservazione dell’impero a me affidato da Dio.

«Con tale determinazione ho adempiuto un grave, ma inevitabile dovere di Sovrano.

«Tranquillo nella mia coscienza, posso sollevare lò sguardo a Dio onnipotente e sottopormi al suo giudizio.

«Pieno di fiducia, rimetto la mia risoluzione alla sentenza imparziale dei contemporanei e delle generazioni future; del consenso de' miei Popoli fedeli sono pienamente sicuro.

«Allorché già da più di dieci anni lo stesso nemico, violando ogni diritto delle genti e gli usi della guerra, senza che gli fosse dato un qualsiasi motivo, soltanto collo scopo d’impadronirsi del Regno Lombardo-Veneto, ne inevase colla sua armata il territorio, allorché fu per ben due volle sconfitto dal mio Esercito dopo glorioso combattimento, esso si trovò in balìa del vincitore; io gli usai tutta la generosità e gli porsi la mano per la riconciliazione.

«lo non mi sono appropriato nemmeno un palmo del suo territorio, non ho leso alcun diritto spettante alla Corona della Sardegna nel consorzio della famiglia dei Popoli europei; non ho pattuita alcuna garantia per prevenire la rinnovazione di simili avvenimenti; io ho creduto di trovarla soltanto nella mano conciliatrice che gli stesi e che venne accettata.

«Alla pace feci il sacrificio del sangue versato dalla mia armata per l’onore ed il diritto dell'Austria.

«La risposta a tanta moderazione, di cui non havvi altro esempio nella storia, fu l’immediata continuazione delle ostilità, una agitazione sempre crescente d'anno in anno, ed afforzata coi mezzi più sleali contro la pace ed il benessere del mio Regno Lombardo-Veneto.

«Ben sapendo quanto io debba al prezioso bene della pace pei miei Popoli e per l'Europa, tollerai con pazienza queste ostilità rinnovate.

«Essa non si esaurì, allorché avendo io dovuto prendere nell’ultimo tempo estese misure per la sicurezza del mio Stato italiano, costrettovi dall’eccesso delle mene rivoltose intraprese ai confini ed anche nell’interno del pese, se ne trasse partito per agire ancor più ostilmente.

«Tenendo conto della benevola mediazione di amiche grandi Potenze per la conservazione della pace, acconsentii ad un Congresso delle cinque grandi Potenze.

«I quattro punti proposti dal regio Governo della Gran Brettagna e trasmessi al mio Governo come base delle deliberazioni del Congresso, vennero da me accettate a condizioni, che solo potevano essere opportune a facilitare il conseguimento di una vera, sincera e durevole pace.

«Nella coscienza, che il mio Governo non aveva fatto alcun passo, che nemmeno nel modo più remoto avesse potuto turbare la pace, feci in pari tempo domanda, che preventivamente avesse a disarmare quella Potenza, che è colpa degli scompigli e del pericolo di turbare la. pace.

«Sulle istanze di amiche Potenze ho finalmente dato il mio assenso alla proposta di un disarmamento generale.

«Questa mediazione andò fallita per l'inammissibilità delle condizioni a cui la Sardegna vincolò il suo consenso.

«Non restava pertanto che un unico passo per conservare la pace. Io feci intimare direttamente al regio Governo sardo, di ridurre la sua armata sul piede di pace e di licenziare i corpi franchi.

(!) ¥ la Sardegna non ha assecondata una tale domanda.

Ecco dunque! arrivato l’istante, in cui per far valere il diritto conviene ricorrere alla decisione delle armi.

p Ho dato l’ordine alla mia armata di penetrare nella Sardegna.

ss

«Conosco la portata di questo passo, e se mai iecure del Regno mi riuscirono gravi; lo sono in questo momento.

«La guerra è un flagello dell’umanità; con cuore commosso veggo come esso minaccia di colpire migliaia dei miei sudditi fedeli nella vita e nei beni; sento profondamente qual grave prova sia appunto ora la guerra pel mio Impero, che progredisce sulla via di un regolare sviluppo interno, e che a tal uopo ha bisogno che si conservi la pace.

«Ma il cuore del Monarca deve tacere, allorché comandano l’onore ed il dovere.

«Ai confini si trova il nemico in armi collegato col partito della generale sovversione, e col palese progetto di impadronirsi a forza dei paesi posseduti dall’Austria in Italia. A suo sussidio, il dominatore della Francia, che con vani pretesti s’immischia nei rapporti della Penisola italiana, regolati a tenore del diritto delle genti, pone in moto le sue truppe, e già alcune divisioni di queste hanno oltrepassato i confini della Sardegna.

«Tempi difficili trascorsero già sulla Corona che. ho? ereditala senza macchia dai miei antenati; la gloriosa storia della nostra patria fa fede, che la Provvidenza, allori quando minacciavano di stendersi sopra questa parte del mondo le ombre annunciatrici di peripezie ai maggiori; beni dell’umanità, si servì della spada dell’Austria per disperdere col suo lampo quelle ombre fatali.

«Ci troviamo di nuovo alla vigilia di un’epoca simile, in cui si vuole scagliare la distruzione di quanto sussiste, non solo dalle sette, ma persino dai troni.

«Se forzatovi pongo mano alla spada, questa è consacrata ad essere la difesa dell’onore e del buon diritto dell’Austria, dei diritti di lutti i popoli e Stati e dei beni più sacri dell'umanità.

Ma a voi, o miei Popoli, che colla vostra fedeltà verso l’avita Casa regnante, siete un modello per tutte le genti, a voi si volge la mia voce, invitandovi a starmi dal lato nell'intrapresa pugna colla vostra antica lealtà a tutta prova, colla vostra devozione e colla vostra prontezza a qualsiasi sacrificio; ai vostri figli, da me chiamati nelle file del mio esercito, io, loro Duce supremo, mando il mio guerriero saluto; voi potete con orgoglio volgere ad essi lo sguardo, perché fra le loro mani l’onorata Aquila austriaca aprirà i vanni a voli sublimi.

«La nostra pugna è giusta; noi vi entriamo con coraggio e fiducia.

«Speriamo che in questa pugna non istaremo soli.

«Il suolo su cui noi combattiamo è impregnato anche del sangue sparso dal popolo de nostri fratelli tedeschi: fu conquistato e fu conservato fino a questi giorni come uno de' suoi propugnacoli: fu di solito in quei paesi che gli astuti nemici della Germania cominciarono il loro giuoco, allorché si sforzarono d’infrangerne la potenza nell'interno. Il sentimento di un tale pericolo percorre anche ora le piagge della Germania, dalla capanna sino al trono, dall’uno all’altro confine.

«Io parlo come Principe della Confederazione germanica, destando l’altrui attenzione sul pericolo comune, e rammentando i giorni gloriosi, in cui l’Europa dovette la sua liberazione al divampante entusiasmo generale.»

Ora è d’uopo riconoscere quale sia l’importanza delle forze che s’impegnavano in questa lotta.

Ne sarà bensì lecito d'attingere alle nozioni dettagliate e precise di uno storico coscienzioso, onde presentare ai nostri lettori l’esatto numero di esse, e la forma nella quale vengono esposte a maggior chiarezza del nostro racconto.


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I. Esercito austriaco

L’infanteria dell’esercito austriaco consta dell’infanteria di linea, dell’infanteria nazionale confinaria, della truppa dei cacciatori, e delle truppe di sanità che di regola Tengono in essa compenetrate.

L’infanteria di linea novera sessantadue reggimenti: ogni reggimento è composto in tempo di pace di quattro battaglioni, ciascheduno di sei compagnie. Quando l’esercito si mette in assetto di guerra, il reggimento può essere recato a sei battaglioni, cioè quattro di campagna di sei compagnie, un battaglione di granulieri di quattro compagnie delle quali ogni battaglione di campagna ne fornisce una, ed un battaglione di deposito di quattro compagnie.

Ogni compagnia di granatieri o di fucilieri dei battaglioni di granatieri o degli altri battaglioni di campagna è composta, sul piede di guerra, di quattro ufficiali compresovi il capitano, di quattordici sottufficiali, compresivi due sergenti, di dodici sottocaporali, di quattro trombettieri, due zappatori e centottanta fucilieri, in totalità di dugentosedici combattenti. Lo stato maggiore del battaglione conta quattro combattenti.

Ne conseguita da ciò che un battaglione di fucilieri, conta 1300 ed un battaglione di granatieri 868 uomini; un reggimento di quattro battaglioni di campagna e d’uno di granatieri, compreso lo stato maggiore del reggimento, ha 6078 uomini.. Per altro questo numero talora diminuisce.

Le compagnie di deposito noverano in assetto di guerra 133 uomini soltanto; laonde il battaglione di deposito ne conta 536.

In tempo di pace le compagnie sono assai men numerose che in tempo di guerra, e sebbene di regola conservino tutte le cariche, tuttavia, in vece di 180, esse hanno soli 60 soldati semplici. Col richiamo in armi dei soldati in permesso e delle riserve le compagnie ricevono il lor rinforzo.

Le schiere dell'infanteria si perfezionano mediante i reclutamenti i quali possono colpire tutte le sette classi dai vent’anni in su. Ogni reggimento d’infanteria di linea: ha uno speciale Revisonato di completamento di coscrizione, dal quale traggo le truppe. La durata del servizio militare è di otto anni; per altro il soldato non rimane in armi tutto questo periodo di tempo: dopo alcuni anni anzi egli può essere mandato in congedo temporaneo e, vien richiamato ogni anno solo al tempo dei grandi esercizii. In questa circostanza i soldati portano il nome di permessanti. Scorso il tempo del servizio di otto anni, il soldato rimane altri due anni nella riserva; in questo periodo egli non è soggetto a regolari esercizii, e non viene richiamato sotto le bandiere se non in caso di guerra od in altre occasioni del tutto straordinarie; a tal effetto occorre un ordine dell’imperatore.

I battaglioni di deposito formati in tempo di guerra rimangono di regola presso gli ufficii militari di coscrizione, vi accolgono le truppe di completamento, le addestrano negli esercizii, le agguerriscono e le spediscono al battaglione di campagna. In tal modo possono essere adoperate nel presidio delle fortezze. In tempo di pace il quarto battaglione di campagna assume le veci del battaglione di deposito ed inscrive nelle sue liste anche quei soldati in permesso che debbono essere richiamati per allestire il battaglione di deposito.

L’uniforme dell’infanteria di linea consiste in una tonica bianca, calzoni azzurro-chiaro e czakò nero. Le mostre di diverso colore al collare ed al paramano dell’abito, ed i bottoni bianchi o gialli, differenziano i reggimenti fra loro.

L’infanteria è armata coi fucili rigati secondo il sistema di Lorenzi; essi vengono caricati con una palla a cono la cui parte anteriore, più pesante della posteriore, vien mossa più tardi di questa all’accendersi del cartoccio, donde deriva appunto la forte pressione del piombo nello sparo senza che la carica, ancorché venga intromessa per la bocca dell’arma, debba esser forzata. I fucili della prima e della seconda fila hanno soltanto una mira alla estremità della canna, e quelli dei sottufficiali e della terza fila alla quale è affidato il servizio di bersaglieri, hanno una mira mobile sul fondo della canna.

I reggimenti sono contrassegnati con un numero progressivo ed anche col nome dei loro proprietarii (capi di reggimento), per esempio reggimento d’infanteria di linea Imperatore Francesco Giuseppe n. I.

L’infanteria nazionale confinaria è composta di quattordici reggimenti e di un battaglione staccato. Ogni reggimento novera due battaglioni di campagna di sei compagnie ed un battaglione di riserva di quattro compagnie. Ad ogni reggimento è aggiunta una sezione di artiglieri confinarii. Il battaglione staccato, battaglione confinario di Titl (altre volte corpo di Czaikist), ha sei compagnie di campagna ed una divisione di riserva composta di due compagnie. Gli ufficii di completamento coscrizionale di queste truppe sono posti nei paesi situati alla frontiera turca. Soltanto quando partono da questo territorio, i battaglioni di campagna vengono ordinati in corpi di truppe staccate; se ambi i battaglioni di campagna di un reggimento debbano partire, allora il battaglione di riserva entra in servizio attivo. Ogni anno verso la fine d’autunno le truppe chiamate di recente sotto le armi si addestrano negli esercizii militari pel corso di otto settimane, i battaglioni di campana però ripetutamente quattro settimane in primavera e tre settimane in autunno.

Un battaglione di campagna di militi confinarti conta 1338 uomini; un battaglione di riserva 891 ed un reggimento completo 3660 uomini, fra i quali cinquantatré artiglieri. Il reggimento di campagna si può computare di circa 2800 uomini.

L’uniforme dell’infanteria confinaria, ad eccezione della tunica che è di color bruno, è eguale a quello dell’infanteria di linea. Anche questi reggimenti vengono contrassegnati con numeri progressivi, ed inoltre coi nomi dei distretti confinari! a' quali appartengono.

I cacciatori hanno un solo reggimento denominato Cacciatori Imperatore, il quale è fornito dal Tirolo e Vorarlberg, con sette battaglioni di campagna (uno di sei e sei di quattro compagnie) ed un battaglione di deposito di tre compagnie; inoltre venticinque battaglioni di campagna, dei quali cinque di sei compagnie e venti di quattro. L’Austria ha dunque tutto insieme trentadue battaglioni di cacciatori da cimentare in battaglia, fra i quali sei (il 7.° dei cacciatori Imperatore, e l’8.°, 11., 23.°, 24° e 25.°) da sei compagnie, gli altri tutti da quattro.

In piede di guerra ogni battaglione di campagna (lei cacciatori da sei compagnie fornisce una compagnia di deposito, ed i battaglioni di quattro compagnie ne danno una per ogni due compagnie. L’uniforme consiste in una tunica di color grigio chiaro con mostre verde-erba ed il cappello alla corsa. La prima e la seconda fila sono armate di moschettoni ordinarii, la terza di un moschettone rigato con baionetta a doppio fendente. Ogni compagnia di un battaglione di campagna di cacciatori novera dugentosei uomini, un battaglione di sei compagnie compreso lo stato maggiore, ne ha milledugento settantasette, ed un battaglione di quattro compagnie ottocento sessantasette.

Quando verremo a parlare delle truppe staccale, tratteremo distesamente dei corpi militari di sanità.

Omettendo le frazioni, si può nel modo seguente enumerare il contingente dell’infanteria austriaca disponibile in tempo di guerra:

62 battaglioni di granatieri

55,000


248 battaglioni di fucilieri

322,000


29 battaglioni di confinari)

38,000





6 battaglioni di cacciatori da sei compagnie

7,500


26 battaglioni di cacciatori da quattro compagnie




23,000


Totalità

443,500

uomini

Un battaglione austriaco d’infanteria si schiera ih tre file; in linea le compagnie sono collocate l’una dappresso all’altra secondo il numero progressivo dell’ala destra verso la sinistra. La bandiera che sta nel mezzo divide il battaglione in due ale, l’una a destra e l’altra a sinistra, inoltre il battaglione da sei compagnie vien ripartito in tre divisioni le quali sono formate da due compagnie vicine. Ciascuna divisione può da sé stessa, riguardo all’unità di azione, operare staccata al pari di un piccolo battaglione. La compagnia di numero dispari costituisce l’ala destra della divisione, e quella di numero pari, l’ala sinistra. Ogni compagnia poi si suddivide in quattro drappelli, i numeri dei quali procedono nelle compagnie a numeri dispari, 1, 3, 5, dall’ala destra verso la sinistra, e in quelle a numeri pari dall’ala sinistra verso la destra.

La terza fila serve alla formazione dei drappelli ausiliari, nei quali i soldati della terza fila si collocano dietro ad ogni due drappelli riuniti. In tal modo ogni compagnia può comporre due drappelli ausiliarii in doppia fila, ed un battaglione di sei compagnie né può costituir dodici. Questi drappelli fanno r uffizio nella prima fila di bersaglieri, si adoperano quali truppe di rinforzo dietro le ale del battaglione, ed inoltre per formare l’avanguardia e la retroguardia senza che per ciò sia mestieri di restringere la fronte del battaglione cosi ridotto in due file; e finalmente servono ad occupare il posto di compagnie staccate nella fronte del battaglione.

Tutt’i movimenti di fianco vengono fatti in doppia fila, cioè con sei uomini di fronte. Le colonne d'assalto sono formate col centro o con una compagnia d’ala, ed i quadrati si dispongono in guisa che le due compagnie, le quali costituiscono la fronte e le due che costituiscono il terzo d’una colonna serrala, rimangono nella posizione, che prendono di regola quando si collocano in colonna, mentre le due compagnie di mezzo si schierano in drappelli uno dopo l’altro occupando l’una compagnia un fianco, e la seconda l’altro.

La cavalleria si divide in pesante e leggera. La cavalleria pesante è composta di otto reggimenti di corazzieri e otto di dragoni.

Un reggimento di cavalleria pesante ha sei squadroni di campo, due dei quali formano una divisione, ed in tempo di guerra ha pure uno squadrone di deposito. Ciascuna divisione ha uno stendardo; ogni squadrone vien ripartito in quattro squadre. L’intera cavalleria si schiera in due file. Uno squadrone di campo ha 194 uomini e 170 cavalli. I sei squadroni di campo del reggimento compresovi lo stato maggiore contano 1017 cavalli. I corazzieri hanno tuniche bianche, calzoni di colore blù-chiaro, elmo, corazza, mostre e bottoni di varii colori, sciabola di cavalleria e pistole rigate a percussione; i primi sei reggimenti dei dragoni hanno tuniche bianche e calzoni blu-chiaro, gli ultimi due reggimenti invece hanno tuniche e calzoni verde-oscuro; tutti i reggimenti recano elmo, sciabola di cavalleria e carabine rigate.

La cavalleria leggera consta di dodici reggimenti d’usseri e di dodici d’ulani. Ciascun reggimento di cavalleria leggera ha otto squadroni di campo ovvero quattro divisioni, ed in tempo di guerra, uno squadrone di deposito.

Gli squadroni di campo noverano 227 uomini e 200 cavalli. Gli otto squadroni di campo compreso lo stato maggiore contano 1596 cavalli. Gli usseri hanno attilas ((1)) di varii colori secondo i varii reggimenti, calzoni di color simile a quello dell’attilas, cappello di diverso colore, sciabola di cavalleria, e carabine. Gli ulani hanno ulankas (tunica corta) e calzoni d’uno stesso colore verde-scuro, mostre di color rosso al colletto ed alle maniche, czapkas (cappello polacco) di vario colore secondo il reggimento, sciabola di cavalleria, lancia e pistole, ad eccezione di sedici nomini per ciascuno squadrone, i quali, invece delle due ultime armi, hanno carabine rigate.

Non tenendo conto delle frazioni, il contingente della cavalleria regolare disponibile in guerra, si può computare come appresso:

8 Reggimenti di corazzieri

da 6

squadroni

8.000

cavalli

8 Reggimenti di dragoni

da 6

»

8.000

»

12 Reggimenti di usseri

da 8

»

19.000

»

12 Reggimenti di alani

da 8

»

19.000

»


Totalità


54,000

»

L'artiglieria di campo è composta di dodici reggimenti d'artiglieria di campo, di un reggimento d'artiglieria pel Litorale, e di un reggimento di racchettieri.

Il reggimento di artiglieria di campo in tempo di guerra ha quattro batterie con cannoni da sei, tre con cannoni da do dei e sei batterie a caval o, oltre una batteria con lunghi obici e quattro o cinque compagnie per destinazioni speciali; i reggimenti 2, 9 e 10 forniscono ognuno cinque compagnie. Le quattordici batterie che compongono un reggimento vengono tirate da cavalli, e di regola fanno parte di un corpo d'esercito, quantunque non vi debbano essere direttamente aggregate. In un regg mento le quattro batterie a piedi con cannoni da sei sono contrassegnate coi numeri da l'a 4, le batterie a piedi con cannoni da dodici dal 5 al 7: le batterie a cavallo dall'8 al 13: la batteria di obici ha il n. 14. Ogni batteria ha otto pezzi. due dei quali per regola sono obici, e sei cannoni: ia batteria di obici è composta naturalmente di soli obici. Le batterie a cavallo sono munite in parte con cannoni da sei. e le altre sono a carica di cotone fulminante.

Il cannone austriaco a carica di cotone fulminante è un cannone conformato a camera, lungo otto calibri e del calibro totale dei pezzi da dodici; esso non pesa più di un pezzo da sei.

Il fornimento di una batteria tirata da cavalli si può tutt’insieme computare di 180 uomini e 140 cavalli.

Le compagnie sopranumerarie si adoperano ai seguenti scopi: per formare i depositi necessarii al rinforzamento delle munizioni presso i corpi e presso gli eserciti composti di varii corpi, pel servizio della batteria di campo con cannoni da diciotto e della batteria dei mortai le quali debbono esistere in tempo di guerra in ciascun esercito, infine nel servizio dell'artiglieria di fortezza e d’assedio.

Il reggimento d’artiglieria pel Litorale adriatico in piede di guerra ha tre battaglioni da cinque compagnie.

Il reggimento di raccheltieri ha venti batterie, ciascuna delle quali novera otto carri di racchette e tre compagnie.

L’uniforme dell’artigliere consiste in una tunica di color bruno-oscuro con bottoni gialli, mostre d’un rosso-scarlatto al colletto ed alle maniche, calzoni blu-chiaro con filetto di rosso scarlatto.

Gli ufficiali che ministrano le batterie, ad eccezione dei caporali dell'artiglieria del Litorale, hanno la sciabola di cavalleria a similitudine degli artiglieri a cavallo; gli ufficiali delle batterie tratte da cavalli hanno inoltre pistole rigate.

In tempo di guerra le batterie di racchette vengono ripartite secondo il bisogno dei vari eserciti e corpi d’esercito che stanno accampati. — Dell'artiglieria disponibile in servizio puramente campale si enumerano:


cannoni

uomini

cavalli

12 reggimenti da quattordici batterie ovvero

1344

30,000

23,000

8 batterie con cannoni da dieciotto e mortai

64

1,500

1,200

20 batterie di racchette

160

4,000

3,000

Totalità

1,568

35,500

27,200


Nelle truppe tecniche sono comprese le schiere del genio, dei pionieri e della flottiglia.

Le truppe del genio formano dodici battaglioni, ciascun dei quali in tempo di guerra ha quattro compagnie di campo ed una di deposito; in guerra vengono impiegati nelle ossidioni e nella difesa delle fortezze.

I pionieri gettano ponti volanti e tracciano strade; essi formano sei battaglioni, e in tempo di guerra ciascuno di essi novera quattro compagnie di campo ed una di deposito; ogni battaglione ha sei piccoli treni pei ponti portatili in quindici carri, i quali compongono insieme un ponte della lunghezza di ventotto tese secondo il modello di Birago, con pali e pontoni da sconnettersi all'occasione, ed inoltre un deposito d'istromenti da pionieri.

I battaglioni del genio hanno tuniche blu-scuro e calzoni d'egual colore con mostre di un rosso ciliegia e cappello nero; i pionieri indossano tuniche e calzoni di color cenere scuro con mostre verde-erba e bottoni bianchi. Le truppe pedestri recano un. fucile corto rigato con baionetta, quelle a cavallo la sciabola di cavalleria, e gli ufficiali hanno inoltre pistole rigate.

La cifra totale di ambedue i corpi or ora descritti compresivi quelli destinati agli assedii, si può far ascendere in tempo di guerra a 4 0,000 nomini.

Il corpo della flottiglia presta servizio sulle piccole navi nelle acque interne della monarchia; queste navi sono destinate in parte alla difesa ed in parte al trasporto. In guerra si adoperano alcune squadre della flottiglia nel servizio del basso Danubio, delle lagune di Venezia, del lago di Garda, del lago maggiore e del laghetto formato dal Mincio presso Mantova; le squadre che occupano queste tre ultime posizioni compongono, sotto il nome di flottiglia dei laghi interni, una delle tre flottiglie. Ciascuna di esse conta in tempo di guerra sei compagnie. L’uniforme della truppa consiste in una tunica blu-scuro e calzoni d'egual colore con filetto blu-chiaro e bottoni gialli, Per arma essi hanno il moschetto corto rigato munito di baionetta; la soldatesca non solo presta il servizio di militi di marina, ma quello eziandio di artiglieri di marina, di marinai e di fuochisti sulle navi.

Anche in tempo di pace sussiste il corpo militare del treno siccome le altre truppe. In tempo di guerra viene istituito presso ciascun esercito un Comando del treno d'esercito, dal quale dipendono gl'Ispettorati del treno di campagna. A questi sono soggetti i seguenti corpi:

1.° Gli squadroni del treno di trasporto, che fanno il servigio dei cavalli per le colonne delle vettovaglie;

2.° Gli squadroni pei cavalli del parco che fanno il servizio dei cavalli dei depositi di munizione dell’esercito e dei varii suoi corpi, oltre quello delle batterie stabili con cannoni da dieciolto e del parco d'assedio;

3.° Gli squadroni pel servizio dei cavalli dei depositi (magazzini) i quali sono destinati a mantenere la comunicazione dei corpi d'esercito coi depositi di campagna collocati alle spalle di essi, recando loro tull'i materiali di guerra dei quali abbisognano;

4.° Due squadroni pel servizio dei cavalli delle casse e cancellerie per ciascun esercito, i quali somministrano nello stesso tempo distaccamenti pel trasporto dei medicinali parte all’esercito e parte ai depositi di campo, d'onde li recano all'esercito stesso;

5.° Gli squadroni pel servizio dei cavalli del corpo di sanità, i quali sono destinati al trasporto dei materiali delle ambulanze, e vengono riuniti in corrispondenti sezioni alle compagnie di sanità;

6.° Gli squadroni pel servizio dei cavalli degli spedali di campo i quali sono incaricati del trasporto dei materiali per l’erezione degli spedali medesimi;

7.° Gli squadroni pel servizio dei cavalli dei forni militari di campo;

8.° I depositi di completamento del treno in ciascun esercito e ciascun corpo d’esercito.

La truppa del corpo del treno reca tuniche di color bruno-nerastro, calzoni blu-chiaro, risvolte d’egual colore, e bottoni bianchi; il soldato a cavallo è armato della sciabola di cavalleria, e quelli che sono destinali a corpi diversi hanno la sciabola corta d’infanteria: gli ufficiali a cavallo, oltre la sciabola di cavaliere, recano pistole rigate.

Le quattordici compagnie di sanità che in tempo di guerra vengono ripartite presso i corpi d’esercito debbono raccogliere i feriti nel combattimento e portarli o condurli alle ambulanze od ai luoghi statuiti per le cure mediche: inoltre debbono prestare la loro assistenza nelle operazioni chirurgiche e nell'erezione degli spedali provvisori], e finalmente nel sotterrare i morti. A ciascuna compagnia debbono essere aggregati, possibilmente in parti eguali, militi di questa truppa, di patria tedesca, italiana, slava ed ungherese. La loro arma è una carabina rigata con baionetta; ogni soldato ha inoltre con sé un fiasco da campagna e una tasca di cuoio con filacciche e fasciature. Il loro uniforme consiste nella tunica verde-scuro, in calzoni d'egual colore con filetto rosso scuro, bottoni gialli e cappello nero

In tempo di guerra vengono istituite in ciascun esercito mobile tante compagnie d'infanteria di stato maggiore quanti corpi novera l'esercito; a quest'uopo ogni reggimento d’infanteria fornisce i militi necessarii, i quali per altro conservano il solito armamento; ciascun corpo d’esercito riceve mezza compagnia ed il rimanente vien destinato al quartier generale dell'esercito. L’infanteria di stato maggiore presta il servizio di guardia e di scorta nei quartieri generali.

Nella stessa guisa viene approntalo un mezzo squadrone di dragoni di stato maggiore in ciascun corpo mobile di esercito il quale riceve trentatré uomini e cede il rimanente al quartiere generale dell'esercito. Uomini e cavalli vengono forniti dai reggimenti di cavalleria; l'uniforme è quello dei dragoni, le armi sono la sciabola di cavalleria e le pistole rigate.

Le guide sono di preferenza destinate alle ricognizioni in aiuto degli uffiziali dello stato maggiore generale; i loro distaccamenti, di nove uomini per ciascun corpo d'esercito e trentaquattro per ciascun esercito, vengono organati soltanto in caso di guerra e tratti specialmente dal corpo della gendarmeria a cavallo di quel paese nel quale si crede abbia a divampare La guerra, o nelle vicine provincie.

Allo scopo di eseguire riparazioni istantanee ed altri lavori vengono aggregati ai corpi mobili d’esercito ed agli eserciti, distaccamenti di artiglieria tecnici e di manovali.

Nel caso in cui il Tirolo ed il Vorarlberg fossero minacciati da schiere nemiche, tosto vien colà proclamato l’ordine dell'armamento generale, detto dei cacciatori nazionali.

In tempo di guerra si sogliono altresì formare, in tutte le provincie, battaglioni di volontarii i quali vengono armali ed equipaggiati al modo dei soldati di linea o dei cacciatori; e medesimamente battaglioni di cavalleria leggera irregolare ausiliaria. Ciascun reggimento dei confini militari è obbligato a somministrare in caso di guerra una divisione di cavalleggeri di due squadroni; e siffatte di divisioni pei sette reggimenti 1.° 2.°, 3.°, 4.°, 10.°, 11.°, e 13.°, prendono il nome di divisioni dei Seresani.

Un esercito mobile consta di un determinato numero di corpi d’esercito 3, 4 od anche più, e di un deposito generale d'artiglieria.

Il corpo d'esercito si compone di un certo numero di divisioni d’infanteria (2 o 3), di una brigata o divisione di cavalleria e di un deposito d'artiglieria di parecchie batterie.

Una divisione d’infanteria novera due ed anche tre brigate d infanteria, e talvolta alcuni squadroni.

Una divisione di cavalleria conta due o tre brigate di cavalleria.

Una brigata d’infanteria ha quattro o cinque battaglioni: se ne ha cinque, quattro di questi sono di regola i quattro battaglioni di campagna d'un sol reggimento, mentre il quinto è composto di cacciatori o di confinarii; se la brigata si compone di quattro battaglioni, questi sono o i quattro battaglioni di granatieri di quattro reggimenti diversi, od in caso diverso manca taluno dei battaglioni di campagna, ovvero il battaglione confinario, o quello dei cacciatori. Ai battaglioni della brigata va sempre unita una batteria a piedi di otto pezzi.

Una brigata di cavalleria conta due o tre reggimenti di cavalleria pesante, ovvero due o tre di leggera, od anche due di pesante ed uno di leggera, compresavi una batteria a cavallo.

Un corpo di cavalleria, singolarmente nella sua instituzione, è composto di due o tre divisioni di cavalleria e di un deposito d'artiglieria.

S intende da sé che ciascun corpo d'esercito, al pari di ciascun esercito, dee avere il necessario parco di munizione e gli altri treni. .

Noi vogliamo ora, a mo’ d'esempio, riunire un esercito mobile, secondo suolsi fare in occasione di guerra, e dare nello stesso tempo un ragguagliò dei corpi che lo compongono. A studio di brevità, accenneremo l'infanteria per uomini, la cavalleria per cavalli, e l’artiglieria per cannoni. (Immettiamo interamente di parlare delle truppe del genio.

Poniamo che questo esercito sia composto di quattro corpi: aggregati ad esso saranno quattro reggimenti di artiglieria, e almeno sei batterie di racchette, inoltre le batterie stabili con pezzi da dieciotto e le batterie di mortai, vale a dire un complesso di sessantaquattro batterie.

Il corpo d’esercito conta:

a) Due divisioni d’infanteria da due brigate: ogni brigata ha cinque battaglioni ed una batteria, ovvero 6000 uomini e otto cannoni; quattro brigate, cioè venti battaglioni e quattro batterie, ovvero 24,000 uomini e trentadue cannoni; ciascuna divisione d’infanteria ha inoltre quattro squadroni di cavalleria leggera, i quali uniti compongono otto squadroni ovvero 1600 cavalli;

b) Una brigata destinata all'azione ed alla riserva, composta di quattro battaglioni di granatieri e di una batteria ovvero 3400 uomini e otto cannoni, inoltre un reggimento dì cavalleria leggera da otto squadroni è 1600 cavalli, ed una batteria a cavallo di otto cannoni;

c) Un deposito d'artiglieria di cinque batterie o quaranta cannoni.

Il corpo d’esercito viene dunque ad essere composto di ventiquattro battaglioni, di sedici squadroni e di undici batterie, ovvero di 27,400 uomini, 3200 cavalli ed 88 cannoni.

Per l’esercito di quattro corpi si deve inoltre computare il deposito generale d’artiglieria composto di venti batterie. Questo esercito novera adunque novantasei battaglioni, sessantaquattro squadroni e sessantaquattro batterie, ovvero 109,600 uomini, 12,800 cavalli e 542 cannoni. Se si vogliano ragguagliare le altri parti secondo il numero della truppa, vale a dire la cavalleria e l'artiglieria e nello stesso tempo il genio, il treno, le truppe di sanità ecc., l’esercito da noi immaginato ascenderà in complesso a 145,000 uomini. Nella nostra ipotesi non ci siamo attenuti al più alto contingente di un corpo d’esercito austriaco, ché allora avremmo dovuto aggiungervi tre intere divisioni d'infanteria ed alcune di cavalleria. Dalle cose esposte fin qui possiamo conchiudere che un corpo d’esercito austriaco ascende a circa 40,000; laonde, quando si dice che un esercito austriaco si compone di cinque corpi, possiam ritenere che esso ascende a 200,000 uomini.

Anche in tempo di pace l’armata austriaca è divisa in eserciti e corpi d’esercito; ma ciò non dee ritenersi siccome regola fissa in tempo di guerra. Dappoiché quando premon gli eventi e la pugna sta per iscoppiare, alcuni di questi eserciti si rinforzano all’uopo ed altri invece si assottigliano. Non tutte le truppe sono soggette ai «quattro corpi d’esercito; esistono, oltre a questi; un Comando generale pel Banato, un altro per la Voivodina, un terzo per la Croazia e la Schiavonia, ed un ultimo per la Dalmazia.

La ripartizione dei corpi d esercito nell'armata ecc. e i loro accantonamenti erano nel 1858 come appresso:

I. COMANDO D’ESERCITO, e nello stesso tempo Comando generale per l’alta e bassa Austria, per Salisburgo, la Stiria e il Tirolo, in Vienna.

1. Corpo d’esercito (corpo d’infanteria) e ad un tempo Comando generale per la Boemia, a Praga, con tre divisioni e sette brigate (cavalleria ed infanteria).

3. Corpo d’esercito in Vienna con tre divisioni e nove brigate.

6. Corpo d’esercito in Gratz con una divisione e tre brigate.

9. Corpo d’esercito e Comando generale per la Moravia e la Slesia in Brunn con due divisioni e cinque brigate.

IL'COMANDO D’ESERCITO, e nello stesso tempo Comando generale pel regno Lombardo-Veneto, la Carintia, la Carniola e il Litorale, in Verona.

5. Corpo d’esercito in Milano con tre divisioni e sei brigate.

7. Corpo d’esercito in Verona con tre divisioni e sei brigate.

8. Corpo d’esercito in Padova con due divisioni e cinque brigate.

III. COMANDO D’ESERCITO e nello stesso tempo Comando generale per l’Ungheria, in Pest.

10. Corpo d’esercito in Pest con due divisioni e quattro brigate.

11. Corpo d’esercito in Pest con due divisioni e quattro brigate.

12. Corpo d’esercito e nello stesso tempo Comando generale per la Transilvania, in Herrmannstadt, con due divisioni e cinque brigate.

1. Corpo di cavalleria, l’unico che in tal modo venga formalo in tempo di pace, in Pesi, con due divisioni e cinque brigate.

IV. COMANDO D’ESERCITO, e ad un tempo Comando generale per la Gallizia e la Buccovina, in Lemberg.

2. Corpo d’esercito in Cracovia con due divisioni e cinque brigate.

4. Corpo d’esercito in Lemberg con tre divisioni e sette brigate.

COMANDO GENERALE pel Banato ed il Voivodato serbo in Temesvar con una divisione e quattro brigate.

COMANDO GENERALE per la Croazia e la Schiavonia in Agram (Zagabria) con due divisioni e sei brigate.

COMANDO GENERALE per la Dalmazia con due brigate.

La marineria austriaca possedé un vascello di linea (tuttavia in costruzione), quattro fregate a vela, tre fregate ad elice, cinque corvette a vela, due corvette. ad elice, cinque brick. dodici vapori, un yacht a vapore, tre scooner ad elice, tre golette, quattro brick scooner, dodici scialuppe cannoniere, tredici penici, sette navi da trasporto, quattro navi guardacoste, altre quattro scialuppe cannoniere, e undici piroghe cannoniere.

Per l’equipaggiamento di questi novantaquattro legni sono organizzati un corpo di marinai, un corpo d'artiglieri di marina, un reggimento d’infanteria di marina ed un corpo di macchinisti per i vapori.


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II. Esercito piemontese

L’infanteria piemontese si divide in infanteria di linea e infanteria leggera.

L’infanteria di linea novera venti reggimenti, due dei quali compongono una brigata. Il reggimento si ripartisce in quattro battaglioni, ciascuno dei quali ba quattro compagnie. In tempo di pace il battaglione, non compreso lo stato maggiore, conta 520 uomini; il reggimento, compreso lo stato maggiore, 1355: dunque una brigata è composta di 2710 uomini, e tutta l’infanteria di linea piemontese di 27,100 uomini. Questa cifra per altro può venire in caso di bisogno e con tutta facilità raddoppiata mediante il sistema delle riserve. In fine del presente ragguaglio parleremo più distesamente del metodo di completamento adottato in Sardegna.

Secondo la legge di coscrizione del 1854, tutti cittadini dello Stato, salvo poche eccezioni, vi sono soggetti dopo compiuto il ventesimo anno. Di regola vengono chiamati ogni anno al servizio effettivo 9000 coscritti e precisamente 1700 uomini (soldati d’ordinanza) per otto anni destinati di preferenza alla cavalleria, all'artiglieria di campo ed al genio; il rimanente (soldati della classe dei Provinciali) per cinque anni nella infanteria ecc. Dopo otto anni i soldati di ordinanza sono interamente sciolti dal servizio; ma i provinciali vi sono obbligati per altri sei anni, e formano la riserva della prima categoria.

Laonde un reggimento d’infanteria piemontese consta di presente delle truppe reclutate cinque anni or sono sino a tutto il 1858, cioè dei nati dal 1835 al 1838, delle truppe di riserva della prima categoria, cioè dei nati dal 1828 al 1833, finalmente dalle truppe di riserva della seconda categoria, vale a dire dei nati dal 1832 in poi. Relativamente alle riserve, si segue il metodo che accenniamo. A tenore della legge di coscrizione del 1854 oltre al sovraindicato numero si reclutarono in prima annualmente altri 3000 uomini i quali si tenevano esercitati alle armi per soli cinquanta giorni nei loro distretti, e poi erano licenziati; rimanendo però sino al 26.° anno compiuto addetti alla riserva per riempiere in caso di guerra i vuoti avvenuti nei reggimenti e costituire il battaglione di deposito.

Poco appresso si è recata la cifra di questa categoria a 4,000 uomini annualmente, indi nel 1857 a 9,000 o meglio venne ordinato che tutt’i giovani obbligati alla legge di coscrizione che non venivano assunti in servizio effettivo, dovessero essere aggregati alla seconda categoria della riserva.

Sebbene questa innovazione non sia stata: ancora interamente posta in effetto, si può per altro stabilire fin d’ora che al presente ciascun reggimento d’infanteria piemontese che sia composto di quattro battaglioni di campo e d'uno di deposito, può esser recato sino ai 3200 e 3500 uomini, e quindi l'infanteria di linea del Piemonte può ascendere a 60,000 ed anche a 70,000 uomini.

Le brigate sono distinte con numeri progressivi dal 1. al 10, e con ispeciali denominazioni, tolte per la maggior parte dai distretti donde esse vengono reclutate.

La 1.(a) brigata è quella dei granatieri di Sardegna, la 2.»reca il nome di Savoja, la 3.(a) Piemonte, la 4.(a) Aosta, la 5.(a) Cuneo, la 6.(a) Regina, la 7.(a) Casale, l'8.(a) Pinerolo, la 9.(a) Savona, la 10.(a) Acqui. Alla brigata dei granatieri appartengono il 1.° e 2.°’ reggimento dei granatieri; alla brigata Savoja, la quale per eccezione Tiene comandata in francese, il 1.° e 2.° reggimento d’infanteria; alla brigata Piemonte, il 3.° ed il 4.° d’infanteria e così sino alla brigata Acqui col 17.° e l’8.° reggimento d'infanteria.

L’uniforme dell'infanteria consiste in una tunica blu e nel kepi simili a quelli dei Francesi; l'arma è il fucile liscio con baionetta.

L’infanteria leggera è composta di dieci battaglioni di bersaglieri, ciascuno dei quali novera quattro compagnie di campo ed una di deposito; il battaglione in tempo di pace è forte ili 402 uomini, e l’intiero corpo, compreso lo stato maggiore, di 4077 uomini; questa truppa può per altro col richiamo, delle riserve essere portata sino a 10.000 uomini. L’uniforme è simile a quello dei cacciatori a piedi di Francia, il cappello è rotondo, basso ed a larghe falde con pennacchio verde svolazzante. L’arma è un moschettone corto, discretamente pesante.

La cavalleria conia nove reggimenti; ciascun reggimento ha quattro squadroni di campo ed uno squadrone di deposito. Lo stato maggiore del reggimento in tempo di pace novera trenta uomini, ogni squadrone ne ha 148; lo squadrone di deposito non ne ha che ventuno; l’intiero reggimento conta adunque 635 uomini. É da notare che si hanno cavalli soltanto per due terzi di questo numero; dal che si può di leggieri dedurre che un reggimento di cavalleria piemontese può difficilmente avere in tempo di guerra seicento uomini.

In tempo di guerra adunque l'intiera cavalleria ascenderebbe a 5400 e per massimo a 6000 cavalli. Essa si divide poi in quattro reggimenti di linea o di dragoni: Nizza, Piemonte, Savoja e Genova, ed in cinque reggimenti di cavalleggeri: Novara, Aosta, Saluzzo, Monferrato ed Alessandria. L'uniforme consiste in una tunica corta color blu con due file di bottoni, calzoni di panno grigio, elmo e risvolte di rosso cremisi per la cavalleria pesante, kepi e risvolte gialle per la leggera. I reggimenti di cavalleria pesante sono armali di lancia, sciabola di cavalleria e pistole; quelli di cavalleria leggera hanno sciabole da cavalieri e carabine.

L’artiglieria è composta di un reggimento di lavoranti di cinque compagnie, nel quale si comprendono anche i pontonieri, di un reggimento d'artiglieria da fortezze di dodici compagnie, e finalmente d un reggimento d’artiglieria di campo, il quale di regola deve avere venti batteria da otto pezzi una. Fra le batterie ne ha due con servizio a cavallo e due da posizione con pezzi da sedici; le altre sono batterie a piedi con sei cannoni da. sei e due obici. A queste si aggiungono alcune batterie da montagna, che in tempo di guerra riescono egregiamente.

Il corpo del genio consta di un reggimento di due battaglioni da cinque compagnie oltre lo stato maggiore.

Il treno dell'esercito fornisce il servizio dei cavalli pel parco d artiglieria, pel parco di vettovaglie ecc.

Da tutto ciò apparisce che il Piemonte può a fatica porre in armi un esercito di 80,000 uomini, di 10,000 cavalli e di 180 fino a 200 cannoni, e si comprende di leggieri come gli debba star grandemente a cuore di accrescerlo mercé gli arruolamenti di corpi di volontarii degli Stati Italiani, quali sarebbero i cacciatori delle Alpi capitanati da Garibaldi, celebre per la difesa di Roma e per l’avveduta sua ritirata da quella città, ed i cacciatori degli Apennini capitanali in origine dal toscano Ulloa il quale si rese celebre pel suo coraggio nel forte di Slargherà; stanteché, lasciata pure da parte la fama dei condottieri, questi corpi in occasione di felici eventi in Italia potrebbero servire di nucleo all'adunamento di truppe e di volontarii dagli altri Stati Italiani.

Finalmente si accresce e rinforza l'esercito, ed in ispecialità l’infanteria piemontese, mercé il concorso delta guardia nazionale alla quale debbono appartenere per la nuova legge tutti gli uomini atti alle armi che non fac ciano parte dell'esercito regolare. La guardia nazionale deve provvedere al servizio di presidio e quindi può coadiuvare alla difesa delle piazze forti. Oltre a ciò, sembra che, ad esempio degl'Inglesi, s'intenda di trarre dalla guardia nazionale, milizie a rinforzo dell'esercito regolare. Questo intendimento non venne ancora recato ad effetto; e si stanno attendendo i risultamenti delle circostanze per darvi piena attuazione.

In Piemonte non vi ha un ordinamento stabile dei x grandi corpi d'esercito. Di regola si costituiscono in tempo di guerra circa cinque divisioni d’infanteria, ciascuna delle quali di due brigate d’infanteria, di alcune batterie e di qualche squadrone, e si raduna ed aggruppa il rimanente della cavalleria in truppe di riserva, adoperando allo stesso modo per l'artiglieria. I bersaglieri vengono naturalmente aggregati alle divisioni d'infanteria, alle quali pure si aggiungono i volontarii se ve ne sono, o si’ ordinano in corpi di fianco o volanti.

La marineria sarda si compone di quattro fregate vapore e di quattro a vela; di ire corvette a vapore e di due a vela; di tre brigantini a vapore e di cinque a vela, e di nove barche cannoniere; in tutto trenta legni.


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III. Esercito francese

L’esercito francese si compone della guardia imperiale, dei soldati di linea e delle truppe che a preferenza vengono organizzate pel servizio nell'Algeria.

All'infanteria dell'esercito appartengono:

a) La Guardia imperiale, un reggimento di gendarmeria di tre battaglioni, tre reggimenti di granatieri di quattro battaglioni, quattro reggimenti, di cacciatori di quattro battaglioni, un battaglione di cacciatori a piedi, un reggimento di zuavi di due battaglioni; in complesso trentaquattro battaglioni.

b) La linea: cento reggimenti che in tempo di pace hanno per consueto due battaglioni di campo ed uno di deposito. Siccome si è fatto, al tempo della guerra di Crimea, anche nella guerra d’Italia il quarto battaglione venne composto con due compagnie di ciascuno dei primi battaglioni. I reggimenti per ciò sono formati di tre battaglioni di campo ed uno di deposito; inoltre si hanno venti battaglioni di cacciatori a piedi — in totalità si possono computare trecentoventi battaglioni di campo e cento di deposito.

c) Le truppe pel servizio in Africa: tre reggimenti di zuavi di tre battaglioni, due reggimenti della legione straniera di tre battaglioni, tre reggimenti di bersaglieri algerini di due battaglioni, tre battaglioni d’infanteria leggera d’Africa; in totalità ventiquattro battaglioni.

La infanteria francese pertanto novera trecento settantotto battaglioni di campo.

Una compagnia d’infanteria di linea è composta di 118 combattenti, quindi un battaglione di otto compagnie, compreso lo stato maggiore, ne conta 952; un battaglione di sei compagnie (qualora per altro non vengano rinforzate) conterà perciò 76 uomini.

Si costuma eziandio di rinforzare le compagnie, ed aggregando ad ognuna delle sei rimanenti circa quaranta uomini si conserva il contingente del battaglione tanto da sei quanto da olio compagnie.

Questo metodo si sarà adottato a guerra progredita; ma nel principio di essa, non credo. Sin dai 10 luglio 1838 all'ordine delle tre file si è surrogalo quello delle due; ma i battaglioni di linea, che debbono operare, uniti e serrati, non riescono con questo ordine pienamente proficui perché troppo rinforzati.

Il battaglione di cacciatori a piedi è composto di otto compagnie di campo, ciascuna delle quali è forte di 152 uomini ed il battaglione, compreso lo stato maggiore, conta 1223 combattenti.

In ciascun battaglione di linea la compagnia destra dell'ala chiamasi compagnia di granatieri, e la sinistra, compagnia di cacciatori; le quattro o sei compagnie di mezzo diconsi compagnie del centro. I granatieri sono tratti dal fiore dei soldati d alta statura ed i cacciatori dai più scelti soldati di bassa statura. Ciascuna compagnia in posizione forma un pelotone ed è partita in due sezioni.

Pochi mesi addietro l’infanteria di linea era tuttavia armala di fucili lisci a percussione con baionetta; i cacciatoli avevano fucili più corti di qualche pollice. Soltanto nel 1858 venne preso di armare tutta l'infanteria col fucile rigalo e perfezionato secondo il sistema di Miniò. Però l’addottamento dei fucili alla Miniò non venne ancora interamente attuato; se n'è fatto esperimento colle truppe stanziate in Africa o con quelle che nel 1858 erano colà di presidio. li nuovo fucile rigato dell'infanteria francese (fucil d'infanterie módèle 1842 transformé) non ha mira mobile, ma fissa, ed alquanto più alta di quella dei fucile liscio. Per ottenere un tiro distante più di duecento metri circa, i soldati debbono aiutarsi sovrapponendo alla mira il pollice o l’indice.

Per addestrare le dita a spingere il tiro sino a seicento metri si sono dettate apposite istruzioni.

I fucili trasformati si fecero della, stessa lunghezza del fucile lisciò che recavano un tempo i cacciatori.

L’infanteria della guardia imperiale ha sin dal tempo della sua istituzione fucili rigati secondo il sistema di Miniò, e precisamente a due modelli, l’uno pei granatieri, l’altro pei cacciatori. I cacciatori a piedi della guardia, a simiglianza di quelli della linea, hanno moschettoni ad ago e cosi pure i zuavi.

L’uniforme dell'infanteria di linea consiste in una tunica blu con collaretti rossi e una fila di bottoni gialli; gli spallini della compagnie del centro sono di color blu con guernizione rossa, quelli delle compagnie dei granatieri tutti di color rosso e quelli dei cacciatori tutti gialli; i calzoni sono di color rosso-scarlatto. I cacciatori a piedi hanno tuniche blu concollaretti gialli e spallini verde oscuro; gli zuavi ed i bersaglieri indigeni, eccettuati solo gli uffiziali, vestono in costume turco moresco. L’uniforme della guardia è fatto precisamente sul modello di quello della vecchia guardia imperiale di Napoleone!; ma deve in breve essere totalmente cangiato.

Il completamento dell'infanteria non meno che. di tutte le truppe avviene col mezzo della coscrizione; però è permessa la sostituzione delle cerne. La durata del servizio è di sette anni, dei quali soltanto quattro circa si passano al reggimento. Prima dell'anno 1852 si computava a 80,000 uomini l'annuale completamento ordinario dell’esercito (contingente); e il cambio delle cerne era cosa del tutto privata. Sotto Napoleone III il contingente ordinario è stato recalo a 10,000 uomini e la sostituzione delle cerne è divenuta affare dello Stato. Coi denari dei cambii e con altri redditi inerenti si è costituita per l’esercito una cassa di dotazione, dalla quale i supplenti e tutti quelli che servono oltre al termine di legge ricevono un aumento di stipendio, maggiore secondo il numero degli anni.

In tal modo da un lato viene accorciato il termine del servizio effettivo (sotto le bandiere) per le cerne, ma nello stesso tempo si ottiene che venga istruito un maggior numero di soldati nello spazio eguale, e dall'altro lato si aggiugne all'esercito un nerbo di militi provetti nel servizio e di novelli soldati tratti per vocazione alla milizia. In tempo di guerra il contingente, coll'approvazione del Corpo legislativo, può essere portato sino a 4 40,000 uomini, ed anche si può anticipare la leva di un contingente, cioè si può prescrivere un anno prima la leva di una classe che in tempi di pace sarebbe stata chiamata soltanto l'anno successivo.

Nella istruzione dell'infanteria francese si sono introdotte negli ultimi tempi, oltre le schiere in due file, anche le seguenti modificazioni: in tuli i movimenti di fianco (o marcio) le file trasversali vengono raddoppiale: ogni due di queste file unite compongono un gruppo di compagni di combattimento, il che pel servizio dei bersaglieri era già usato presso i cacciatori a piedi; pella colonna serrata l'intervallo tra la fronte della prima sezione e la fronte della seguente venne ridotto da sei a cinque passi.

Tutte le compagnie dell'infanteria di linea debbono saper fare il servizio anche di bersaglieri; i cacciatori per altro vi sono di preferenza destinati.

Lo stato minimo approssimativo di un battaglione di campo francese è da computare. di 800 uomini, ed il massimo di 4 000 uomini; e ciò di regola al principio di una guerra. I trecento settantotto battaglioni di campo sopra mentovati, darebbero dunque una totalità di 302. 400 uomini al minimo e di 378,000 al massimo. É certo però che questa massa imponente d’infanteria può in breve spazio di tempo ed in modo significante venire accresciuta; prima di tutto, cioè, colla leva del nuovo contingente, indi col richiamo delle riserve, alle quali appartengono le truppe congedate temporariamente in sette anni dal reggimento ed anche un quarto delle milizie reclutate annualmente le quali, simili a quelle della seconda categoria della riserva piemontese, non vengono chiamate al servizio effettivo, ma rimangono ciò nullameno obbligate al servizio. Queste truppe si possono far ascendere da 280,000 a 300,000 uomini. All'adunamento di queste milizie servono di nerbo in primo luogo i quadri dei cento battaglioni di deposito; col. richiamare mano mano le relative milizie, non solo si riempiono i vuoti avvenuti nei battaglioni di campo, ma si formano altresì in breve tempo cento battaglioni nuovi di depositò e si possono tramutare i vecchi in battaglioni di campo. Finalmente, deve seguire il riorganamento della guàrdia nazionale, la quale sebbene sia rimasta finora in un profondo torpore, e debba quindi essere scossa vivacemente, potrà fra breve fornire forze considerevoli pel servizio di guarnigione.

In seguito alle cose dette fin qui, noi crediamo di poter conchiudere che la Francia, senza pregiudizio della sicurezza interna, può tener pronti per ispedizioni all'esterno almeno 300,000 uomini d’infanteria, dei quali 250,000 sono in Europa.

La cavalleria francese, non computate le cento guardie che adempiono esclusivamente l'ufficio di sentinelle di palazzo, è composta di due reggimenti di corazzieri, di un reggimento di dragoni, di un reggimento di lancieri, di un reggimento di cacciatori a cavallo e di un reggimento di guide aggregale alle truppe della guardia. Indi seguono altri cinquantatre reggimenti di cavalleria, non compresi i quattro reggimenti di cacciatori d'Africa a cavallo ed i tre reggimenti di spahì destinati a preferenza pel servizio in Africa. Tutta questa cavalleria, viene divisa in dodici reggimenti di cavalleria pesante (o di riserva) formati di due reggimenti di carabinieri e dieci di corazzieri; in venti reggimenti di cavalleria di linea (o di mezzo) formati da dodici reggimenti di dragoni ed otto di lancieri; in venturi reggimento di cavalleria leggera, composti di dodici reggimenti di cacciatori a cavallo e nove di ussari. Alla cavalleria leggera appartengono eziandio i reggimenti destinati al servizio in Africa.

I corazzieri indossano corazze d'acciaio ed elmi con criniere, sciabole quasi diritte ed una pistola; i carabinieri hanno corazze di color bronzo ed elmi con criniere; sciabole e pistole; i dragoni, elmi di color bronzo con criniere, sciabole, carabine e pistole-; i lancieri, lancie, sciabole e pistole; i cacciatori, sciabole, moschettoni e pistole, e similmente gli ussari e le guide; gli spahì, sciabole alle tasche delle selle, giatagan (lungo pugnale) e carabine lunghe in bandoliera.

L’uniforme dei carabinieri è composto di una tunica assettata al corpo di color blu-chiaro con orlatura rossa, collaretti, risvolte e spadini simili; di calzoni di rosso-scarlatto con giunte di pelle nera, le quali, ad eccezione di alcuni reggimenti di ussari, sono usate da tutta la cavalleria, e con fornimenti di cuoio giallo. I corazzieri hanno tuniche di colore blu-scuro con mostre svariate a seconda dei reggimenti; i dragoni, tuniche di color verde-scuro con mostre parimenti di vario colore secondo i reggimenti; i lancieri, tuniche di color azzurro reale, cappelli alla polacca e mostre al colletto; i cacciatori a cavallo, kepis simili a quelli dell'infanteria, e tuniche verde scuro; i cacciatori d Africa, giubboni color-blu, gli ussari il czakò con nere criniere pendenti, pelliccio e dolman (giubbe con orlature di pelo), il tutto di vario colore a seconda dei reggimenti; le guide hanno il kolpak (berrettone di pelo), giubbe di color verde con cordoni gialli, e gli spalli seguono il costume moresco-turco.

I reggimenti di cavalleria noverano sei quadroni, ciascuno dei quali si parte in due divisioni: e queste compongono quattro pelotoni di due sezioni ciascuno. In assetto di guerra un reggimento di cavalleria pesante deve esser composto di 1282 cavalli, un reggimento di cavalleria di linea, di 1352, ed un reggimento di cavalleria leggiera, di 1422. Essendo il numero degli squadroni eguale in lutti questi reggimenti, ne segue che gli squadroni delle dette tre specie di cavalleria variano di forze.

Dalle cose premesse risulta, che il numero medio dei cavalli di un reggimento è almeno 4300. Ancorché l'imperatore Napoleone, che è valentissimo cavallerizzo, siasi data tutta la cura di perfezionare la cavalleria francese, non ha ancor potuto riuscire ad ottenere diligenti palafrenieri.

Ammesso dunque che in tempo di pace un reggimento ha tull'al più 800 cavalli, e che la Francia per sé stessa è relativamente povera di cavalli da tiro e da sella, ne segue che il numero approssimativo dei cavalli di cui può disporre in tempo di guerra un reggimento di cavalleria francese, non si può ritener maggiore di 900 a 1000.

I sessantatré reggimenti di cavalleria, compresi, gli spahi, noverano da 56.700 a 63,000 cavalli. Il conservare in guerra e del continuo tutta questa cavalleria, sarebbe soltanto possibile se la vittoria procacciasse ai Francesi un cospicuo bottino di cavalli, o se li conducesse in paesi ricchi di questi preziosi animali.

L’artiglieria francese è divisa in artiglieria a cavallo o leggera e in artiglieria montata o di linea; in artiglieria a piedi o di riserva ed in truppa dei pontonieri; finalmente in truppe d’artiglieria soltanto tecniche.

L’artiglieria a cavallo é destinala ad operare unitamente alla cavalleria, e per ciò viene aggregata alle divisioni di essa e forma inoltre una parte della grande artiglieria di riserva.

L'artiglieria di linea è addetta per la maggior parte alle divisioni d’infanteria, in parte all’artiglieria di riserva.

L'artiglieria a piedi attende ai seguenti uffici: all’assedio ed alla difesa dello piazze forti non meno che ad altre operazioni che vi si riferiscono; al parco dell’esercito e dei varii corpi di esso; al servizio dei cannoni pesanti da dodici e degli obici da sedici centimetri dell’artiglieria di riserva.

I pontonieri, che appartengono più propriamente al genio, in Francia, secondo l’antico sistema, fanno parte dell'artiglieria.

La divisione più particolareggiata è la seguente:

Cinque reggimenti d artiglieria a' piedi, ciascuno dei quali ha dodici batterie a piedi, sei batterie di parco ed un deposito di cavalli. A parlare con maggior precisione, queste batterie dovrebbero intitolarsi compagnie, poiché in fatti non viene ad esse affidalo stabilmente un numero determinato di cannoni. Vedremo più innanzi, qual relazione abbiano le batterie dei cannoni pesanti da dodici e gli obici da sedici centimetri, coll'armamento di un esercito. L’artiglieria a piedi non prende parte alla guerra se. non in qualità d'artiglieria di parco, od al fine di scortare le colonne di munizioni, le riserve ausiliarie di munizioni,! parchi d’artiglieria, o con qualsiasi altro nome si chiamino questi corpi nell'esercito.

Il reggimento dei pontonieri novera dodici compagnie di cannonieri pontonieri, più propriamente pionieri, e quattro compagnie di cannonieri a cavallo pel servizio dei carri di trasporto dei materiali da ponti.

L’,artiglieria di linea si compone di sette reggimenti, ciascuno dei quali con quindici batterie montate. Ogni batteria ha sei cannoni. Sappiamo già essersi Napoleone IH data tutta la premura d'introdurre nell’artiglieria francese il sistema unitario. Il cannone modello è il cannone da dodici per granale, della lunghezza di 14,6 calibri, senza camera, ed a preferenza costruito pei tiro delle granale, sebbene sia pure adatto,a sparare palle massiccie e mitraglia. Questo cannone, come si può argomentare dal detto sin qui, non venne adottato ancora, siccome sarebbe stata intenzione dell'imperatore, pqr tutta l’artiglieria francese. Ci serbiamo di parlare più innanzi' dei nuovi cannoni rigati, i quali recarono ulteriori modificazioni. L’artiglieria di linea deve. essere armala di capitoni, da dodici per granale di nuovo getto e del. peso di 620 chilogrammi.; e nella guerra d’Italia tutte le batterie ne furono certamente fornite. Il reggimento d’artiglieria di linea dunque trae seco io campo novanta cannoni di simil genere, ed i sette reggimenti imiti hanno 106 batterie ovvero 630 cannoni.

Un reggimento di artiglieria a cavallo si. compone di otto batterie a' cavallo; l'artiglieria a cavallo consta di quattro reggimenti, cioè di trentadue batterie ovvero di centonovantadue cannoni. Questi ultimi sono i cannoni detti leggieri da dodici per granate, vale a dire i vecchi cannoni da otto, forati e ridotti al calibro di cannoni da dodici per granate.

Alla guardia imperiale fu aggiunto di recente un reggimento d'artiglieria a piedi di dodici compagnie ed un reggimento di artiglieria a cavallo con sei batterie; in totalità trentasei cannoni.

L’uniforme dell'artiglieria è il seguente: Umica di color bili-scuro con due file di bottoni gialli e risvolte rosse, calzoni blu, kepi blu-scuro con galloni rossi, ai lati. Le truppe pedestri dell’artiglieria hanno al fianco spade corte e diritte, carabine rigate; quelle a cavallo portano sciabole e pistole.

Si sono introdotte in Francia da breve tempo, due specie di cannoni rigati. Ambedue hanno sei righe, vengono caricati per la bocca e gettano soltanto palle vuote, appuntite, le quali sono munite di ale disposte in guisa di uno scacchiere e unite con una lega di zinco.

Se queste palle si debbano adoperare vuote, vi si introduce la carica per lo scoppio ed un accenditoio a percussione; ma se dovessero servire di palle massiccie, si riempirebbero invece di un miscuglio di sabbia e. di crusca corrispondente alla quantità relativa di polvere, ed il foro per l’accenditoio verrebbe turato con. un pezzo di legno.

Il cannone rigato della prima specie ha il calibro del cannone da dodici (con palla sferica); quello della seconda il calibro di uno da quattro (colla medesima palla); le palle pesano più di dodici o quattordici libbre ancorché sieno vuote, e ciò dipende dall'essere oblunghe.

Il cannone rigato da dodici diverrà in breve l’unico pezzo d’artiglieria da adottarsi negli assedii, ed il cannone rigato da quattro parimenti l’unico per le fazioni di campagna. Quest'ultimo ci interessa sommamente nel racconto della presente guerra. Esso pesa appena trecento chilogrammi, a tal che i sei artiglieri che 'lo ministrano possono trasportarlo di leggieri anche in situazioni difficili; la carica si compone di cinquecento granarne, o una libbra di polvere; la portata del tiro è di quattro chilometri, cioè di 5300 passi; ed a 3800 metri, che corrispondono a 4800 passi, colpisce uh homo a cavallo. S’intende da sé che queste indicazioni sono' desunte da prove eseguite bensì, ma delle quali non si può recare assoluto giudizio se non dopo una personale verificazione e dopo ripetuti esperimenti.

Nella guerra attuale il cannone farà le sue prove. Non si può assolutamente giudicare per nostro avviso della sua mobilità dal solo peso di esso. Nessun cannone può operare senza munizione; la munizione deve parimenti esser ridotta come lo stesso cannone, è la munizione è pesante In avvenire si stabilirà forse a dieci o tutt’al più a dodici libbre il peso della palla Oblunga, della carica e degli accessorii.

In breve tempo il cannone rigato dà quattro verrà usato qual pezzo di reggimento; se ne agguerrirà la infanteria, la quale fornirà gli artiglieri relativi; i reggimenti del lancieri somministreranno la truppa necessaria a cavallo. Ai cannoni vengono ora attaccati duo soli cavalli Poniamo che un reggimento, provveduto di simile artiglieria, abbia una batteria da sei pezzi; dunque, sé avrà tre battaglioni di campo, per ognuno di essi dovrà aver due cannoni.

Dovranno prima essere erette quindici batterie. Con questo provvedimento per altro non si potranno certamente fornire le nuove anni a tutt'i reggimenti destinali a prender parte della campagna dItalia. Crediamo di non andar errali nel dire, che queste batterie furono aggregate a quei reggimenti d’infanteria che non hanno ancore arme rigate, per rassicurarli dal timore di essere inferiori in confronto della infanteria austriaca, ben provveduta di eccellenti armi rigate.

Il corpo del genio ha due compagnie presso la guardia imperiale, tre reggimenti di due battaglioni nella linea e due compagnie di manovali. Ciascuno dei tre reggimenti di linea ha due battaglioni che si suddividono in otto compagnie, una delle quali è composta di minatori, e, le altre sette di zappatori. Oltre a ciò il reggimento ha una compagnia di zappatori conduttori (sapeurs conducteurs).

Le truppe del genio vengono adoperate senza distinzione tanto in fazioni di campagna, quanto negli assedii. Indossano tuniche di color blù con collare blu-nero, collaretti e risvolte di color rosso, calzoni blu con riga rossa, e berretto (kepi). Sono armate di sciabole (coltello da fascine) e di fucile d’infanteria.

Nelle truppe d’amministrazione si comprendono i lavoranti dell’amministrazione, gli squadroni del treno ed i fabbricatori di carriaggi. I lavoranti dell'amministrazione si suddividono in manovali per costruzioni, i quali si prestano in special modo alla costruzione dei forni da campo, ed in lavoranti addetti ai forni, ai foraggi ed ai magazzini di commestibili ecc. ecc. Ciascuno squadrone del treno consta in tempo di guerra di otto,compagnie. Vi sono compagnie pel servizio dei carri, e le cosi dette leggiere che sono destinate a guidare le bestie da soma nelle guerre di montagna e ad averne cura; gli squadroni del treno attendono al trasporto delle ambulanze, delle casse da guerra, dell'archivio dello stato maggiore generale, delle colonne di provincia e di altri oggetti d'amministrazione. I fabbricatori di carriaggi costruiscono e racconciano i carri militari.

L’esercito francese non rimane partito in tempo di pace in corpi o divisioni ecc., cosi che, ordinato in tal modo, possa accingersi direttamente alla guerra. Fino all’anno 1858 la Francia era scompartita in ventuno divisione militare territoriale ed in ottantasei suddivisioni. Ciascuna divisione era comandata da un generale di divisione, e ciascuna suddivisione da un generale di brigata, sotto il cui comando stavano tutte le truppe che tenevano guarnigione nel suo raggio giurisdizionale militare. Oltre a ciò, l’Algeria era scompartita in tre divisioni territoriali. Dovendo allestirsi un esercito per la guerra, le truppe venivano raccolte a quest’uopo da qualunque divisione e suddivisione militare senza riguardo al distretto da esse fino allora occupato.

Nel 1858, dopo l’attentato del 14 gennaio cotesto modo di ripartizione territoriale fu più estesamente applicato; la Francia intera, ad eccezione dell'Algeria, venne divisa in cinque grandi sezioni, ciascuna delle quali preseduta da un maresciallo qual comandante in capo.

Il maresciallato col quartiere generale (residenza) a Parigi presiedeva alle divisioni territoriali 8. Mi&(a); quello per la parte nord est colla residenza a Nanci ebbe sotto di sé la 4.(a), 5.(a), 6.(a) e 7.(a); quello del sud-est, colla residenza in Lione, presiedeva alle divisioni 8.(a), 9.(a,) 10.(a), 17.(a) e 20.(a); quello pel sud-ovest, colla residenza a Tolosa, alla 11.(a), 12.(a,) 13.(a )e 14.(a); quello pel nordovest colla residenza in Tours ebbe sotto di sé dipendenti le divisioni 15.(a), 16.(a), 18. (a), 19.(a) e 21.(a)

Questi cinque maresciallati vennero affidati ai marescialli Màgnan in Parigi, Castellane in Lione, Canrobert in Nauci, Baraguay d'Hilliers in Tours, Bosquet 'in Tolosa.

Abbiamo detto essersi presa a regola la divisione territoriale; però si sono introdotte alcune eccezioni. In Francia si tennero sempre in pieno assettamento eserciti o corpi d’esercito i quali possono entrare io. campo nello stesso ordine nel quale sono disposti, cioè in divisioni e brigate; a mo d'esempio, la guardia imperiale di recente organizzata, che è composta di un corpo di due divisioni d’infanteria, ciascheduua delle quali da due brigate, di una divisione di cavalleria di tee brigate con artiglieria e truppe del genio; in pieno assettamento sono eziandio gli eserciti di Parigi e di Lione e finalmente l'esercito d'Algeria, ciascun dei quali è composto di corpi grossi, organati in più divisioni

Circa alle disposizioni per la guerra, si è adottato in questi ultimi tempi il seguente sistema: un esercito di media forza. è composto di parecchie divisioni d'infanteria, di una o più divisioni di cavalleria e di artiglieria di riserva con un gran parco. Un grande esercito è formato di parecchi corpi e di artiglieria di riserva, talvolta pure di cavalleria di riserva; ed ogni corpo di esercito consta inoltre di due, tre ed anche di più divisioni d’infanteria, di una divisione o di una brigata di cavalleria e di artiglieria di riserva. Quest'ultima scompartizione si è adottata nello ordinamento dell'esercito destinato alla guerra d’Italia, il quale si è intitolato da principio esercito delle Alpi, in seguito esercito d'Italia.

La divisione d'infanteria è composta come appresso. La divisione è scompartita in due brigate; la brigata consta di due reggimenti d'infanteria e alla prima brigata è aggregato anche un battaglione di cacciatori ovvero un battaglione di bersaglieri indigeni d'Africa. Appartengono inoltre alla divisione due batterie montate, una compagnia del genio un distaccamento di gendarmeria pel servizio della polizia dell'esercito e dell’ordinanza. Se i reggimenti hanno due soli battaglioni di campo, la divisione ne ha nove; se ne hanno tre, la divisione consta di tredici battaglioni. Ammesso, pertanto che un battaglione abbia soli settecento uomini, la divisione composta nel modo ora accennato, ne avrà 9100, e 10.400 uomini se il battaglione ne abbia 800; ad essa vanno aggiunti dodici cannoni. Secondo le regole adottate dall'artiglieria francese relativamente all’ordinamento di quest'arma, si può ritenere che ad ogni 10,000 uomini d’infanteria vanno uniti tredici e sino quindici cannoni. Per altro quest'ultimo numero nella guerra d’Italia non venne raggiunto; ma se si ammetta (il che facilmente deve concedersi), che m ciascuna divisione un reggimento almeno verrà provveduto coi nuovi cannoni rigati da quattro, quindi con sei pezzi, si vedrà che quel numero dev’essere sorpassalo.

La divisione di cavalleria è composta di due brigate, e la brigata di due reggimenti. Ritenuto che ciascun reggimento abbia 900 cavalli, la divisione ne avrà 3600. Per ogni 1000 cavalli, si devono computare due cannoni dell'artiglieria accavallo, di guisa che ogni. divisione provveduta di una batteria a cavallo.

Il corpo d’esercito, composto di tre divisioni d’infanteria e di tre di cavalleria, comprenderebbe adunque 30,000 uomini d’infanteria, 3600 cavalli e non tengono conto dei cannoni rigati da 4, 42 cannoni. Se aggiungiamo inoltre l'artiglieria di riserva con circa tre batterie o diciotto cannoni e altrettanti cannoni rigati, il corpo d'esercito risulterà in totalità composto di 30,000 uomini d’infanteria, di 3600 cavalli, e di 78 cannoni. In generale però un corpo d’esercito francese, qual fu ordinato nella guerra d’Italia, si può computare soltanto di 25,000 uomini, 2000 cavalli e 42 cannoni (esclusi i cannoni rigati da quattro).

Un esercito da cinque corpi, ammesso che l’artiglieria. di riserva abbia sei batterie, ascenderebbe dunque a 125,000 uomini, 10,000 cavalli e 246 cannoni, esclusi i. cannoni rigati da quattro, e 300 cannoni compresi questi ultimi.

Di tutte queste forze guerresche impegnavasi nella lotta da parte dell’Austria i corpi d'armata forti ciascuno di 40,000 uomini compresi i confinarj loro aggregati. In totale 280,000 uomini.

Devonsi però detrarne tutti al più 80,000 uomini i quali erano necessarii pei presidii, cosicché l'armata austriaca disponibile, in campo ammontava a quasi, 200 mila uomini.

Le forze delle armate alleata erano all'incirca le seguenti:

Da parte dei piemontesi 62,000 uomini.

Da parte della Francia 157,600.

Ma ad ingrossare le schiere dei piemontesi giungevano i sussidi toscani, e quelli di Garibaldi.

Il gran duca di Toscana, pel giorno in cui il Re Vittorio Emanuele dirigeva il suo proclama ai soldati, riuniva il corpo diplomatico e gli annunziava che venendo abbandonalo dalle truppe e non volendo assolutemente abdicare, come lo consigliava il marchese Lajatico, altro non gli restava, senonché abbandonare, Stato assieme alla sua famiglia. Verrà opportuno in questo luogo il testo della Protesta che il gran duca Leopoldo li rilasciava da Ferrara in data 1. maggio.

Ferrara, 1. maggio 1859

«Le recenti violenze, usate dalla rivoluzione eccitata dal Piemonte, avevano per iscopo d’impormi a consentire ad atti contrarii ai decoro della mia persona come Sovrano, e contrarii alla volontà mia, ed a dichiarare la guerra, violentando il primario diritto inerente alla sovranità. Dinanzi a codesto stato di cose, io mi vidi costretto di abbandonare l'amata Toscana, e cercare colla mia famiglia asilo fuori di casa presso uno Stato amico, con cui mi legano trattati di vicendevole soccorso. Già in Firenze, la mattina del 27 aprile, ho solennemente protestato dinanzi i componenti il Corpo diplomatico, accreditato presso la mia persona, contro codeste violenze, dichiarando nulli, non avvenuti e di nessun valore gli atti stessi: e quest'oggi, primo maggio, in Ferrara protesto nuovamente e solennemente contro quella violenza usatami, e ripeto la dichiarazione, allora formalmente espressa, della nullità degli alti suddetti, i quali apertamente tendono a rovesciare uno stato di cose, sanzionato dal trattato di Vienna del 1815, firmato e garantito dalle Potenze europee. Intendo perciò che tutta la Responsabilità di quegli atti cada su coloro che contro ogni giustizia gli hanno voluto imporre.

«LEOPOLDO m. p.»

Partito da Firenze il gran duca, si stabili tosto un Governo provvisorio.

Due divisioni toscane andarono ad ingrossare l'armata piemontese, per cui questa aumentò di 24,000 uomini.

Il proclama del Re veniva accolto con entusiasmo da tutta la nazione. Volontarj accorrevano da tutte le città, i più ricchi figli di famiglia, gli eredi degli uomini più grandi abbandonavano le loro dimore per rispondere alla chiamata del Re e combattere per l’indipendenza italiana.

Garibaldi, nome popolare in Italia, uomo energico ed audace, pronto sempre a pugnare per l’indipendenza delle nazioni, formava una legione di volontarj sotto il nome di cacciatori delle Alpi ed ottenendone il comando col titolo di generale aggiungeva altri 5,000 uomini all'armata piemontese.

Il teatro della guerra era adunque sulla vallata del Po divisa tra i regni di Piemonte e di Lombardia.

«Le Alpi e l’Appennino che la cingono, si esprime un distinto redattore del Journal des Débats, tranne che all'est ove confina coll’Adriatico, formavano confini più esattamente determinati che in ogni altra regione d'Europa, e le aperture ch'essa possiede ai due mari, aperture protette all'ovest dalle montagne della Liguria ed al levante dalle lagune in cui sboccano il Pò, l’Adige ed il Brenta sembrano garantirle la sicurezza e la facilità delle sue comunicazioni nell’interno.»

Nella guerra che si prepara il terzo e quarto corpo dell’armata francese esce dalla gola del monte Cenisio e da quella di Ginevra discende dalla vallata di Dora Ripuaria sopra Torino.

Il primo corpo, ed il secondo, la guardia imperiale ed il materiale dell’armata sbarca a Genova, passa gli Appennini ed entra nella pianura della Scrivia.

L’armata austriaca secondo un piano anteriormente studiato erasi posta nell’angolo formato dal Ticino e dal Po con molti ponti gettati sul Ticino e con una forte testata di ponte che copriva sulla sponda destra del Po il ponte di barche della Stella.

A tergo aveva le piazze della Lombardia e del Veneto che le assicuravano fortemente le spalle.

L'armata Sarda nel giorno 26 aprile in cui avvenne la dichiarazione di guerra occupava delle posizioni che potevano considerarsi parte di difesa e parte d osservazione.

Essa era altrettanto impotente per attaccare quanto per difendersi seriamente a fronte di forze infinitamente superiori e doveva principalmente ritardare l'avanzarsi del nemico e dare il tempo di giungere alla Francia.

Togliamo al Giornale storico la seguente esposizione particolareggiata delle operazioni militari dell'armata Sarda che getterà un lume chiaro e semplice sulle posizioni occupate da essa.

«Le condizioni topografiche del Ticino non per mettendo di difendere con vantaggio, colle forze delle quali si poteva disporre, il territorio compreso tra questo fiume, la Sesia ed il Pò, non si fece che lasciare in osservazione quattro reggimenti di cavalleria incaricati di estendere la rete di esplorazione fino all'estremo confine.

«Grandi preparativi erano stati fatti per impedire lo avanzarsi delle colonne nemiche su questo passo tagliato da fiumi e da risaie; erano formati forti trincerati sulle strade principali, e l’inondazione preparata sopra una grande scala, doveva rendere impraticabili i vicini terreni.

«Onde proteggere la capitale da un ardito colpo di mano dell'armata austriaca, manovra da cui essa poteva sperare risultamenti assai importanti, si elevarono trincieramenti su tutta la lunghezza della Dora, dal punto culminante di Massa fino al confluente nel Po a Calcia-Vacca. Benché in tal momento il fiume fosse guadoso, il basso fondo, che domina il fiume per tutta la sua lunghezza sotto l'argine, non lasciava di praticabili all’artiglieria che le tre vie principali, le quali erano state molto tagliate ed erano difese da trincieramenti muniti «d'artiglieria.

«Una seconda linea di difesa era stata preparata da Tarazza a Verolengo; 16 battaglioni, 8 squadroni e 9 batterie (34 pezzi) guernivano questa linea, la difesa della quale era affidata al generale Cialdini, comandante la 4.ta divisione.

Le colline di Brusasco, e di Verna, sulla sponda destra del Po erano occupate dai cacciatori delle Alpi. Una batteria di grosso calibro era posta sulla strada da Casale a Torino.

«Finalmente si faceva assegnamento sull'arrivo delle prime truppe francesi dalla parte di Susa per potere, in caso di bisogno, trasportarle rapidamente per la strada ferrata verso Caluso ed Ivrea, ed opporsi ad un movimento del nemico sul lato sinistro della linea di difesa della Dora.»

L’Austria dopo il suo ultimatum, e stando al termine stabilito avrebbe dovuto passare il confine ed aggredire la prima sul territorio piemontese, ma ciò non avvenne.

Trascorsero due giorni nell'attesa e solo il 29 dopo il mezzogiorno due colonne austriache passarono il Ticino sotto Pavia pel ponte di Gravellone, una delle quali si diresse sopra Garlasco borgata degli Stati Sardi nella provincia della Lomellina a 28 chilometri sud-est da Novara, r altra sopra Zinasco e S. Nazzaro.

Questi due giorni di ritardo ebbero in conseguenza che l'armata francese la quale avea avuto l'ordine di mettersi in movimento al 23 d'aprile arrivava in tutta fretta da varie parli.

Nello stesso giorno in cui l'armata austriaca invadeva il territorio piemontese le teste di colonna delle divisioni francesi giungevano a Susa e nel giorno successivo sui mattino del 30 aprile facevano il loro ingresso a Torino.

Colle ultime truppe del suo corpo vi arrivava il generale Canrobert, ed il giorno antecedente il Re Vittorio Emanuele abbandonava la sua Capitale onde stabilire il quartiere generale ad Occimiano fra Alessandria e Casale.

Alla Dora venivano lasciati deboli distaccamenti come aveva consigliato il generale francese e l’armata piemontese concentrandosi più in giù del Po giunse al 7 di maggio ad occupare le seguenti posizioni, cioè la 5. divisione Cucchiari presso Novi, la 2. divisione Fanti presso Alessandria, la 3. divisione Durando e la 4. Cialdini presso Valenza Frassinetto e Casale, la 1. divisione e la cavalleria di riserva al di sotto di Casteiborgo presso Occimiano.

Già dal 26 aprile arrivavano a Genova le prime truppe del primo corpo d’armata francese sotto il comando del maresciallo Baraguay d'Hilliers il quale rilasciò un proclama ricordando ai soldati le vittorie del 1797 e del 1800. Genova occupata intieramente dai francesi venne ridotta a luogo di deposito ed ebbe a comandante il generale Herbillom

Mentre Baraguay d'Hilliers s avanzava verso il nord sbarcavano le truppe di Mac-Mahon, e l'infanteria della guardia imperiale. La cavalleria di quest'ultima pervenne in parte anche per la via di terra, tosto dopo marciarono tutte le truppe della guardia imperiale alla volta d'Alessandria ed il corpo di Mac-Mahon collocavasi dietro a quello di Baraguay d'Hilliers che poco a poco avanzavasi verso Tortona e Voghera.

Alla volta d’Alessandria s'avviava pur anco il corpo di Canrobert il quale non s' era fermalo in Torino sennonché il tempo necessario ad organizzarsi, lo seguiva il corpo di Niel.

Dopo d’avere affidato la reggenza all’imperatrice Eugenia e postole a lato il Re di Westfalia, l’imperatore Napoleone insieme al principe suo cugino abbandonavano Parigi ed arrivavano a Genova. L’imperatore pubblicava al suo arrivo il Proclama seguente:

«SOLDATI!»

«lo vengo a pormi alla vostra testa per addurvi a combattere. Noi andiamo a soccorrere nella lotta un popolo che rivendica la propria indipendenza, e a riscattarlo dall'oppressione straniera. Questa è uva causa santa che ba le simpatie del mondo incivilito

«Io non ho d’uopo di eccitare il vostro ardore; ogni marcia vi ricorderà una vittoria. Sulla Via sacra dell'antica Roma, a rammentare al popolo le sue gesta gloriose, scolpivansi le inscrizioni sul marmo. Ora passando per Mondovi, Marengo, Lodi, Castiglione, Arcole, Rivoli voi premerete del pari un altra via sacra in mezzo a memorie luminose.

«Serbate quella disciplina severa che è l’onore dell’armata. Qui non vi sono altri nemici che quelli che combattono contro voi: rammentatelo. Siate serrati l’un l’altro nella lotta, né per spingervi innanzi, mai abbandonate le vostre fila. Evitate un ardore troppo veemente. Ciò solo io temo.

«Le nuove armi di precisione sono pericolose solo da lontano; esse non impediranno che la baionetta, come altra volta, sia l’arma tremenda dell'infanteria francese.

«Soldati! ciascuno faccia il proprio dovere; confidiamo in Dio. La patria mollo si ripromette da noi. Già dall'uno all'altro capo di Francia risuonano queste parole di felice augurio: La nuova armala d’Italia sarà degna della sua antica sorella!»

«NAPOLEONE.»

Frattanto gli austriaci concentrati a Pavia, dove era stabilito lo stato maggiore generale del comandarne in capo Giulay, spinsero i loro avamposti di cavalleria sino a Vespolato, borgata degli Stati Sardi a 12 chilometri S. da Novara, ed a Cerano villaggio a 2 chilometri E S E dalla medesima, e facevano avanzare grosse colonne verso Mortara, occupandola nella sera stessa.

Giace Mortara a 23 chilometri S S E da Novara ed a 48 chilometri da Alessandria sul canale dell’Agogna al Pò. È capoluogo della provincia di Lomellina ed insalubre n’è l'aria per le risaie dei dintorni. Anticamente era detta Pulchra Sylva ed alcuni cronisti pretendono che in seguilo venisse chiamata Mortis Ara (ara della morte) per la strage che i franchi condotti da Carlomagno avrebbero ivi fatto dei Longobardi nel 774, altri però traggono il pronome dall’aria mortifera che vi spira.

Occupata Mortara, si spingevano gli austriaci sopra Vercelli del quale ugualmente s’impadronirono.

Vercelli è città della provincia di Novara che vanta alcuni begli edilizi e nella cattedrale che fu già tempio di Vesta si conservano le ceneri del beato Amedeo IX di Savoia.

Le operazioni dell'armata austriaca sebbene riuscivano non si facevano senza scontri cogli avamposti dell’armata sarda.

«La cavalleria leggera, lasciata in osservazione su questa frontiera (dice il giornale dello stato maggiore generale), si ritirò passo passo, senza lasciarsi avviluppare, e caricò parecchie volte con esito la cavalleria ne mica.»

«L’armata austriaca, soggiunge questo giornale, prese una forte posizione tra la Sesia ed il Pò, e vi si stabili come in un vasto campo trincerato coi mezzo di testate di ponte sul Po a Stella ed a Gerola. Essa poteva sortire sulla destra di questo fiume nella pianura di Marengo, che attraversava l’importante comunicazione da Genova ad Alessandria. Per Vercelli, che le serviva di testata di ponte sulla Sesia, essa poteva manovrare sulla sinistra del Po e minacciare Torino.

Finalmente l’immensa superiorità dell’armata austriaca sulle forze che le venivano opposte, rendeva probabile un attacco di viva forza su qualche punto della linea da Gasale a Valenza e Bassignana ad onta degli ostacoli che avesse incontrato.

«Il maresciallo Canrobert arrivato a Torino ed il generale Niel s’accompagnarono al Re Vittorio Emanuele sulla linea della Dora Baltea onde formare la linea di difesa che doveva proteggere Torino.

Togliamo al Giornale storico dei movimenti dell’armata d'Italia tenuto nel gran quartiere generale il seguente passo che giustifica la mossa suaccennata.

«Il maresciallo Canrobert ritenne che questa posizione, Che avrebbe obbligato le truppe franco-sarde a spiegarsi sui uno spazio di quattro leghe e ch’era troppo vicina a Torino e, dei nostri punti di ritirata sopra Susa, non poteva essere utilmente difesa.

«In caso di sinistro Torino sarebbe stata come una città presa d’assalto e le comunicazioni sarebbero state interrotte.

«Il maresciallo d’accordo col Re, prese la risoluzione, approvata dall’imperatore, di far passare le sue truppe in Alessandria e Casale a trenta leghe da Torino.»

Ora crediamo che riescano interessanti ai nostri lettori i seguenti cenni sulla vita ed i fasti del maresciallo suddetto:

«Il maresciallo Canrobert è uno di que’ generali nati sul suolo africano. A questa aspra scuola di prove continue, di successivi combattimenti, di vera vita militare, il sotto-luogotenente acquistò tutt’i suoi gradi e senti in lui divenir maggiore l’istinto militare, il nobile slancio, i soli che facciano il vero soldato. Attualmente il suo nome 4 popolare, e la nobiltà del carattere e la piena devozione alla cosa pubblica fecero maggiormente risplendere le brillanti qualità dell’ufficiale generale.

«Non nascondiamo la nostra profonda e reale simpatia per lui. Egli è uno di que’ cuori ardenti,una di quelle anime di nobile tempera, che hanno coraggio e abnegazione. li suo brillante coraggio elettrizza i soldati che conduce al combattimento: tutti hanno fiducia, egli ha fede.

«Il maresciallo Certain Canrobert nacque nel 1809. Sortito dalla scuola di Saint-Cyr, fu nominato sotto-luogotenente nel 1828. Luogotenente nel 1832 s'imbarcò per l’Africa nel 1855 e prese parte alla spedizione di Mascara. Successivamente egli è nella provincia d’Orano alla presa di Tlemcen, al combattimento di Sidi-Vacub, di Tafna, di Sikkak ed è nominato capitano nei 1837.

«Nello stesso anno trovasi all’assedio di Costantina, fa parte delle colonne di assalto e riporta la sua prima ferita sulla breccia a lato del colonnello Combes, vecchio soldato che cadde mortalmente colpito.

«Prima di spirare l’intrepido colonnello raccomandava al maresciallo Vallèe il giovine capitano dicendogli queste sole parole: Signor maresciallo, quest'ufficiale promette molto.

«Nominato cavaliere della Legione d’onore ritornò in Francia nel 1838 e si disimpegno con pieno successo della missione affidatagli di organizzare colle bande dell’armata carlista, accorse sul suolo francese, un battaglione per la legione straniera, e gli avanzi della guerra civile andarono a combattere in Algeria sotto il nostro vessillo.

«Ma bisognava il sole ardente dell'Africa, la vita dei campi all’uomo che sentiva io sé la scintilla del soldato e non voleva perdere i suoi begli anni giovanili negli ozii della vita di guarnigione. Qual campo più bello, per l’attività, guerriera, di quelle continue lotte che non terminavano in un punto se non per ricominciare sur un altro?

«Nel 1841 Canrobert ritornò in Africa e dopo i combattimenti di Muzaia. e di Gontas fu elevato al grado di capo battaglione nel 1842. Sempre egli tenne la campagna prendendo parte a tutte le spedizioni, correndo da combattimento a combattimento. Ovunque trovatasi il suo battaglione di cacciatori, il suo capo facevasi sempre ammirare per una fortunata intrepidezza, perché alla guerra, oltre il coraggio e l'abilità, v’è ancora la fortuna.

«Nei gravi avvenimenti, allorquando si trattava di operazioni difficili, Napoleone l'spesso diceva: Date il comando al tal generale; egli è fortunato.

«La fortuna è forse compagna dell’abilità? Quest’è un segreto che i campi di battaglia racchiudono) nel loro seno. È impossibile di seguire il comandante Canrobert nelle sue corse arrischiate. Ovunque egli lasciava al suo passaggio le traccio di una rapida e decisiva energia e la buona riuscita gli era compagna, perché non dubitava mai di sé stesso. Egli incalzò da. riparo a riparo, da montagna a montagna, da burrone a burrone le bande di Bu-Maza, e la ottenne il grado di luogotenente colonnello (1845). Combatté vigorosamente i Cabailiche lo tenevano bloccato nella città di Tenez. Per interi due mesi di successive lotte ostinate e spesso sanguinose, combatté a passo a passo coi suoi nemici guadagnando a poco a poco il terreno, cacciando la ribellione sotto ogni suo passo. Nei 1847 gli fu dato il grado di colonnello...

«Dopo aver comandato il 1.° reggimento di linea straniera fu posto alla testa del reggimento degli zuavi. Era una gloria ed un onore comandare a questa scelta truppa, a questi uomini instancabili nei combattimenti ed arditi nei rischi. Egli condusse, gli zuavi contro i Cabaili e le tribù di Jurjura, è gli zuavi applaudivano il loro colonnello che combatteva sempre il primo; alla loro testa. Il dio della guerra vegliava su lui, e sembrava che il fuoco nemico rispettasse l’intrepido soldato.

Nel 1859 vi fu una bella pagina pel colonnello Canrobert. Il cholera decimava la guarnigione d’Anipaly. L’assedio di Zaatcha, che si preparava; lo chiama alle armi; egli parte coi,suoi zuavi; che l’epidemia divorava, e durante un lungo e penoso cammino, gl'incoraggia, li sostiene, ridona agli ammalati l’energia che li abbandonava e comunica a tutti quel coraggio sì difficile contro un flagello ohe colpisce e non si vede;

«In questo cammino, colla sua piccola colonna indebolita e rifinita, egli improvvisamente si trova in faccia a molti assalitori che già chiudevano il passaggio e circondavano la città di Bu-Sada, la guarnigione della quale era bloccata. Il colonnello Canrobert, ad onta della ineguaglianza delle forze, si avanzò risolutamente o gridò loro.

«Lasciatami libero, il passaggio, perché porto con me un nemico che vi esterminerà tutti, la peste!»

«Gli arabi, spaventati a tali parole ed in fatto, scorgendo da ogni parte nella piccola colonna tracce visibili del male epidemico, si allontanarono coni terrore e lasciarono libero il passaggio. Il colonnello se ne approfittò onde gittare un rinforzo nella città di Bu-Sada a finalmente! nel giorno 8 novembre arrivò a Zaatcha.

«Nel 26 novembre si diede l’assaltoa Zaatcha. Il colonnello Canrobert comandò una delle colonne dì attacco ed ebbe la fortuna d’arrivare sano e.. salvo sulla breccia, lasciando dietro di lui, officiali e soldati, morti e feriti. Tale splendida azione gli valse la croce di commendatore della Legione d’onore.

«Rara e difficile fortuna è quella di poter inscrivere nei suoi stati di servizio: salito due volte all’assalto, e a quello di Costantina e a quello idi Zaatcha. Generale di brigata nel 1850, ritornò in Francia; poscia generale di divisione nel 1853 ed aiutante di campo dell’imperatore, fu nominato al comando superiore del campo d’Elfaut.

«Allorquando la Francia decise di mandare un’armata in Oriente, il generale Canrobert fu tra i primi generali che s’imbarcassero per Gallipoli. Incaricato di organizzare il campo, egli si moltiplicò e sopraintese a tutto con quell'aspra attività ch'è nella sua natura.

«Alla morte del maresciallo di Saint-Arnaud il generale Canrobert ebbe il comando dell'armata francese. Officiali e soldati applaudirono con acclamazione alla scelta' fatta dall'Imperatore, pieni di fiducia nel loro giovane generale seppero sopportare senza lagnarsene le più aspre fatiche e le più crudeli privazioni. Per tutta la durata dell’assedio di Sebastopoli, fu sempre veduto nel le trincee, in mezzo alle navi, andare in persona ad incoraggiare i nostri valorosi soldati ed a ringraziarli in nome della Francia e dell’imperatore di tanto coraggio e di una si nobile abnegazione.

Per ciò in mezzo a sofferenze ed a malattie il morale dell’armata non venne mai meno. Nel mese di maggio Canrobert rimetteva il comando in capo al generale Pélissier e domandava di riprendere il comando della sua divisione, e s’egli non doveva aver l’onore di dare il suo nome alla presa di Sebastopoli, ebbe quello di aver condotta la vittoria nelle armate alleate.

«Il generale Canrobert, nominato maresciallo di Francia nel 18 marzo 1856, è uno dei caratteri più cavallereschi del nostro secolo, e seppe cattivarsi la stima e la simpatia di tutti.»

Vercelli e Novara vennero quindi occupate senza seria resistenza dagli austriaci. Dalle informazioni degli abitanti e degli esploratori si venne a conoscere che rinforzi rilevanti venivano ad ingrossare le linee scelte da essi. D’altronde gli austriaci gettavano ponti in tutti i corsi d’acqua, il passaggio dei quali poteva servir a congiungere i loro corpi d’armata.

«La posizione della Stura, che abbiamo visitato (diceva in un dispaccio in data 20 aprile il maresciallo sumentovato) al pari di quella della Dora Baltea, non si può tenere colle forze di cui presentemente possono disporre i piemontesi.

L’unico modo, con probabilità di riuscita, di difendere Torino contro il nemico, qualora questo si avanzasse sulla capitale con forze considerabili, sarebbe quello di molestarlo sul lato destro ed a tergo per la testata del ponte di Casale, Io posso fare questa dimostrazione senza compromettere le truppe, inviando a Casale, nei ripari di questa piazza forte, un battaglione ed una compagnia (che annuncio essere più considerabili) per operare, sotte gli ordini del generale Frossard, alla testata dei ponte sul Po e sue sortite;

«Il Re reputa queste nuove disposizioni come te sole che possano salvare la capitale e dare alle armate riunite la possibilità di agire efficacemente a fianco l’una dell'altra.

«La piazza d’Alessandria è abbondantemente approvvigionata, come mi dichiarò il ministro della guerra sardo.

«Calcolo che nel 9 maggio quasi tutte le divisioni d’infanteria del 1° e 2° corpo, e la brigata di cavalleria leggiera del generale Miei saranno entrate in Piemonte. Esse presenterebbero un effettivo di circa 60,000 uomini, i quali uniti ai 35,000 del Re Vittorio Emmanuele ed alle truppe francesi entrate per Genova, darebbero un totale di quasi 175 a 180 mila uomini.»

Accoltosi unanimamente il piano Suaccennato, fu posto ad esecuzione. Il Re fece dirigere sopra Casale ed Alessandria le truppe destinate alla difesa della Dora né lasciò in osservazione su quella linea senonché la divisione di cavalleria del generale Sambuy ed il corpo dei cacciatori delle Alpi.

A Casale cominciava il generale Frossard le sue operazioni e molti movimenti di truppe si fecero aitanti la testata di ponte della città onde far credete agii austriaci che fosse in quel | punto riunita in grati numero l’armata francese.

Questo piano ebbe certamente una grave influenza sul principiate della Campagna, mentre il generale! Giulay, già indeciso, era quasi disposto di copiare il piano della campagna di Radetzky del 1849. Ma l’essenziale della copia sarebbe stato di battere in cinque. giorni l’armata sarda o quei corpi i francesi che si fossero offerti i primi. Radetzky nel 1849 cercò e rinvenne il nemico che egli voleva battere ma il generale Giulay non seppe trovarlo, né certamente poteva rinvenirlo nella direzione da lui presa. Avvennero bensì alcune scaramuccie sull’argine della ferrovia che da Mortara conduce a Vercelli, ma dovunque i distaccamenti i dell’armata sarda ripiegavansi verso il loro centro strategico il quale questa volta era non già al nord, sebbene al sud.

Gli austriaci avanzavano senza inciampi. Occupate Vercelli e Novara s’apparecchiarono a varcane la destra riva del Po.

Il generale Giulay. trasferiva il suo quartiere generale a' Lomello sull'Agogna, mentre lasciò lungo la Sesia solo il 7° corpo d’armata, colla fronte rivolta al ponente.

La risoluzione di Canrobert veniva approvata dal Re, al quale si aggiunge del pari l'approvazione dei generali Niel e di Frossard. Questo piano doveva far sopì porre agli austriaci che se essi si avanzassero sopra Torino le forze alleato sarebbero sortite sul loro lato sinistro.

«A Torino non si dubita, scriveva il maresciallo Canrobert, che i generali Niel, e Frossard siano di questo avviso, che allora quando gli austriaci vedranno i Calzoni rossi (espressione del Re e dei suoi ministri) si vicini al loro lato sinistro d’operazione contro Torino desisteranno dall’impresa o si daranno ad esitanze ed a lentezze, che permetteranno alle armate franco-sarde di riunire a tempo forze imponenti presso Alessandria e Casale».

Questo piano ebbe quindi una capitale influenza sul cominciamento della campagna ed accrebbe le indecisioni del generale Giulay. A questo piano devesi attribuire l'improvviso cangiamento di risoluzioni che allontanò gli austriaci dalla capitale del Piemonte.

L'armata d’Italia formava quindi due grandi frazioni dalla parte di Genova, due corpi erano riuniti sotto il comando del maresciallo Baraguay d’Hilliers, del quale diamo un sunto di biografia come ci siamo proposti di fare nel corso dì questa narrazione; onde i nostri. lettori abbiano una esatta conoscenza degli uomini ohe ebbero parte in questa guerra memoranda.

«Nacque a Parigi nel 6 settembre 1795, figlio del conte dell'Impero di questo nome, morto nella campagna di Russia nel 1813.

«Nel 1806 venne inscritto come volontario nel 9.° dragoni ed entrò nel Pritaneo militare nel 1807. Nominato sotto-luogotenente al 2. cacciatori a cavallo, aiutante di campo del maresciallo Marmont nel 1813, una palla di cannone gli portò via la mano sinistra nella battaglia di Lipsia nel 28 ottobre 1846.

«Capitano nel 28 febbraio 1814; maggiore nel 23 novembre 1845; capo battaglione nel 4 ottobre 1826; luogotenente colonnello nel 4 febbraio 1827, prese parte alla spedizione d’Algeria e fu nominato colonnello nel 31 ottobre 1830.

«Nel 45 febbraio 1833 chiamato al comando in secondo della scuola di Saint-Cvr, conservò questo importante posto fino al momento in. cui fu promosso al grado di maresciallo di campo nel 22 novembre 1838. Poseia a disposizione del governo generale dell’Algeria nel 20 gennaio 1844 comandò la provincia di Costantina fino al 44 gennaio 1844 dopo essere stato promosso luogotenente generale nel 6 agosto 1843. Gli arabi gli avevano dato il soprannome di bon-dru (moncone) e lo temevano come un uomo di una prodezza indomabile e di una severità inflessibile»

Ne) 1848 il generale Baraguay d’Hilliers comandava la 6. 4a divisione militare a Besanzone e poco dopo la seconda divisione dell’armata delle Alpi. Nello stesso anno era mandato all'assemblea costituente come rappresentante il dipartimento di Doubs con 31,933 voti, e nell'anno successivo alle elezioni dell'assemblea legislativa con 34,491 voli.

«Nel 1849 nominato generale in capo dell'armata francese a Roma e ministre plenipotenziario presso il Santo Padre, fu nei 1854 chiamato al comando in capo della prima divisione militare.

Alla guerra d’Orienle era ambasciatore straordinario presso la Porta Ottomana.

«Mentre si preparava la spedizione della Crimea,

115 r Imperatore ordinò una diversione nei Baltico, ed il comando de questi corpo di spedizione che la nostra flotta portava verso le isole d’Aland fu affidato all'energica direzione del generale Baraguay d’Hilliers.

«Dopo aver sostenuto una missione a Stoccolma, il generale giunse dinanzi la fortezza russa e diede ordine che si sbarcassero le sue truppe. Tosto cominciò l’assedio, la trincea fu aperta e il fuoco violento viene diretto contro le torri di Bomarsund che le nostre paHe battevano in breccia. Ogni resistenza diventava inutile ed il generale Baraguay d’Hilliers costrinse il governatole a capitolare.

«La presa così rapida di questa importante fortezza era non solo una considerabile perdita materiale per la Russia, ma aveva inoltre un’incontrastabile importanza politica e dava un colpo terribile all'influenza nel Baltico. Tale brillante fatto d’armi valse al generale Baraguay d’Hilliers il bastone di maresciallo. Quest'era il degno guiderdone dalla sua vita interamente consacrata al servigio del suo paese e dei suoi capelli nobilmente incanutiti nella vita dei campi.

«Cavaliere della Legione d’onore a' 20 anni, nel 20 novembre 1815, ufficiale nel 1823, commendatore nel 1831, grande ufficiale nel 1840, gran croce nel 1851, il maresciallo Baraguay d’Hilliers contava 53 anni di servizio effettivo nell’anno 1859.»

In sul mattino del 3 di maggio il Re di Sardegna che aveva lasciato Torino da due giorni si portava sopra Casale.

In questo tempo il generale Giulay che s’apparecchiava a varcare la destra riva del Po e lasciando lungo la Sesia un solo corpo d'armata, altri ne fa spiegare sulla linea del Po fra la foce della Sesia e quella del Ticino, uno ne resta qual corpo di riserva sull'Agogna. Il generale fa costruire un ponte presso Cornale, ed ordinava alle truppe che erano di stazione più sopra al Po di procedere a dimostrazioni quasi volessero varcarlo su altri punti, onde distrarre l'attenzione degli alleati.

Per conseguenza tutta la linea del Po era in quel giorno e nei successivi messa in allarme specialmente presso Valenza e fra Candia e Frassinetto, dove gli austriaci facevano i maggiori apparecchi come se volessero oltrepassare il fiume.

Siede il borgo di Frassinetto alla destra del Po. Fu preso nel 1371 da Galeazzo Visconti, nel 1431 da Nicolò Piccinino e nel 1446 da Carlo Gonzaga. I piemontesi perciò inviarono alcune batterie a Frassinetto che aprirono un fuoco insignificante; oltre di ciò avveniva uno scontro d’infanteria sulla Sesia bassa fra gli austriaci ed un distaccamento di truppe sarde.

Gli austriaci minarono altresì il ponte della ferrovia presso Valenza, ma le pioggie che imperversarono fecero gonfiare il fiume, e penetrando l’acqua nelle camere delle mine non fu possibile farlo saltare. Solo al 7 di maggio lo poterono distruggere.

Frattanto una brigata austriaca era riuscita ad inoltrarsi presso Cornale, progredendo nei giorni susseguenti sino a Tortona, Sale e Voghera. Né mancò ivi la detta brigata di levare delle contribuzioni, guastare in varii punti le ferrovie e tagliare i fili telegrafici.

Le venne però ordinato di ritirarsi di nuovo alla riva sinistra del Po.

Del resto il generale Giulay tentennava sulle sue mosse, e le sue risoluzioni non avevano l’energia che richiedevasi, mentre appena iniziato un movimento veniva mutato il piano strategico, forse dipendente dalla cattiva organizzazione degli esploratori dell’armata austriaca, che non erano bastantemente numerosi e per i quali non s’era disposto una sufficiente retribuzione. In fine Giulay concepì il piano di inoltrarsi per Vercelli verso la linea della Dora Baltea e forse verso Torino.

Trasferì quindi il suo quartier generale a Mortara ed il giorno seguente a Vercelli; una divisione inoltravasi da Vercelli rivolta al Po. Era destinata a coprire le mosse del grosso dell'esercito verso la Dora Baltea contro qualunque tentativo degli alleati che irrompessero da Casale a molestarli. La città di Vercelli venne alacremente trincerata e convertita in una testa di ponte sulla Sesia.

Venne però in seguito l’ordine di ritirarsi, cosi che il quartiere generale era nuovamente trasferito a Mortara, e colà gli austriaci rimasero compiutamente inoperosi. Forse questa inazione veniva suggerita dall’essersi gli alleali stabiliti in una posizione inattaccabile, ed attendevano gli austriaci che il nemico l’abbandonasse per quindi poterlo investire mediante un pronto attacco e troncargli la ritirata verso questa sua formidabile posizione.

Il generale Giulay attendeva con tutta ragione che gli alleati prendessero l'offensiva mentre senza di ciò non avrebbero potuto conquistare la Lombardia colla. forza. delle armi.

Gli austriaci avrebbero forse potuto impedire agli, alleati di pervenire a quella formidabile posizione ma oramai essi l’avevano conseguita.

Avanzatasi il nemico perla riva destra del. Po, e Giulay avendo sospese le sue mosse offensive verso, la Dora Baltea ed avendo risoluto di atteggiarsi in attesa Ira la Sesia, il Ticino ed il Po, mandava ordine al tenente maresciallo Urban, al quale era affidata (a quiete della Lombardia, di passare a Piacenza sulla destra del Po e di assumere colà la sorveglianza del nemico.

Urban accorse; ingrossatosi d’altra brigata, intraprese varie scorrerie sulla strada da Piacenza a Voghera, ed inviò dal territorio parmigiano un distaccamento secondario al di la della Trebbia superiore da Rivergaro a Bobbio. Da queste scorrerie concepì l’intima persuasione che gli alleati s’accingessero ad intraprendere una mossa importante sulla destra del Po. A tale persuasione aderivano le notizie che gli esploratori recavano a Giulay, per cui questo comandante supremo credette essere giunto il momento d’abbandonare la sua posizione fra la Sesia ed il Ticino ed attaccare risolutamente gli. alleati che procedevano sopra Piacenza. Ottimo passaggio alle truppe offeriva il ponte di Vaccarizza.

Il maresciallo Giulay indeboliva la sua ala destra stabilita sulla Sesia e su quella parte del Po che vi era presso, la dispose qual corpo d’osservazione ad ambo i fiumi ordinando nello stesso tempo «he tutti i suoi corpi staccati s’avvicinassero all’ala sinistra dirigendosi verso il Ticino e Pavia. Voleva affrontare il nemico con questa àia sinistra, che componevasi di quattro corpi,:ai quali s’univa una parte della divisione di riserva del tenente maresciallo Urban.

Però Giulay volle anzitutto convincersi mediante una grande ricognizione se realmente gli alleati eseguivano la loro mossa sulla riva destra del fiume. .

Venne ordinata quella grande ricognizione pel giorno 19 maggio, e Giulay trasferiva a Garlasco il suo quartier generale onde essere più vicino a Pavia ed assumere in caso di bisogno la condotta delle truppe di rinforzo.

Il conte Filippo Stadion ebbe l’incarico della importante ricognizione ed allo stesso erano assegnali 29 battaglioni d’infanteria e 6 squadroni, vale a dire circa 30,000 uomini.

AI 19 maggio le truppe erano tutte disposte e nel mattino del 20 cominciarono ad avanzarsi.

La divisione Urban procedette per la strada maestra verso Casteggio, le brigate della destra e del centro si inoltravano del pari verso Branduzzo, Robecco e Casatisma.

Casteggio è una borgata degli Stati Sardi nella provincia di Voghera a 10 chilometri. E da questa città sulla strada di Piacenza, ed era importante posizione militare ai tempi delle guerre puniche. Annibale la ridusse in cenere; è Casatisma città degli Stati sardi nella stessa provincia, sulla strada di Pavia.

Non mancò per altro il tenente maresciallo Urban di lasciare nella sua marcia una traccia del suo zelo straordinario pel servigio della patria e della sua efferatezza, perché forse trovala una qualche resistenza nei contadini, allora quando incedevano le truppe aveva fatto fucilare nel villaggio di Torricella posto fra: S. Giulietta e Casteggio, una intera famiglia di contadini, composta di 9 persone, fra le quali un vecchio ed un ragazzo di 14 anni pel solo motivo che erasi trovato in casa loro alcuni pallini e poca polvere.

Alquanto più innanzi di Casteggio, sulla strada maestra verso Montebello, si abbatteva Urban negli avamposti degli alleati che componevansi di cavalleria piemontese.

È imminente il combattimento di Montebello, che era divenuto una necessità, per l'armata austriaca.

Le posizioni dell’armata alleata erano le seguenti:: Il primo corpo copre la. posizione di Ponte Cerone,

Castelnuovo e Voghera, ed era la divisione Forey. Gli altri corpi vanno per Tortona attraversando la pianura di Marengo sopra Valenza ad unirsi all'armata piemontese della quale il quartiere generale è ad Occimiano coprendo il passaggio del Po a Casale ed il passaggio della Sesia a Vercelli.

L’armata franco-sarda formava un gran semicerchio da Vercelli a Voghera attorno l’armata austriaca.

Già dalla sera del 18 erasi sparso l’allarme in Gasteggio e gli abitanti s’apprestavano alla difesa del villaggio. Due pattuglie austriache di cavalleria Cuna, d’infanteria l’altra, si avanzavano verso il villaggio per la via della strada ferrata, e venendo accolte a colpi di fucile si ritirarono.

Altra pattuglia si presentava il giorno susseguente colla quale di nuovo gli abitanti scambiarono delle fucilate. Quelle pattuglie erano i precursori dell'attacco, o secondo l’espressione di Giulay, la grande ricognizione forzata, che rimeditava quel generale sulla fronte dell’armata alleata.

Ecco la relazione per intero della battaglia di Montebello desunta dal rapporto ufficiale del generale Giulay:

«MAESTÀ

«Mi affretto di fare umilissimo rapporto sopra il primo maggior combattimento, che abbiano dato nella presente campagna le truppe di V. M. Come già risulta dai primi rapporti incompiuti, che servono di base a questo, tutte le divisioni del prode esercito di V. M., che scesero nella pugna, diedero splendide prove d’incontestabile valore e perseveranza. Come ho già riferito telegraficamente il 19 corr al primo aiutante generale, di V. Mi, il 20 corr. io ordinai una più grande ricognizione forzata sulla sponda destra del Po, perché tanto i rapporti di esploratori, quanto l’osservazione degli avamposti, collocati lungo la Sesia ed il Po, facevano presumere che il nemico con grandi forze avesse in mira un movimento su Voghera contro Piacenza. Nella notte del 19 al 20 furono a tale scopo dirette tre brigate del 5.° corpo d’esercito per Pavia alla testa di ponte di Vaccarizza, nella quale trova vasi già come guarnigione la brigata Boer, appartenente all’8.° corpo. Per questa spedizione io aveva posto sotto gli ordini del comando del 5.° corpo il tenente maresciallo Urban, che con anteriori incursioni aveva già imparato a conoscere il terreno fra Stradella, Vaccarizza e Voghera, e che a tale scopo appunto stava con una brigata del 9.° corpo d’esercito (generai maggiore Braumj e Gon una propria divisione di riserva (generai maggiore Schaaffgotsche) fra la testa di ponte di Vaccarizza e Broni. La spedizione, comandala dal tenente maresciallo conte Sladion, era quindi composta della divisione Paumgarten (brigate Gaàl, Bils e Principe d’Assia) del 5.° corpo di esercito, Braum del 9.° e di due battaglioni della brigata Boer dell‘8.° corpo, come pure della brigata Schaaffgotsche, resa compiuta con truppe della guarnigione di Piacenza (reggimento Hess), in luogo di quella parte delle proprie che aveva colà lasciate.

Il tenente-maresciallo Stadion incominciò il 20 di mattina ad avanzarsi uscendo dalla testa di ponte. Il tenente-maresciallo Urban si era avanzato sulla strada maestra verso Casteggio, battendo alla sinistra il monte verisimilmente col 3.° battaglione di cacciatori. Il tenente-maresciallo Paumgarten lo seguiva nella pianura colla brigata Bils alla volta di Casalisma, colla brigata Gaàl alla volta di Robecco. La stia riserva, composta di due battaglioni e mezzo, come pure il treno di artiglieria del corpo, si portarono verso Baslianello. La brigata Principe d’Assia formava l’ala destra, e marciava per Verrua sopra Branduzzo. Il tenente-maresciallo Stadion aveva ordinato che da questo appostamento, il quale era già raggiunto alle ore 11 circa, avesse a cominciare l'attacco verso mezzogiorno, e precisamente il tenente-maresciallo Urban doveva prendere i villaggi di Casteggio e Montebello per guadagnare di la una base all’ulteriore minaccia di Voghera, e così costringere il nemico a sviluppare le sue forze. Il generai maggiore Gaàl doveva seguire il tenente-maresciallo come riserva. Allorché il nemico ebbe prontamente abbandonato Montebello, il tenente-maresciallo Urban si spinse da colà fino a Genestrello, vi trovò il nemico in forze preponderanti, ed una sanguinosa resistenza, la quale però fu coraggiosamente vinta dai prodi cacciatori del 3 ° e 4.° battaglione dei reggimenti Hess e don Miguel, e, ad onta di notevole perdita, furono tosto padroni dell’altura e del caseggiato di Genestrello. Il nemico però sviluppò ben presto una tale preponderanza di forze, e le rinforzò ancora continuatamente con aggiunte per mezzo della strada ferrata, che il tenente-maresciallo Urban e la brigata Gaàl, avanzatasi frattanto ad appoggiarlo, furono respinti a Montebello, con gravi perdite, ma però combattendo eroicamente. Frattanto il tenente-maresciallo Stadion aveva avvicinato all’ala destra della linea di battaglia, dopo Casteggio, la brigata Bils ed anche la brigata Assia. Ora il nemico sviluppò una preponderanza di forze sempre crescente contro il generale maggiore Gaàl, rinforzato dal generale Braum col 1.° battaglione Hess e col 1battaglione Rossbach. Dopo una ostinala difesa fu sgombrato Montebello. Il nemico, tenuto in freno da perdite ancora più gravi è dal buon contegno delle truppe, come pure dalla. preparata collocazione in riserva della brigata Bile, non inseguì ulteriormente, ed il corpo, dopo di essere già rimasto in Casteggio senza essere gran fatto molestato, raggiunse alla notte la testa di ponte, e fu richiamato il 24 di mattina sull’altra sponda del Po.

Come risulta dai differenti rapporti, non ancora compiuti, a Genestrello combatterono, sotto il tenente-maresciallo Urban, il 3.° battaglione di cacciatori, il 3. battaglione don Miguel, due battaglioni Rossbach, e il battaglione di granatieri Hess, due cannoni da 6, quattro cannoni da 12 dell’8.° reggimento, ed una divisione di usseri Haller. Ivi il combattimento fu più sanguinoso, le perdite più gravi, la preponderanza nemica. triplice. A Montebello combatterono due compagnie è mezza di granatieri Rossbach ed un battaglione di quei reggimento, il 2.° battaglione fanteria Hess, due battaglioni fanteria Arciduca Carlo, il battaglione confinario Liccani, uno squadrone di usseri Haller, 4 cannoni da sei e 2 cannoni da 4 2. Delle truppe che combatterono presso Genestrello, una gran parte lottò anche in questo combattimento di ritirata contro una forza sempre maggiore del doppio.

Il principe d’Assia comandava il reggimento Culoz, un battaglione Zobel, quattro cannoni da 4 2, tre squadroni di ulani Due Sicilie. Si combatté presso Calcababbio, Casone de' Lanzi. Si venne più volte a quei bei casi, nei quali la fanteria andò all'assalto colla baionetta contro la cavalleria, e trionfò; a quei momenti che costituiscono il carattere dell'eccellente soldato, di fanteria; nei quali la prima scarica avviene nell'ultimo istante, 30 passi prima dell’attacco, usseri ed ulani gareggiarono nella giusta scelta del modo di combattere speciale di ciascun’(')arma: l’artiglieria si avanzò vicinissima, ab nemico, e perciò fece un effetto tanto più terribile, diminuendo cosi anche le proprie perdite. È singolare quanto poche ferite di. artiglieria siano avvenute nei nostri; il nemico tirava quasi da per tutto di sopra dell’avversario vicino. Assai bene sparò la fanteria nemica. Meno favorevolmente viene giudicata la sua cavalleria. Essa soccombette da per tutto ai nostri usseri ed ulani; schivò ogni serio attacco. L’annessa enumerazione delle perdite compierà quanto nel presente rapporto è accennato soltanto superficialmente, sopra la cooperazione maggiore o minore dei singoli corpi all’effettivo combattimento.

Il cannoneggiamento aveva chiamato a (tasteggio anche il tenente-maresciallo Crenneville, che stava presso Proni con una parte della brigata Fehlmaver. Il tenente-maresciallo Stadion gli fece prendere una posizione presso borgo Santa Giulietta, per accogliere, occorrendo, la brigata Bils, ch’era destinata a coprire la ritirata. Dalla relazione si ricava che non v'ebbe inseguimento, quindi il tenente-maresciallo Crenneville ritornò ancora la sera a Stradella. il fianco destro era coperto nell’avanzarsi e nella ritirata, con pari avvedutezza e risolutezza, dal generale maggiore principe d’Assia.

Quanto al nemico pare che ci stesse di fronte l’intiero corpo d’esercito del maresciallo Baraguay d'Hilliers e. di una brigata piemontese. Di cesi che fossero effettivamente al fuoco dodici reggimenti di fanteria, alcuni battaglioni di cacciatori ed un reggimento di cavalleria francesi, ed una brigata ed il reggimento di cavalleria Novara piemontesi; le riserve numerose e sempre crescenti. Il tenente-maresciallo Stadion crede che almeno 40,000 uomini fossero contro di noi. La rilevazione fatta colla ricognizione, che conferma giusta la mia presente posizione, è da me quindi considerata come un risultato estremamente proficuo dell'impresa, non ostante i grandi sagrifizii che furono fatti.

Aspetto ancora le relazioni dei particolari. Il tenente-maresciallo Stadion pone in risalto preventivamente H valore di tutte le truppe, che presero parte al combattimento. I reggimenti Arciduca Carlo, Hess, Don Miguel; Rossbach, Culoz, usseri Haller ed il 3(0) battaglione di cacciatori, in genere tutte le truppe ch'entrarono nel combattimento, hanno aggiunto belle pagine alla storia guerresca loro e dell’Austria. Ommetto di nominare a Vostra Maestà fin d’ora i nomi dei capi, che si segnalarono, volendo prima aspettare i rapporti particolari dei singoli corpi di truppe. Pur troppo il glorioso combattimento ha costato gravi sagrifizii.

A Pavia furono trasportati 600 feriti, tra i quali più di'20 uffiziali. Perirono il maggior Buttner, dello stato maggiore, che era appunto in missione speciale a Vaccarizza, e si uni alla spedizione, ed il maggiore Cantes del 3.° battaglione di cacciatori; sono smarriti il tenente-colonnello Spielberg ed il maggiore Piers, dei fanti Arciduca Carlo, ma probabilmente rimasero sol campo morti, certamente poi feriti. Il generale maggiore Braum è ferito.

Non mancherò di spedire quanto prima a V. M. le relazioni particolari; ma posso fin da questo moménto dichiarare con orgoglio che lo spirito ed il valore delle truppe si sono dimostrati degni della Sovrana grazia di V. M., e che esse considereranno anche in seguito come il massimo sprone a splendidi fatti l'applauso del loro eccelso Imperatore e Signore. Dal quartiere generale di Garlasco, il 23 maggio 1859.»

il gen. d'artig. comandante la 2. armala

co. GIULAY.

Il fatto di Montebello fu il primo scontro importante di questa guerra. S’adoperavano però i francesi a mantenersi costantemente sulle offensive mentre gli austriaci erano sulle difensive.

Napoleone III dopo il combattimento di Montebello raccoglieva tutta l’armata francese presso Alessandria da un lato sulla strada di Piacenza e in parte sul Po, mentre ai piemontesi era ingiunto di guardare il Po al di sopra di Valenza e la Sesia.

Questi dalla Sesia cominciarono a provocare il nemico. — Garibaldi erasi fatto condottiero dei Cacciatori delle Alpi, ed imprese una scorreria nella Lombardia seguendo la direzione dei monti. Questo fatto indusse Giulay di rinunciare al progetto di una mossa sulla destra del Po. In sullo scorcio di maggio i piemontesi rafforzati da parecchi battaglioni francesi si fecero più provocanti sulla Sesia, mentre l’armata francese si diresse verso Novara.

Questa città capoluogo della sua provincia sorge in una eminenza fra il Terdoppio e l’Agogna. Vanta superbi edifizii, dal suo fertile territorio escono in copia il riso, i grani e le biade e fu culla di uomini e di donne insigni per scienze, lettere ed arti. Fondata dai popoli liguri nel 665 di Roma, venne dichiarata colonia latina; Giulio Cesare la inalzava in appresso a colonia romana. Nelle gare fra Valentiniano II e Massimino ebbe la sventura di soccombere al vincitore Massimino che ne fece smantellare le mura. Ristaurata da Teodosio, fu occupata al cadere dell’impero dai Goti prima, dai Longobardi in appresso, che ne fecero un ducato, e fu data alle fiamme nei 1140 da Arrigo V. Risorta dalle sue ceneri, si compose in pace coll’imperatore, ma spiccatisi dall’impero i novaresi presero parte alla lega lombarda, e combatterono da prodi alla battaglia di Legnano. Come tante altre importanti città d’Italia ebbe pur anche le sue fazioni. I Sanguigni ed i Rotondi l'insanguinarono. Caduta Novara sotto il dominio dei Visconti, tumultuando ne mordeva il freno, finché nel 4346 occupata dalle genti di Giovanni II Marchese di Monferrato, ebbe vanto di reggersi a comune. Ma torna rono i Visconti, la dominarono gli Sforza, gli imperiali, gli spagnuoli, la casa d’Austria e finalmente quella di Savoia.

Impodestatisi i francesi d’Italia al declinare del se colo XVIII Novara fu aggregata col suo territorio al Regno Italico; alla pace generale nel 1814, venne restituita alla casa di Savoia, il 23 marzo 1849 fu teatro di sanguinosa battaglia nella quale i piemontesi superiori di forze agli austriaci furono dal tradimento sbaragliati, non vinti.

Allora quando Vercelli veniva sgombrata dagli austriaci, Garibaldi da Biella si diresse verso il nord della Sesia, facendo sosta nei dintorni di Gattinara, presso la quale senza alcuna resistenza, e quasi inosservato, varcava il fiume e raccolse tutte le sue truppe presso Borgomainero. Spedì da quivi un distaccamento per Orla ed Omegna a Pallanza, ed entrò in Arena colla colonna principale. Fiancheggiando la destra sponda del Lago maggiore s’inoltrò allo sbocco del Ticino, passo questo fiume, s impossessò di Sesto Galende, e giunse sino a Varese, dove entratovi, proclamò Re Vittorio Emanuele.

Corrisposero gli abitanti al grido nazionale ed ingrossarono di nuove reclute il corpo dei Cacciatori.

Già I allarme suscitato dall'incursione di Garibaldi erasi sparso, tanto a Milano quanto nel quartier generale di Giulay, talché questi ordinava tosto una scorreria per Oleggio a Sesto Calende. Uno scontro leggero ebbe luogo presso questo borgo fra le troppe austriache e la retroguardia di Garibaldi, la quale finì col ritirarsi verso Varese, onde congiungersi col suo condottiero.

A Varese però vennero i Cacciatori delle Alpi più seriamente attaccati, e Garibaldi dopo essersi valorosamente battuto, potè respingere gli austriaci i quali si ripiegarono sopra Como colla perdita di 132 uomini fra morti e feriti. Nei giorni seguenti perseguitò gli austriaci fino a Como, da dove seppe cacciarli, ed entrato a sera inoltrata in Como vi fu accolto con immensa esultanza dalla; popolazione, la quale si sollevò pari a quella di Varese per la causa nazionale.

Guidato da si ottimi successi Garibaldi spinse i suoi avamposti parte verso Monza e parte fino a Lecco.

Credette Giulay che lo scopo di Garibaldi fosse quello di attirare la sua attenzione ai fianchi ed alle spalle della sua armata,e facilitare le operazioni delle armate alleate sulle rive del Po, nel momento in cui l’attenzione degli austriaci rivolgevasi verso il settentrione della Lombardia.

Giulay non volendo lasciarsi trarre in errore da un tale stratagemma pubblicò un proclama ai Lombardi ammonendoli di tenersi tranquilli, e minacciandoli del giudizio statario e d’ogni sorta di rappresaglia nel caso di una sollevazione.

Potendo divenire pericoloso di lasciare Garibaldi invadere la Lombardia suscitando la rivoluzione, ed avendo Giulay una grande armata di fronte, pensò bene questi di ordinare al tenente maresciallo Urban, che si recasse a Milano e di la a Comò con tutte le truppe disponibili.

Diffatti la comparsa di Garibaldi aveva fatto un immensa sensazione; erasi sollevato tutto il circondario di Lecco è della Valtellina. Frattanto Urban giungeva a Monza dove potè raccogliere le sue truppe che ascendevano a circa 10,000 uomini.

Nei dintorni di Como ebbe uno scontro con una parte delle truppe di Garibaldi. Il distaccamento dei Cacciatori delle Alpi che si batté era probabilmente formato di giovani appena ingaggiati e però venne disfatto, quindi quei giovani fuggiaschi empierono di spavento i dintorni. Il governatore della Lombardia trovò quindi la felice occasione di strombazzare uno dei soliti proclami per fulminare col giudizio statario Como, Varese e le altre borgate insorte. Eccone il testo:

Manifesto del tenente maresciallo Andor Melczer di Kellemes governatore militare della Lombardia.

«Sento che alcuni malintenzionati traggono partito da misure militari e mosse strategiche delle truppe per diffondere voci allarmanti ed indurre le popolazioni ad atti sconsiderati, come per esempio a convegni in massa in. singoli luoghi. Mentre rammento, che gli autori e propagatori di voci allarmanti incorrono nel rigore delle leggi militari, esorto le popolazioni a non lasciarsi fuorviare da siffatti rumori né indurre a passi inconsiderati, essendo che si sono già prese tutte le più efficaci misure per mantenere l’ordine legale e ristabilirlo ovunque venisse: turbato, per cui i trasgressori delle leggi non potrebbero che imputare a sé stessi le gravi conseguenze della loro contravvenzione.»

Ad ingrossare le sue file il generale Garibaldi ordinava la formazione della guardia cittadina.

Urban si dipartiva quindi da Monza colla colonna principale per Varese.

Garibaldi intanto ponevasi in ritirata. Partì da Como, fiancheggiò i confini del Canton Tìcìdo, il Lago di Lugano, quello di Varese e si diresse verso Laveno, porto austriaco sul Lago maggiore, fortificato e guarnito, che sorge sul margine d’un ampio seno, rimpetto ad Intra ed alle isole Borromee. Vuoisi che ne provenga il nome da un Tito Labieno che fu imperatore o più tosto dallo storico Labieno, di cui le storie furono condannate. Due volte diede Garibaldi l’assalto a quelle fortezze senza successo. In situazione alquanto disperata ebbe la fortuna che l'avanguardia dei francesi entrò in Novara, per cui Giulay ordinando la ritirata, Urban evacuò Varese, né ebbe campo di riscuotere per intiero la contribuzione che aveva imposto a quella città nell’ebbrezza dei suoi trionfi, colla seguente intimazione:

«D’ordine di S. E. il sig. T. M. barone Urban la città di Varese, per giusta punizione del suo contegno politico, viene castigata colla seguente contribuzione ritenendo che essa debba ricadere tutta sopra il ceto possidente dei paese come quello che è più colpevole e quindi deve essere-ripartita esclusivamente sull'estimo.

«La contribuzione consiste in 3,000,000 di Lire austriache, le quali devono essere pagate il primo milione entro due ore, il secondo entro sei ore, il terzo entro 24 ore sempre dalia pubblicazione del presente.

«Inoltre dovranno essere forniti N. 300 buoi, tutto il tabacco ed i sigari che si trovano nel paese, nonché tutto il corame per l’uso della truppa.

«Infine saranno consegnati 4 0 possidenti del luogo da servire come ostaggi in garanzia dell’esecuzione di quanto è sopra ordinato e della pubblica tranquillità.

«Si lusinga il tenente maresciallo, che la popolazione non sarà restia a prestarsi alle dette contribuzioni per non esporsi alle conseguenze sinistre in caso della benché minima opposizione.».

Garibaldi abbandonò l'idea di impadronirsi di La veno e marciò di nuovo sopra Varese dove giunse poiché gli austriaci se ne erano partili

È Varese nella provincia di Como tra il Verbano ed il Ceresio cinta d’ameni colli. Ha le vie adorne di portici, ha interessanti edifizi ed uno dei più antichi ospedali della Lombardia. È città manifatturiera ed ha attivo commercio colla Svizzera e col Piemonte. Sono abbelliti i suoi dintorni di ricchissime ville ed ha un santuario della Madonna a cui si accede per una via tortuosa cui fiancheggiano 4 4 cappelle dipinte dai migliori artisti della scuola lombarda del secolo XVII. É patria dei pittore Cairo. Varese, nella guerra attuale, fu la prima città di Lombardia sottratta al dominio austriaco. Il governo austriaco era decaduto e subentrava quello del magnanimo Re Vittorio Emanuele di Sardegna in cui nome reggerebbero le autorità a norma delle istruzioni che loro verrebbero comunicale.

Già da più giorni avevano fatto mostra i piemontesi di gettare un ponte volante sul Po presso Valenza, ad. impedirne i tentativi tuonò l’artiglieria austriaca, e varii pontoni vennero in questo modo distrutti. Avendo gli austriaci sgombrato da Vercelli, venne questa città occupata dalla divisione Cialdini, dei quale crediamo opportuno di dare alcuni cenni biografici:

«Enrico Cialdini nacque nella villa di Castelvetro di Modena il di 10 agosto 1813 da Giuseppe e da Luigia Santyan y Velasco.

Suo padre si trasferiva più tardi ad abitare in Reggio io qualità d’ingegnere nell'ufficio d acque e strade. Enrico cominciò quivi la sua istruzione presso i Gesuiti, ma sentendosi avverso alle dottrine dei Reverendi Padri, venne cacciato dalia scuola perché indocile a qualsiasi ammonizione. Dovette quindi recarsi a Parma a completare i suoi studi

Gli avvenimenti del 1831 lo eccitarono a nuova vita, e si arrolò a Reggio nelle milizie nazionali, volendo combattere per l'indipendenza nazionale. Ma volte alla peggio le condizioni dei liberali, dopo essersi battuto a Rimini, riparò ad Ancona donde si recava a Parigi.

La lotta politica dei Portogallo invase il suo spirito ed a combattere una nuova guerra di libertà ingaggiavasi ad Oporto, qual granatiere, in un reggimento di fanteria nel quale coi soldati d’altre nazioni trovavansi molti italiani.

Prese parte gloriosa in tutti i combattimenti che ebbero luogo in quella lotta fino alla capitolazione di Evora Monte che pose fine alla guerra.

Veniva destinato il suo reggimento a sorvegliare al confine i movimenti dei Carlisti che si agitavano nella Spagna pel testamento di Ferdinando VII, ma passato col suo comandante al servizio della reggente, giunse in Ispagna e fu nei Cacciatori d'Oporto. Avendo date continue prove di valore, ebbe molte decorazioni e cospicue distinzioni. Nel 1843 fu aiutante di campo di Narvaez nel tempo dei celebri pronunciamientos, ed era presso Madrid quando questa capitale si era armata a favore del reggente Espartero; fu istituita una Guardia Civile, entrò in questo corpo col grado di comandante nel 1844. Fu capo di legione nel 1847. Il duca de Ahumada suo comandante, lo inviava a Parigi per studiare l'istituzione della gendarmeria francese onde perfezionare la spagnuola. Cialdini trovavasi a Parigi nel 1848 allo scoppiare della rivoluzione ed alla vigilia della guerra d’Italia.

Appena seppe, che Carlo Alberto scendeva in campo a sostenere colle anni il partito dell'indipendenza d’Italia, si sciolse da ogni impegno e corse ad offrire all’Italia i suoi servigi.

Senonché trovato a Modena già a ili da lo il comando delle truppe regolari, e mal ricevuto a Milano, dove il Governo provvisorio ricusò di giovarsi di lui, corse a Vicenza, dove Durando aveva munito i monti Borici d'opere difensive onde impedire la congiunzione di Nugent con Radetzkv. Il giorno lo giugno impegnossi il combattimento ed il fuoco era spaventevole da tutte le parti; Cialdini fu gravemente ferito e gli si pronosticarono poche ore di vita.

Intanto cadde Vicenza, e Cialdini affidatosi alle cure dell'avvocato Pasini, dopo molte settimane potè alzarsi dal letto.

Dopo il disastro di Custoza, giunto Cialdini negli Stati sardi ebbe il comando di un reggimento formato di volontari parmensi e modenesi.

Militò nel 1855 in Crimea sotto La Marmora, e finita la guerra, essendo a Torino, venne nominato Aiutante del Re; alla morte dei generale Alessandro La Marmora ebbe la carica d’ispettore dei bersaglieri ed altre incombenze gli si affidarono. È a lui che si deve l’organamento dei Cacciatori delle Alpi.

Dopo i gloriosi combattimenti di Palestro nel 1859, doveva secondare alcuni movimenti di Garibaldi al Chiese. Fatto l'armistizio di Villafranca venne a Brescia dove rimase fino alla, formazione dei corpi d’armata che avvenne nel 1860 dopo l’annessione dell’Italia Centrale al Regno di. Vittorio Emanuele.

Ai moti d’insurrezione delle Marche e dell’Umbria, Re Vittorio deciso di mandarvi le sue truppe a restaurarvi l‘ ordine, fece Cialdini parte di quella impresa, gli venne affidato un corpo d'armata e da Rimini doveva entrare nelle Marche Ad impedire che Lamoriciére si getti sopra Ancona, Cialdini occupate le alture di Osimo e di Castelfidardo, respinge Lamoriciére, fino ad una disperata fuga.

Sbarcato Garibaldi a Marsala ed incalzato dalla vittoria ebbe pure colà a compagno il generale Cialdini al quale per i brillanti fatti d’armi di Palestre, Castelfidardo, Isernia e Gaeta, vincitore sempre, gli presentarono i suoi ammiratori una corona d’alloro.

Dopo occupata Vercelli, s'avviò la divisione Cialdini verso Villata e Borgo Vercelli, dove scontratasi in alcuni battaglioni austriaci della brigata Gablenz li costrinse ad una pronta ritirata. Seguì un'irruzione di Zobel con qualche successo, ed altre dimostrazioni sulla bassa Sesia

Lo stesso Vittorio Emanuele s'avanzò colla divisione Castelborgo da Casale per Terranova, e scambiati alcuni colpi di cannone occuparono i piemontesi alcune isole.

Anche la divisone Fanti che si stabiliva alla destra della Sesia rimpetto a Candia impadronivasi di alcune isolette della Sesia nei dintorni di Terrasa.

Meno qualche cannoneggiamento degli austriaci allo scopo di impedire ai piemontesi la costruzione di un fiorite volante, passavano i giorni in' una inazione quasi completa nelle due armate.

Alloraquando si convenne nel piano di Napoleone, e cioè, che alla Sesia le tre divisioni sarde che erano colà stabilite facessero una dimostrazione colla fronte verso gli austriaci e frattanto il resto dell'armata francese stabilita alla destra del Po procedesse da Casale a Vercelli da colà marciando sopra Novara.

Divisa così l’armata in due grandi masse, prende posizione l’ala destra al di sotto di Vercelli e l’ala sinistra presso Novara Da Novara questa s’aprirà il passaggio per raggiungere il Ticino e la strada che conduce a Milano, ivi Giulay o si ritira, o ad impedire la mossa offre battaglia, e la riunione delle due grandi masse può essere effettuabile; nel primo caso nulla si oppone, nel secondo si ripiega la destra sulla sinistra o viceversa a seconda della maggiore o minore vigoria degli attacchi di Giulay.

Principiata adunque la marcia di Cialdini nel 28 di maggio e collocatosi sulla sinistra della Sesia, costruiti dei ponti volanti, cominciò il passaggio delle tre divisioni piemontesi Fanti, Durando e Castelborgo, e queste tutte assieme dovevano operare un altaico generale da Vercelli contro l’estrema ala destra degli austriaci formata dalla divisione Lilia che componevasi di due brigate ed occupava Casalino, Confienza, Vinzaglio e Palestro. Cialdini doveva attaccare il punto principale Palestre. Questo borgo venne dato alle fiamme da Carlo Emanuele il grande, duca di Savoia, in odio agli spagnuoli che l'occupavano, e divenne famoso dopo la splendida battaglia che siamo in procinto di narrare. Giace sopra un altura che s’inchina alquanto scoscesa a settentrione ed ai lati della quale impediscono le risaie lo svolgersi delle truppe. All’altura però è possibile uno scontro, ma per giungervi è duopo passare il ponte della Roggia Gamàra, fossato che comunica colla Sesia. Questo ponte era occupato dagli avamposti della debole guarnigione di Palestre.

Un battaglione di bersaglieri alla testa detta divisione di Cialdini sorprese sul ponte gli austriaci e li fece prigionieri. Due battaglioni poterono quindi passare il ponte e muovere all'assalto di Balestro che era. guardato solo dal battaglione granatieri Arciduca Leopoldo.

Questo battaglione oppose una resistenza energica, ma Cialdini potè passare il ponte col resto della brigata Regina che era alla testa della sua divisione, e fece avanzare 4 cannoni.

Balestro fu preso e posto in fuga il battaglione nemico. Rafforzati gli austriaci tentarono una riscossa, ma soccombettero alla superiorità dei piemontesi.

Presso Vinzaglio cominciava alquanto più tardi il combattimento, situato in posizione quasi uguale a quella di Palestro, e presso un piccolo ramo della Roggia Gamara. Quivi pure le proporzioni numeriche dei combattenti erano le stesse; tuttavia la resistenza degli austriaci fu più ostinata. Durando non potè valersi dei due reggimenti di cavalleria pesante che contava nella sua divisione perché il terreno è montuoso, nullameno s’impadronì della borgata con poca perdita.

Sopra Casalino dirigevasi Fanti; scontratosi per via in alcuni drappelli austriaci posti a vedetta, facilmente li respinse, ma la sua marcia venne rallentata perché dovette scostarsi dalla via diritta. In Casalino s’ordinò in due colonne, una delle quali avanzatasi sopra Vinzaglio prese parte alla mischia, occupò l'altra Gonfienza che era libera di nemici. Sulla sera entrava Castelborgo in. Casalino che era già sgombrato dagli austriaci. Quel giorno istesso Vittorio Emanuele stabiliva in Torrione il suo quartiere generale.

Il tenente maresciallo Lilia era privato della sua riserva perché in quel giorno era spiegala a cordone. Entrato nel suo quartiere generale a Robbio dove aveva puranco fatto ritirare le sue truppe, spedi un rapporto dettagliato al tenente maresciallo Zobel, dell'attacco improvviso dei piemontesi.

Zobel risolvette di tentare nel giorno appresso la riconquista di Balestro e di Coutienza. Rafforzò le sue truppe d’una brigata del principe Liechtenstein, che era accampato fra l’Agogna e Garlasco.

A Robbio il lenente maresciallo Zobel ebbe una conferenza con Lilia nella quale fu deciso di richiamare, perché si concentrino a Robbio, le due brigate Weigl e Dondorf.

Diede quindi le disposizioni opportune per l’attacco. Venne per conseguenza spiegato il piccolo corpo di truppe che ammontava a 15000 uomini sopra una estensione di più di una lega tedesca.

Gli austriaci potevano calcolare di avere di fronte almeno 20000 uomini; oltrediciò trovavansi a poca distanza altre forze degli alleati.

Cialdini nella notte dal 30 al 31 maggio si era fortificato in Palestro, che proteggeva in tal modo la linea della Sesietta Vennero i piemontesi attaccati in sul mattino dagli austriaci e nello stesso tempo cominciò il fuoco su tutta la linea.

Dondorf ad onta di un fuoco ben nutrito, che gli opponeva Cialdini, penetrò sino alle case di Palestro, ma dopo poche ore di combattimento fu respinto colla perdita di 750 uomini.

Szabo s’avanzava felicemente, allorquando Cialdini chiesti rinforzi al 3. reggimento degli zuavi ed alla divisione Renault preso di fianco il nemico potè isolarlo.

Il Rapporto dell'esercito francese al ministero della guerra dava la relazione dettagliata di tutto il combattimento e lo riportiamo a più esatta intelligenza del benigno lettore.

Palestro 31 maggio 1859.

«Verso le nove ore del mattino il 3.° reggimento degli zuavi veniva a stabilire i suoi bivacchi sulla destra, di questo villaggio, e sulla sponda destra del canale della Cascina avendo di fronte questo ostacolo allorquando alcuni colpi di cannone, cui tenne dietro una fucilata molto viva impegnata con bersaglieri, e con altre truppe sarde spiegate dinanzi il 3.° zuavi in bersaglieri annunciarono che il nemico si avvicinava. Il colonnello. fece prendere le armi al suo reggimento e lo portò a circa 500: metri sulla sua destra, dalia parte in cui era più gagliarda la fucilata.

«Gli austriaci, che avevano preso l’offensiva, si avanzavano rapidamente.

«Primieramente quattro compagnie furono disposte in bersaglieri tra le messi alte più di un uomo, ed il reggimento fu formato in colonna d'attacco.

«Tosto la fucilata s'impegnò assai vivamente. In questo momento il colonnello scoperse che una forte colonna appoggiata dall’artiglieria, procurava di girare la posizione, non meno che il villaggio di Palestro.

«Tutto il reggimento fu allora scagliato contro le masse nemiche.

«Dopo aver passato rapidamente il canale che era di fronte, profondo circa un metro, gli zuavi assaltarono risolutamente il nemico alla baionetta e gli tolsero tre pezzi di cannone che mandavano un fuoco micidiale.

«Il nemico, veggendo gli zuavi sulle alture in cui erano collocati i cannoni, se ne fuggì in disordine. Altri due pezzi di cannone che aveva all'indietro furono tolti al pari dei primi.

«Da quel ponto la colonna d’attacco s«i scagliò sul grosso del nemico nella direzione del ponte di Contieni, sulla riviera della Busca.

«Questo ponte era fortemente difeso da due pezzi d’artiglieria:

«Gli austriaci, che imprudentemente avevano impegnata una parte delle loro masse in avanti di questa riviera furono violentemente respinti dall'urto impetuoso dei nostri soldati. Essi furono quasi tutti distrutti, sondo nell'impassibilità di ritirarsi.

«Più di 600 restarono nostri prigionieri, ed un gran numero, che si può fare ascendere a 800, si annegarono tentando di passare la riviera della Busca. Molti altri foro no Uccisi sul campo.

«Benché il ponte della Busca fosse chiuso con due pezzi di cannone e i cavalli fossero attaccati a questi pezzi (tre dei quali erano uccisi), il colonnello fece passare alcuni uomini sull’altra spanda, e dopo aver formato una colonna assai forte, continuò il suo movimento in avanti.

«Il nemico, sostenuto dalle sue riserve, continuò la ritirata in buon ordine abbandonandoci ancora due pezzi di cannone.

«Fu inseguito fino alla riviera Rizza-Biraza al villaggio di Rebbio.

«Colà si arrestò il movimento in avanti. Il nemico già lontano, continuava ad eseguire rapidamente la sua ritirata.

«Il 3.° zuavi ha preso nove cannoni, fatti circa 700 prigionieri, tra i quali nove ufficiali.

«Dal canto nostro le perdite furono sensibili

46 morti, tra i quali un capitano.

229 feriti, tra i quali 15 ufficiali;

20 scomparsi' (questi uomini caddero nella riviera della Bizza-Biraza facendovi precipitar entro gli austriaci)»

Dalla loro posizione presso Alessandria, recavansi a Casale il corpo del maresciallo Niel e la Guardia imperiate, e Napoleone trasferiva a Vercelli il suo quartiere generale. Niel poiché passò la Sesta, occupato Borgo Vercelli, fino, presso Orsengo arrestassi, onde aspettare le nuova sugli scontri di galestro, e continuò la sua mossa fino a Novara, la quale era già evacuata dagli Austriaci.

Mac Mahon pervenuto anch’esso a Vercelli passò la Sesia, collocandosi dietro il corpo di Niel; la Guardia imperiale segui la medesima direzione e giunse anche essa a Novara, dove si collocò dietro i corpi di Niel e Mac Mahon.

Al 2 giugno trovavansi concentrati presso Novara circa &0000 uomini, attendendo un attacco da parte degli austriaci.

Le quattro divisioni Piemontesi che si erano battute sulla Sesia s’avanzavano verso l’Agogna, fiume che scaturisce dal Mergazzolo, monte della riviera del lago di Orta e mette in Po alla Girola.

'Tosto occupata Novara dalle sue truppe Napoleone IH lascia il suo quartiere generale di Vercelli, e si trasporta, in Novara con tutta la sua casa militare. Avviene il suo ingresso in mezzo alle acclamazioni del popolo che accorre in folla onde salutare il liberatore d’Italia. Egli percorre i bivacchi, esamina le posizioni e finalmente trovasi sul luogo medesimo in cui nel 1849 fu data quella battaglia nella quale Carlo Alberto sostenne una lotta disperata. Compiuto che fu il concentramento delle armate alleate intorno a Novara, fu riferito al generale Zobel che masse considerevoli marciavano di Vercelli a Novara per cui partecipando questa notizia a Giulay gli insinuava di attaccare gli alleati. Gli austriaci avevano 75,000 uomini.

Giulay però non volle acconsentire e ritenne miglior partito di ritirarsi sulla sponda sinistra del Ticino. L’avanguardia del primo corpo d'armata austriaco era giunta per Milano a Magenta ed al Ticino, il rimar niente di quel corpo la seguiva. Giulay mandava l’ordine di sorvegliare i passaggi del Ticino dinanzi:a Magenta ed all'insù di questa, dove erano due ponti di passaggio l’uno presso Turbigo, l’altro presso Tornavento.

Alla destra del Ticino, sulla strada maestra da Milano a Novara, giace il piccolo borgo di S. Martino. Ivi un ponte di pietra della ferrovia conduce alla Sinistra del fiume. Clam Gallas fece minare quel ponte, e retrocesse fino alla sponda orientale del Naviglio Grande. collocandosi dietro questo canale.

La distruzione del ponte non fu interamente compita. Gli alleati frattanto non essendo concentrati non ritennero opportuno passare il Ticino per una messa immediata, ma Napoleone volle almeno tentare di impadronirsi dei passaggi. A quest'uopo spediva per Trècate un corpo volante contro II ponte di 8. Martino e fece avanzare l’intera divisione dei volteggiatori della guardia per Galliate a Turbigo comandata dal generale Camon.

Questi giunto verso la sera del 9 giugno presso II Ponte di Turbigo fece passare alla sinistra una parte della sua divisione e cominciate la costruzione di un ponte di cui l’esecuzione venne diretta dal generale Leboef.

I primi che passarono, non incontrarono alcun nemico e però poterono occupare il Naviglio Grande, sulla strada, da Ponte di Turbigo a Castano, quindi al villaggio stesso posto alla sponda orientale del Naviglio Grande ed all’estremità della vallala del Ticino. Per assicurarsi da una sorpresa, spinsero i loro avamposti sulle due rive del Naviglio Grande.

Essendosi compiuto nell'indomani il ponte volante sul Ticino, il resto della prima brigata dei cacciatori passò alla riva sinistra, lasciando alla. destra l'altra brigata; mentre in seguito ai rapporti che vennero fatti all’Imperatore dei Francesi sull'esito di queste inarca, fece questi avanzare verso i due passaggi del Ticinodue divisioni di fanteria del secondo corpo d’armata,

Il generale Mac Mah ori comandante la divisione Mottenouge, partito da Novara e giunto in sui meriggio a ponte di Turbigo fece cominciare il passaggio del Ticino. Di questo valente generale, che ebbe tanta, parte nella battaglia di Magenta, daremo la biografia dopo la narrazione di quella battaglia.

Poiché il generale Mao Mahon aveva varcalo il Ticino si recò al villaggio di Turbigo, dove giunto scorse una colonna austriaca che dai dintorni di Buscate si avvicinava verso Robecchetto, villaggio solidamente costrutto ed atto alla difesa.

Man Mahon risolvette di assalire il villaggio, nell'intento di acquistare un punto avanzato che facilitasse la marcia sopra Buffalora e Magenta, e potesse attaccare ai fianchi le divisioni austriache collocate colla fronte verso il Ponte di San Martino, attraverso la strada da Novara Milano.

Dati gli ordini opportuni il generale Mac Mahon oe affidò l’esecuzione al generale Motterouge.

Questi alla testa di tre battaglioni di bersaglieri algerini rinforzali da una batteria del corpo di riserva cominciò l’assalto di Robecchetto.

«La testa di colonna della 4. divisione del 2. corpo» cosi si esprime il suddetto generale Mac Mahon nel suo rapporto all'Imperatore, passava il ponte verse un’ora e mezza.

«Nel momento in cui arrivai a Turbigo io aveva trovato una brigata di questa divisione sulla sponda destra del Ticino che occupava il villaggio ed i suoi accessi, in modo da assicurarci il libero, possesso del ponte e sorvegliava la vallata all'ingiù del passaggio.

«L’altra brigata della divisione Camon era sulla sponda destra.

«La testa di colonna della 4.(a) divisione del 2.° corpo passava il ponte verso un’ora e mezza. Nel momento in cui, essendomi portato in avanti di Turbigo, esplorava il terreno e visitava le alture di Robecchetto per istabilirvi le mie truppe, improvvisamente mi accorsi che aveva alla distanza di circa 500 metri una colonna austriaca, che sembrava venire da Buffalora e marciava sopra Robecchetto, certamente coll'intenzione di occupare quel villaggio.

«Robecchetto si trova alla sponda sinistra del Ticino all’est ed a 2 chilometri da Turbigo. È un villaggio considerabile che facilmente può essere difeso, e la cui occupazione sarebbe certamente utilissima ad un nemico che venisse da Milano o da Magenta colf intenzione di chiudere il passaggio a Turbigo. Questo villaggio giace sur una vasta alinea che domina da 15 o 20 metri la vallata del Ticino. Vi si giunge, uscendo da Turbigo, per due strade praticabili all’artiglieria, una che inette capo ad una delle sue vie da parte del sud del villaggio e l’altra per la parte ovest.

«La strada che viene da Magenta e da Buffalora vi penetra per la porta est, Questa era la strada battuta dalla colonna austriaca.

«Io ordinai al generale de la Motterouge, il quale non aveva seco che il reggimento dei bersaglieri algerini, mentre gli altri suoi erano ancora sulla sfonda sinistra della riviera, di spingere i suoi battaglioni di bersaglieri sopra Robecchetto e di disporli iti tre colonne d'attacco nel modo seguente:

«Il 1.° battaglione, che forma la destre, in colonna per divisione, preceduto da due compagnie di bersaglieri destinati a portarsi Sul villaggio attaccandolo dalla parte Sud;

«Il 2.° battaglione che forma la sinistra; disposto in egual modo, destinato a penetrare pel villaggio attaccandolo per la parte ovest;

«Il 3.° battaglione, al centro e un poco dii' indietro del 1.° e 3.° scaglionato in riserva e pronto ad appoggiare i due altri battaglioni, era inoltre disposto in colonna e preceduto da bersaglieri.

«Le tre colonne marciando come per ispiegarsi, dovevano, al comando generale, convergere sopra Robecchetto penetrandovi per la strada principale che lo attraversa dall’ovest all’est, e procurare inoltre di girarlo per la parte est in modo da minacciare la ritirata del nemico.

«Mentre il generale de la Motterouge si disponeva ad eseguire questi movimenti col reggimento dei bersaglieri algerini, lo stesso prendeva le disposizioni necessarie per far giungerò presso di lui gli altri reggimenti della sua divisione. Il 15° di linea, secondo reggimento della brigata, riceveva l’ordine di marciare sulle treccie del reggimento dei bersaglieri algerini.

«La 1.(a)brigata, composta dei 65.° e 70.° di linea, riceveva un poco più tardi l'ordine di portarsi sul villaggio di Robecchetto per la strada di Castano onde fiancheggiare l’attacco convergente eseguito dai bersaglieri algerini.

«Verso le due il generale de La Motterouge marciava co’ suoi Ire battaglioni sopra Robecchetto seguito da una batteria della riserva generale dell’annata, diretta in persona dal generale Auger,

«Le colonne dei bersaglieri algerini animati dal maggior vigore alla voce del generale de La Motterouge ed a quella del loro colonnello, marciavano rapidamente sopra Robecchetto senza far fuoco.

«All'Ingresso del villaggio i nostri bersaglieri, accolti da una vivissima fucilata, si precipitarono, a testa bassa, sopra gli Austriaci che ne difendevano gli accessi. Solamente nell’interno del villaggio essi fecero fuoco e poscia si slanciarono tosto alla baionetta sopra tutti quelli che tentavano di resistere e di chiuder loro il passaggio. In dieci minuti il nemico era sloggialo dal villaggio ed in ritirala sulla strada per la quale era venuto,

«All’uscir del villaggio esso volle far uso della sua artiglieria e ci mandò una dozzina di colpi a mitraglia che non arrestarono minimamente lo slancio dei nostri soldati.

«La nostra artiglieria rispose con buoni colpi che sbaragliarono le colonne nemiche e le posero in compiuta rotta.

«I bersaglieri le inseguirono correndo fino a due chilometri al di la di Robecchetto e ne uccisero un gran numero.

«Il generale Auger, facendo prendere alla batteria quattro successive posizioni e felicemente scelte, fece loro molto male.

«In una di queste posizioni il generale Auger, parendogli di scorgere tra le messi un pezzo austriaco, che astento seguiva di movimento della ritirata nemica, si precipitò di galoppo sopra di esso e se ne impadronì. Vicino al pezzo giaceva a terra il comandante della batteria che aveva il corpo diviso in due parti dà una delle nostre palle.

«Mentre succedeva ciò a Robecchetto, una testa di colonna di cavalleria austriaca si presentava sulla nostra destra, venendo da Castano. Io condussi ad incontrarla un battaglione del 65° e due pezzi di cannone. Due palle bastarono per farla decidere a ritirarsi precipitosamente.

«Il nemico soffrì perdite considerevoli; il campò di battaglia è coperto dai suoi morti e da una rilevante quantità di effetti di ogni specie che lasciò in nostro potere, cioè effetti di accampamento e sacchi completi da esso gittati sul luogo del combattimento per fuggire con maggior agilità. Noi abbiamo raccolto armi, carabine e fucili, ma abbiamo fatto pochi prigionieri, la quale circostanza viene spiegata dalla qualità del terreno sul quale ebbe luogo l’azione.

«Per nostra parte abbiamo un capitano ucciso, (Quattro ufficiali feriti, tra i quali un colonnello di stato maggiore, 7 Soldati uccisi e 38 feriti, tra i quali quattro, come mi fu detto, dei volteggiatori della guardia, ohe ebbe i suoi bersaglieri impegnati col nemico al di qua di Robecchetto.»

Mac Mahon non inseguendo gli austriaci e stabilitosi presso Robecchetto colla divisione Motterouge, e la divisione Camon. a seconda delle istruzioni ricevute, doveva impossessarsi del passaggio di Turbigo.

Erano quindi gli alleati in possesso dei due passaggi del Ticino, cioè di Turbigo e S. Martino, e nulla opponevaei al loro concentramento mentre gli austriaci s’erano ritirati in massa sulla sinistra del Ticino.

L'imperatore Napoleone decise quindi di passare il Ticino con tutta l'armata, calcolando di venire in tal guisa a battaglia sulla riva sinistra e precisamente coi corpi austriaci stabiliti sulla strada che conduce a Milano. Doveva effettuarsi in due colonne questo passaggio, l'ala destra destinata per S. Martino, e la sinistra per Turbigo; in questa entravano due divisioni piemontesi cioè Fanti e Durando.

A Novara e Galliate quale riserva generale restavano altre due divisioni piemontesi col corpo di Niel.

Mentre Mac Mahon sarebbe marcialo da Turbigo su Buffalora onde attaccare al fianco ed alle spalle gli austriaci stabiliti dietro il Naviglio Grande, Napoleone avrebbe operato contro la fronte degli austriaci inoltrandosi alla testa dell'ala destra sul ponte di & Martino..

Qualora tutte le truppe di cui si componevano le due colonne prendessero parte attiva nella mischia potevasi calcolare, che l’ala destra avesse l divisioni men tre erano 5 quelle della sinistra compresa l’artiglieria e la cavalleria, in tutto 90,000 uomini.

É Magenta, un borgo della provincia di Milano che conta 4000 abitanti. È antica e si crede fondata dall’imperatore Massimiliano Erculeo. Federico Barbarossa la saccheggiò nel 1167, e la battaglia che siamo per narrare fu tale una sconfitta per gli Austriaci per cui dovettero evacuare Milano e la Lombardia.

Epperò sarà di sommo interesse al lettore di conoscere il campo sul quale ebbe luogo quel fatto memorando. Lo togliamo dalla Guerra d'Italia del Rustow, che ne dà fra tutti gli storici contemporanei la più esatta descrizione.

«I confini di esso si possono rappresentare esattamente con'un’elisse il di cui asse maggiore descriva una linea da Cuggiono a Robecco, e l’asse minore una linea dal ponte di San Martino sino al villaggio di Magenta.

«Da Trecate passando il Ticino pel ponte di S. Martino, nel qual punto il fiume è largo circa 350 passi, si può avanzarsi su Magenta, o per l'argine della ferrovia non per anco fornita di rotaie, o per la strada postale che giace a mezzodì della ferrovia.

«D'ambi i lati della strada stendonsi praterie che in tempo di siccità sono facilmente praticabili, ma non del lutto dopo le pioggie; al di la di esse e specialmente al lato sud della strada, sorgono fitte boscaglie. Dopo breve cammino si discende nella vallata del Ticino che si stende poco più di 4000 passi, il di cui lembo estremo s‘ innalza da 50 a 60 piedi sul livello del fiume:

«Lungo questo lembo della vallata scorre il gran canale detto Naviglio Grande, ritenuto da argini ripidi e coperti di boscaglie, e si dirige per un tratto ai piedi del lembo della vallata, a settentrione della strada, indi prosegue il corso al sud di essa, fra le alture del lembo della vallata nelle quali è scavato il suo letto.

«Quanto più il Naviglio Grande si volge verso sud, altrettanto si allontana dal Ticino; infatti, presso Remale, n’è distante circa 2000 passi, presso Buffalora 3000, presso Robecco più di 4000.

«Al di la del Naviglio Grande cioè sulla riva orientale del medesimo, il terreno va gradatamente elevandosi, ed offre allo sguardo al di qua del Ticino l’aspetto d’un grandioso anfiteatro, il di cui semicerchio è delineato dai tre villaggi di Buffalora Magenta, e Robecco.

«Questa è una descrizione un po’ rozza del maestoso quadro che qui presenta la natura. Il soggetto che trattiamo non ci permette di darne più d’un abbozzo. Ci importa sopratutto di porre in rilevanza che al lato sud della strada da Trecate a Milano all’ovest del Naviglio Grande s'incontra l’argine allargato, sì che presso al(!)a strada si stende per circa 300 passi, presso Ponte Secchio di Magenta 800, e presso Robecco quasi 3000.

«Per designare brevemente questo tratto di terreno, lo chiameremo pianura di Carpenzago; sebbene questa parola noi significhi perfettamente.

«Il Naviglio Grande è traversato da molti ponti; sei di questi giacciono sul tratto di canale che più ci interessa, e sono, quelli di Bernate di Buffalora, i due di Ponte nuovo di Magenta l'uno sul tronco ferroviario; l'altro parallelo a questo, e attraversato dalla strada maestra; il Ponte vecchio di Magenta, e infide quello di Robecco.

«Per giungere dal ponte di S. Martino a quello, di Vernate è d’uopo seguire per un tratto fino a Buffalora la' strada maestra, e al di la di questo borgo continuare il cammino su sentieri praticati verso le praterie; fra il ponte di S. Martino e quello di Buffalora oltre la strada maestra ve n’è una di fianco che parte dall'argine della ferrovia; e infine una terza lungo il Naviglio, praticata sull’argine occidentale. Volendosi dirigere da Ponte nuovo di Magenta al ponte della ferrovia, si segue l'argine della ferrovia che come già accennammo è ancor sprovvisto di rotaie, pel tratto fra il Ticino ed il Naviglio. Ad ambi i lati dell’argine della ferrovia s'innalzano vasti edificii di pietra due sulla sponda occidentale del Naviglio, e due sull'orientale. Questi quattro edificii formano la stazione e la dogana e portano il nome del ponte presso il quale sorgono; cioè di Ponte nuovo di Magenta, il fronte della strada maestra di Ponte nuovo di Magenta era stato distratto dagli Austriaci. Quanto al Ponte vecchio di Magenta vi si giunge o per un sentiero traverso le praterie, che avanzandosi per 1500 passi a ponente di Ponte nuovo, e alla destra della strada maestra s’inolttra poi per 2500 passi al sud di questa sul lembo della vallata del Ticino, e nella pianura di Carpenzago; o per questa stessa pianura. Per la quale pure e per quella via si giunge anche al ponte di Robecco. All'est ed al nord del Naviglio, il terreno del campo di battaglia, è coperto in gran parte di vigneti, fra i quali trovansi qua. e la frutteti e campi di grano; sebbene ivi non sorgano né boschi né boscaglie, pure la visuale è limitata da ogni lato da cascine isolate e da villaggi e borgate, che coi caseggiati di pietra e i cimiteri sono a poca distanza fra loro, e più dai vigneti, dai frutteti e dalle biade che in questa stagione dell’anno vegetane rigogliose. Di natura affatto eguale è il terreno della pianura di Carpenzago. Da quanto abbiamo esposto risulta che in quella parte del terreno del campo di battaglia posto al di la della vallata del Ticino, le vie di comunicazione son numerose, e le più, sono strade carreggiabili. Non si può dir egualmente per la cavalleria e l’artiglieria. Solo l’infanteria e specialmente i drappelli di bersaglieri possono eseguire adagio delle marcio in ordine aperto.

«Nella valle del Ticino si incontrano poche risaie e di breve estensione; esse non occupano nemmeno il vero campo di battaglia.»

In sul mattino del 4 giugno l’armala austriaca era stilata sulla linea del Naviglio Grande per Buffalora e ponte di Magenta fino a Robecco, ed erano in tutto 16 brigate pronte al combattimento. Secondo i dati degli austriaci erano in tutto circa 70.000 uomini compresa I artiglieria e la cavalleria.

I granatieri della Guardia sotto il comando del generale Wimpffen, furono i primi ad arrivare a S. Martino e la vanguardia passò subito il ponte, che era leggermente guastato, ma fattesi le occorrenti riparazioni, resse al passaggio dell’artiglieria. Il passaggio non fu contrastato, nondimeno gli austriaci spinsero da ponte nuovo di Magenta i tiragliatori ed alquanta artiglieria. Avanzatasi del pari l'artiglieria francese ebbero luogo alquante cannonate senza uno scopo preciso.

Sopravvenne la brigata Cler, il generale di divisione Mellinet ed il comandante del corpo Regnanti de Saint Jean d’Angely. Questi riconosciute le posizioni fecero cessare l’inutile cannoneggiamento e ritirare i granatieri verso il ponte di S. Martino.

Il generale Mac Mahon doveva avanzarsi da Turbige ed era probabile che si fosse già incontrato col nemico. Arrivava Napoleone al ponte di S. Martino ed impaziente attendeva il rimbombo del cannone di Mac Mahon, ma nulla si sentiva. Finalmente nelle prime ore pomeridiane tuonò il cannone nella direzione di Cuggiono e Casate quindi era da presumersi che Mac Mahon fosse entrato in azione.

Diffatti Mac Mahon aveva cominciata la sua marcia alle 10 del mattino, ma giunto ad un’ora distante da Cuggiono con un reggimento di cacciatori africani, incontrò l’inimico innanzi Casate. Ivi il generale Mac Mahon diede l’ordine di attaccare il villaggio che dopo breve combattimento fu abbandonato dagli austriaci.

Frattanto l'Imperatore dei Francesi udito il. cannone dalla, parte di Casate, fece avanzare. i granatieri, della guardia mentre gli parve giunto il momento di slanciarsi ad un assalto vigoroso sulla fronte della, posizione, austriaca.

Incaricò il generale Regnarti de Saint-Jean d’Angely di dare le disposizioni necessarie per tale assalto, ed. intanto inviava i suoi ufficiali in traccia di Canrobert e di Miei ordinando all’uno d’accelerare la marcia, di raggiungerlo al secondo.

Regnault fece avanzare un reggimento dei granatieri della guardia da S. Martino verso Buffatore, altro reggimento di granatieri avanzavasi sulla ferrovia, ed attraversando i prati, montò sul terrapieno della vallata di rimpetto a Ponte vecchio di Magenta ed assalì questo villaggio.

Il ponte di S. Martino frattanto lo passava la prima brigata dei granatieri preceduta dagli zuavi, e potè prendere posizione dinanzi Bovisa senza essere molestata da gli austriaci che occupavano Porte nuovo di Magenta. Sulla strada ed alla stessa altezza in cui trovavansi gli zuavi vennero posti in batteria due pezzi che battevano Ponte nuovo di Magenta.

Un ridotto che copriva il suddetto ponte fu preso dai granatieri e gli austriaci vennero cacciati al di la dei ponto dei Naviglio Grande. Parecchi tentativi degli austriaci per rioccupare il villaggio perduto andarono a vuoto; fecero però ostinata resistenza. Ritirati dietro il ponte sulla sinistra del Naviglio, poterono pure respingere i granatieri francesi, ma giunti all’improvviso gli zuavi, si slanciano sul ponte, ricacciano il nemico e si impadroniscono delle case occupate da essi.

Gli austriaci d'altronde bersagliavano vivamente gli zuavi e palmo a palmo contendevasi il terreno fra i combattenti per una buona mezz’ora.

Finalmente i francesi rimasero padroni del campo e gli austriaci si ritirarono, tanto più in quanto che anche Buffatore ere caduta nelle mani dei francesi.

Il generale Mac Mahon, prima ancora che la divisione Espinasse potesse appoggiare la sua ala destre faceva attaccare la posizione di Clam Gallas il quale aveva concentrate le sue forze tre Buffalora e Guzzafame.

L'assalto di Buffalora avveniva nello Stesso tempo da tutti i lati. Le due batterie poste al nord del villaggio dovettero abbandonare la toro posizione, ed il nemico fu obbligato di evacuare Buffatore, ripiegandosi in parte nella direzione di Cascina nuova.

La prima brigata Motterouge fu quella che assali alla baionetta la Cascina e superò l’accanita resistenza degli austriaci; fece molti prigionieri e s’impadronì di una bandiere; mai francesi ebbero questo trionfo a caro prezzo.

Trovavasi tuttora indietro Espinasse, non avendo ancora raggiunto Marcallo.

La marcia di questo generale era stata appena molestata, ma dopo di avere attraversato quella borgata incontrò forti colonne austriache che venivano da Magenta; figli combinò con una risoluzione molto pronta le disposizioni del combattimento. A passo forzato si reca con una brigata nella direzione di Guzzafame, e gettandosi sulla colonna che minaccia il suo fianco, la respinge sopra Magenta. Marcallo viene occupato dalla brigata del generale Gault, il quale facendo forare a feritoia le case che guardano la strada, fa praticare delle aperture onde stabilire i cannoni e sorveglia con due battaglioni di cacciatori gli accessi del villaggio.

Trovasi a fronte di una colonna nemica, e scagliando le sue truppe alla baionetta, spargono queste il disordine fra gli austriaci, sorpresi da un attacco così impetuoso. Da ogni parte s'impegnano parziali combattimenti; un ordine regolare di battaglia non lo concede la natura del terreno impigliato di gruppi d’alberi, di fossati e terre fangose.

Sulla destra si estese la brigata del generale Gastagny comandata dal generale Espinasse, il 2? zuavi si formò in battaglioni in massa, alla sinistra di questi, ai due lati di una fornace tra Marcallo e Magenta si [Misero il primo e il secondo straniero.

Gli austriaci si movevano in tre colonne da tre direzioni diverse, il 2.° zuavi si scaglia sopra una delle colonne ed aprendosi il cammino fa avanzare l’intera brigata. Nella lotta, ebbesi a deplorare la morte del colonnello de Chabrieu, valente soldato, ed amato dai suoi. Gli austriaci sbaragliati spariscono, ma si riordinano alla difesa delle macchie che coprono i loro movimenti e ricompaiono in masse più compatte. Nuovamente di fronte al nemico il generale Espinasse richiama da Marcallo 5 bocche da fuoco che erano ivi rimaste in riserva. Poste in batteria e preste a cominciare il fuoco, un ufficiale avverte il generale Espinasse, che avanzandosi gli austriaci in grandi masse, quei pezzi potevano esser presi. Ma il generale imperterrito risponde:

«Va bene, vada ai suoi pezzi il comandante della batteria e niuno si muova senza un mio segnale.».

I cannoni sono fermi e gli artiglieri ai loro pezzi; il nemico avanza sempre e pochi passi lo separano dal primo pezzo.

All’improvviso la voce del generale comanda di scagliarsi, ed il reggimento si precipita sulla colonna austriaca. Scorre il sangue, morti e feriti s’ammonticchiano confusamente, gli austriaci sono in gran numero, il combattimento ostinato eia resistenza accanita.

Si fu La Motterouge che formava col 45.° l’estrema sinistra della divisione, che tolse successivamente tutte le posizioni del nemico, che spezzato trova chiuso ogni passaggio da un cerchio di baionette. Intere compagnie abbassano le' armi, ed altre si volgono a Magenta. Con questo rapido avanzarsi e coi brillanti risultati ottenuti il generale Mac Mahon, ha tutto il suo corpo d'armata a sua disposizione. Dà ordine quindi di avanzarsi da tutti i punti sopra Magenta prendendo per direzione il campanile del villaggio.

«Il generale de La Motterouge marcia col 65.°; presso di lui v’è il 45.° e alla sua destra il 70.° I bersaglieri algerini formavano la sinistra della sua colonna. Magenta è vicina. Da tutt'i lati si veggono combattenti che invadono la ghiaiata della ferrovia. Per arrivare alla stazione bisogna passare in mezzo ad una tempesta di mitraglia che getta a terra intere fila. Ma nulla arresta l’ardore dei soldati e l’energia degli ufficiali. Nei pericoli si raffina il loro indomabile coraggio.

«La strada sulla quale si agisce è coperta di rottami, e i piedi sdrucciolano ed inciampano sopra i cadaveri ammonticchiati. Le palle colpiscono morti e viventi. Odesi d’intorno la scricchiolata degli alberi spezzati dalle palle e dalle scheggie di mitraglia. Ad ogni momento s’incontrano masse improvvise, inaspettate, che una volta respinte, ritornano ostinate, accanite e ricondotte alla pugna dai loro valorosi ufficiali; imperocché per sua parte il nemico gareggia in ardore, in risolutezza e nel disprezzo della morte. Le armi, il fumo, la polvere involgono il terreno su cui si combatte; il cielo stesso si oscura, ed il sole, come se temesse di rischiarare questa scena di carneficina, si nasconde dietro nubi ammassate.

«Ma in mezzo ai truce frastuono di guerra, alle grida de' morienti e al tuonare delle artiglierie si sente sempre il tamburo che suona la carica, si odono gli squilli delle trombe e le immense acclamazioni che precedono i grandi scontri, ultime memorie dei figli della Francia verso il loro sovrano prima di correre alla morte.»

Nel mezzo della mischia si scorge il generale La Motterouge che segna ai suoi soldati la stazione della ferrovia, è di quella che è d'uopo impadronirsi onde togliere al nemico quella prima linea di difesa, perché vi sono posti in batteria molti pezzi d’artiglieria.

Anche dal lato della divisione Espinasse la lotta è terribile, la difesa ostinata. Allora quando tutto ih corpo d’armata si spingeva sopra Magenta, il generale la seguiva colla 2.(a) brigata sostenuta dall'artiglieria che forte di 12 pezzi era riuscita a prendere parecchie posizioni. Il primo dinanzi alla sua colonna arriva egli pure all’altezza della ferrovia onde minacciare il centro del villaggio. Specialmente si distinguono gli zuavi i quali combattendo con indomabile energia, rovesciano per l’urto delle toro baionette i battaglioni nemici. Ivi però molti prodi trovano la morte, ma ciò non impedisce l’avanzarsi e tùlti combattendo quasi isolatamente senza attendere 'ordini, tengono come punto di mira il Campanile di Magenta verso il quale si convergono gli sforzi di tutti.

Il generale Espinasse passò la ghiaiata col generale di Castagny e gli ufficiali del suo stato maggiore 11 colonnello Tixier alla testa degli zuavi s’avanza risolutamente verso la via che conduce dalla ferrovia all’ingresso di Magenta, che è difeso da due pezzi di cannone intorno ai quali stanno ammassati i cadaveri.

Ma il generale Espinasse si avanza sempre, senonché il suo cavallo calpestando i cadaveri inciampa.

«È mal ferma questa terra» disse il generale e scese di cavallo. Tre ufficiali che lo attorniavano scesero pure da cavallo e sull’istante uno di essi cade colpito da una palla.

La fucilala più terribile partiva da una gran casa che formava l’angolo sinistro della strada. Quella casa era occupata da un colonnello austriaco con 300 tirolesi, i quali facevano strage col loro tiro eminentemente preciso.;

Quella casa rendeva impossibile il passaggio per cui il generale Espinasse gridò: «Bisogna impadronirsene ad ogni costo. — Zuavi atterrale quella porta.» —

Fra le palle che gli fischiavano d‘attorno il generale si avanza, gli zuavi seguendolo si lanciano con inaudita intrepidezza e scuotono la porta che resiste ai loro colpi.

Il generale fremeva nel vedere inutili i tentativi degli zuavi, e battendo coll'elsa della sua spada ad una finestra del pian terreno, gridò: «entrate per questa parte» nel medesimo istante un colpo di fucile, partito, dalla finestra alla quale egli volgeva il dorso, gli rompe, il braccio e penetra le reni. Il generale vacilla, quindi cade morto da-prode (Vedi sua biografia infine).

Gli zuavi dettero un ruggito come quello dei leoni e precipitandosi fecero in pezzi quella finestra. La casa, è presa, e quelli che la occupavano sono uccisi o prigioni.

Frattanto continuava il combattimento sugli altri punti. Da Marcallo è richiamato il generale Gault per andare sopra Magenta, e questo lasciando il villaggio sotto il comando del colonnello Castey, si avanza, e dà ordine al colonnello Braver di attaccare la destra di Magenta dove il nemico oppone una seria resistenza.

Infatti il nemico non si lascia togliere che palmo a palmo quell’importante posizione.

Ma finalmente dopo una lotta ostinata, alle grida di «Viva l’imperatore» il colonnello Braver passò anch’esso la ghiaiata, e finalmente tocca Magenta e penetra in una posizione dove si mantiene energicamente.

In questo momento anche il generale Castagny raggiunse il generale Gault.

Poco appresso passa la ghiaiata anche il generale La Motterouge sebbene sotto un fuoco micidiale.

In quegli ostinati tentativi d avanzarsi i francesi hanno a deplorare molte vittime dei più prodi fra i loro ufficiali, ma la stazione della ferrovia è in potere degli alleati, ed abbattute le barricate che ne chiudono l’ingresso.

Due pezzi d’artiglieria sono posti in batteria in uno dei padiglioni della stazione e fanno fuoco sopra una casa che rendeva impossibile l'accesso al villaggio; ed aggiunti agli altri sono in lutto trenta pezzi che tirano contemporaneamente sul campanile del villaggio e trattengono il nemico. Esso è respinto, ad ogni uscita appariscono serrate e minacciose le baionette francesi.

Fra lo scoppio dell'artiglieria ed una tempesta di fucilate il nemico comincia ad eseguire la ritirata, ma lentamente, ed esurendo ogni più immane sforzo, perché rifugiandosi nelle case, devono i francesi impadronirsi di quelle ad una ad una al prezzo dei più sanguinosi sagrifizii.

Come riporta Bazancourt un ufficiale superiore diceva: «Non si potrà mai avere un’idea di questa spaventevole lotta; di questo sanguinoso tumulto, di queste grida, di questi scoppi di artiglieria uniti alla fucilata di questa mischia furiosa ed implacabile. Serrati fra anguste strade, i nostri soldati nei loro sforzi eroici e disperati sembravano prendere le case corpo a corpo.»

Finalmente il villaggio è in potere degli alleati e sono fatti prigionieri molti distaccamenti nemici.

Il grosso dell'annata austriaca procura di mantenersi in buon ordine e giunge a Robecco Castellano e Corbetta, ma 40 pezzi di cannone piantati sulla ferrovia parallela alla direzione della linea di ritirata del nemico lo prendono di fianco ed a traverso e vi spargono il disordine e la morte.

Vinta Magenta, al generale Giulay rimane la sola speranza di tentare un ultimo sforzò nella estrema destra della posizione delle armate alleate.

Riuscendo a prendere Ponte vecchio ed a respingere fino al Ticino le truppe che guardano quelle posizioni importanti potrebbe stabilirsi fortemente sulla testata di ponte di Buffalora ed «isolerebbe dal rimanente dell’armata tutti quelli che passarono il fiume.»

Il generale Giulay non può credere ad una disfatta.

Ma non riesci, perché le case lungo il canale sono difese con energia, come è fatta solida resistenza alla parte estrema del villaggio che gli austriaci procurano di attraversare. Succedono tuttavia continui combattimenti.

I francesi sono effettivamente rafforzati da nuovi distaccamenti, ma sopratutto un frastuono orribile di tamburi, trombe e musica, fanno supporre agli austriaci che quei rinforzi sieno di gran lunga maggiori, per cui cessò di tentare ancora ritorni offensivi e limitossi a lanciare un nutrito fuoco di proietti.

Il generale Trochu scrive nel suo rapporto al maresciallo. «In tal modo io trasportava il combattimento molto in avanti del villaggio ingombrato di morti e di morenti, abbatteva la forza morale del nemico, se a lui ne restava, ed accresceva quella dei difensori della posizione ormai coperti.»

Al cader della notte gli attacchi alla sinistra di Ponte vecchio erano quindi cessati.

Ad onta di ciò all'apparire di due pezzi d’artiglieria verso le 7 ½ della sera, sorti dalle macchie improvvisamente una colonna, ma vi accorrono gli artiglieri ai loro pezzi e la truppa con baionetta incrociata.

Mediante alcuni colpi di mitraglia mandati nei campi e nelle vigne arrestano il nemico anche in questo ultimo tentativo.

Era cessato il fragore della battaglia, e le colonne austriache sono in ritirata. Il generale Giulay scriveva finalmente all’imperatore d'Austria:

«Credo poter dire con certezza che il nemico ha comperato a caro prezzo il possesso di Magenta, e che esso renderà giustizia all’armata di vostra Maestà dicendo, che essa ha ceduto dinanzi un nemico egualmente valoroso dopo una eroica lotta.»

Il generale Mac Mahon dà nel seguente modo la relazione della battaglia che per l’interesse che ha, la riporteremo per intero.

«L’esercito francese, raccolto intorno ad Alessandria, aveta dinanzi a sé molti ostacoli da superare. Se marciava su Piacenza doveva fare l’assedio di quella piazza ed aprirsi a viva forza il passaggio del Po, il quale in quei luoghi ha una larghezza non minore di metri 900; e questa operazione così difficile doveva essere eseguita in presenza di un’armata nemica di oltre 200 mila uomini. Se l'Imperatore passava il fiume a Valenza, trovava il nemico concentrato sulla riva sinistra a Mortara, è non poteva assalirlo in questa posizione se non per colonne separate ed operando in mezzo ad un paese tagliato da canali e da risaie. Da entrambi questi lati adunque eravi un ostacolo pressoché insormontabile: l’imperatore si appigliò alla risoluzione di evitarlo, e trasse in inganno gli austriaci, agglomerando il suo esercito sulla destra, e facendogli occupare Casteggio ed anche Robbio sulla Trebbia.

«Il 31 maggio l’esercito ebbe ordine di marciare per la sinistra, e passò il Po a Casale, dove il ponte era rimasto in nostro potere. L’esercito prese subitola strada di Vercelli, dove fu operato il passaggio della Sesia con lo scopo di proteggere e di coprire la nostra rapida marcia su Novara. Gli sforzi delle truppe furono diretti verso la destra su Bobbio, e due combattimenti gloriosi per le truppe piemontesi, dati da quella parte, sortirono ancora l'effetto di far credere al nemico che noi marciavamo su Mortara. Ma durante questo tempo l’esercito francese erasi recato verso Novara, e vi aveva preso posizione sullo stesso spazio, dove il Re Carlo Alberto aveva combattuto dieci anni prima. Là esso poteva far fronte al nemico qualora si fosse presentato. In tal guisa questa marcia era stata protetta da 100,000 uomini, accampati sul nostro fianco destro ad Olengo, di la da Novara. In queste circostanze dunque l’imperatore doveva affidare alla riserva l'esecuzione del movimento, che si faceva al di dietro della linea di battaglia.

«Il 2 giugno una divisione della guardia imperiale fu diretta verso Turbigo sul Ticino, e non incontrandovi resistenza vi gettò tre ponti. L’imperatore avendo raccolto informazioni, le quali concordavano a fargli conoscere, che il nemico si ritirava sulla riva sinistra del fiume, fece passare il Ticino in quel luogo dal corpo d’armata del generale Mac Mahon seguito l'indomani da una divisione dell’esercito sardo. Non si tosto le nostre truppe avevano preso posizione sulla riva lombarda, furono attaccate da un corpo austriaco venuto da Milano per la via ferrata. Esse lo respinsero vittoriosamente sotto gli occhi dell'Imperatore. Nel giorno medesimo 2 giugno, la divisione Espinasse essendosi avanzata sulla strada da Novara a Milano fino a Trecate, di dove minacciava la testa di ponte di Buffalora, il nemico sgombrò precipitosamente i trincieramenti che egli aveva stabiliti su quel punto, e si ripiegò sulla riva sinistra, facendo saltare il ponte di pietra che attraversa il fiume in quel luogo. L'effetto delle sue mine tuttavia non fu compiuto, e i due archi del ponte che si era proposto di rompere essendosi soltanto abbassati su loro medesimi senza crollare, il passaggio non venne interrotto.

«L’Imperatore aveva determinato che il giorno 4 avesse luogo la presa di possesso definitiva della riva sinistra del Ticino. Il corpo d’esercito del generale Mac Mahon, rinforzato dalla divisione dei volteggiatori della guardia imperiale e seguito da tutto l’esercito del Re di Sardegna, doveva portarsi da Turbigo su Buffalora e Magenta; mentre la divisione dei granatieri della guardia imperiale doveva impadronirsi della testa di ponte di Buffalora sulla riva sinistra, ed il corpo d’esercito del maresciallo Canrobert doveva avanzarsi sulla riva destra per passare il Ticino nello stesso punto. L’esecuzione di questo piano d’operazioni fu turbata da alcuni di quegli incidenti, che è d’uopo aspettarsi quando si fa la, guerra. L’esercito del Re fu ritardato nel suo passaggio dei fiume, ed una sola delle sue divisioni potè seguire abbastanza da lungi il corpo del generale Mac Mahon. La. marcia della divisione Espinasse soffri pure ritardi, e dall'altro lato quando il corpo del maresciallo Canrobert uscì da Novara per raggiungere l’imperatore, che si era recato in persona alla testa di ponte a Buffalora, questo corpo trovò la strada talmente ingombra, che non potè giungere se non assai tardi sul Ticino.

«Tale era la condizione delle cose, e l’imperatoreaspettava non senza ansietà il segnale dell’arrivo del corpo del generale Mac Mahon a Buffalora, allorché verso le due egli udì una continua fucilata ed un cannoneggiamento assai vivi: il generale giungeva. Era il momento di sostenerlo marciando su Magenta. L’Imperatore lanciò subito la brigata Wimpffen contro le posizioni formidabili occupate dagli austriaci in avanti del ponte; la brigata Cler segui il movimento. Le alture che fiancheggiano il Naviglio (gran canale) ed il villaggio di Buffalora furono prontamente conquistate mediante lo slancio delle nostre truppe; ma esse si trovarono allora in faccia a masse considerabili, che non' poterono sfondare e che fermarono i loro progressi. Frattanto il corpo d esercito del maresciallo Canrobert non si mostrava punto, e dal-l'altro lato la fucilata ed il cannoneggiamento che avevano segnalalo l’arrivo del generale de Mac Mahon erano completamente cessati. La colonna del generale era stata respinta e la divisione dei granatieri della guardia imperiale dovea essa sola sostenere tutto lo sforzo delI inimico?

«Questo è il momento di spiegare l’operazione che gli austriaci avevano fatta. Quando nella notte del 2 giugno essi seppero, che l’esercito francese aveva sorpreso il passaggio del Ticino a Turbigo. essi avevano fatto ripassare, rapidamente quel fiume a Vigevano da tre dei loro corpi d’esercito, che bruciarono i ponti dietro di loro. La mattina del 4 essi erano dinanzi all'imperatore in numero di 425 mila uomini: sì che contro queste forze tanto sproporzionate la divisione dei granatieri della Guardia, con cui era l’Imperatore, doveva lottare sola. In questa critica circostanza il generale Regnaud de Saint-Jean d’Angely diede saggio della più grande energia, del pari che tutt’i generali che comandavano sotto i suoi ordini. Il generale di divisione Mellinet ebbe due cavalli uccisi sotto di lui; il generale Cler cadde mortalmente colpito; il generale Wimpffen fu ferito alla testa; i comandanti Desmè e Maudhuy dei granatieri della Guardia furono uccisi: i Zuavi perdettero 200 uomini ed i granatieri patirono perdite non meno considerevoli. Finalmente dopo una lunga aspettativa di quattro ore, durante la quale la divisione Mellinet sostenne senza retrocedere gli attacchi del nemico, la brigata Picard col maresciallo Canrobert alla testa giunse sul luogo del combattimento. Poco dopo comparve la divisione Vinoy, del corpo del generale Niel, che l’Imperatore aveva fatto chiamare; e poi infine le divisioni Renaulte Trochu del corpo del maresciallo Canrobert. Nello stesso tempo il cannone del generale de Mac Mahon si faceva sentire di bel nuovo in lontananza. Il corpo del generale, ritardato nella sua marcia, e meno numeroso di ciò che avrebbe dovuto essere, erasi avanzalo in due colonne su Magenta e Buffalora. Il nemico avendo voluto portarsi tra quelle due colonne per tagliarle, il generale de Mac Mahon aveva radunato quella di destra su quella di sinistra verso Magenta, e ciò spiega perché il fuoco fosse cessato, fin dal principio dell'azione, dal lato di Buffalora.

«Infatti gli austriaci vedendosi incalzati sulla loro fronte e sulla loro sinistra, aveano sgomberato il villaggio di Buffalora e portala la maggior parte delle loro forze contro il generale de Mac Mahon in avanti di Magenta. Il 46.° di linea si slanciò con intrepidezza all’attacco della fatto ria di Cascina Nuova, che precede il villaggio e che era difesa da due reggimenti ungheresi, 1500 soldati nemici vi deposero le armi, e la bandiera fu presa sul cadavere del colonnello. Frattanto la divisione de la Motterouge si trovava incalzata dà forze considerevoli, che minacciavano di separarla dalla divisione Espinasse.: Il generale Mac Mahon aveva disposto in seconda linea i 13 battaglioni dei volteggiatori della Guardia, sotto il comando del bravo generale Camon che, portandosi in prima linea, sostenne al centro gli sforzi del nemico, e permise alle divisioni de la Motterouge e d Espinasse di ripigliare vigorosamente l'offensiva. In questo momento: di attacco generale, il generale Auger, comandante l’artiglieria del 27 corpo, fece mettere in batteria sull'argine' della via ferrata 40 bocche da fuoco, le quali pigliane do di fianco e di traverso gli austriaci, che sfilavano in gran disordine, fecero di essi una terribile carnificina.

«A Magenta il combattimento fu terribile. Il nemico difese quel villaggio con accanimento. Dall’una parte e dall’altra si comprendeva che quella era la chiave della posizione. Le nostre truppe se ne impadronirono casa, per casa facendo patire agli austriaci perdite enormi. Oltre a 10,000 austriaci furono posti fuori di «combattimento, ed il generale de Mac Mahon fece loro circa 5,000 prigionieri, fra i quali un reggimento intero, il 2.° cacciatori a piedi, comandalo dal colonnello Hauser. Ma il corpo stesso del generale soffri pure molto; 1,500 uomini furono uccisi o feriti. All’attacco del villaggio, il generale Espinasse ed il suo ufficiale d’ordinanza, tenente Froidefont, caddero mortalmente colpiti. Allo stesso modo erano caduti alla testa delle loro truppe i colonnelli Drouhot del 65.° di linea, e de Chabrière del 2.° reggimento straniero.

«Da un altro lato le divisioni Vinoy e Renaolt facevano prodigi di valore sotto gli ordini del maresciallo Canrobert e del generale Niel. La divisione Vinov, partita, da Novara fin dal mattino, giungeva appena a Trecate, ove doveva formarsi, allorché fu chiamata dall’imperatore. Essa marciò al passo di corsa fino al ponte di Magenta, cacciando l'inimico dalle posizioni che esso occupava, e facendogli oltre a 1,000 prigionieri; ma, impegnata con forze superiori, ebbe a patire molte perdite; 11 ufficiali furono uccisi, e 50 feriti, 650 sottufficiali e soldati furono posti fuori di combattimento. L’83.° di linea segnatamente ebbe a soffrire: il comandante Delort di quel reggimento si fece valorosamente uccidere alla testa del suo battaglione, e gli altri ufficiali superiori furono feriti, il generale Martimprey ebbe un. colpo di fuoco nel condurre la sua brigata.

«Le truppe del maresciallo Canrobert fecero parimente perdite rincrescevoli. Il colonnello de Senneville, suo capo di stato maggiore, fu ucciso al suo fianco; il colonnello Charlier del 90.° fu mortalmente ferito da cinque colpi di fuoco, e molti ufficiali della divisione Renault furono posti fuori di combattimento, mentre il villaggio di Ponte di Magenta era preso e ripreso sette volate di seguito.

«Finalmente verso le ore 8 e mezzo di sera, l’esercito francese rimaneva padrone del campo di battaglia, ed il nemico si ritirava lasciando nelle nostre mani 4 cannoni, di cui uno preso dai granatieri della guardia, due bandiere e 7 mila prigionieri. Il numero degli austriaci posti fuori di combattimento si può valutare a circa SO mila uomini. Sul campo di battaglia si sono trovati 12 mila fucili e 30 mila sacchi. I corpi austriaci che hanno combattuto contro di noi sono quelli di Clam Gallas, Zobel, Schwarzenberg e Lichtenstein. Comandava in capo il feld-maresciallo Giulay. In tal guisa cinque giorni dopo la partenza da Alessandria l’esercito alleato aveva dato tre combattimenti, guadagnato una battaglia, sbarazzato il Piemonte dagli austriaci e aperto le sporte di Milano. Dopo il combattimento di Montebello l’esercito austriaco ba perduto tra morti o feriti 23,000 uomini, 10,000 prigionieri e 17 cannoni.»

Il generale austriaco battuto nei suoi ultimi trinceramenti, non aveva puranco abbandonata l’idea di riprendere Ponte Vecchio, e benché la notte sopravvenuta gli impedisse ogni operazione, esso voleva nel susseguente giorno tentare un ultimo sforzo.

«Il coraggio dimostrato in tutte le azioni dalle nostre truppe, scriveva egli nel suo rapporto, mi fanno certo che il loro urto sarebbe decisivo e vincerebbe.»

Senonché circostanze fortuite ed indipendenti dalla sua volontà, cangiarono quelle risoluzioni ed ordinò la ritirata definitiva.

Allorquando il generale Giulay erasi allontanato dal campo di battaglia, l’Imperatore Napoleone stabiliva il suo quartiere imperiale a S. Martino alla testata del ponte di Buffalora.

S. Martino è un altipiano, ed anziché un villaggio è una unione di case sulle sponde del Ticino.

Nel mattino del 3 il Re Vittorio Emanuele andò a visitare l’Imperatore il quale poco dopo si recò sulle sponde del fiume onde sorvegliare in persona l’allestimento dei ponti di barche che dovevano servire al trasporto-dell’artiglieria e dei bagagli.

Diamo qui ora le biografie dei due generali che maggiormente si distinsero in quella memorabile battaglia, uno dei quali sgraziatamente trovò la morte dei prodi.

Il Generale di divisione Espinasse.

«Nacque nei 2 aprile 1814. Entrò nella scuola militare di Saint-Cyr nel 27 novembre 1833, fu promossoallievo di scelta nel 27 luglio 1836 e nominato sotto-luogotenente al 47.° di linea nel 4.° ottobre.

«Nel 2 dicembre passò nella legione stranieri e divenne luogotenente nel 27 aprile 1838.

«Mandato in Africa, Espinasse si distinse nelle varie spedizioni alle quali prese parte il suo reggimento e particolarmente a Medeab, in cui il suo nome fu ricordato nell’ordine del giorno dell’armata nel 28 maggio 1840.

«Allorquando si formarono i cacciatori a piedi, fu incorporato nel 9.° battaglione, passò in seguito nel 4. e fu promosso a capitano nel 17 febbraio 1844.

«In età di 27 anni, nel 44 maggio 1842, riceveva la croce della Legione d’onore.

«Nominato capitano aiutante-maggiore al 2.° reggimento della legione straniera nel 24 gennaio 1843, si distinse per la sua intrepidezza nella spedizione di Biskara. Al combattimento del 46 marzo 1844, ferito da un’arma da fuoco nel petto e nel ventre si mantenne sulla sommità di un forte sul quale erasi arrampicato il primo. Egli era la esposto alla morte, ma la sfidava con superbo disprezzo. Due altre palle lo rovesciano a terra, ma il nobile esempio di si gran valore anima i soldati e gli arabi friggono in disordino. Questo alto fatto d’armi fu posto all’ordine del giorno dell’armata.

«Capo battaglione al reggimento degli zuavi nel 29 ottobre 1845, fece parte alla prima spedizione di Cabaila nel 1847, ove si distinse nel 18 aprile all’attacco di Beni-Slem.

«Luogotenente colonnello al 22.° di linea fece la spedizione-di Roma e finita la campagna ricevette la croce di commendatore dell’ordine di S. Gregorio il grande.

«Ritornato in Africa, accresceva con molti tratti di bravura la sua rinomanza militare e nel 2 luglio 1849 fu nominato ufficiale della Legione d’onore.

«Colonnello primieramente al 14° leggiero e poscia a] 42.° di linea nel 1851, fu nominato, nel 17 febbraio 1852, aiutante di campo del principe presidente della Repubblica, e generale di brigata nel 20 maggio successivo.

«Con questo grado egli comandò primieramente nel mese di agosto 1853 la 2. da brigata d’infanteria del campo d’Helfaut, poscia la l. ma brigata d’infanteria all’armata d’Oriente nel 23 febbraio 1854.

«Posto in congedo di convalescenza nel 29 agosto 1854 ritornò in Francia, e poscia riprese, nel giorno 8 ottobre successivo, le sue funzioni in Crimea e colà ricevette il comando della l. ma brigata della 1. ma divisione d’infanteria del 2.° corpo.

«Generale di divisione nel 29 agosto 1855, ebbe una parte gloriosa nell’assedio di Sebastopoli alla testa della 3.(a) divisione d’infanteria del 3.° corpo.

«Nel 29 marzo 1856 fu incaricato di una missione speciale all’armata d’Oriente, ed a tal titolo investito di poteri straordinarii. Nel 26 aprile era nominato cavaliere dell’ordine del Bagno, nel maggio commendatore della Legione d’onore e nel 6 agosto riceveva la medaglia del valore di Sardegna.

«Nel 7 febbraio 1858 era nominato al ministero dell’interno; nel 44 giugno 1858 elevato alla dignità di senatore cessando dalle funzioni di ministro.

«Il generale Espinasse fu un prode soldato. Trovò sotto le mura di Magenta l’onore di una morte gloriosa che il suo temerario coraggio sembrava per istinto cercare. La, sua perdita è stata vivamente sentita: all’armata della quale egli era uno dei più valorosi capi.»

Il Maresciallo de Mac-Mahon

«Nacque ai 15 giugno 1808. Allievo della scuola militare di Saint-Cyr, ne sortì nel 1.° ottobre 1827 col grado di sotto-luogotenente, allievo alla scuola d’applicazione di stato maggiore.

«Destinato al 4.° degli ussari nel 1.° gennaio 1830, poscia al 20.° di linea nel 2 aprile successivo fu ufficiale d’ordinanza del generale Achard nel 19 ottobre.

«Luogotenente all’8.° corrazzieri nel 20 aprile 1834, aiutante maggiore nel 29 settembre, aiutante di campo del generale Achard nel 16 gennaio 1832, intervenne all’assedio di Anversa. Nel 15 maggio 1833 aiutante maggiore al 1.° corrazzieri; fu nominato capitano nel 20 dicembre dello stesso anno.

«Aiutante di campo del generale Bellair nel 6 agosto 1835, del generale Dro nel 18 ottobre 1836, poscia del generale Damremont nel 5 settembre 1837, passò nel 17 febbraio 1838 allo stato maggiore della 1. ma divisione militare e nel 1.° dicembre a quello della piazza di Parigi.

«Destinato nel 3 agosto 1839 allo stato maggiore del campo de Fontainebleau, fu chiamato nel 18 dicembre alle funzioni di aiutante di campo del generale de Houdetot, e, nel 12 luglio 1840, del gen. Cbangarnier.

«Capo squadrone di stato maggiore nel 28 ottobre 1840 passò al comando del IO.° battaglione dei cacciatori a piedi.

«Luogotenente colonnello della 2. da legione straniera nel 31 dicembre 1842, fu nominato, nel 24 aprile 1845, colonnello del 41.° di linea, dal quale nel 20 settembre 1847 passò al 9.° di linea.

«Fu nominato generale di brigata nel 12 giugno 1848 e posto a disposizione del governo generale di Algeria, che nel 49 febbraio 1860 gli affidò interinalmente il comando della provincia d’Orano, e poscia nel 47 marzo 1852, il comando della divisione di Costantina.

«Generale di divisione nel 46 luglio 1862 fu conservato nel suo comando e sostenne inoltre le funzioni d’ispettore generale d’infanteria dal 1852 al 1854. SÌ copri di gloria nella grande Cabaila, e coi comando dell’armata del Nord preludiò la sua magnifica campagna di Crimea.

«Ebbe parte eroica nella gran giornata della presa di Sebastopoli. Egli entrò il primo in Malakoff, e vi si mantenne ad onta dei terribili sforzi del nemico.

«Dalla presa di Sebastopoli in poi il generale ebbe sotto i suoi ordini tutta l’armata di riserva e fu nominato senatore allorquando ritornò in Francia.

«Nel 13 aprile 1857 fu posto a disposizione del governatore generale dell'Algeria col maresciallo Randon, e fece l’ultima spedizione della Cabaila, che gli valse la medaglia militare nel 27 dicembre 1857. Fino dal mese di settembre 1858 egli sosteneva le funzioni di governatore delle forze di terra e di mare dell’Algeria allorquando fu chiamato alla testa del 2. corpo dell’armata d’Italia.

«Cavaliere della Legione d’onore nel 44 settembre 1834, ufficiale nell’11 novembre 1837, commendatore nel 28 luglio 1849, grande ufficiale nel 40 agosto 1833, e gran croce dell’ordine del Bagno, dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro di Sardegna, di Medijdié e del Nissan di Tunisi.

«Il duca di Magenta è una delle fisionomie militari le più simpatiche e le più giustamente popolari dell’armata, di cui è una gloria, gloria acquistata sui campi di battaglia. La sua persona ispira ai soldati un’illimitata fiducia, prima guarentigia della vittoria. Possedé al più alto grado le qualità che si richiedono dell'armata: valore, lealtà, brio e gran sollecitudine pel soldato. Appartiene a quella valorosa coorte d’ufficiali formata fra le aspre fatiche delle guerre d’Africa, e che fu il semenzaio delle maggiori celebrità militari. Dopo la vittoria di Magenta le brave legioni, delle quali egli è l’idolo, applaudirono assieme coll’intera Francia all’alta dignità conferitagli dall’imperatore nominandolo maresciallo di Francia e duca di Magenta.»

La vittoria di Magenta dava agli alleati la capitale della Lombardia che gli Austriaci in disordine abbandonarono senza colpo ferire; nel mattino del 5 giugno se ne uscivano da Porta Romana sgomberando il castello e l’intera città.

Appena se n’erano usciti gli Austriaci da Milano, una Deputazione del Municipio di quella città recavasi a. Magenta onde presentare al Re un indirizzo nel quale esprimevasi il voto dell'intera popolazione per l’annessione della Lombardia al Piemonte:

«Il corpo Municipale di Milano «diceva quell'indirizzo»è orgoglioso di usare uno dei suoi più preziosi privilegi, quello d’essere l'interprete naturale de' suoi concittadini nelle circostanze straordinarie, quando la vita politica e la comune si confondono e si completano a vicenda, per testimoniare alla Maestà Vostra l’unanime voto della popolazione. Essa vuol rinnovare il patto del 48, e riproclamare in cospetto della Nazione un fatto politico che undici anni di confidente aspettazione e d intemerata lealtà avevano maturato in tutte le intelligenze e in tutti i cuori L’annessione della Lombardia al Piemonte fu proclamata stamane, quando ancora le artiglierie del nemico potevano fulminarci e i' suoi battaglioni sfilavano sulle nostre piazze. Siffatta unione è il primo passo sulla via del nuovo diritto pubblico, che ridona alle nazioni l'arbitrio di se medesime. L’eroico esercito di Vostra Maestà e quello del generoso Vostro alleato, che proclamò che l’Italia dev'essere libera dalle Alpi sino all’Adriatico, compiranno in breve la magnanima impresa.

«Gradite intanto, Sire, l’omaggio che la città di Milano vi manda per mezzo nostro, e credete che una è la voce che esce da tutti i cuori, uno il grido nostro: «Viva il Re: Viva lo Statuto! Viva l’Italia!»

Il Re quindi rispondeva col seguente:

Proclama ai popoli della Lombardia nel suo entrare in Milano

Milano, 9 giugno 1859.

«Popoli di Lombardia!

«La vittoria delle armi liberatrici mi conduce fra voi:

«Ristaurato il diritto nazionale, i vostri voti raffermano l'unione col mio Regno che si fonda nelle guarentigie del vivere civile. La forma temporanea che oggi dò al Governo è richiesta dalla necessità della guerra:

«Assicurata l’indipendenza, le menti acquisteranno la compostezza, gli animi la virtù, e sarà quindi fondato(1 )un libero e durevole reggimento

«Popoli di Lombardia

«I Subalpini hanno fatto e fanno grandi sacrifizi per la patria comune, il nostro esercito che accoglie nelle sue file molti animosi volontari delle nostre e delle altre provincie italiane, già diede splendide prove del suo valore, vittoriosamente combattendo per la causa nazionale.

«L’Imperatore dei Francesi, generoso nostro alleato, degno del nome e del genio di Napoleone, facendosi duce dell'eroico esercito di quella grande Nazione, vuole liberare l’Italia dalle Alpi all’Adriatico.

«Facendo a gara di sacrifizi seconderete questi magnanimi propositi sui campi di battaglia, vi mostrerete degni dei destini a cui l'Italia è ora chiamata dopo secoli di dolore.

«VITTORIO EMANUELE.»

Nello stesso tempo veniva diretto all'Imperatore dei francesi un indirizzo del seguente tenore:

Milano, 4 giugno 1859.

«Sire,

«Il Consiglio municipale della città di Milano tenne in questo, giorno una seduta straordinaria in cui per acclamazione decise che la Congregazione municipale presentasse aS. M. l’imperatore Napoleone III un «dirizzo il quale esprimesse la viva riconoscenza del paese pel suo generoso concorso alla grand’opera della liberazione d Italia.

«Sire, la Congregazione municipale si tiene molto onorata di un si alto mandato, ma essa sa che le parole sono impotenti ad eseguirlo.

«In un discorso di cui tutti ammirano i magnanimi sentimenti, ma che gl’italiani ascoltarono con religioso gaudio e seppero interpretare come uno splendido augurio, Vostra Maestà diceva che essa riposava sul giudizio della posterità.

«Sire, il giudizio sulla santità della guerra òhe Vostra Maestà intraprese di concerto col re Vittorio Emanuele II, è ormai pronunciato dalla concorde opinione dell'Europa incivilita, ed i nomi di Montebello, di Palestra, di Magenta appartengono già alla storia.

«Ma se nel giorno della battaglia la grandezza dei piani di Vostra Maestà, cui eguaglia appena l'eroismo dei vostri soldati, ci rende sicuri della vittoria, nel domani noi non possiamo senonché deplorare la perdita di tanti prodi che vi seguirono sul campo dell’onore.

«I nomi dei generali Beuret, Cler, Espinasse e di tanti altri eroi, caduti prematuramente, son già posti nel santuario dei nostri martiri e rimangono impressi nei cuori degl'Italiani, come in un monumento imperituro. Sire, la nostra riconoscenza per Vostra Maestà e per la grande nazione che voi siete chiamato a rendere ancora più grande, sarà manifestata con maggiore energia da tutta l’Italia resa libera; ma noi, aspettando, andiamo superbi di essere i primi ad esprimerla, come fummo i primi ad essere liberati.

«Permettete o Sire, di salutare Vostra Maestà col grido del nostro popolo:

«Viva Napoleone III Viva la Francia!»

La Francia tutta accolse con indicibile entusiasmo la novella della riportata vittoria, per la quale fu stabilito un solenne rendimento di grazie, ed il sig. Rouland, ministro dell'Istruzione pubblica, dirigeva, a questo uopo a tutti i Vescovi la seguente Circolare:

«Monsignore,

«L’armata d’Italia riportò una grande vittoria. Dopo aver passato il Ticino sotto il fuoco di un nemico superiore in numero, i nostri soldati condotti dall'Imperatore posero in rotta a Magenta il fiore dell’armata austriaca ed occuparono la capitale della Lombardia. Sì rapidi successi provano che la mano di Dio benedisse le nostre bandiere. L’Imperatore e la nostra augusta Reggente, lieti di riconoscere da tali indizii non dubbii la protezione divina, desiderano che in tale occasione tutta la Francia si unisca in un medesimo pensiero di ringraziamento. Io vi prego, Monsignore, di voler corrispondere a tale pietosa idea ordinando che nella prossima domenica 12 del corrente mese sia cantato un Te Deum in tutte le chiese della vostra diocesi.»

Il corpo di Mac Mahon fu il primo ad entrare in Milano il giorno 7 giugno, nell'indomani vi fecero il loro ingresso il Re Vittorio Emanuele e Napoleone.

Napoleone emanò al suo esercito il seguente ordine del giorno;

«Soldati!

«Un mese fa, fidando negli adoperamenti della diplomazia, io sperava che fosse mantenuta la pace, quando d’un tratto l’invasione del Piemonte per opera delle troppe austriache ci chiamò alle armi.

«Noi non eravamo pronti: mancavano uomini, cavalli, materiale da guerra, approvvigionamenti, e noi per soccorrere i nostri alleati, dovemmo sboccare in fretta

Ha e a piccole schiere al di qua delle Alpi, innanzi ad un nemico formidabile, apparecchiato da lungo tempo.

«Era grave il pericolo: ma l'energia della nazione ed il nostro coraggio hanno lutto superato. La Francia ha rinvenuto le antiche sue virtù, ed unita in un solo scopo ed in un solo sentimento, mostrò la potenza dei suoi mezzi e la forza del suo patriottismo. Sono dieci giorni da che incominciarono le operazioni, e già il territorio piemontese è sgombro dai suoi invasori.

«L’esercito alleato diede quattro felici combattimenti e riportò una vittoria decisiva che gli aperse le porte della Lombardia; voi avete posto fuori di combattimento 35,000 Austriaci, preso 47 cannoni, due bandiere, fatti 8000 prigionieri.

«Ma tutto non è ancora terminato; noi avremo ancora lotte da sostenere, ostacoli da superare.

«Io faccio assegnamento su voi. Coraggio dunque! bravi soldati dell’esercito d’Italia! Dall’alto del cielo i vostri padri vi contemplano con orgoglio.

«Dal quartiere generale di Milano, 8 giugno 1859.

«NAPOLEONE.»

Dopo il predetto ordine del giorno comparve un Proclama dello stesso Napoleone agli Italiani che suonava cosi:

«Italiani!

«La fortuna della guerra mi conduce oggi nella capitale della Lombardia. Debbo dirvi perché io ci sono.

Allorché l’Austria aggredì ingiustamente il Piemonte, presi la risoluzione di soccorrere il mio alleato il Re di Sardegna. L’onore e gl’interessi della Francia me lo imponevano.

«I vostri nemici, che sono i miei, tentarono di scemare quella generale simpatia per la vostra causa che manifestatasi in tutta Europa, col pretesto che io avessi intrapresa la guerra soltanto per ambizione personale o per l’ingrandimento della Francia. No! Io non sono di quelli che non comprendono i loro tempi. L'opinione pubblica al giorno d’oggi è per guisa illuminata, che uno giunge alla grandezza piuttosto per mezzo dell'influenza morale che esercita, che con isterilì conquiste. Vo glorioso di anelare a questa influenza morale, cooperando a render libero uno de' più bei paesi del mondo. Il vostro accoglimento mi è prova che voi mi avete Compreso, lo non vengo tra voi con un concetto prestabilito, per deporre sovrani, o per dettare la mia volontà. Il mio esercito si occuperà di sole due cose: combattere i vostri nemici e mantenere, l’ordine interno; esso non metterà alcun ostacolo alla libera manifestazione dei vostri desiderii. La Provvidenza accorda talvolta il suo favore ai popoli del par iche agl’individui coll'offrir loro occasione di divenire grandi tutto ad un tratto, a condizione però eh essi sappiano approfittarne. Il vostro desiderio per l’indipendenza, già da tanto tempo manifestato, tante volte represso, si effettuerà se ve ne mostrerete degni. Unitevi dunque in un solo intendimento; la liberazione del vostro paese. Ordinatevi militarmente, accorrete sotto il vessillo di Re Vittorio Emanuele, che vi additò si nobilmente la via dell’onore. Ricordatevi che non v’ha esercito senza disciplina ed ardenti del sacro entusiasmo inspirato dall’amor della patria, non siate oggi che soldati, per essere domani liberi cittadini di un gran paese.

«Dal quartier generale di Milano, 8 giugno 1859.

«NAPOLEONE.»

Nello stesso giorno dell'ingresso in Milano di Napoleone avveniva un combattimento presso Melegnano.

É questo un borgo della provincia di Milano bagnato dal Lambro. Nel medio evo era fortezza. Federigo II lo distrusse movendo nel1239 contro Milano, però 4 anni dopo venne riedificato dai Milanesi, i quali vi innalzarono un’altra fortezza. Quivi Barnabò Visconti fece inghiottire ai due Nunzi di Innocenzo VI le bolle pontificie. Al 13 e 14 settembre dell’anno 1545 vi si combatté la famosa battaglia tra Francesco di Francia, e gli Svizzeri venuti in soccorso del duca di Milano. Nel 1848 quando Radetzkv si ritirava da Milano per concentrarsi a Verona, gli abitanti di Melegnano si opponevano al suo passaggio abbarrando il paese. Il comandante austriaco comandava si prendesse d’assalto, quindi fu dato in preda agli orrori del saccheggio.

Nel combattimento di Melegnano nel quale si distinse particolarmente il maresciallo Baraguay d’Hilliers ebbero nuova sconfitta gli austriaci, ed i francesi l’ebbero in loro potere alle ore 9 della sera.

Nel massimo silenzio gli austriaci imprendevano la ritirata, che doveva condurli al concentramento di tutte le loro forze, e come veniva deliberato non già dal comandante dell’esercito sibbene dall’Imperatore Francesco Giuseppe, il quale dal 30 maggio aveva posto in Verona il suo quartiere generale.

Ai 7 di giugno fu sgombrata Pavia, il giorno appresso la guarnigione di Laveno imbarcavasi sui battelli a vapore del Lago maggiore e dirigevasi a Magadino in Isvizzera, terreno neutrale.

Colà venne disarmata, internata, e fu rimandata in Austria nel mese di luglio, dopo che le parti belligeranti consentirono col Consiglio federale.

Abbandonarono gli austriaci anche Piacenza, rimpiangendo i fortilizi che già dal 27 febbraio vi avevano costrutti.

Trasportarono però da quella piazza tutto il materiale da guerra, che fu imbarcato sopra battelli a vapore e condotto a Venezia.

Fu fatto saltare in aria il ponte sulla Trebbia, furono distrutti in parte i forti staccati, e nel giorno 40 in sul pomeriggio, la guarnigione recavasi per terra a Pizzighettone.

Susseguentemente gli austriaci abbandonarono anche quest'ultima piazza ed il castello di Brescia

Già dallo scoppiare della guerra Ancona con 10000 uomini di presidio veniva dichiarata in istato d'assedio, ma in seguito alla dichiarata neutralità del territorio pontificio, dopo che il Papa aveva protestato, fu levato l’assedio, e gli austriaci che la occupavano, sgomberarono del pari quella piazza dopo la battaglia di Magenta.

La guarnigione si diresse per terra e per Comacchio verso il Veneto.

Fu altresì evacuata Bologna dagli austriaci, i quali si resero a Ferrara, laddove si congiunsero colla guarnigione, per recarsi alla sinistra del Po passando questo fiume al Ponte Lagoscuro.

Con questo abbandono, e mentre gli Austriaci abbandonavano perfino i loro passi sul Po nella periferia del loro quadrilatero sul Mincio e sull'Adige, cessava naturalmente anche il dominio dei sovrani di Parma e di Modena.

La duchessa di Parma, all’annunzio dello sgombro di Piacenza trasferivasi in Isvizzera, ed il duca di Modena recavasi al quartiere generale di Francesco Giuseppe.

In tale frangente il conte di Cavour spediva la seguente Nota Circolare:

Torino 10 giugno 1859.

«Col mio dispaccio circolare in data di ieri vi feci conoscere che i ducati di Modena e di Parma come anche la Lombardia, appena liberali dalla presenza delle truppe austriache, decretarono la decadenza dell'antico governo, come anche la loro annessione al Piemonte; rinnovando così l'alto di dedizione alla casa di Savoia ch'essi avevano fatto una prima volta undici anni sono. La posizione eccezionale di quei paesi mi obbliga ad entrare in alcuni particolari a questo riguardo colle legazioni del Re.

«Egli è evidente che al principio della guerra il Piemonte non avrebbe potuto riconoscere la neutralità dei ducati, anche quando fosse stata proclamata in modo formale. Infatti i duchi di Modena e di Parma erano legati con convenzioni particolari che, in disprezzo dei trattati generali, abbandonavano il territorio dei loro Stati alle armate austriache, e quindi stabilivano fra l’Austria ed i ducati rapporti obbligatorii incompatibili coi doveri d’una vera neutralità. Queste convenzioni sono note. I trattati del 24 dicembre 1847 e del 4 febbraio 1848 recano espressamente che gli Stati di S. A. R. il duca di Modena e di S. A. R. il duca di Parma entrano nella linea di difesa delle provincie italiane dell’imperatore d’Austria; e che per conseguenza questo ultimo ha il diritto di fare avanzare truppe sul territorio di Modena e di Parma, e di farvi occupare le fortezze tutte le volte che i suoi interessi fossero per esigerlo. In forza d'una disposizione di questo stesso trattato, che dà la misura della previdenza del governo austriaco, i sovrani di Modena e di Parma si sono impegnati a non conchiudere con nessuna altra potenza una convenzione militare qualsiasi, senza il consenso preventivo del governo imperiale di Vienna.

«Queste stipulazioni così chiare e cosi precise non permettevano ai ducati di conservare la neutralità. I duchi di Parma e di Modena avrebbero dovuto denunciarle, preventivamente alle ostilità, affine di ricollocare i loro Stati nelle condizioni volute per pretendere ed ottenere le immunità dei neutri. Ora nulla di questo è avvenuto; al contrario i ducati furono aperti alle truppe imperiali che si radunavano sulla frontiera del Piemonte, che sono diventati anch'essi una delle basi di operazione del nemico. Le ostilità erano cominciate, il Piemonte era invaso dalla frontiera d’uno di questi due Stati, senza che ne seguisse nessuna protesta per parte dei Principi, che in tal modo prestavano mattò all'attacco. Le convenienze, come anche i doveri internazionali, avrebbero almeno impostò che una comunicazione qualunque fosse fatta alla Sardegna per darle spiegazioni sulle intenzioni e sulla condotta di questi governi in circostanze tanto straordinarie. Nessuna comunicazione venne fatta in questo senso. La Sardegna trovavasi conseguentemente, in diritto ed in fatto, in istato di guerra con quegli Stati, ch'erano divenuti parti integranti del sistema militare dell'Austria.

«I governi di Modena e di Parma non potevano nemmeno cercare un pretesto nell'ignoranza delle intenzioni della Sardegna; giacché dopo il 1848 non abbiamo mai cessato dal protestare contro le stipulazioni, che costituivano una violazione flagrante dei trattati europei, ed un pericolo permanente contro la sicurezza delle nostre frontiere. L’invasione austriaca che si accompì sfruttando il territorio piacentino, non provò che troppo lai giustizia delle nostre previsioni.

«Il duca di Modena, quale arciduca d'Austria, partecipava agli odii della sua famiglia contro il Piemonte: il suo cuore come la sua corona erano all'estero; esso dovea seguire le sorti della potenza a cui avea infeudata i suoi Stati. S. A. R. la duchessa di Parma non si trovava nelle stesse condizioni; la sua nascita, le qualità personali che l’onorano, inspiravano un ben sincero interesse; il suo governo avrebbe dovuto seguire una linea di condotta più degna e più conforme a' suoi doveri internazionali. Sventuratamente il gabinetto di Parma fu trascinato da quel pendio su cui esso sdrucciolava: esso non volle uscire dalla posizione che volontariamente aveva accettato in confronto dell'Austria? È sul territorio di Parma che l’invasione del Piemonte fu preparata: è di la che le truppe imperiali sono partite per invadere le nostre provincie. Piacenza era divenuta la base delle operazioni offensive del co. Giulay.

«Si disse che un trattato europeo avea confidato all'Austria il diritto di tener guarnigione in quella città. Noi non contestiamo il fatto; ma questa servitù:militare non avea che uno scopo difensivo, com’è espressamente detto nel trattato a cui si fa allusione, e le potenze! sottoscrittrici ebbero cura di dichiarare, che lutti i diritti regali del sovrano territoriale erano riservati. Ora fu per una convenzione speciale e volontaria tra l’Austria e Parma, che quest’ultima abdicò i diritti più essenziali della sovranità, lasciando all’altra tutta la libertà di estendere le opere di fortificazione in Piacenza e di costruirne di nuove, promettendo ogni aiuto ed assistenza al genio austriaco, aggiungendogli lavoratori; fornendogli i materiali necessari (art. 7 della convenzione 14 marzo 1822). Fu infine per un trattato particolare e liberamente convenuto, che i sovrani di Parma diedero, il diritto all’Austria di penetrare sul territorio dei loro Stati, tutte le volte ch'essa lo giudicasse a proposito. La Sardegna protestò contro l’estensione delle fortificazioni di Piacenza, che cambiava la natura e lo scopo dall'occupazione: essa protestò contro il trattato del 4 febbraio 1848. Il governo di Parma dichiarò forse di subire la legge del più forte? Dimostrò forse qualche dispiacere per quanto avveniva sotto i suoi occhi? Tutto si disponeva a Piacenza per l’invasione degli Stati del Re; l'ultimatum di Vienna giungeva a Torino; i corpi dell'armata austriaca si mettevano in moto; essi entravano in Piemonte. Voghera, Tortona erano occupate, Alessandria era minacciata, le nostre comunicazioni con Genova compromesse, ed il gabinetto di Parma si tacque; esso non si curò menomamente della sorte d’uno Stato vicino, col quale manteneva relazióni amichevoli. Non fu se non quando i piani del nimico andarono falliti, non fu se non quando le armate del Piemonte e della Francia, avendo alla lor volta preso l'offensiva, gli Austriaci erano alla vigilia di sgombrare i ducati di Parma e Piacenza, non fu che allora che si parlò di neutralità e del desiderio di prendere concerti militari colla Sardegna a riguardo del Parmigiano e del Piacentino; Era tròppo tardi. Il gabinetto di Parma non aveva del resto tampoco il diritto di fare proposte di tal fatta. Coll’articolo 4. del trattato del 1848 era formalmente impegnato a non conchiudere convenzioni militari qualsiasi, senza il consenso dell’Austria.

«Questi fatti e queste ragioni, che importa di ben far conoscere e ben comprendere, spiegano e giustificano la condotta del governo del Re. Qualunque fosse l'interesse che portasse alla persona della duchessa di Parma, esso non poteva fare alcuna distinzione fra Parma e Modena. La neutralità di questi ducati era impossibile in diritto ed in fatto: essi dovevano seguire la sorte della potenza, alla quale avevano volontariamente confidato i loro destini. La legazione di S. M. conformerà il suo linguaggio alle considerazioni che precedono. Aggradisca, ecc.

Frattanto gli alleati avevano riprese le loro operazioni ed al 12 di giugno trovavasi sull’Adda la loro avanguardia.

L’Imperatore Napoleone non poteva comprendere per quale intento gli Austriaci si fossero ritirati con tale precipitazione, e forse riteneva che avessero voluto fare uno stratagemma, lasciandosi inseguire da corpi isolati per poterli battere staccatamente.

E però concentrò tutte le sue masse per averle pronte nel giorno della battaglia.

Ordinò che si costruissero ponti sopra l’Adda a Cassano mentre i piemontesi ne costruivano a Vaprio.

L'esercito quindi procedette in guisa, che dal 4 al 16 tutto concentravasi nei dintorni di Brescia sul Nella.

Garibaldi procedeva del pari, e da Varese recatosi a Como e Lecco, adunava molti volontari, resi maggiormente volonterosi a seguirlo per i fortunati successi delle armi alleate.

Dopo di avere spedito un distaccamento nella Valtellina guidò a Bergamo il nerbo principale, e da colà recossi a Milano onde concertarsi col Re e coll'imperatore Napoleone sulle ulteriori operazioni.

Lo accolse Brescia dopo due giorni che la sgombrarono gli Austriaci, inoltrossi quindi verso il Chiese sulla direzione del Ponte S. Marco, onde costruirsi un ponte mediante il quale si rendeva padrone del paese posto tra il Lago di Garda ed il Tirolo meridionale.

Ma siccome i suoi cacciatori avevano trovato l’intera brigata Rupprecht che affrontandoli li cacciava sino a Rezzato, dovette Garibaldi rinunciare a costruire il ponte sul Chiese per correre in soccorso dei suoi cacciatori.

Urban tentava e forse gli riusciva di separare Garibaldi dal suo distaccamento, senonché il Re Vittorio Emanuele facendo avanzare tutta la divisione Cialdini da Brescia a S. Eufemia trasse contro Urban tal numero di forze da costringerlo a deporre l’audace intrapresa.

Oltrediciò venne a conoscere Urban che l’esercito principale si trovava in piena ritirata verso il Mincio per cui cessò da ogni combattimento, sebbene avesse recato non insensibili perdite all'avversario.

L’esercito austriaco adunque trovavasi oggimai sul terreno del quadrilatero, e con viva impazienza si si attendeva una lotta su quei campi celebri per tante battaglie.

L’impresa era delle più difficili allora quando l’imperatore d’Austria appianava la via agli alleati andando incontro di essi a mezza strada.

Con ordine del giorno 18 giugno l’imperatore d'Austria Francesco Giuseppe aveva dichiaralo di assumere personalmente il comando supremo dell'esercito d’Italia.

Egli lo animava a proseguire la pugna con queste parole: .

«Mentre oggi assumo l’immediato supremo comando della mia armala, che sta in faccia al nemico, voglio alla testa delle mie brave truppe continuare quella pugna, che l’Austria pel suo onore e per il suo buon diritto fu costretta di accettare.

«Soldati, la vostra devozione verso di me ed il vostro valore in modo sì splendido dimostrato mi sono garanti che da me guidati, voi otterrete que’ successi che la patria da noi si aspetta.»

A fianco dell’imperatore di Austria stava il generale d'artiglieria Hess, ed alla sua cancelleria d operazione vennero ammessi i generali Ramming, Rossbacher e Rueff.

Susseguivano altri cambiamenti. Dopo una lunga conferenza dell’imperatore co| generale Giulay, deponeva questi il comando del secondo esercito, che venivi tosto trasferito al generale d'artiglieria Francesco conte Schlick di Bassano e Weisskirchen.

Il conte Francesco Schlick nacque a Praga nell'anno 1789. Destinato agli studi legali, mostro, una prematura inclinazione al mestiere delle armi. Quando nell’anno 1808 l'Austria s’accingeva ad abbatter il primo Napoleone, il giovine conte offriva tre compagnie di riserva ed allo scoppio della guerra entrò in un reggimenti di corazzieri.

Fece la campagna del 1809, e pel 1812 diede la sua dimissione, perché non voleva combattere per Napoleone. Rientrò peraltro l’anno successivo al. servizio ed ebbe il grado d'ufficiale d’ordinanza dèli imperatore Francesco. Combatté a Dresda e a Lipsia; dopo quest’ultima battaglia volendo proteggere alcuni prigionieri francesi contro l’inveire dei cosacchi ebbe strappato l’occhio destro da uno di questi, e da quell’epoca dovette sempre portare l’occhio bendato. Salito successivamente ai grado di generale, nel 1848 ottenne il comando d'un corpo staccato di circa 8000 uomini col quale dalla Galizia doveva inoltrare sino a Cassovia. Dovette quindi combattere con Mezzaros, Klapka e Gorgey e si distinse per intelligenza e coraggio. Effettuò la sua congiunzione coll’esercito principale austriaco comandato da Windischgratz, e nella susseguente campagna estiva diretta da Havnau ebbe gran parte nelle prime battaglie decisive di Szeghedino e di Szòreg., Finita la campagna fu promosso a generale d'artiglieria. Nominato comandante del quarto esercito al tempo della guerra d Oriente prese il comando del Litorale, succedendo al generale d'artiglieria conte Wirnpffen, il quale pure dovette avanzarsi da Trieste sino all'Adige. Non erano scorse tre settimane quando fu chiamato ad assumere il comando del secondo esercito sul Mincio.

Del primo esercito veniva affidalo il comando al conte Wirnpffen, il quale nato pure a Praga nel 1797, fece la campagna del 1813 e 1814, e quella dell'alta Italia nel 1815. Nel 1848 si distinse particolarmente a Vicenza, Custoza e Volta. Dopo la campagna del 1849 ebbe il Comando delle truppe destinate ad entrare nette Legazioni. Prese Bologna ed Ancona, e dopo che ebbe il governo delle Legazioni, ottenne quello del litorale Adriatico dal quale fu trasferito al comando supremo dei 4. esercito col quartier generale in Vienna.

Allo scoppio della guerra in Italia recavasi nuovamente sul litorale a riprendervi il comando supremo, e sulla fine di maggio, allorché l'imperatore Francesco Giuseppe si recava a Verona, venne colà richiamato.

In Italia adunque veniva ripartito il comando dell’esercito austriaco fra questi due, cioè Schlick e Wimpffen.

Trovandosi quindi tutto l’esercito nella nuova posizione, venne posta Verona in istato d'assedio, divenendo questa piazza della massima importanza; fu quindi cambiato il suo comandante, venendo nominato in quelle veci il tenente maresciallo Carlo Urban, che sino allora aveva combattuto contro Garibaldi.

Lo strano proclama, coi quale Urban si fece conoscere a quella popolazione, merita di essere qui riprodotto.

«Abitanti di Verona»egli vi diceva, «lo stato di assedio dichiarato per la fortezza di Verona ed i successivi proclami non vengono osservati secondo la loro importanza. Io dichiaro a tutti gli abitanti del territorio di questa fortezza a me affidata da S. M. che voglio da ognuno esattamente osservate le leggi di stato d’assedio. Io non faccio distinzione di persona — punisco il fatto e l’intenzione. — Acciò che gli abitanti conoscano con chi hanno da fare, dichiaro che ognuno può fidarsi di me come di un leale austriaco, ed io non mi fido di nessuno.»

Dovendo ora annodarsi gli eventi guerreschi Del territorio del quadrilatero, dovevasi pensare a, rompere ogni comunicazione tra quelle fortezze e le altre provincia dell’Austria, quindi era l’Austria costretta di spedire un corpo d’armata nel Tirolo.

Un importante aiuto Urban si riprometteva dai bersaglieri nazionali, i quali avevano date luminose prove del loro attaccamento alla dinastia degli Absburgo nel 4809 e 1848, ‘ed infatti il Governo austriaco aveva fatto assegnamento su di essi ed a mezzo dell'arciduca Carlo Lodovico aveva regolata la difesa del paese. A maggiore eccitazione l'imperatore Francesco Giuseppe emanava un proclama laconico ma vigoroso, nel quale concludendo esprimevasi in questi termini:«Contro questo nemico alleato della rivoluzione ai danni del dominio legittimo e da Dio instituito affido alla vostra protezione i confini del mio amato Tirolo! Se il nemico avesse l'ardire di minacciarlo, voi gli farete sentire che vi esiste ancora un popolo cosi fedele che è capace di combattere e di vincere ad esempio dei suoi padri, pel suo Dio e per la patria.» — Però questa: Volti i tirolesi non erano tanto pronti al grido del loro imperatore ed emettevano piuttosto grida di dolore pei loro vetusti privilegi; però risposero all'appello soltanto alcuni giovani entusiasti od impiegati imperiali, fino a poche centinaia di persone, si rese quindi indispensabile di provvedere alla difesa del Tirolo meridionale, ed allo scopo fu destinato il 6° corpo d’armata.

Dopoché gli austriaci avevano sgombrato da Montechiari e dalla linea del Chiese, si avanzarono gli alleati dal Mella, ed inviarono la loro avanguardia sino al lago di Garda ed al Mincio.

L’Austria volle ancora una volta prendere l’offensiva, affrontando il nemico in campo aperto, possibilmente mentre passava il Chiese, e gettarlo a ridosso dei monti del Tirolo.

L'esercito austriaco occupava le seguenti posizioni:

Il quartiere generale a Villafranca, trasferitosi da Verona; l’ala destra a Custoza; l'ottavo corpo ad oriente di Peschiera; il quinto corpo ad oriente di Saliónze; il primo a Quaderni; il settimo a S. Zenone.

La divisione di cavalleria di riserva ed una riserva d’artiglieria a Rosegaferro.

L’ala sinistra col quartiere generale a Mantova, aveva il secondo corpo entro quella fortezza e nei suoi dintorni, quindi il 3. corpo a Pozzoto, il nono a Goito, e l'undecimo dietro ai suddetti a Roverbella.

La cavalleria e l'artiglieria di riserva a Guizzano e Mozzecane al sud di Villafranca.

Era destinato il giorno 23 a cominciare l'offensiva passando il Mincio; pel 24 era destinato un ulteriore accampamento per dare il colpo decisivo. Diffatti il giorno 23 giugno in sul mattino cominciò l'esercito austriaco a passare il Mincio; ciascuno dalla sua parte e tutti nel pomeriggio giunsero alle posizioni assegnate senza essersi scontrati coi nemico.

Del secondo esercito fu trasferito a Volta il quartiere generale, del primo a Cinta ed a Valeggio quello dell'imperatore Francesco Giuseppe.

D’altronde l’imperatore Napoleone aveva date le seguenti disposizioni.

D'impadronirsi delle alture e delle colline che al sud del Lago di Garda si allungano tra il Chiese, ed il Mincio, separato dalla pianura che si stende verso il Po mercé la strada che da Montechiaro conduce a Goito.

Questo avanzamento era considerato come il primo passo all'attacco del quadrilatero. Prima però di procedere alle serie operazioni, l'imperatore Napoleone credeva dover attendere le truppe che dalla Toscana gli recava il principe suo cugino; in conseguenza di ciò si spinse dapprima dal Mella verso il Chiese, proseguì la marcia, ed il Chiese fu passato dalla maggior parte dei corpi il giorno appresso.

La sera del 23 le masse principali degli eserciti trovavansi di fronte distanti tra di loro appena una lega. Gli alleati potevano disporre in un combattimento eventuale tra il Chiese ed il Mincio di 16 divisioni di fanteria francese da 8000 uomini, di 4 piemontesi da 0000; di 3 divisioni di cavalleria francese ed I piemontese, in lutto 170,000 uomini; gli austriaci disponevano dell'8. corpo con una brigata del 6, indi del quinto, 1. 7. 3. 8. e 11. e delle divisioni Mensdorf e Zedtwitz, in tutto 160,000 uomini.

Questo interessante fatto d’armi, di cui la conseguenza fu la pace di Villafranca, merita la sua dettagliata descrizione epperò, fra le tante, ci è forza scegliere quella che dà il Rustow, la quale narrata politicamente e militarmente sarà di maggiore interesse al lettore.

La trascriviamo adunque dalla sua storia:

Il campo di battaglia

«I due fiumi che da settentrione volgendo al mezzodì, circoscrivono (preso in lato senso) il campo di battaglia di Solferino, cioè il Chiese ed il Mincio, distanno tra loro circa 3 12 leghe tedesche, che costituiscono un cammino assai lungo. Chi volesse avere una (dea. del campo del combattimento (in senso più stretto)., immagini a settentrione una linea che per Peschiera corra da levante ad occidente; a mezzogiorno un’altra nella stessa direzione da Pozzolo al Mincio; ad occidente: una che da settentrione volga a mezzodì per Medole, ed a levante un’altra per Foresto. In questo rettangolo, dell’altezza di due leghe e della larghezza di una e 1|2, con una superficie di 3 leghe in quadro, conceotravasi il vero combattimento dato dalle schiere belligeranti. La strada principale, che oltre la ferrovia da Peschiera a Lonato percorre questo terreno, è lo stradone che da Montechiaro per Castiglione conduce a Goito.

Il vero campo di battaglia, ora con maggior precisione disegnato, si divide in due parti, le quali, secondo il loro proprio aspetto, vanno essenzialmente distinte una dall'altra, cioè una più estesa al nord-ovest, ed una più piccola al sud-ovest. La prima forma un terreno intersecato da colline, ultime diramazioni delle Alpi a mezzodì del lago di Garda; la seconda invece è tutta in pianura.

La strada che da Castiglione presso le Fontane e per S. Cassiano al piede delle colline conduce a Foresto, è quella che separa queste due parti.

La parte piana, nella quale indicheremo come punti principali, Medole Guidizzolo, Barcaccia, Ca' Marino, Quagliare e Robecco, rassomiglia, in quanto alla coltura ed alla configurazione, al campo di battaglia di Magenta. Soltanto tra Medole, e Cavriana havvi un’aperta, libere ed alquanto estesa pianura, la quale lungo la strada di Guidizzolo prende aspetto di landa, e si presta assaissimo ai movimenti di grandi masse di cavalleria.

Seguendo il lembo delle alture verso la pianura, che poco sopra abbiamo accennata, lungo la via da Foresto a Castiglione, e per Esenta a Lonato, non meno che a levante di Cavriana verso Monzambano, vedremo che questo lembo in grande è formalo da una catena di colline che descrivono un semicerchio, il cui punto centrale sarebbe da cercarsi al lago di Garda, verso Colombare. Acquisteremo poi un concetto alquanto esalto, e sufficiente a comprendere le condizioni del terreno e la configurazione dell'interno di tutto questo paese di colline, compreso tra il dello lembo ed il lago di Garda, quando sapremo che esso contiene una quantità di catene di colline le quali verso il lembo stesso formano vari semicerchi concentrici.

Queste catene di colline che corrono parallele (in senso concentrico), sono separale l’una dall’altra per mezzo di valli, le quali, considerate in grande, descrivono, partendo dal punto centrale di Colombara, tanti semicerchi concentrici. Ad occidente, e presso al nodo delle Alpi dalle quali si diramano, le colline sono in generale più alte che a levante verso il Mincio. Chi volesse persuadersi dell'esattezza di tale concetto, non ha che a seguire il corso del torrente Redone che passa presso Contrada Mescolare, Pozzolengo e Ponti, e si getta al disotto di quest’ultimo luogo nel Mincio.

Quanto sia importante per l’intelligenza di fatti guerreschi il conoscere la condizione del terreno, e non soltanto superficialmente, ma in modo che rimanga chiaramente. impressa nella memoria, è cosa da tutti confessata. Tuttavia abbiamo spesso udito uomini dell’arte e profani, lamentarsi che con tali descrizioni topografiche frammischiale nelle istorie della guerra, per lo più non si riesca che a renderle maggiormente oscure, anziché più intelligibili. Questo effetto contrario avviene per la seguente ragione. Nella descrizione di un terreno, affinché essa riesca efficace, è anzitutto indispensabile di renderla quasi un ajuto mnemonico. Al fine di raggiungere questo scopo, è necessario di semplificare e di riferire le cose con idee chiare e facili ad èssere generalmente comprese. Ciò si trascura assai spesso dagli uomini dell’arte, i quali, per uno scrupolo esagerato, o tosto cominciano con qualche descrizione di minute particolarità, o la intrecciano, anzitempo nella descrizione generale, temendo forse anche di compromettere la dignità di storici col rendersi troppo famigliari. Noi abbiamo un’opinione al tutto contrariale stimiamo invece di poter cooperare coi nostri scritti popolari, a rendere la chiarezza della narrazione, quando pure in orrore dei pedanti, più bene accolla dal popolo, mirando in tal modo al vero fine pel quale debbono essere pubblicate siffatte storie.

Dopo avere descritto in generale l'aspetto di questo paese di colline, vogliamo aggiungere alcune particolarità, che varranno certamente a far meglio conóscere i luoghi ove accaddero le grandi fazioni guerresche che stiamo per raccontare.

Parlavamo prima di catene di colline che concentricamente girando intorno al punto di Colombari, cessano e si perdono sulla linea di Lonato, Esenta, Castiglione, Cavriana e Monzambano, non avuto riguardo alle loro diramazioni verso Foresto. Sono queste nel cent plesso tutte catene di colline; ma seguendo una di esse secondo la sua direzione principale, è d’uopo discendere da una eminenza verso una incavallatura, pel salire di onoro sopra un’altra eminenza; la catena si forma appunto di colli che nella direzione generale sono divisi da queste incavallature. Sovente, stando sopra una di queste vette, scorgonsi varie; brevi catene che dalla medesima si diramano in tutte le direzioni, rinchiudendo gole dal fondo delle quali s’innalzano quelle vie che conducono verso le località superiori. In generale ciò punto non muta l’aspetto del paese.

Al lembo esteriore di questo complesso di colline, trovansi i punti più alti, i quali discendendo verso il bacino del lago di Garda diminuiscono mano mano;in altezza. Uno dei punti più sporgenti è la sommità di Solferino, intorno alla quale giace il paese di tal nome. La superficie del lago di Garda è 215 piedi di, Parigi sopra quella dell’Adriatico, mentre la vetta di Solferino s'innalza 634 piedi sopra quest’ultimo, cioè circa 400 piedi sopra quella del lago di Garda; e se si aggiunga che in generale il terreno del lago di Garda s’innalza sempre più verso mezzodì, si potrà di leggieri comprendere che qui non è discorso di vere montagne. Per certe condizioni tattiche non vengono prese in considerazione se non colline dell’altezza (relativa) di cento piedi.

Anche in questo paese di collina la coltura è molto accurata. I piccoli villaggi e le cascine sono più frequenti qui che nella pianura. Le pendici delle colline sono coltivate a vigna; i boschi assai scarsi; al più al più si veggono poche piccole boscaglie, tra le quali vogliamo notare il Bosco scuro a levante di Cavriana, presso Corte. Le case sono costrutte in pietra, e quasi tutte solidamente; le vigne nelle vicinanze dei paesi sono di frequente cinte da robuste mura, le quali spesso sorreggono pure terrazze.

Anche su questo terreno, per dinotare paesi, villaggi e singole cascine, si ripetono qualche volta alcuni nomi; laonde dobbiamo distinguere con precisione al fine di non cader in errore. A questi appartengono: Fenile, Feniletto, Caselle, Casellino, Barche, Colombara, S. Martino, cosi intitolato dalla chiesa consacrala al santo di quel nome. Qualche volta sonvi luoghi che hanno lo stesso nome principale, ma che si distinguono con addiettivi, come per esempio, vecchio, nuovo, inferiore, superiore, ovvero coll’aggiunta del nome di una città vicina o di un altro paese più esteso poco distante dal piccolo Questa per altro non è una regola generale.

I punti più importanti per meglio tener dietro allo svolgersi degli avvenimenti della battaglia,'sono le Graie; Solferino, S. Cassiano, Cavriana, tutti sul lembo esterno del territorio; indi nel suo interno, Madonna della Scoperta, sulle alture a settentrione del Redone, Pozzolengo, S. Martino a settentrione-occidente di Pozzolengo, tra la ferrovia e la strada Lugana.

Solferino, vero centro della battaglia, dee trattenere singolarmente la nostra attenzione. Il punto principale di Solferino ha aspetto di una erta cresta, di forma conica, detta la Rocca, sulla quale trovasi una torre quadrata, chiamata Spia d'Italia; da questa cresta si stendono parecchie alture in direzioni diverse, luna circa a settentrione-occidente, verso le Graie; una seconda a guisa di catena al mezzodì verso la strada, alle falde delle colline; una terza, pure in guisa di catena, nella direzione di S. Cassiano; una quarta infine a' settentrione-occidente verso la valle del Redone. Dalla Rocca scendono nelle gole fra le alture, tre strade principali; una verso S. Cassiano, ove trovasi la chiesa principale del luogo; l’altra ad occidente verso la Madonna delle Fattorelle, lambita da un campo santo, cinto da mura; e la terza al sud-ovest la strada principale di Castiglione; belle fazioni guerresche eh ebbero; luogo specialmente intorno a Solferino, noi la chiameremo brevemente la strada di Castiglione.

A seconda della configurazione generale del terreno, le case situate lungo queste strade e sul piano verso la cresta, giacciono quasi una sopra. l'altra, in guisa di terrazze. L'accesso più facile è quello tra le strade di Castiglione e Cassiano, che mena verso quella parte meridionale del paese che guarda. S.° Cassiano} dal lato settentrione-occidente l'adito è assai stretto; per poter attaccare il villaggio da questa parte, è forza dopo aver preso d’assalto le case di S. Martino a settentrione-levante. impadronirsi non solo del campo santo, ma anche del castello cinto di mura che giace a settentrione della Rocca, e che dai Francesi è intitolato, nelle loro relazioni il boschetto dei. Cipressi.


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Descrizione generale della battaglia

Si comprende di leggieri come un combattimento simile: a. quello che imprendiamo a descrivere, all’estensione del campo di battaglia, e col gran numero delle forze guerreggiatiti, disponibili, debba suddividersi in tanti combattimenti particolari, i quali rispetto allo spazio, si succedono l’uno accanto all'altro, rispetto al tempo, uno dopo l’altro, e che in altre circostanze avrebbero potuto considerarsi degni d’essere descritti ciascuno partitamente, siccome tante singolari battaglie. Ma con una: tale compendiosa analisi dei fatti parziali, il lettore anche dotato della maggior forza di mente, potrebbe di leggieri confondersi, e perdere il filo a cui il complessò delibazione deve andare unito. Laonde alla narrazione: dei fatti particolari premettiamo Una esposizione generale in brevi cenni, per dedurre nello stesso tempo quali possano essere i momenti, nei quali dovremo ripartire le nostre descrizioni speciali. Dopo di che sarà agevole il seguire anche queste.

Tra le ore 3 e le 7 del mattino del 24 giugno i singoli corpi degli alleati inoltrandosi s’incontrarono ovunque coi posti avanzati degli Austriaci, i quali erano tuttavia nelle prime loro posizioni. Su tutta' la linea da Castel Goffredo sino a Buccole presso: Pozzolengo, un tratto di,circa 2 leghe e mezza tedesche, ossia 29,000 passi, s’impegnano combattimenti. Onesti conflitti sono da principio soltanto staccati.

Se non che, quand'anche i comandanti di un singolo corpo sieno animali dal desiderio di fare non solo il meglio possibile nel luogo ove essi combattono, ma di unire, per quanto li riguarda, la propria attività a quella dei vicini, ogni singolo comandante non può e non deve operare oltre la propria cerchia; egli non può scorgere tutto l’andamento dei fatti, quindi non può intromettersi nell'azione generale, ma deve lasciare ciò alla direzione suprema.

Quando dunque sottentra la direzione suprema, per ridurre la somma dei combattimenti particolari ad una formale battaglia?

Questa si appalesa dapprima nelle file degli alleali. Napoleone III, animato dal pensiero dell'assalto immediato, appena ode le prime fucilate, verso le 6 ore del mattino, monta a cavallo e col suo stato, maggioro accorre sul campo di battaglia. Per via riceve relazioni da' suoi generali; inoltre egli sa ciò che può e deve; fare; egli sa che senza ud estremo bisogno, o singolarmente prima di trovarsi sul luogo dell'azione, non debbonsi cangiare le date disposizioni. L'intimo suo pensiero è quello di rompere il centro nemico, e dii gettarsi a tal fine, con tutte le forze delle quali può disporre, sul fianco sinistro dell'ala destra austriaca, di conquistare le alture dominanti, e di decidere in tal modo l’esito della battaglia, obbligando l’ala. sinistra austriaca a ritirarsi da sé, perché, cosi isolata, nulla può conseguire.

Le prime disposizioni date da Napoleone sono,favorevoli al conseguimento del suo intimo pensiero, quantunque egli non le abbia immaginate, se non relativamente a condizioni generali, senza applicazione al caso speciale, cioè che il dominio della linea del Minsk dovesse essere conquistato con una grande battaglia Ciò nulla meno egli è soltanto sul luogo dell'azione che il duce supremo dee riconoscere se i suoi calcoli generali, siano giusti ed esatti, e se egli non abbia: dimenticato di prendere in considerazione qualche: importante fattore. Laonde egli si limita dapprima a spedire alle sue riserve che trovavansi ancora indietro, l'ordine di raggiungere con tutta sollecitudine, il campo di battaglia, e di recarsi dietro il centro sulla strada grande che da Castiglione mena a Goito. Indi accorré al centro ove combattevano i corpi d’armata di Mac-Mahon e di Baraguay d'Hilliers. Qui non trova avversato!’intimo suo concetto ed adopera tutta la sua attività direttrice nel concentrare da destri a sinistra sul centro quanta più truppa gli è possibile mentre all’estrema sua destra ed all’estrema sua sinistra si limita ad osservare, ed in caso di bisogno, a trattenere il nemico.

Frattanto il tempo scorre e gli ordini del comandante supremo non giungono cosi presto e nel modo da' lui desiderato, sui diversi punti del campo di battaglia il duce comanda; ma sotto i suoi ordini soavi comandanti di corpi sui quali pesa una grande responsabilità, ed ai quali egli non può ordinare allo stesso modo di un comandante di battaglione verso i suoi capi di compagnia. È d'uopo concedere loro la facoltà di eseguire condizionatamente od incondizionatamente gli ordini ricevuti, secondo che ne riconoscano possibile od opportuno l'eseguimento.

Da ciò ne viene che l’influenza del comando supremo: sui punti separali, si può far sentile è può ottenere la vera sua forza in diversi momenti ed in modo differente.

Possiamo ammettere dunque, che fu a mezzogiorno quando l’operosa azione del comando supremo si rese visibile presso gli alleati, quantunque la sua influenza incominciasse infatti sei ore prima.

Nel campo austriaco il comando supremo era assai meno vigoroso. Osserveremo soltanto alcune particolari sue influenze, le quali si direbbe che a capriccio s’immischiassero nel corso dei combattimenti. Noteremo fedelmente i momenti nei quali esso si manifesta. Il generale Hess insisteva che l’esercito aspettasse dietro al Mincio, coperto da fortificazioni di campagna, l’attacco nemico, e si attendesse l’arrivo del 6.° e del 10.° corpo già vicini; ma non potè far prevalere la sua voce io un consiglio di guerra. Non sostenne con fermezza la sua opinione, ed anzi lasciò che nel corso della battaglia le cose procedessero a modo loro. Il tenente maresciallo Ramming rimase il vero motore, ed egli per molto tempo non volle credere che il 24 non si riducesse più che ad un combattimento di avamposti. Non si era data. nemmeno veruna disposizione pel caso in cui l’esercito austriaco fosse stato assalito durante il suo avanzarsi.

Allorché Napoleone, dirigendo i combattimenti particolari, diede loro l’aspetto ed il valore di una battaglia, questa prese l’andamento che segue: Tre corpi francesi, il 1., il 2. e la Guardia, combatterono al centro contro il 6. il 4. e contro una parte del settimo corpo degli Austriaci, intorno alle posizioni di Solferino e di S. Cassiano, le quali alle 3 pomeridiane rimasero in potere dei Francesi. Questi inseguirono gli Austriaci nella direzione di Cavriana; anche Cavriana fu presa circa alle 4 ore; un terribile uragano interruppe alle 5 la battaglia, e l'inseguimento, ripreso di nuovo più lardi, cessò poco lungi da questo luogo.

All'ala destra degli alleati, il generale Niel, fiaccamente sostenuta dal maresciallo Canrobert, altro non poteva fare se non trattenere per tutto il giorno i tre corpi d'armata austriaci;, il terzo, il nono e l’undecimo, che gli stavano contro, e che tentavano d’irrompere da Guidizzolo verso Medole; movimento che vollero. sperimentare un’altra volta, ma invano dopo la perdita della posizione di Solferino. Se non che ciò era. più che sufficiente; poiché tosto che fu decisa la ritirata dèi centro austriaco, anche i corpi dell'ala sinistra austriaca dovettero fare lo stesso.

All’ala sinistra degli alleati, ove i Piemontesi pugnavano contro l’ottavo corpo austriaco, il combattimento rimase quasi tutto il giorno senza un certo collegamento cogli altri fatti d'armi della battagliale ciò per motivi di nessuna importanza generale, e che le sole narrazioni particolari potranno chiarire. Gli Austriaci quivi rimasero decisamente vincitori, il che però non potò recare se non poco utile all'esito finale. Anche quest’ala destra degli Austriaci ebbe l’ordine assoluto di. ritirarsi, e quando, cessato l’uragano, i Piemontesi seguirono quella ritirata, non incontrando se non le retroguardie dei loro avversar», potevano bensì con poca pena, ma non con altrettanta verità, immaginarsi che in fine essi pure fossero rimasti vincitori. Dopo questa sommaria esposizione, veniamo a narrare i fatti particolari.

Li partiremo nel seguente modo:

1.° Il tempo dei combattimenti parziali nell’ordine qui appresso:

а) Combattimento di Baraguay d’Hilliers contro il 5.° corpo austriaco.

b) Combattimento di Mac-Mahon contro il primo corpo austriaco.

c) Combattimento di Niel contro gli avamposti dell’ala sinistra austriaca, compresovi anche l'appoggio di Canrobert per la parte che potè prendervi.

d) Combattimento dei Piemontesi contro l'ottavo corpo austriaco.

2.° Il tempo della vera battaglia, cioè:

а) la decisione al centro presso Solferino e $. Cassiano, ottenuta dal primo e secondo corpo d'armata, e da quello della Guardia francese contro il quinto, primo e settimo degli Austriaci;

b) l’ultimo tentativo degli Austriaci per effettuare una diversione colla loro ala sinistra;

c) quale era lo stato delle cose sull'ala sinistra degli alleati durante questo periodo;

d) la ritirata degli Austriaci sulla sinistra del Mincio.

Accenneremo, da ultimo, quale avviamento al periodo della battaglia propriamente detta, le disposizioni particolari date da Napoleone III dal momento In cui nel giorno 24 assunse la direzione suprema.


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Combattimenti particolari che inaugurarono il giorno 24 giugno

Mossa di Baraguay d'Hilliers contro Solferino

Consentaneamente agli ordini ricevuti II giorno 23, il maresciallo Baraguay fece marciare da Esenta alle ore 2 del mattino del 24, la seconda divisione I,admirault, scortata da quattro pezzi d'artiglieria, e le comandò di dirigersi per Astore e tra le colline, verso Solferino. Seguiva alle 3 la divisione Forey con la Sua artiglieria, che si diresse dapprima verso Castiglione, girandolo a settentrione e passando poi sulla strada che da Castiglione lungo le falde delle colline mena a S. Cassiano. La divisione Bazaine seguendo Forey, prese la medesima via, e dopo di essa la riserva d’artiglieria del corpo ed il bagaglio.

La divisione Forey fu prima ad incontrare il nemico. Era la brigata Bils del 5.° corpo (reggimento Kinski ed un battaglione di Ugulini confinari) la quale, spedita, come abbiano detto, alle Grole, aveva spinto i suoi posti avanzati sino a Valscura.

Questi avamposti, semplici guardie di campo, furono tosto snidati da Valscura da due compagnie del 17.° battaglione di cacciatori a piedi, che marciavano alla testa della divisione. Eran circa le 5 del mattino quando incominciò questo piccolo combattimento. Il casale delle Grole era più fortemente occupato dagli austriaci. Due battaglioni del 74.° reggimento l’assalirono, e lo presero dopo ostinata resistenza; frattanto tutta la divisione Forey erasi schierata sulle alture di Valscura; alla sua sinistra presso Barche di Castiglione, nella valle ed alle falde delle colline che la rinchiudono, stava la divisione Ladmirault. Questa era divisa in tre colonne: una a destra sotto il generale Donay, una a sinistra sotto il generale Negrier, ciascuna di quattro battaglioni di fanteria e;2 compagnie di cacciatori a piedi; infine una al centro, pure di 4 battaglioni e 2 compagnie di cacciatori a piedi, e 4 pezzi d’artiglieria sotto il comando dello stesso generale Ladmirault. La divisione Bazaine, appostata dietro quella di Forey, componeva la riserva.

In questo ordine Baraguay d’Hilliers fece avanzare il suo corpo. In breve incontrò più grave resistenza; dappoiché non soltanto l’intera brigata Bils erasi posta io battaglia, ma alla sua sinistra spiegavasi anche la brigata Puchner reggimento Culoz col 6.° battaglione dei cacciatori. Imperatore, ed avanzavasi per sostenerla, allungandosi sempre più alla sinistra di Bils sul lembo delle colline in modo da permettere alla brigata Bils di svolgersi con maggior energia a diritta verso la valle dalla. quale doveva sboccare la divisione Ladmirault. Questa divisione venne alle strette, e fu anzi obbligata di ripiegare colla sua ala sinistra verso Astore. Ma più fortunata fu la divisione Forey, la quale ancorché passo a passo, tuttavia conquistava sempre più terreno luogo il: lembo esteriore delle colline. Ciò indusse la brigata Bils a ritirarsi, ed in lai guisa la divisione Ladmirault fu liberala dal pericolo che le sovrastava. ,

Circa le ore 10 del mattino, l'84. reggimento francese assaliva le alture di Monte Fenile tra le Grole e la, via che dalla strada di Castiglione conduce salendo a Solferino. Dopo vivissimo combattimento furono prese, e tosto stabilivasi colà una batteria, la quale quantunque alla distanza di circa 3000 passi, colpiva con buon esito lo stesso Solferino., Dopoché questa batteria operò con efficacia per qualche tempo, il maresciallo Baraguay d'Hilliers fece discendere la prima brigata della divisione Forey, sotto gli ordini del generale Dieu, dalla pendice orientale del Monte Fenile, per assalire le alture tra le due strade di Castiglione e di S, Cassiano, indi anche Solferino, mentre la seconda, brigata della divisione Forey prendeva posizione sul Monte Fenile., l'asfalto della brigata Dieu riuscì sino io prossimità alla Rocca, cioè sino alle prime case del paese; ma quivi, colpiti dagli austriaci con un fuoco ben nutrito, dovettero i francesi, inseguiti dall’inimico, retrocedere. La brigata Dieu potè ancora-sostenersi Soltanto all’estremo lembo delle colline presso la strada di Castiglione ove fu appostata un’altra batteria, la quale operando di conserva con quella di Monte Fenile attuava un, cannoneggiamento diretto singolarmente contro la Rocca, durante il quale il generale Dieu riportò tale grave ferita, da dover cedere il comando al colonnello Cambriels dell’84.°' reggimento.

Il cannoneggiamento contro Solferino durò quasi sino al mezzogiorno.

Frattanto anche il generale Ladmirànlt erasi impadronito delle alture tra Barche e la valle del Redorié, è combatteva contro gli austriaci che occupavano S. Martino. Per sostenere le due brigate austriache che sino allora avevano quasi sole pugnato contro i francesi, si fecero avanzare più davvicino alla prima linea le altre due brigate del 5.° corpo, che occupavano dapprincipio una posizione a levante di Solferino; erano(,;)queste le brigate Gaal (reggimento Arciduca Carlo Ludovico) e Roller (reggimento Arciduca Ferdinando).

È qui dobbiamo abbandonare il primo corpo francese ed il quinto austriaco per rivolgerci al secondo francese.

Movimento di Mac-Mahon verso Ca' Marino

Mac-Mahon partì dal suo accampamento presso Castiglione alle ore 3 del mattino. Il suo corpo dovette avanzare in una sola colonna per non impedire la marcia del primo e. del quarto corpo d'armata; e per ciò lo sboccare fuori da Castiglione durò alquanto tempo. Appena compiuto, il generale Mac-Mahon ebbe annunzio dalla sua avanguardia che il nemico gli stava di fronte a Ca' Marino sulla strada grande. Alle ore 5 del mattino incominciò qui il fuoco dei tiragliatori. I posti avanzati del terzo corpo d’armata austriaco occupavano Ca' Marino.

Saliva il maresciallo Mac-Mabon sopra un colle, e distendevasi sul Monte Medolano presso la strada e la cascina Barcaccia, d’onde poteva colla vista dominare la sottostante pianura. Da questo punto vide ed udi il combattimento del corpo di Baraguay d’Hilliers, vide che dai dintorni di Cavriana colonne austriache del primo corpo dirigevansi nella pianura in parte verso Ca' Marino, ed in parte occupavano le alture di Solferino e S. Cassiano; vide inoltre che una colonna del terzo corpo marciava da Guidizzolo sopra Ca' Marino. MacMahon era desiderosissimo di volgere a sinistra e di marciare sopra Solferino per sostenere Baraguay, ma ciò facendo avrebbe abbandonato la grande strada da Guidizzolo a Castiglione alle colonne austriache le quali avanzavano, ed avrebbero potuto gettarsi tra lui ed il corpo di Miei..

Egli attese dunque di avere da prima notizie di Miei, del quale nulla ancora sapeva, ed inviò il suo capo di stato maggiore generale Lebrun nella direzione di Medole, ove avrebbe dovuto incontrarsi con lui. Il detto capo di stato maggiore arrivò circa alle ore 6 e ½ del mattino nelle vicinanze di Medole, ove appunto rinvenne il generale Niel nel momento di dare le disposizioni per l’assalto del paese. Miei gli promise, appena si fosse impadronito di Medole, di avvicinarsi all'ala destra di Mac-Mahon; rispetto poi alla compiuta sua unione, questa dipendeva dal giungere di Canrobert e dal concentramento delle costui schiere con quelle del generale Niel. Con tale risposta ritornò il generale Lebrun.

In seguito a questo avviso Mac-Mahon si decise di tenersi sull’aspettativa; soltanto intorno a Ca' Marino mantenne un combattimento di tiragliatori. Ma nel frattempo gli austriaci accrescevano del continuo tra S. Cassiano e la strada di Guidizzolo, e Mac-Mabon, comprese che la conquista della cascina Ca' Marino, che gli poteva tuttavia offrire un punto d’appoggio pel suo movimento sopra S. Cassiano, d’ora in ora gli sarebbe riuscita sempre più scabrosa. Diede quindi ordine di assalire Ca' Marino. La cascina fu presa, e Mac-Mahon distese allora le sue schiere verticalmente e sopra ambi i lati della strada di Guidizzolo. Ca' Marino fu assalita dopo le ore 8 ed alle 9 e ½ incominciò il dispiegamento a traverso la strada.

La prima brigata della prima divisione (la Motterouge) si schierò a destra della strada principale di Guidizzolo ed innanzi (a mezzodì-ponente) di Ca' Marino lungo la via di Medole. Alla sua sinistra ed a stanca della strada di Guidizzolo schieravasi la seconda divisione (Decaen, anteriormente Espinasse), colla, sua sinistra nella direzione di Solferino; dietro l’ala sinistra della seconda divisione, presso la via di S. Cassiano, fu spinta la riserva della cavalleria, cioè il 7.° reggimento di cacciatori a cavallo; la riserva della fanteria (la seconda brigata della prima divisione) prese posizione tra Ca Marino e la Barcaccia; da ultimo il quarto reggimento di cacciatori a cavallo stava dietro l’ala destra della prima divisione.

Mentre si tenevano queste posizioni, giungeva l’imperatore Napoleone presso il primo corpo, ed erano forse le ore 9 del mattino.

Subito dopo mostravasi presso la strada di Guidizzolo, sulla landa di Medole, una forte colonna austriaca dei primo corpo con numerosa artiglieria, e spiegavasi dirimpetto alla posizione di Mac-Mabon alla distanza di 1200 passi; questi fece tosto collocare le 4 batterie di divisione (24 pezzi) innanzi la fronte nella linea dei tiragliatori per rispondere al fuoco degli austriaci. Il generale Auger, che dalla parte dei francesi dirigeva il combattimento dell'artiglieria, ebbe fin dal principio spezzato il braccio sinistro da una palla di cannone.

Alle ore 40 giunsero sulla pianura di Medole e dietro l’ala destra di Mac-Mabon le due divisioni di cavalleria di linea, Partouneaux e Desvaux, le quali erano già state poste sotto il comando del maresciallo, ed egli ordinò ad esse di porsi al fianco destro del suo corpo. Ciò venne tosto eseguito e le due divisioni avanzarono, precedute dalle batterie. Queste batterie si appostarono diagonalmente contro la linea dell’artiglieria austriaca e la tempestarono in modo da indurre gli austriaci a ritirarsi. I reggimenti delle divisioni Desvaux e Partouneaux, dopo che l’artiglieria aveva loro preparato il terreno, fecero parecchie cariche sull'infanteria austriaca; con una di queste gettarono 600 austriaci contro i tiragliatori francesi, che li fecero prigionieri. L’arrivo delle dette due divisioni di cavalleria permise il maresciallo Mac-Mabon d’inviare dall'ala destra sulla sinistra due squadroni disponibili del 4.° reggimento di cacciatori a cavallo in sostegno del 7.° reggimento di cacciatori a cavallo.

Anche questa cavalleria doveva quanto prima so stenere la sua prova. La divisione di cavalleria di riserva Mensdorf, accampata in Tezze, appena avuto avviso dell’incominciare del combattimento, sali in arcione e marciò per Val di Termine contro l’ala sinistra dei corpo di Mac-Mahon, cui assali anche con molto vigore tra le 10 e le 14. La fanteria dell’estrema ala sinistra di Mac-Mahon, l'41.° battaglione dei cacciatori a piedi ed i tre battaglioni del 72.°, dovete lero ordinarsi in quadrati. I sei squadroni disponibili del 4.° e del 7.° reggimento di cacciatori a cavallo, uscirono dal fianco sinistro di questi quadrati e loro riusci di gettare alcune divisioni (di 2 squadroni) della cavalleria di riserva Mensdorf contro il fuoco della fanteria, dalla quale furono assai malconci.

In tal guisa il primo corpo austriaco, il quale prese gran parte al combattimento contro Mac-Mahon, fu costretto a ritirarsi verso S. Cassiano e Cavriaoa. Il conflitto presso Ca' Marino era più che. altro un cannoneggiamento; i combattimenti della cavalleria si possono considerare episodi.

Alle ore 11 il maresciallo Mac-Mahon ricevette altre notizie da Miei, secondo le quali questi poteva avanzare sopra Guidizzolo. Ma frattanto la cavalleria di riserva della linea (le divisioni Partouneaux e Desvaux) fu di nuovo inviata a raggiungere il corpo di Niel, e cosi si fece tra questo e Mac-Mahon un vuoto che si sarebbe dilatato ancor più e con molto danno, se quest'ultimo avesse mosso sopra S. Cassiano e Cavriana. Laonde non potè ancora determinarsi a cominciare il suo movimento decisivo.

Avuto però annuncio alle ore 12 e mezzo che la cavalleria della Guardia destinata da Napoleone in suo

209 aiuto, era giunta tra Castiglione e Barcaccia, egli le inviò tostò l'ordine di porsi al suo fianco destro e cosi stabilire la comunicazione di questo fianco colle divisioni Partouneaux e Desvaux, che intanto coprivano il fianco sinistro di Niel, e potè risolversi a cominciare il loro movimento sopra S. Cassiano, o per lo meno a dare le necessarie disposizioni. Questo divisamento gli venne agevolato dal ritirarsi alquanto precipitevole di Clam-Gallas e dall'avanzare di Niel.

Ma lasciamo Mac-Mahon per tornare in traccia di Niel e di Canrobert.

Combattimenti dei corpi di Niel e di Canrobert contro il primo esercito austriaco

Il generale Niel diede ordine al quarto corpo di porsi in marcia alle ore 3 del mattino da Carpenedolo a Medole. Tutta la fanteria del corpo marciava sulla medesima strada per Feniletto a Medole. Precedeva la divisione de Luzy-Pelissac, la quale era susseguitala dalla divisione Vinoy, indi dall’artiglieria del corpo ed infine dalla divisione de Failly.

Alla divisione de Luzy furono aggiunti due squadroni del 40.° reggimento di cacciatori a cavallo sotto la direzione del generale Rochefort, il quale comandava la brigata di cavalleria.

Le due divisioni di cavalleria Desvaux e Partouneaux ebbero ordine di movere prima sopra Castiglione e di qua sopra Guidizzolo. Abbiamo già veduto come successivamente siano state incaricate di sostenere il maresciallo Mac-Mahon.

Degli austriaci stava a Medole la brigata Lauingen (reggimento dragoni N. 4 e 3 e quattro squadroni di ussari Principe Carlo di Baviera, in tutto 16 squadroni) della divisione Zedtwitz. Il tenente maresciallo Zedtwitz comandava io persona con le 40 compagnie di fanteria innanzi menzionate e con quattro squadroni di ussari e due squadroni di dragoni in Medole; il generale Lauingen invece con gli altri 40 squadroni di dragoni a levante del paese sulla landa, presso la strada di Guidizzolo.

All’altezza di S. Vigilio alle 5 ore del mattino i due squadroni del decimo reggimento di cacciatori a cavallo incontrarono le guardie di campo della cavalleria austriaca, le quali si ritirarono sopra Medole.

Essendo Medole occupato da fanteria, i due squadroni francesi di cavalleria nulla poterono imprendere contro quel villaggio; e perciò il generale de Luzy schierava i primi battaglioni della sua divisione per condurli ad un assalto sopra Medole facendo avanzare l'artiglieria. Il generale Niel arrivò in persona sul luogo. Medole fu attaccato e dopo lunga difesa, sostenuta dal tenente maresciallo Zedtwitz, preso dai francesi alle ore 7. del mattino: gli austriaci si ritirarono. Dopoché Zedtwitz dovette abbandonare Medole, ritraevasi coi suoi 6 squadroni verso la strada di Medole, ove avrebbe dovuto rinvenire il nerbo della brigata Lauingen. Tuttavia nulla incontrò, poiché il gen. Lauingen, appena ebbe veduto avanzarsi ed avvicinarglisi le prime schiere dei bersaglieri di Niel e fors’anche quelle di Mac-Mahon, e udito fischiare le prime palle di fucile, si era ritratto precipitosamente sino a Goito. Il tenente maresciallo Zedtwitz spediva da principio un ufficiale per cercarlo, infine si pose egli stesso in traccia di lui, supponendo dall’indole stessa di Lauingen, che la propria sua autorità fosse necessaria per farlo avanzare di nuovo, e credendo inoltre, che pel giorno 24 non si trattasse di una battaglia campale, ma piuttosto, secondo gli eventi sino allora avveratisi, soltanto di un semplice conflitto tra posti avanzati, e che quindi la sua momentanea assenza dal campo di battaglia non potesse recare alcun danno.

La testa del corpo di Miei potè in conseguenza avanzare liberamente. Tre battaglioni della divisione de Luzy seguivano quasi interamente la destra della Seriola Marchionale verso Ceresara; la prima brigata della stessa divisione, Donay, prese la via di Robecco. Questo villaggio era fortemente occupato dagli austriaci, i quali vi tenevano l’ala destra del nono corpo; inoltre anche il terzo corpo austriaco erasi posto sotto le armi ed occupava con alcuni battaglioni Ca' Nuova e qualche boscaglia che la fiancheggiava, schierandosi col nerbo più indietro, a ponente della grande strada da Guidizzolo a Castiglione. Niel, che da questo lato attendeva un forte assalto, oppose' dapprima 8 pezzi d’artiglieria della divisione de Luzy e diede ordine alla divisione Vinoy, che alle 8 cominciava ad uscire da Medole, di movere nella stessa direzione. Vinoy poco dopo le ore 8 e mezzo si appostava con l'ala sinistra piegata indietro, nella direzione dell'ala destra del corpo di Mac-Mahon, il quale in quel tempo erasi posto in battaglia innanzi Ca' Marino. Dopo la divisione Vinoy giunse in breve anche l'artiglieria di riserva del quarto corpo, la quale si fece avanzare immediatamente affinché, unita all'artiglieria di divisione, avesse potuto coprire il fianco sinistro della divisione Vinoy. Da ultimo furono ivi riuniti, compresa l’artiglieria di divisione, 42 pezzi d’artiglieria. Dopo l’artiglieria di riserva, seguirono le due divisioni di cavalleria di linea Desvaux e Partouneaux le quali, come abbiamo innanzi veduto, ricevettero ordine di unirsi ai corpo di Mac-Mahon.

Il generale Vinoy s’impadronì ben presto del villaggio di Ca' Nuova, mentre la quantità d’artiglieria accumulata sulla sua ala sinistra impedì col suo fuoco a mitraglia il tentativo di Schwarzenberg di gettarsi col terzo corpo per Quagliare sul suo fianco sinistro.

Durante questi combattimenti intorno a Ca' Nuova, la brigata Donay della divisione de Luzy ebbe a sostenere a Robecco una lotta molto difficile, imperocché gli Austriaci avevano mano mano concentrato presso quel paese tutto il nono corpo d’armata. Niel dovette in poco tempo inviare colà uno dopo l’altro tutti quei pochi battaglioni ch'egli erasi tenuto in riserva. Ivi attendeva con impazienza l’arrivo della divisione de Failly, la quale cominciava a sboccare da Medole alle ore 9 del mattino. La prima brigata di de Failly, o’ Farrel, ebbe subito l’incarico di recarsi a Baete per ristabilire la comunicazione tra le due divisioni de Luzy e Vinoy; e colla brigata Saurin della divisione de Failly, il generale Niel componeva una nuova riserva.

Egli però comprese di non poter ripromettersi alcun esito positivo attese le poche sue forze a fronte di quelle degli Austriaci, le quali erano molto superiori in numero e sembravano aumentare del continuo; anzi era perfino incerto se avesse potuto resistere per un tempo sufficiente all'impeto degli Austriaci. Se ciò non gli riusciva, l’effetto del centro francese sarebbe rimasto inefficace, dappoiché, lungi dal poter continuare il suo movimento offensivo, avrebbe dovuto ristringersi a conservare la comunicazione della linea. Se avesse potuto per altro conquistar Guidizzolo, Niel avrebbe ottenuto un effettivo vantaggio, mentre al centro Mac-Mahon e Baraguay avrebbero preso S Cassiano e Solferino; egli allora poteva assalire a tergo gli Austriaci respinti da quest’ultimo luogo circa verso Cavriana, e allontanarli dal Mincio. La perdita degli Austriaci sarebbe stata assai grave e l’esito veramente decisivo.

Per tutte queste ragioni spediva egli replicatamente ufficiali ai maresciallo Canrobert, che in quel mentre era giunto a Medole, pregandolo del maggior possibile suo appoggio col sostenere l’ala destra presso Robecco e sulla strada di Ceresara; affinché egli stesso (Niel) potesse rannodare la maggior parte del suo corpo per effettuare un gran colpo sopra Guidizzolo.

Vediamo ora quale sia stato l’appoggio ch’egli ebbe sino a mezzogiorno.

Il maresciallo Canrobert nella sera del 23 aveva inviata la brigata Jannin a Visano per proteggere la costruzione di un ponte che i pionieri piemontesi dovevano gettare nella notte sul Chiese tra Visano ed Acquafredda. Nel mattino del 24 alle ore 2 e mezzo si pose in movimento da Mezzane a Visano col rimanente del suo corpo, avendo alla testa la brigata Piccard della divisione Renault, alla quale seguiva dappresso la divisione Trochu, indi la divisione Bourbaki. Alle ore 7 del mattino giunse nelle vicinanze di Castel Goffredo la testa del corpo, la brigata Jannin. Questa piccola città, cinta da vecchie mura, era occupata da un distaccamento di cavalleria dell’ala sinistra austriaca: erano ussari della brigata Vopaterny. Canrobert fece assalire Castel Goffredo dalla divisione Rénault, atterrare le porte ed entrare con la sua scorta di cavalleria del secondo reggimento ussari per prendere la città.

Da questo luogo passò colla divisione Renault a Medole, mentre Trochu e Bourbaki rimanevano tuttavia indietro. Alle ore 9 44 la testa della divisione Renault pervenne in Medole, ed allo stesso tempo vi giunse pure il maresciallo Canrobert. In questo mentre arrivava al maresciallo una richiesta di rinforzo da parte del generale Luzy de Pelissac alla quale ne tennero dietro altre da parte di Niel.

Canrobert ordinò dapprima al generale Renault di rannodare un maggior numero di battaglioni della sua divisione che gli fosse possibile, di far loro deporre gli zaini e di condurli come sostegno sul fianco destro del generale Luzy. Renault riunì 4 o 5 battaglioni dei 41.° e 56.° reggimento; appostò il 41.° a 2500 passi innanzi Medole attraverso la Seriola Marchionale, collocò sulla strada una sezione (2 pezzi) d’artiglieria, che da lontano batté le colonne austriache, le quali da ponente si portarono a levante a traverso la strada nella direzione di Robecco. Dietro il 41.° reggimento veniva il 56.° formando martello, tenendo la fronte verso Castel-Goffredo per conservare questa direzione. Canrobert non credeva per ora di dover fare di più, avendo ricevuto anche da Napoleone l’avviso che un corpo austriaco di 25,000 a 30,000 uomini fosse nel pomeriggio del 25 uscito da Mantova, per operare da Marcaria ed Acquafredda sul fianco destro dell’esercito alleato.

Quest'aiuto permise al generale Niel al più di con centrare la divisione Luzy verso Robecco, e di far qui una maggior resistenza che da principio; ma pel conseguimento dei vasti disegni che gli si presentavano innanzi tale ajuto era insufficiente.

Noi lasciamo ora l’ala destra degli alleati, ed in ispecie il corpo di Niel a mezzodì, in una posizione alquanto sinistra, e tutt'altro che sicuri di un pronto ed efficace ajuto da parte di Canrobert.

Combattimenti iniziativi sull'ala sinistra degli alleati

Le tre divisioni dell’esercito piemontese, cioè Durando (prima) sull'ala destra, Cucchiari (quinta) al centro, Mollard (terza) sull’ala sinistra, avevano avuto ordini speciali di dover spingere forti esplorazioni verso le posizioni di Pozzolengo e Peschiera; per riconoscere se quelle posizioni fossero occupate dagli Austriaci e riferire se il nerbo di esse divisioni avesse potuto appostatisi nel caso che fossero sgombre.

Il generale Durando, al quale, come dapprima a Castelborgo, fu assegnata la cavalleria di riserva, fece partire alle ore 4 del mattino da Lonato la brigata dei granatieri con poca cavalleria. Arrivata a Castel Venzago, doveva essa prendere posizione e spingere un battaglione di granatieri, uno squadrone con due pezzi di artiglieria ed un battaglione di bersaglieri in ricognizione oltre la Madonna della Scoperta; la brigata Savoja doveva seguire alle ore 7 del mattino da Lonato a Castel Venzago.

Giunse la brigata dei granatieri alle ore 5 12 del mattino a Castel Venzago, e da qui spinse in avanti una esplorazione, la quale progredendo, aveva al fianco destro il combattimento del primo corpo francese colle brigate più avanzate del quinto corpo austriaco, e scontravasi verso le ore 7 14 presso la Madonna della Scoperta coi posti avanzali dell’ala sinistra di Benedek.

Il capo di stato maggiore di Durando, che accompagnava la ricognizione, ne diede partecipazione al suo generale.

Il generale Durando n’ebbe avviso ufficiale alle ore 9 circa presso Tiracollo, a metà della strada da Lonato a Castel Venzago, ove erasi recato per essere più vicino al luogo del combattimento. Il capo di stato maggiore dichiarava che riteneva ineseguibile il movimento prescritto alla divisione, di portarsi cioè per la Madonna della Scoperta e Rondotto sopra Pozzolengo, dappoiché, non soltanto di fronte alla divisione, ma anche al suo fianco destro, si trovavano forti colonne austriache. Nello stesso tempo giunse un ufficiale di stato maggiore dell'imperatore Napoleone, il quale raccomandò caldamente al generale Durando di porsi in comunicazione col primo corpo francese, cioè di marciare verso il luogo ove facevasi udire il cannone francese. Allora soltanto il detto generale fece partire la brigata Savoja dal campo di Lonato; e spedire inoltre l’ordine al nerbo della brigata di granatieri di avanzare da Castel Venzago verso Madonna della Scoperta Durando stesso recavasi su quel punto; arrivato colà, trovò la metà della brigata impegnata in un conflitto. Erano circa le ore 40 antimeridiane, e gli Austriaci aveano il sopravvento. Vi combattevano non solamente truppe austriache dell'ottavo corpo, ma quelle pure dell’ala destra del quinto. I Sardi furono obbligati a ritirarsi da Madonna della Scoperta, non solo, ma eziandio ad abbandonare, girati per la valle del Redone da Ca' Sojetta, altre posizioni più indietro, ed il sopraggiungere dell’altra metà della brigata non mutò che di poco la loro situazione. Durando non potè quindi corrispondere ai ripetuti comandi dell’imperatore Napoleone di porsi in comunicazione coll’ala sinistra di Baraguay d’Hilliers, ed allorché verso mezzogiorno la brigata Savoja si avvicinò al luogo del combattimento, dovette prendere una posizione di sostegno.

La divisione Cucchiari che aveva gli accampamenti tra Desenzano e Lonato, avviava nei mattino del 24 una ricognizione lungo la ferrovia verso Radinello. Le truppe che vi furono destinate erano un battaglione di bersaglieri, un battaglione di fanteria, uno squadrone e due pezzi d’artiglieria sotto la direzione del colonnello Cadorna, capo di stato maggiore della divisione. Inoltrandosi udiva egli al suo fianco destro un vivissimo cannoneggiamento. Perciò piegava dalla ferrovia a destra sulla strada Lugana; un distaccamento di fiancheggiatori di una compagnia, doveva coprire il fianco destro durante la marcia per Armia, Perentonella ed Ortaglia, ed unirsi di nuovo presso quest'ultimo luogo col nerbo delle schiere destinate alla ricognizione. Nè la colonna principale, né i fiancheggiatori s’incontrarono sino ad Ortaglia col nemico. Soltanto dopo che si furono insieme congiunti il trovarono a Ponticello vicinissimo a Pozzolengo. Erano i posti avanzati dell’ala destra di Benedek. Furono in prima rispinti, ma in breve tornarono alla carica. Gli Austriaci slanciarono alla pugna interi battaglioni, ed inoltraronsi sul fianco sinistro del colonnello Cadorna verso Succole, donde i loro cacciatori, bene appostati in un terreno assai coperto, poterono danneggiare sensibilmente i Piemontesi. Questi si ritrassero lentamente, ma in breve per altro ricevettero rinforzi.

La divisione Mollard, in seguito agli ordini avuti, inviò nel mattino del 24, prima delle ore cinque, quattro ricognizioni ad un tempo; quelle dell’ala destra è della brigata Cuneo si tennero alla ferrovia: quella della sinistra e della brigata Pinerolo lunghesso il lago. Con la ricognizione dell'estrema alla destra che seguiva le orme del colonnello Cadorna, marciava il generale Mollard in persona. Alle ore 7 ½ del mattino il colonnello Cadorna, siccome abbiamo detto, ha incontrato gli Austriaci a Ponticello; subito dopo ebbe il generale una domanda di rinforzo, e condusse tosto la ricognizione dell’estrema ala destra, composta di 1 battaglione di fanteria, 2 compagnie di bersaglieri e 42 squadrone, verso Ortaglia e Succole, richiamando indietro la seconda ricognizione dell'ala destra (1 battaglione di fanteria ed 1 compagnia di bersaglieri) la quale frattanto erasi inoltrata lungo la ferrovia di Peschiera sino a Feniletto, al punto in cui s’incontrano la ferrovia e la strada Lugana, d’onde si recarono alla cappella di S. Martino e Casette.

Il generale Mollard spediva ordine nello stesso tem|o alle brigate Cuneo e Pinerolo, la prima delle quali si avanzava da Desenzano lungo la ferrovia, e la seconda da Lonato verso Rivoltella, di accelerare la marcia. La brigata Cuneo doveva lasciare indietro soltanto a S. Zeno 4 battaglione, e la brigata Pinerolo 1 battaglione e 4 pezzi d’artiglieria; il generale Mollard la fece schierare subito alla destra (a ponente) della strada Lugana. Ma frattanto le ricognizioni rannodatesi della quinta e terza divisione piemontese furono spinte sin presso la ferrovia, e l'ottavo corpo austriaco erasi fortemente appostato con quattro brigate a destra ed a sinistra della strada Lugana, sulle alture di Presca, S. Martino e S. Donnino. Ivi il generale Benedek aveva concentrali due terzi delle forze delle quali poteva disporre, mentre alla divisione Durando, nella direzione di Pozzolengo al di la della Madonna della Scoperta, non opponeva che l’altro terzo.

Appena la brigata Cuneo si fu posta in ordine di battaglia, Mollard le diede ordine di assalire le alture di S. Martino. L’assalto riusciva da principio avventuratamente; ma che per ciò? Benedek aveva riserve, delle quali poteva disporre sull’istante; i Piemontesi non ne avevano, quando non si vogliano considerar tali quei distaccamenti di ricognizione della terza e quinta divisione superficialmente ed imperfettamente raccozzati in corpo di sostegno. E in vero, gli apprestamenti ordinati pel giorno 24, quando pure si volessero ritenere siccome semplici disposizioni di marcia, non possono essere in verun modo giustificati. I distaccamenti di ricognizione delle divisioni Durando, Cucchiari e Mollard assorbirono quasi la terza parte di queste divisioni; se il loro compito non era che quello di stare in sulle vedette erano troppo forti, ma se invece dovevano servire di avanguardie ed operare efficacemente (quando ciò fosse stato richiesto) erano troppo deboli, non per sé stessi, ma in questo caso, perocché sparsi su tutta la fronte. Neppure il nerbo delle divisioni erasi tuttora riunito; ma procedeva per brigata sopra strade parallele assai distanti l’una dall’altra; ovvero a troppo grandi distanze, se camminavano sulla medesima via.

Benedek aveva in ricambio assai migliori condizioni. Egli potè e seppe attendere, per gettarsi con tutta la forza sopra un sol punto, sul quale regolarmente non aveva da operare se non contro le forze isolate del nemico, le quali rimanevano cosi del pari regolarmente sconfitte.

La brigata Cuneo, dopo alcuni vantaggi di breve durata, fu sloggiata dalle alture di S. Martino, e fu assai fortunata che in quell'istante siano comparse due batterie della divisione Cucchiari, le quali spedite avanti e collocatesi tosto sopra ambedue le sue ali, la proteggevano dar micidiale inseguimento degli Austriaci. Già i cacciatori austriaci eransi inoltrali oltre la ferrovia, quando alle ore 40 del mattino comparve sul campo di battaglia il nerbo della divisione Cucchiari, composto di 15 ½ battaglioni di fanteria e bersaglieri, di 3 squadroni e 20 pezzi di artiglieria, tra i quali sono da comprendere le due batterie sopramenzionate, che protessero la brigata Cuneo.

Il generale Cucchiari fece schierare i primi battaglioni della brigata Casale sulla sinistra (a levante) della strada Lugana e della brigata Cuneo. Erano dell'11.° reggimento ed il 12.° doveva servir loro di appoggio. Ma il generale Mollard, incalzato dall’inseguire vigoroso di Benedek dalle alture di S. Martino, si vide costretto di disporre del 12.° reggimento per sostenere direttamente la brigata Cuneo (quindi una brigata dell’ala destra della posizione piemontese). Un solo battaglione del 12.° potè proseguire la marcia verso l’aia sinistra, ed unirsi ai tre battaglioni dell’11.° ivi appostati.

Questi ultimi quattro battaglioni si accinsero tosto all’assalto di S. Martino; i tre del 12.° reggimento col decimo battaglione di bersaglieri si gettarono sopra le cascine Armia, Selvetto, Monata e Contracania. Anche una parte della brigata Acqui, cioè il 5.° battaglione di bersaglieri ed il 17.° reggimento di linea, comparve, e si è ordinata tosto in colonne, porzione sull’ala destra dell’11.° per ristabilire verso S. Martino e Contracania la comunicazione col 12.° reggimento; porzione sull’ala sinistra dello stesso 11.° per operare contro Corbù inferiore e coprire il fianco sinistro.

L’assalto di queste truppe su tutta la linea tra l’Armia e S. Martino sino a Corba inferiore, riusci in principio su tutt’i punti non ostante il fuoco micidiale degli Austriaci, che fece non leggero danno nelle file della quinta divisione. A mezzogiorno sembrava che la fortuna sorridesse del tutto ai Piemontesi; ciò non di meno per ottenere un vero successo, o per coronare quello già valorosamente conseguito, sarebbe stato necessario un sostegno ulteriore. Ma questo non si ebbe, e ne fu danneggiata subitamente dapprima l'ala sinistra, contro la quale la momentanea superiorità degli Austriaci era assai più rilevante. ,

Se non che, lasciamo per un momento le divisioni Cucchiari e Mollard, per vedere ciò che fece l’ultima divisione piemontese ossia la seconda, sotto il comando del generale Fanti. Questa divisione, che componeva la riserva generale di re Vittorio Emanuele, ebbe soltanto alle ore 11 antimeridiane l’ordine di abbandonare i suoi accampamenti di Lonato e di S. Polo, ove stava schierata, e di piegare a diritta per attuare la comunicazione tra Durando ed i Francesi. Ma già ad un’ora e mezzo le divisioni Mollard e Cucchiari, poste alle strette dalla direzione intelligente ed energica di Benedek, domandavano rinforzi. Fanti diede tosto ordine alla brigata Aosta di marciare con una batteria a sinistra verso San Martino, mentre egli stesso dirigevasi colla brigata Piemonte e le altre sue schiere per Castel Venzago, ove combatteva Durando, al fine di potergli dare appoggio. Da quanto è premesso, apparisce che la divisione Fanti non prese parte nelle ore antimeridiane ai combattimenti speciali.

Disposizioni date dall’imperatore Napoleone dalle ore silique del mattino sino a che dal centro assunse il diretto comando supremo

Non appena alle ore cinque del mattino la testa dalla fanteria della guardia erasi posta in movimento da Montechiari per recarsi alla nuova sua destinazione a Castiglione, che già udivasi dalla parte di quel paese il tuonare del cannone. Accrescendo sempre più il fragore del cannoneggiamento l’imperatore Napoleone ordinò alla fanteria della Guardia di accelerare la marcia verso Castiglione; nello stesso tempo inviò comando alla cavalleria della Guardia in Castenedolo, di non attendere, come era prescritto, le ore 9 del mattino, ma dì porsi in sella senza alcun ritardo e di accorrere a Castiglione. Egli stesso col suo stato maggiore recavasi tosto al nuovo quartiere generale di Castiglione. Ivi giuntò che non erano ancora suonate le sette, rinvenne parecchie relazioni de' comandanti, dalle quali risultava che il combattimento erasi impegnato su tutta la linea da Peschiera sino a Castel Goffredo. Un rapporto di esploratori diceva che nel pomeriggio del 23 un corpo austriaco di 25,000 a 30,000 uomini era uscito da Mantova al fine di dirigersi per Marcaria e Acquafredda e di operare sul fianco destro degli alleati.

L’estensione non dubbia della linea austriaca raffermò Napoleone nel sapiente pensiero di concentrare le masse dell'esercito alleato contro il centro nemico, e di romperlo, prendendo le alture di Solferino, di Cassiano e di Cavriana. Per l’attuamento di questo disegno si dirigevano sull’istante gli ordini all’ala estrema, al maresciallo Canrobert, di sostenere col massimo vigore il generale Niel, ma di prestare ad un tempo attenzione al fianco destro, ed a quel corpo che dicevasi uscito da Mantova; e si prescriveva al re Vittorio Emanuele di mettersi in comunicazione col corpo di Baraguay d’Hilliers. Abbiamo già veduto che quando quegli ordini giunsero alle truppe appostate a Medole e Lonato non poterono, nell'intendimento del comando supremo, essere eseguiti se non molto imperfettamente e in alcuni luoghi tornarono senza effetto.

Dopo di che Napoleone recavasi presso. il duca di Magenta, ove giunse alle 9 ore. Lo trovò schierato presso Ca' Marino. La comunicazione tra Niel e Mac-Mahon essendo imperfetta, Napoleone prescrisse alle due divisioni Desvaux e Partouneaux di porsi intanto a disposizione del duca di Magenta, ed inviò l’ordine, alla cavalleria della Guardia (che in fatti era partita alla ore 8 da Gastenedolo) di accelerare alacremente la sua marcia. E dopo aver bene raccomandato al duca di Magenta di mettersi al più presto possibile in istretta comunicazione con Baraguay di Hilliers (appoggiandolo a sinistra) accorse presso quest'ultimo sulle alture di Solferino.

Ivi giunse appena erano suonate le ore 10, quando già Baraguay aveva incominciato il cannoneggiamento contro i punti principali di Solferino; e riconobbe che quivi appunto doveva seguire la decisione della battaglia.

Le ultime schiere della fanteria della Guardia avevano abbandonato Montechiari alle ore 6 e ¾ nello stesso tempo la testa dell’artiglieria della Guardia, che alle ore S del mattino erasi posta in marcia da Castenedolo, giunse anch’essa in Montechiari.

Poco appresso le ore 9 tutta la fanteria e l artiglieria della Guardia erano riunite in Castiglione; dopo le IO,ebbero ordine di prendere la via per le Fontane e le Grole verso Solferino, e di appostarsi dietro l'ala destra del primo corpo, servendogli di riserva, e nello stesso tempo di coprire l'intervallo tra questo ed il secondo corpo.

La decisione al centro

Poco appresso le ore 11 antimeridiane la divisione dei volteggiatori della Guardia stava ordinata in battaglia dietro il primo corpo; 600 passi dopo di essa, in colonne di divisione formate sul centro (con la fronte di due pelotoni), stava la divisione dei granatieri.

Sicuro della sua riserva, Napoleone, che trovavasj presso le batterie della divisione Forey, diede ordine per l'assalto decisivo di Solferino. All’ala destra comparve verso mezzogiorno la seconda brigata (d Alton) della divisione Forey capitanata dallo stesso comandante di di visione, ed accompagnata da 4 pezzi d’artiglieria della riserva del primo corpo. La loro meta principale era la Rocca, quella parte del paese ch'è situata a mezzogiorno della medesima e sulla strada di S. Cassiano. La brigata, protetta da forti schiere di tiragliatori, avanzò animosamente verso il punto d’assalto; ma tempestata dal castello, dal cimitero e dalle mura che circondano le vigne innanzi Solferino con un vivissimo fuoco di mitraglia e di moschetteria, dovette indietreggiare. Soltanto una parte dei tiragliatori potè giungere ai pie della Rocca.

All'ala sinistra la divisione Ladmirault, che erasj in prima limitata ad un cannoneggiamento, marciò pure, mentre succedeva l'assalto della brigata d Alton, contro S. Martino; lo prese, ma non potè procedere innanzi, dappoiché le due brigate austriache Gaal e Roller, di. fresco sopraggiunte, le furono poste contro; una di queste brigate inoltravasi nel fondo della valle del Redone minacciando di gettarsi tra Ladmirault e Durando} e quantunque fosse respinta da-6 pezzi d'artiglieria, che il generale Forgeot aveva posto In batteria, siffatta circostanza non giovò che poco alla divisione Ladmirault, la quale oltrepassato S. Martino, fu colta dal fuoco incrociato e micidiale del castello e del cimitero. Lo stesso generale Ladmirault fu ferito in capo alla sua divisione; si ritrasse un istante per farsi fasciare, e ri"tornò tosto per riprendere il comando delle sue schiere; se non che, ferito per la seconda volta nel cimentarsi ad un nuovo assalto, dovette abbandonare il campo di battaglia e cedere il comando al generale Negrier.

L‘assalto decisivo dei Francesi contro Solferino, all'una pomeridiana, era da considerarsi per non riuscito; nondimeno tutti gli eventi erano in favor loro. Durante l'ultimo combattimento il generale Stadion videsi costretto di sgomberare Solferino tranne i punti principali, cioè il cimitero, il castello e la Rocca, e di far occupare questi ultimi luoghi dalla brigata di riserva Festetics (reggimento Reischach N. 21, e 6. battaglione dei cacciatori Imperatore). — Le altre truppe del 5.° corpo furono ritirate sulle alture a levante ed a settentrione-levante di Solferino per poterle riordinare. Soltanto alcune staccate parti di truppa del settimo corpo giunsero da Foresto per Cavriana al fine di rinforzare ed anche dare il cambio alle schiere combattenti; il nerbo del settimo corpo era trattenuto in Cavriana in una posizione di accoglimento per coprire quel punto di riserva.

Il primo corpo (austriaco), se si eccettuino le sue riserve, che non erano state per anco al fuoco, e che ora in parte soltanto da Cavriana avanzavansi verso S. Cassiano, era in piena ritirata sopra S. Cassiano. Le truppe dei varii corpi erano profondamente scompaginate; non esisteva un comando supremo atto a dirigere il tutto, e pronto a dare la spinta ad un’azione decisiva. Laonde erasi introdotta nell'esercito austriaco una lacrimevole confusione, né soltanto nei corpi d armata e nelle divisioni, ma ben anche nelle stesse brigate (o reggimenti). Dalla parte degli Austriaci avveravasi qui press'a poco quello che succedeva nelle schiere Piemontesi che trovavansi di fronte a Benedek.

Tutt'all'opposto presso i Francesi le divisioni rimanevano mirabilmente compatte, e Napoleone poteva ancor disporre di numerose riserve contro Solferino, cioè di tutta la fanteria della Guardia e della divisione Bazaine che era appena entrata al fuoco, vale a dire di. 20,000 uomini circa, mentre il secondo corpo, che trovavasi sull'ala destra del primo, e s’era liberato dal suo avversario più vicino, poteva pur rivolgere i suoi 16,000 uomini di fanteria contro il punto principale.

Napoleone seppe approfittare dei suoi vantaggi; la brigata Manèque dei volteggiatori della Guardia ebbe ordine di sostenere la brigata d’Alton che cedeva, e di assalire alla sua destra la Rocca; all'ala sinistra del corpo, la divisione Bazaine fu incaricata di dare appoggio alla divisione Ladmirault.

Mentre il reggimento Reischach opponeva nei luoghi principali di Solferino un’eroica resistenza, le altre sezioni austriache del 5.° e 7.° corpo riprendevano l’offensiva sopra ambe le parti; la prima brigata della divisione Bazaine, che cadde in mezo al fuoco incrociato del castello e del cimitero, ebbe a soffrire gravi perdite senza nulla conseguire, siccome appunto era accaduto alla divisione Ladmirault.

Il cimitero in ispecie d onde fulminavano le racchette e le palle, sembrava un ostacolo insormontabile. Baraguay d’Hilliers fece collocare alla distanza di 400 passi una batteria di 6 pezzi per fare una breccia nelle sue mura, e diede ordine a tutte le batterie vicine, non meno che all’artiglieria di montagna della divisione Ladmirault, di concentrare il loro fuoco sul medesimo punto. Fatta la breccia, ebbe luogo un nuovo attacco della divisione Bazaine a settentrione-occidente di 'Solferino. mentre la brigata Manèque, sostenuta dalla divisione Forey, la quale sotto la protezione di quella si era di nuovo raccolta e ordinata, prendeva il castello dalla parte meridionale ed occidentale penetrando nel villaggio. Il quinto corpo austriaco incominciò allora la sua ritirata verso Contrada Mescolaro e Pozzolengo; ed erano forse le ore 2 12 pomeridiane.

Il duca di Magenta s’impadroniva nello stesso tempo delle alture di S. Cassiano, sino allora debolmente occupate dalle sezioni del primo corpo austriaco. Abbiamo già veduto in virtù di quali circostanze questo maresciallo abbia potuto decisivamente inoltrarsi, ad un’ora pomeridiana circa da Ca' Marino nella detta direzione. Pose la divisione Motterouge, formata su due linee di battaglia, in prima linea, e la divisione Decaen in seguito qual riserva. La divisione Molterouge volgevasi, eseguendo nello stesso tempo una conversione, a sinistra, per congiungersi colla divisione dei volteggiatori della Guardia. Effettuata la congiunzione, e nello stesso momento in cui la brigata Manèque si slanciava all’attacco decisivo contro Solferino, il maresciallo MacMahon fece prendere d’assalto S. Cassiano con un movimento concentrico ordinando i tiragliatori africani a destra e il 45.° reggimento di fanteria di linea a sinistra. Il villaggio fu preso con poca fatica, non così peraltro le vicine alture sulle quali alcuni staccati battaglioni austriaci hanno opposto un’ostinata resistenza. Ma infine anche questa fu vinta dall’ardore dei tiragliatori algerini e dei reggimenti 45.° e 72.° di. linea, sostenuti dalla brigata Motterouge. Le alture di San Cassiano. alle ore 2 12 pomeridiane erano nelle mani dei Francesi, e nulla più si opponeva al movimento di Mac-Mahon sopra Cavriana.

Contro-assalto degli Austriaci colla loro ala sinistra

Dopo la presa di Solferino e di S. Cassiano, Napoleone ordinava al 1.° ed al 2.° corpo, non meno che alla Guardia, d’inseguire il nemico a Cavriana. In questo inseguimento, aveva Mac-Mahon l’estrema ala destra. La divisione Motterouge seguiva il lembo delle colline; alla destra della medesima inoltravasi la divisione Decaen nella pianura, ed alla destra di questa in tre scaglioni (dei quali il primo tenevasi all'altezza della divisione Decaen, mentre gli altri due piegavano a destra verso le divisioni Desvaux e Parlouneaux) marciava la cavalleria della Guardia; dopo la divisione Motterouge seguiva la divisione Forey del primo corpo, intanto che la divisione Bazaine era discesa nella pianura; i volteggiatori della Guardia in gran parte si accostarono all’ala sinistra della divisione Motterouge, appoggiati da una brigata di granatieri della Guardia che Napoleone aveva fatto avanzare come riserva della brigata Manèque al momento della presa di Solferino, La divisione Ladmirault con alcuni battaglioni della Guardia rimase nelle diverse posizioni intorno a Solferino per coprirlo e per sorvegliare la ritirata del quinto corpo austriaco, che difatti con alcune sezioni faceva nuovi tentativi d’assalto. In generale l’inseguimento dei Francesi al centro verso Cavriana incontrava poca resistenza. Il centro austriaco era scompigliato; truppe del 5.°, 7.° e 4.° corpo erano frammischiate in gran disordine; alcuni animosi ufficiali riunivano ciò che potevano rannodare e tentavano con reggimenti isolati, perfino con battaglioni staccati e Squadroni, di opporre qua e la una qualche resistenza. Erano in ispecie battaglioni dei reggimenti Wimpffen e Leopoldo, i quali nel mattino erano stati distaccati dal 7. corpo per accorrere a Solferino in sostegno del 5.°; poi la brigata Brennier (reggimento Thun) riserva del 1.° corpo, ed uno squadrone di ussari Haller, che tentarono gloriosamente, ma invano, di tener fronte ai Francesi e di tardarne l’inseguimento. Tutto ciò fruttò poco o nulla.

Ma se verso le 3 ore il centro degli Austriaci si doleva considerare quasi sgominato, tale non era l’ala sinistra del così detto primo esercito sotto il comando del generale d’artiglieria Wimpffen. Quest’ala aveva avuto durante il mattino contro di sé una forza decisamente inferiore, in complesso il solo corpo di Miei; quando pure non si fosse spinta innanzi, ma si fosse soltanto sostenuta nella sua posizione (e ciò dovevasi attribuire alle condizioni del centro), si poteva sempre sperare che fosse tuttavia capace di una vigorosa operazione in avanti. Se questo contraccolpo su] lato più vulnerabile dell’esercito alleato fosse riuscito, non era cosa improbabile di potere con ciò arrestare per qualche tempo il movimento del centro., e render così possibile al comando supremo di riunire 6 di riordinare un’altra volta le sue forze; in quel caso si avrebbe potuto almeno rinnovare il dimani la battaglia con isperanza di buon riuscimento.° L’imperatore Francesco Giuseppe spedi quindi verso le ore 3 pomeridiane l’ordine all’ala sinistra di prendere l’offensiva.

Ma al giungere di quel comando, le circostanze si erano di molto cangiate anche presso l’ala sinistra in danno degli Austriaci..

Gli assalti energici e sempre rinnovati del generale Niel (il quale era profondamente compreso dell’importanza della sua missione, e senza riguardo si serviva delle sue riserve, però sempre per uno scopo positivo e non obbliando di crearne di nuove, coll’inviare un aiutante dopo l’altro al lento maresciallo Canrobert), questi assalti, diciamo, avevano indotto gli Austriaci a sprecare in parte le loro schiere di riserva. Dapprima aveano fatto avanzare la divisione Blomberg colle brigate Dobrzensky e Host dell’11.° corpo da Castel Grimaldo a Robecco per sostenere il 9.° corpo d’armata; indi la brigata Baltin per appoggiare il 3.° corpo sulla strada di Goito; infine, ma prima ancora che giungesse l’ordine per l’offensiva, aveano comandato eziandio alla brigata Greschke del corpo di avanzare sulla strada da Goito a Guidizzolo. In tal modo pertanto non era rimasta in riserva se non la brigata Sebottendorf; le truppe dei diversi corpi erano qui, del pari che al centro, confusamente tramescolate. E tuttociò non per conseguire un risultamento, ma soltanto perché l’ala sinistra potesse mantenere la sua posizione. L’offensiva di Niel (né giova dissimularlo) impose questo contegno passivo. Arrogi che lo esplicamento delle grandi masse di cavalleria francese sulle lande di Medole, composte della divisione della Guardia e delle divisioni Desvaux e Partouneaux, doveva tanto più imporre agli Austriaci, in quanto che essi, per effetto. della ritirata della brigata Lauingen sopra Goito, non potevano avere alcuna assistenza dalla loro cavalleria.

Ciò non di meno il primo esercito austriaco si decise un’altra volta di prendere l’offensiva, o ne fece alieno un debole tentativo; le ultime due batterie delle quali poteva ancora disporre, ebbero ordine di battere la cavalleria nemica, mentre il 3.° corpo sull’ala destra e il 9.° sulla sinistra, sostenuti dalle divisioni dell'11.° corpo ad essi assegnate, tentarono di conquistare novellamente Ga' Nuova e Robecco.

Non riuscirono. Sette ajutanti, spediti dalle ore 9 del mattino sino alle 2 pomeridiane dal generale Niel ai maresciallo Canrobert, poterono finalmente ottenere, che questi disponesse tutta la divisione Rènault in modo che potesse sostenere l’ala di Niel sulla strada di Ceresara e ch’egli stesso infine si recasse alle ore 3 pomeridiane sul campo di battaglia nelle vicinanze di Ga' Nuova. Dopoché Niel gli fece comprendere il vero stato delle cose (il che non gli riuscì tanto facile) il maresciallo Canrobert si decide finalmente, come si è detto, di riunire tutta la divisione Rènault nei dintorni di Robecco, in modo da poter dare il cambio alla divisione Luzy, e da far avanzare da Medole la brigata Bataille della divisione Trochu unitamente all’artiglieria di riserva del 3.° corpo, per sostenere l’ala sinistra di Niel.

Tostoché Niel ebbe la certezza, di poter disporre di un’altra riserva, riunì 4 battaglioni della divisione Luzy, 2 battaglioni di quella di De Failly, i quali ultimi componevano allora tutta la sua riserva, per lanciarli ad un

nuovo assalto nella direzione di Ca' Nuova e Baite sopra. Guidizzolo. Questa colonna d’attacco avanzò sino alle prime case di Guidizzolo, ma incontrò ivi appunto il contro-assalto degli Austriaci e segnatamente quello del corpo di Schwarzenberg. Essa fu respinta. Frattanto alle ore. 4 pomeridiane giungeva da Medole la brigata Bataille della divisione Trochu, e ponevasi qual riserva dietro le stanche truppe del maresciallo Niel. Egli, sempre animato dal desiderio di prendere finalmente Guidizzolo, e di cadere sulla linea di ritirata degli Austriaci, si decise ad un nuovo assalto colla brigata Bataille, e il fece tanto più animosamente quanto Canrobert gli aveva promesso di far avanzare anche la divisione Bòurbaki, dopoché il suo capo di stato maggiore colonnello Besson, inviato appositamente sulla strada da Medole sino a Castel Goffredo, lo aveva assicurato che nulla era da temere dalla parte del Chiese (e in vero nulla si avea da temere anche prima). Dopo le ore 4 il generale di divisione Trochu guidava la brigata Bataille in colonne di divisioni, l’ala sinistra tenuta indietro, contro Guidizzolo. Egli giunse alla metà della strada da Ca' Nuova a Guidizzolo, e fece alquanti prigionieri. Durante questo assalto s’innalzarono dense colonne di polvere precorritrici d’un uragano; il quale in fatti scoppiò dopo le ore 4 ½ impetuosissimamente con tuoni e lampi, e con una pioggia dirottissima. Il cielo stesso interruppe quel combattimento micidiale su questo punto al pari che su tutti gli altri del campo di battaglia. Tacque il cannone ed il moschetto, e le truppe si ritrassero vicendevolmente alquanto indietro per attendere il cessare dell’uragano.

Mancando al centro dell’esercito austriaco un forte comando supremo, l’inseguimento dei Francesi verso Cavriana non fu, come abbiam detto, vigorosamente avversato. Quali poi fossero le condizioni del comando, si può rilevare dal fallo, che, quantunque il secondo esercito (ala destra) fosse comandato da Schlick, il vecchio maresciallo Nugent, trovandosi quale volontario presso l’esercito in Cavriana, s’intrometteva in tutte le disposizioni. Chi voleva, comandava; in una parola, era da per tutto una vera confusione.

Dopo la caduta di Solferino e S. Cassiano, le truppe ordinate che stavano tuttora presso Cavriana erano la maggior parte della divisione Principe Alessandro d’Assia (cioè le brigate Wussin) — il reggimento di fanteria Imperatore con un battaglione di confinari Liccanife Gablenz — il reggimento di fanteria Grueber col terzo battaglione di cacciatori Imperatore. A queste si può aggiungere il rimanente della brigata Fleischacker della divisione Brandenstein, reggimento Arciduca Leopoldo, col diciannovesimo battaglione di cacciatori, il quale sin dal principio della battaglia era stato chiamato a Solferino per sostenere il quinto corpo. Prevalse per un momento l’idea di riprendere l’offensiva con queste truppe, e dapprima colla brigata Wussin. Quantunque fosse un errore il voler anche in tale circostanza impegnare una sola brigata, ciò nulla meno il pensiero di passare all’offensiva da Cavriana era giusto. I Francesi, ancorché fossero vincitori, erano svigoriti per le perdite sofferte a Solferino, ed inoltre non erano ancor pienamente sicuri della vittoria. Se si fossero assaliti in quel momento, potevasi forse trattenerli, ed intanto rannodare le sezioni del primo corpo che si ritiravano sopra Cavriana; il quinto corpo poteva nello stesso tempo avanzare nella direzione di Contrada Mescolaro verso Solferino, e sorprendere alle spalle il nemico vincitore.

Mentre il principe Alessandro d'Assia era tuttora occupato nel dare le necessarie disposizioni alla brigata Wussin, la divisione francese Decaen scontravasi nella pianura colla brigata Brunner; quest'ultima dovette piegare sopra Cavriana; parecchi attacchi di cavalleria, ese guili da sezioni austriache della divisione di Mensdorf che minacciavano il fianco destro della divisione Decaen, furono respinti dagli scaglioni della cavalleria della Guardia. Una di queste colonne di cavalleria austriaca fu in tale occasione gettata sopra l’undicesimo battaglione di cacciatori a piedi, il quale, trovandosi presso la strada avvallala tra S. Cassiano e Cavriana, e per soprappiù nascosto dall'altezza delle biade, aveva formato un quadrato. Il battaglione ch'erasi accovacciato s’alzò impetuosamente e ricevette gli Austriaci con un fuoco micidiale scagliato da due lati del quadrato alla più vicina distanza. Gli Austriaci fuggirono disordinatamente, colti di fianco per soprasoma dal fuoco di una batteria della divisione Decaen.

Soltanto, quando la brigata Brunner era in piena ritirata, si fecero avanzare le sei batterie, le quali sino a quel momento, non ostante le più vive sollecitudini del loro comandante, eransi lasciate inoperose, per sostituire quelle che erano rimaste tutto il giorno al fuoco, e non avevano più munizione. Ma già dopo brevi colpi furono queste girale alle ali e costrette a ritirarsi.

In conseguenza di cotesti fatti, il principe d'Assia abbandonava alle ore 3 e mezzo ogni pensiero di offensiva, limitandosi alla difesa di Cavriana. Quando però verso le ore 4 la divisione La Motterouge del corpo di Mac-Mahon e la divisione dei volteggiatori della Guardia s’approssimarono a Cavriana, il comando supremo dell'esercito austriaco avea già dato l’ordine per la ritirata generale. V’ era giunta in fatti la notizia che il contrassalto tentato dall'ala sinistra a Guidizzolo e Robecco era riuscito infelicemente. La causa ne fu ascritta specialmente all'assenza dal campo di battaglia della divisione Zedtwitz, o, a dir meglio, della brigata Lauingen. Secondo il nostro parere, la presenza di quella brigata nulla poteva mutare nella situazione generale. La cavalleria francese era per guisa superiore, che in fine la sola fanteria ed artiglieria dovevano decidere dell’esito, e, come abbiamo veduto, I' ala sinistra austriaca aveva già occupato anche le ultime riserve di queste armi, mentre a Niel rimaneva sempre la speranza dell'arrivo di altre schiere di riserva del corpo del generale Canrobert.

La mala riuscita del contrassalto dell'ala sinistra fece al certo sparire ogni speranza di un grande finito d'armi, ed il comando supremo dell'esercito austriaco riputò cosa più acconcia di limitarsi a rendere inefficace per quanto fosse possibile l’inseguimento dei Francesi. Del pari anche in Cavriàna doveva aver luogo soltanto un combattimento di ritirata, ed i Francesi pertanto con poca fatica poterono impadronirsi pure di questo paese. Appena Cavriana era caduta nelle loro mani, che l’uragano sorprese ambe le parti combattenti ed interruppe la battaglia.

Procedimenti sull'ala sinistra degli alleati da mezzogiorno sino allo scoppio dell'uragano

Noi lasciammo la divisione Cucchiari e Mollard a San Martino, quando l’assalto felicemente incominciato dalla prima, volgeva di nuovo in sinistro esito. Durante questo assalto la brigata Pinerolo era giunta sul campo di battaglia e doveva prender parte alla pugna. Ma innanzi che fosse posta in linea, la divisione Cucchiari era già respinta. L’ala sinistra di quella divisione fu tosto esposta ad un fuoco di mitraglia incrociato degli Austriaci, i quali avevano messi in posizione sulle alture di Corbù 30 pezzi d’artiglieria, e pertanto dovette cedere. La batteria N. 9 da 16 della divisione Cucchiari, precipitosamente accorsa, invano tentava di occupare un punto favorevole sulle alture a fianco della strada Lugana, tutta ingombra da ambulanze e da feriti. Dopo molla fatica due pezzi soltanto poterono collocarsi in batteria, ma troppo tardi per poter influire favorevolmente sull’esito del combattimento, imperocché anche l'ala destra della divisione Cucchiari fu costretta a ritirarsi. Il diciottesimo reggimento della brigata Acqui di questa divisione e la brigata Pinerolo della divisione Mollard non poterono riuscire ad altro se non che a sostenere ed accogliere le colonne della divisione Cucchiari che ritraevansi. Erano tali le perdite di questa divisione, che non potevasi pensare ad altro che a formarla di nuovo, ed essa ritirossi d'un tratto sino a Rivoltella e S. Zeno, circa una breve ora dal campo di battaglia. La brigata Casale si collocò qui in prima linea tra Rivoltella e S. Zeno, e la brigata Acqui formata in massa dietro l’ala sinistra della brigata Casale. Alcuni distaccamenti della divisione Mollard, che la divisione Cucchiari nella sua fuga aveva tratti seco, furono radunati e posti innanzi S. Zeno.

Dopoché la divisione Cucchiari verso un ora aveva lasciato il campo di battaglia, il generale Mollard non potea più disporre che della sua divisione. Con le brigate Cuneo e Pinerolo prese posizione lunghesso la ferrovia, per sostenere il punto in che la medesima s’incontra colla strada Lugana, e attendere ivi gli ordini successivi ed i necessari rinforzi. Benedek, le cui truppe abbisognavano pure di riposo; e la cui attenzione inoltre era richiamata sopra ud altro punto (la Madonna della Scoperta) non acquistò tale posizione, cosicché sottentrò presso S. Martino una calma che ebbe a durare qualche ora.

Poe anzi abbiamo veduto come lino da un ora e mezzo pomeridiana la divisione Fanti avesse avuto ordine di. sostenere le truppe che combattevano a S. Martino, e come in conseguenza di ciò fosse stata staccata da questa divisione, dapprima destinata in assistenza di Durando, e mentre si trovava in marcia oltre Castel Venzago, la brigata Aosta coll'incarico di marciare sopra S. Martino.

Verso le ore 3 il generale Mollard, in seguito a suoi rapporti, riceveva ordine da Re Vittorio Emanuele di mantenere la sua posizione, e nello stesso tempo veniva avvertito dell’approssimarsi della brigata Aosta, e che anche la divisione Cucchiari era incaricata di spingersi novellamente innanzi. Dopo il loro arrivo sarebbe, giunto, dicevasi, il momento di riprendere l’offensiva.

La brigata Aosta dirigevasi prima da Castel Venzago verso la ferrovia, e precisamente verso il punto dove questa si congiunge con la strada Lugana. Mollard la fece indi schierare sull'ala sinistra della brigata Pinerolo per tentare con ambedue un nuovo assalto, mentre la brigata Cuneo componeva la riserva, e la divisione Cucchiari, che da un momento all'altro doveva sopraggiungere, era destinata a sostenere l'assalto medesimo, volgendosi più. a sinistra verso Feniletto.

Soprarrivava la brigata Aosta verso le ore 4 al luogo assegnatole, Mollard ordinò tosto il divisato assalto. All’estrema sua sinistra fece avanzare un battaglione, due compagnie di bersaglieri e due pezzi d artiglieria contro S. Donnino, ordinando loro di oltrepassare questo paese e la Val di Sole, a mezzodì delle alture di S. Martino, e così di girare il fianco sinistro degli Austriaci che colà combattevano, ponendosi nello stesso tempo tra l'ala destra e la sinistra dell'ottavo corpo. Il nuovo assalto cominciò col fuoco dell'artiglieria, dopo le ore quattro, quando già le posizioni di Solferino e S. Cessiano erano state da molto tempo abbandonate dal quinto, primo e settimo corpo. Benedek lo sapeva; ma che cosa avrebbe potuto ritrarre da qualche vantaggio che avesse conseguito con le sue schiere? Sarebbe sempre rimasto un fatto isolato; poteva riuscire un fatto d’armi glorioso, non mai una azione decisiva. Tali considerazioni stancano infine anche l’animo più vigoroso. A ciò arrogi l'ordine ch'era stato dato per la ritirata generale: laonde non è da maravigliare se questa volta l’assalto dei Piemontesi non incontrò la medesima energica resistenza come dapprima. Durante lo stesso assalto per altro scoppiò l'uragano, che segna in doppia guisa un momento naturale nella battaglia di Solferino. Anche qui furono divisi per qualche tempo i combattenti, il che riusci favorevole ai Piemontesi, dappoiché gli Austriaci che già cominciavano a piegare non cercarono un asilo contro l’uragano spingendosi innanzi, ma indietreggiando.

Nondimeno il successo dei Piemontesi non fu interamente compiuto. Qui pure non giunsero che ad occupare stabilmente la metà della pendice del monte di San Martino.

Durante questo tempo il generale Durando comhatteva tra Madonna della Scoperta e Carlo vecchio con avvicendata fortuna e senza aver potuto ottenere nulla di decisivo, quantunque successivamente avesse posto in combattimento quasi tutta la brigata Savoja. Soltanto dopo le ore due, quando le truppe del quinto e del settimo corpo austriaco si erano ritirate da Solferino verso Contrada Mescolare e Cavriana, quando i deboli distaccamenti dell’ottavo corpo combattevano soli con tre l'intera divisione Durando, e furono costretti ad abbandonare Madonna della Scoperta, allora soltanto Durando potè occupare questo punto.

Alle ore 4 pomeridiane giunse anche il generale Fanti colla brigata Piemonte, con due batterie, I battaglione di bersaglieri e colla sua cavalleria, nei dintorni della Madonna della Scoperta. In quell'istante scoppiò la procella e troncò anche su questo punto il combattimento.

Ritirata degli Austriaci sulla sponda sinistra del Mincio

Poiché gli Austriaci ebbero deposto il pensiero di tentare altri combattimenti, e determinarono di ritirarsi sulla sinistra del Mincio, sgomberarono da tutt'i punti, senza essere quasi in nessun luogo molestati. Oltreché gli alleati stessi in seguito alla lunga pugna del 34 giugno erano molto spossati, l'uragano scoppiato alle ore 4 e interruppe l’inseguimento, circostanza questa assai favorevole agli Austriaci. In causa di questo uragano i corpi e le divisioni non furono più tra loro congiunti, e quando cessò, gli alleati dovettero prendere e dare nuove disposizioni.

Al centro, l’inseguimento cessò al Bosco Scuro presso Corte tosto al di la di Cavriana, la quale posizione rimase occupata fino alle ore 10 della sera dalla brigata Gablenz del settimo corpo (due battaglioni di fanteria del reggimento Grueber col terzo battaglione di cacciatori Imperatore). Soltanto dopo le ore 40 si ritrassero queste truppe a Volta, ove, ugualmente che verso Valeggio e Ferri, precedevano il settimo ed il primo corpo e la divisione di cavalleria Mensdorf. Nel mattino del 25 giugno la retroguardia del centro abbandonava la sponda destra del Mincio.

Fino dalle ore 6 e mezzo il fuoco era cessato al centro, ed i Francesi occupavano i loro accampamenti sino alle ore 9 della sera; del corpo di Mac-Mahon, la divisione Motterouge accampava sulle alture a ponente di Cavriana, la divisione Decaen al sud della medesima,nella pianura; a settentrione ed a mezzodì di Mac-Mahon stava il corpo di Baraguay d’Hilliers; a ponente di questo la fanteria della Guardia, e ad occidente della divisione Decaen la cavalleria della Guardia.

Sull'ala sinistra degli Austriaci, dissipato che fu l'uragano, il combattimento non venne più ripreso con vigore. Il corpo di Niel era esausto e Canrobert non sentivasi disposto ad avventurarvi le sue schiere un'altra volta, poiché la vittoria era già stata riportata sul punto decisivo.

Il tenente maresciallo Weigl copriva la ritirata del primo esercito sopra Goito, tenendo egli stesso occupato Guidizzolo sino alle dieci ore di sera con 2 battaglioni del reggimento Arciduca Giuseppe ed il decimo battaglione di cacciatori, e sempre attento che tutte le truppe lo sgombrassero per raggiungere i loro corpi, e che i feriti ed i cannoni fossero condotti a salvamento.

Il tenente maresciallo Zedtwitz aveva finalmente rinvenuto in Goito la brigata Lauingen dopo averla cercata invano tutto il mattino. Né diede partecipazione a comandante del primo esercito conte Wimpffen, e questi, innanzi ancora che la ritirata fosse decisa, gli diede ordine di avanzarsi di nuovo sulla strada di Ceresara per coprire quivi il fianco sinistro dell'esercito, per raccogliere e sostenere su questa strada le colonne respinte dal nemico, e per tenere in rispetto con vigorosi assalti l’inseguente nemico.

Al tenente maresciallo Zedlwitz riusciva per altro assolutamente impossibile di recare avanti di nuovo la brigata Lauingen, subito dopo il suo arrivo e Goito. Lauingen, aveva percorsa la via da Medole a Goito; ch'è di circa due leghe tedesche, quasi tutta di trotto, e quello che rileva assai più, la sua gente ed i cavalli da circa 30 ore erano quasi affatto digiuni. Nella notte dal 23 al 24 giugno non avevano potuto fare il bivacco, perché il magazzino delle colonne (viveri e foraggi) che doveva seguire le truppe non era per anco giunto; ma ciò non basta, poiché nemmeno quando partirono da Grezzano nel giorno 23 aveano avuto il pane da portar seco. Questo è uno dei tanti casi, nei quali l’organamento austriaco delle sussistenze e dei viveri, in causa forse dei molti rami nei quali è diviso, si manifestò assai difettoso. Il tenente maresciallo Zedtwitz fu costretto di concedere alla brigata Lauingen un po' di riposo, dopo di che la condusse tardi, nel pomeriggio, da Goito in una posizione tra le due strade di Guidizzolo e Ceresara, e soltanto nella notte dal 24 al 25 la ricondusse sulla sinistra del Mincio, accampando presso Brizio, poco distante da Marmirolo.

La divisione Jellachich del secondo corpo non venne neppure al fuoco. Uscita da Mantova nel pomeriggio del 23, fu trattenuta,a Marcaria sull'Oglio dalla notizia che un forte corpo francese trovavasi a Cannotto e Piadena (era, come sappiamo, la divisione Autemarre del quinto corpo); più tardi ritornò a Mantova senza aver nulla intrapreso.

All'ala destra degli Austriaci i-l generale Benedek obbedì con ripugnanza all'ordine di ritirarsi; ma in fine dovette acconciatisi Ciò nulla meno non volle che i Piemontesi rimanessero nella opinione di averlo battuto. L’assalto di Mollard, ultimamente da noi menzionato, e che venne interrotto dall'uragano, fu, cessato questo, dagli Austriaci respinto.

Frattanto la divisione Cucchiari, poco innanzi dello scoppio dell'uragano, aveva abbandonato di nuovo le sue posizioni di S. Zeno e Rivoltella ordinandosi in due colonne. La colonna di destra (brigata Casale) seguiva in S. Zeno la ferrovia; quella di sinistra (brigata Acqui) da Rivoltella camminava sulla strada Lugana. La brigata Casale raggiunse per la prima il punto in che la ferrovia si congiunge alla strada Lugana e fu da Cucchiari tosto adoperata per sostenere l'ala sinistra di Mollard principalmente contro la chiesa di S. Martino e contro il villaggio Ortaglia; una sezione sostenne anche l'ala destra di Mollard presso Contracania. La brigata Acqui fu condotta qual riserva presso la ferrovia anche perché fosse pronta contro ogni eventuale sortita da Peschiera. Benedek abbandonò successivamente dalle ore 7 in poi alcune delle posizioni da lui occupate, ma soltanto dopo le. 8 sgombrò interamente le alture di S Martino per ritirarsi sopra Pozzolengo, non senza aver fatto eseguire un altro ed ultimo assalto della retroguardia

Dopo l'uragano, il generale La Marmora, spedilo da Re Vittorio Emanuele, comparve alla Madonna della Scoperta ov'era l'ala destra dei Piemontesi per assumere il comando superiore delle due divisioni Durando e Fanti (brigata Piemonte), condurle contro S. Martino e dirigerle poi, accostandosi agli assalti di Mollard e di. Cucchiari, contro Pozzolengo. Dopoché il quinto corpo, in seguito alla perdita di Solferino, ebbe effettuala la sua ritirata sopra Pozzolengo, protetto dalle posizioni di Benedek, il comandante austriaco videsi ridotto contro Durando e Fanti alle sole forze del suo corpo. Su questo punto combatteva particolarmente la brigata Reichlin del sesto corpo (composta in gran parte di quarti bai taglioni di parecchi reggimenti) la quale nel mattino aveva ricevuto ordine di mantenere la comunicazione tra il quinto e l’ottavo corpo. Verso sera il generale Benedek opponeva tuttora a Durando la brigata Wateryliet (reggimento Prohaska e 2 battaglioni di cacciatori Imperatore) la quale si era conservala come riserva a S. Martino. Essa trattenne I' avanzarsi di La Marmora sino a che le alture di S. Martino furono quasi del tutto sgombrate dagli Austriaci. Benedek tenne occupato Pozzolengo, non inquietato naturalmente dal nemico, sino alle 10 della sera.

La divisione Durando e la brigata Piemonte bivaccarono a Bondotto, le divisioni Mollard e Cucchiari e la brigata Aosta, a S. Martino ed Ortaglia.

Nella sera del 24 il quartier principale del primo esercito austriaco era in Goito, quello del secondo in Valeggio. Le ultime truppe del primo esercito abbandonarono la riva destra del Mincio nel mattino del 25s dopo di che venne distrutto il ponte di Goito. I Francesi occuparono questo paese nel pomeriggio del 25 e nel 26 con poche forze soltanto.

Il secondo esercito rimase in gran parte al 25 e al 26 ancora sulle sue posizioni sulla destra del Mincio col primo corpo tra Volta e Valeggio, mentre i Francesi lasciarono pure Volta disoccupata. Il quartier principale del secondo esercito fu trasferito il giorno 25 a Villafranca, ed il 26 a Verona; le truppe di questo esercito furono nel 26 e nel 27 ritirate dietro il Mincio ed il Tione.

Risultamenti della battaglia. — Considerazioni generali

Gli alleati, o, diciam meglio, i Francesi, riportarono ancora una volta una grande vittoria; certo che costò ad essi gravi sacrifizi, né si può dire che abbiano potato conseguire mercé di quella la compiuta distruzione dell'esercito austriaco; dappoiché rimaneva tale da imporre rispetto e da potere, qualora fosse appoggialo alle sue fortezze, mutare la sorte degli eventi. Ciò nulla meno abbandonando gli Austriaci il campo di battaglia, riconobbero la vittoria degli alleati, ed aggiunsero alle altre loro sconfitte una nuova, la quale non poteva né rinvigorire né rialzare lo spirito delle loro schiere, mentre le continue vittorie dell’esercito, francese, ancorché riportate a caro prezzo, valevano a raffermarlo viemaggiormente nella credenza di essere invincibile. Gli Austriaci computano le loro perdite materiali nella battaglia di Solferino nelle cifre che seguono:

Morti

91

ufficiali

2,261

uomini

Feriti 4 generali

485

»

10,160

»

Somma 4 generali

576

»

12,421

»

In complesso

13,001









Abbiamo pertanto tra morti e feriti una perdita di circa 1 ½ di tutt’i combattenti. La proporzione fra gli ufficiali morti e feriti ed i sott'ufficiali e i soldati è di circa 1:21. La proporzione dei feriti ai morti risulta questa volta circa da 4, 5:1. In complesso le proporzioni rimangono le medesime.

E d’uopo aggiungere ai morti ed ai feriti i dispersi (prigionieri): 59 ufficiali e 9229 uomini, in totalità 9288 uomini. Questa cifra è da ritenere superiore anziché inferiore alla verità, imperocché più tardi si presentarono alcuni dei dispersi ai rispettivi loro corpi.

La perdita totale ascende dunque a circa 22,000 uomini, ossia da 17 ad 18 dell'esercito combattente.

Gli Austriaci, inoltre, asseriscono d-i aver perduto 891 cavalli e 13 pezzi d'artiglieria.

Nella relazione francese della battaglia inserita nel Moniteur si asserisce che furono conquistati 30 pezzi d artiglieria. Secondo le relazioni dei marescialli e dei comandanti delle divisioni, la Guardia imperiale prese 4 cannoni a Solferino; il I. corpo, 4; la relazione del 2. corpo non fà menzione di simili conquiste, neppure quella del 3.; il 4 corpo ne conquistò 7. La relazione di Mollard parla di 5 cannoni conquistati, quella di Cucchiari di 3. In totalità sarebbero dunque 23 pezzi, od almeno quando si volesse ritenere, come è probabile, che i quattro pezzi conquistati dalla Guardia imperiale fossero i medesimi del 1. corpo, e che Mollard parlasse nello stesso tempo anche di quelli di Cucchiari, il glorioso trofeo consisterebbe sempre in sedici cannoni. Laonde rimane ancora una differenza tra le asserzioni degli alleati e quelle degli Austriaci.

I generali feriti degli Austriaci sono i tenenti marescialli Crenneville, Blomberg e Palffy, ed il maggiore generale Bàltin.

L’esercito sardo perdette:

Morti

49

ufficiali

642

uomini

Feriti

167

»

3,405

»

Dispersi

»

1,258

»


——


———

»

Totalità:

5,524




La perdita in morti e feriti ghigne qui da 1/9 sino ad 1/10 pei combattenti gregarii; la proporzione degli ufficiali ai soldati è di 1:19.

La relazione ufficiale dei Francesi annovera 150 ufficiali morti, 570 feriti; 12,000 gregarii tra morti e feriti. Il rapporto della Guardia non enumerava perdite. Baraguay d'Hilliers conta nel suo corpo 234 ufficiali e 4000 soldati tra morti e feriti; Mac-Mahon 1/4 ufficiali (19 morti e 95 feriti) e 1458 (192 morti e 1266 feriti) di bassa forza. Canrobert perdette 3 ufficiali morti, 12 feriti; 250 morti e feriti di bassa forza; Niel, comprese le divisioni di cavalleria Partouneaux e Desvaux, 46 ufficiali morti, 207 feriti e 7 dispersi; della bassa forzai, 586 morti, 3417 feriti e 541 dispersi. In tal modo rimarrebbero tuttavia per la Guardia circa 4500 uomini. I dati più precisi delle perdite sono quelli di Niel. Di circa 30,000 combattenti (compresa la cavalleria) egli perdette tra morti e feriti 4256 uomini, dunque circa 1/7; la perdita di ufficiali in proporzione a quella dei gregarii sta come 1:20.

La perdita totale degli alleali tra morti e feriti è computata dai 17,000 ai 18,000; cioè a circa 1/9. Pertanto, è relativamente maggiore di quella degli Austriaci; ma ciò provenne dall'aver dovuto gli alleati assalire posizioni assai difficili, e valorosamente difese dagli Austriaci con fuochi ben diretti a breve distanza.

Sproporzionatamente grande apparisce di nuovo nelle schiere degli alleati la perdita di generali ed altri ufficiali superiori. I generali Ladmirault e Dieu del l. mo corpo francese furono gravemente feriti; Forey riportò una ferita leggiera, così pure i colonnelli, 4 tenenti colonnelli, 10 comandanti di battaglione feriti, ed 1 tenente colonnello e 4 capi-battaglioni uccisi, li corpo di Mac-Mahon perdette il generale d artiglieria Auger, al quale nel combattimento d'artiglieria del mattino fu tronco, come dicemmo, il braccio sinistro; inoltre gli furono uccisi due colonnelli ed un tenente colonnello. Sotto il comando di Miei furono feriti: il generale Donay; 3 colonnelli, 3 tenenti colonnelli, e 3 capi-battaglioni uccisi. Dei Piemontesi furono feriti i generali Cornaldi e Ansaldi.

Chi volesse sapere quali siano stati i motivi pei quali gli Austriaci, non ostante il loro valore e la buona direzione delle brigate, hanno perduto anche la battaglia di Solferino, si potrebbe rispondere assolutamente; la colpa stette nel comando supremo e nella funesta ripartizione in due eserciti, ossia in due grandi masse. È un fatto che nel campo austriaco non furono date pel giorno 24 se non disposizioni di marcia; il che sicuramente non si può giustificare, imperocché avevano I(1) intenzione di assaltare, e ad ogni passo quindi dovevano attendersi d’incontrare il nemico tra il Mincio ed il Chiese; ora gli Austriaci furono al 24 sorpresi, si può dire, ed assaliti ancor prima che avessero abbandonato le loro posizioni. Questa circostanza fu sfavorevole ad essi, in causa dell'imperfetto ordinamento delle loro sussistenze. La truppa per lo più dovè combattere digiuna. Ma per un altro riguardo quella circostanza fu invece favorevole. Se gli Austriaci fossero stati di nuovo in marcia, mentre succedeva l'assalto degli alleati, i due eserciti austriaci, già divisi moralmente dal duplice comando, sarebbero stati del tutto separati anche materialmente; gli uni in marcia da Solferino (Pozzolengo sopra Castiglione-Lonato), gli altri da Guidizzolo (Castel Goffredo sopra Carpenedolo); l'assalto centrale dell’esercito di Napoleone incontrava in tal guisa minori difficoltà di quelle che incontrò in fatti, e tanto minori in quanto che gli Austriaci nel caso premesso non avrebbero occupato le posizioni in sommo grado ad essi favorevoli, avuto riguardo alla loro importanza tattica (cioè pel combattimento).

Che non esistesse in complesso un vero comando supremo nell'esercito austriaco, o, direm meglio, che esso non facesse per lo meno sentire il suo impulso (il che è tutt'uno) crediamo che apparirà evidentemente dalla nostra narrazione; siccome pure crediamo che si riconoscerà da esso la chiara e forte antitesi manifestatasi a questo riguardo tra gli Austriaci ed i Francesi. Dalle cose delle si sarà eziandio compreso che il comando dell'esercito austriaco con la ripartizione in due eserciti, e pertanto colla mancanza di una riserva generale d’esercito, non poteva far prevalere la sua direzione suprema. Noi speriamo almeno di averlo provato. Rammentiamo soltanto come nel momento in cui erasi dato l'ordine all'ala sinistra dell'esercito di effettuare il suo controassalto, le riserve di quest'ala (primo esercito), sulla presenza delle quali si era fatto assegnamento, fossero già tutte impegnate. Se il comando supremo dell'esercito avesse avuto riserve, avrebbe per lo meno saputo di quali, poteva disporre, e su quali non poteva più far conto. E però cosa degna di nota che Hess, il quale voleva, come si è detto, rimanere ben trincierato dietro il Mincio, ed il cui parere nel Consiglio di guerra non prevalse, perché non credette di difenderlo con fermezza, non volle avere alcuna ingerenza durante la battaglia. Il tenente maresciallo Rarnming vi aveva la vera direzione.

In complesso gli Austriaci al centro avevano un numero di truppe alquanto sufficiente, quantunque con più esatte disposizioni e migliori ripartizioni ne avrebbero potuto avere ancor più. Quivi trovavansi già il 5.°, il 1.° ed il 7.° corpo. Per dir vero queste truppe erano nel mattino del 24 le une dietro le altre, scaglionate sulla linea dalle Grole sino a Foresto (circa l'112 lega tedesca), che cade quasi perpendicolare su quella della vera fronte. Questo però non si può dire un errore. I bivacchi di 3 corpi d'armata, ai quali si deve aggiungere la divisione di cavalleria del generale Mensdorf presso Tezze, non si possono riunire sopra un sol punto. Fu un errore però quello di non aver fatto subito ed in tempo accorrere quei corpi stanziati in addietro, appena cominciato il combattimento presso le Grole, e di non averli impegnali ed adoperati secondo una idea dirigente e preconcetta. Comparvero qui una brigata dopo l’altra, per essere una dopo l'altra, non ostante l'eroico valore dimostrato, battute e decimate. Quale fu il vero motivo di tal fenomeno? Noi ne accenneremo due: in. prima, perché Ramming, mentre la battaglia era già nel pieno suo fervore, fino dopo le ore 10 antimeridiane, non volle assolutamente credere che dovesse aver luogo una battaglia, ma bensi che si trattasse di un semplice combattimento di avamposti; ed in secondo luogo, perché quando gli Austriaci sono assaliti accettano sull’istante la legge del nemico ricadendo nella difensiva; fatto del quale abbiamo avuto occasione di accennare parecchie prove nelcorso di questa campagna, e che si è qui stesso ripetuto. Ora, è natural cosa che nella difensivasi risparmino maggiormente le riserve che coll’offendere, e che difendendosi si ecceda più facilmente in questo risparmio, d’altronde giustificabile, che coll'offendere. Volendo sempre e soltanto, trattenere, ritardare i successi del nemico, suole avvenire che 1‘interesse particolare predomina, sacrificando spesso la idea generale che deve dirigere tutta l’azione. Una brigata è spedila qui, l’altra lì, e sempre unicamente in rinforzo di questo o di quel punto, e se dopo un pajo d ore si afferra un buon pensiero, nulla più si ha sottomano per ridurlo in atto Questo per dir vero non è. un buon metodo di difesa; chi vuol operare secondo ragione deve trattenere il nemico con la minor forza possibile, per poter a suo tempo con la maggior possibile operare sul vero punto. Ma l’uomo è debole, ed un principio generale regna facilmente in guisa assoluta. Una volta che si pensa alla difensiva, nella nostra età pseudo-sapiente, si pensa anche facilmente alla sola difesa locale.

Certo che non fu questo il solo motivo del cattivo impiego delle truppe austriache al centro. Vi ebbe una gran parte la confusione nel comando di troppi comandanti, non meno che il loro continuo disporre delle stesse truppe; inconveniente che si deve ascrivere principalmente alla viziosa repartizione dell’esercito in due armale.

Qui vediamo un comandante di corpo che imparte ordini; la il comandante del secondo esercito, ossia dell’ala destra, conte Schlick: qui il comandante supremo, l’imperatore Francesco Giuseppe, che veramente non ha proprie riserve, né può disporne, ma tuttavolta deve comandare; la infine, per un sopra più, il volontario maresciallo, il vecchio Nugent. Quattro diverse persone o stati maggiori che tutti quasi col medesimo diritto o colle stesse ragioni travagliano di piena forza coi loro comandi le medesime truppe. Si può forse evitare in tal modo un incrociamento delle volontà, uno sparpagliamento ed un pessimo uso delle forze? Noi ne dubitiamo fortemente. Dalla riprovevole ripartizione del comando provenne inoltre che i due comandanti degli eserciti, Wimpffen e Schlick, in realtà non comandassero. È vero, che, per quanto è voce, Wimpffen ha perduto assai del suo vigore tanto fisico che morale; ma lo stesso non può dirsi di Schlick, e nondimeno anche egli, quantunque si esponesse, e con lui anche il suo seguito, con molto sangue freddo al fuoco del nemico (il che per altro non ci sembra un gran merito pel comandante di un esercito), pure non diede ordini positivi, imitando in ciò Wimpffen, e mostrò tanto poco talento di gran capitano quanto quest’ultimo. E tal cosa diciamo con tutta franchezza, perché non possiamo ammettere quello che fu detto in un articolo della Gazzetta militare e riprodotto nella Gazzetta universale d’Augusta, che cioè Schlick diede «prova del discernimento degno di un gran capitano» coll’asserire che avrebbe preferito di avere a sua disposizione su quel terreno, non atto al movimento della cavalleria, buona fanteria. Ma perché non provvide egli in tempo acciocché la fanteria vi fosse quando ne abbisognava?

Benedek aveva durante la battaglia una posizione alquanto indipendente; egli manifestò qui l’antico valore e potè farlo di leggieri, dappoiché i Piemontesi hanno commesso in questa parte gli stessi errori degli Austriaci verso i Francesi. Nei combattimenti di S. Martino e di Madonna della Scoporta comparvero al fuoco soltanto qualche brigata isolata, o al più divisioni, ma una dopo l’altra, e furono da Benedek separatamente e successivamente battute. Possedendo noi su questi combattimenti particolari, che in altre circostanze si potrebbero considerare una battaglia (i Piemontesi qualche volta gl’intitolano battaglia di S. Martino), relazioni ufficiali assai estese dei quattro comandanti delle divisioni piemontesi, ci possono servire di grande ammaestramento nella considerazione di tali condizioni; esse ci narrano in qual modo siano avvenuti i fatti nel campo dei Piemontesi, e per ciò riflettono una chiara luce sopra quello che avveravasi di consimile presso gli Austriaci in altri punti del campo di battaglia.

Un male per gli Austriaci fu, che l’andamento degli avvenimenti stessi abbia fermato l’attenzione di Benedek fino dal principio sull’estrema sua ala destra a S. Martino. La forza e l’intelligenza di quel generale furono in lai modo divertite dal centro. Per gli Austriaci sarebbe stato assai meglio se Benedek per un caso fortuito fosse stato attirato dapprima contro Durando alla Madonna della Scoperta, e così si fosse avvicinato al centro. Qual semplice comandante di un corpo, egli non poteva vedere da principio il vantaggio di simile combinazione; ma ad un vigoroso comando supremo poteva forse riuscire di richiamarlo sul punto decisivo con la maggior parte delle sue truppe in tempo e momento opportuno.

Il movimento di fianco dell’estrema ala sinistra austriaca, cioè della divisione Jellachich, non ebbe, come abbiamo veduto, neppure un principio di esecuzione. Si può ben dire che prese un giro troppo largo; ciò nulla meno non rimase senza effetto, imperocché il caso volle che Canrobert comandasse l'estrema ala destra dei Francesi.

Tatti infine si persuaderanno di leggieri che anche a Solferino non furono i cannoni rigati, né i fucili rigati, né gli stratagemmi tattici che guadagnarono la batta glia, ma che la vittoria piegò da quel lato ove il comando supremo si mostrò più eccellente, e per la chiara perspicacia nel mantenere la necessaria unità di azione, e per l’energica direzione e la tenacità nel seguire la via una volta intrapresa; da quel lato, diciamo, sul quale la volontà di vincere sforzavasi con la massima risolutezza di afferrare più presto che le fosse possibile, e con forze imponenti, la via più adatta per riuscirvi; quella dell’assalto.

Non fummo i soli a rimproverare ripetutamente, che nella direzione o nella condotta della guerra mancò sempre nel campo degli Austriaci il concedo dell'offensiva. I propugnatori assoluti di questo sistema austriaco di fare la guerra (dei quali forse lo stesso esercito austriaco conta il minor numero) dicono ora non doversi biasimare gli Austriaci perché non hanno preso l’offensiva, e soggiungono: Non fu la battaglia di Austerlitz una delle più belle date da Napoleone? ecc. ecc.

Non crediamo che nessuno abbia mai rimproverato agli Austriaci di aver dato battaglie difensive: a noi per lo meno non è noto siffatto rimprovero. Si biasimò soltanto che nella direzione austriaca, o nel suo metodo di guerreggiare, abbia mancalo l'idea dell’offensiva. La battaglia di Austerlitz d’altra parte è un esempio scelto male a proposito dagli assoluti propugnatori del sistema austriaco; esso vale anzi a meglio raffermare la fatta censura. Poiché per qual motivo Napoleone si lasciò assalire ad Austerlitz? Rispondiamo; per poter effettuare, appena cominciato l’assalto nemico, il suo contro-assalto con duplice vantaggio! Ma quando troviamo nel campo austriaco in questa campagna un simile pensiero? In nessun tempo, né i. n verun luogo. Accennando poi a Solferino, si può dire: Gli Austriaci erano in marcia con intenzione di offendere, e ricaddero nella difensiva, appena incontrato il nemico; anzi in significato più esteso puossi applicare questo esempio a tutta la campagna, mentre sarebbe stato assai più opportuno di cominciare colla difensiva per passare all’offensiva in un momento opportuno e con una superiorità tanto maggiore.

Neppur l’imperatore Napoleone fu assistito dai suoi comandanti secondarii in quel modo ch'essi avrebbero potuto ed egli avrebbe desiderato. Abbiamo veduto avere il maresciallo Canrobert mal compreso il suo compito, e Re Vittorio Emanuele (dopoché le molte sue ricognizioni ebbero originato lo sparpagliamento delle sue forze e lo scompaginamento delle truppe di varie divisioni: ed inoltre dopo che era stato intrattenuto da Benedek) non aver potuto decidersi ad una grande evoluzione,-quella di sacrificare la sua ala sinistra, per concentrare il maggior nerbo delle forze sulla sua destra. Ma all’ala destra dei Francesi, l’energia e la tenacità di Niel (nominato con ragione per ciò maresciallo di Francia) poterono riparare l’insufficienza di Canrobert, ed al centro l’imperatore ottenne quello che volle in virtù della propria sua direzione, impegnando le sue riserve e la Guardia con una tenacità degna di ogni encomio.

Anche a Solferino ci si affaccia la domanda: Se gli Austriaci fossero rimasti vincitori, ed in guisa da poter inseguire vigorosamente gli alleati, quale sarebbe stata la sorte dell’esercito sardo-francese? L’annichilamento compiuto, un affogamento verso le Alpi e nel lago di Garda. — Per quanto grande sia il rispetto che inspira la direzione di Napoleone sul campo di battaglia, non possiamo lasciar di osservare che la sua linea di operazione era del tutto falsa. Ma è ben vero ch’egli sul campo di battaglia seppe sempre appropriarsi la vittoria.

Si rammenta quanto chiasso si fece tempo fa riguardo ai telegrafi di campagna austriaci e quali cose sopranaturali si attendevano dalla loro applicazione in tempo di guerra.

É già noto aver noi sempre combattuto la tendenza di voler fare di ogni nuova invenzione un amminicolo per la guerra, e di renderla proprietà degli eserciti anche per l’uso di campagna. Quanto risguarda il telegrafo di campagna austriaco, nella campagna del 1859 esso non fu applicalo che dapprincipio nella Lomellina, ove Giulay erasi domiciliato pacificamente. Per dir vero, non era difficile di attuarlo colà; si poteva anzi, senza trarsi dietro nessun materiale, aggiugnere ai già esistenti, nuovi fili telegrafici, poiché null'altro s'intraprendeva, e se ne aveva il tempo. Eppure né a Magenta, né a Solferino si parlò di telegrafo. Quivi, ove non potevasi trascinar seco il materiale necessario allo scopo di una battaglia, e pel tempo di un giorno di battaglia; quivi mancò anche il telegrafo efficace, e l’altro materiale a nulla giovò. Anziché persuadersi che si è concepita un’idea esagerata e da non potersi recare in atto dell’applicazione e dell’utilità del treno del telegrafo di campagna, sembra che in Austria si voglia tuttavia ascrivere questa incontrastabile insufficienza del telegrafo di campagna alle sole imperfezioni tecniche, come per esempio, agl'isolatori di guttaperca. E cosi vedremo nella prossima guerra trar seco tuttavia questo inutile treno, per convincersi una volta di più che anche i migliori perfezionamenti tecnici non sempre giovano, e che appunto le condizioni di una battaglia campale escludono l’utile applicazione dei telegrafi, e che i migliori telegrafi in una battaglia sono buoni ufficiali di stato maggiore ed ajutanti bene istruiti e forti a cavallo. —

Dopo la battaglia di Solferino gli Austriaci abbandonarono la linea del Mincio ritirandosi dietro l'Adige e nelle fortezze senza essere inseguiti.

Il 28 giugno il corpo del principe Napoleone, forte di 40,000 uomini, dopo aver traversato il ducato di Modena, esegui la sua congiunzione col grosso dell'esercito alleato.

Il 1. luglio l'esercito allealo passava il Mincio e senza incontrare resistenza prendeva possesso dei punti che ad esso furono assegnali.

Il re Vittorio Emanuele investi Peschiera, ed il generale Frossard comandante in capo del genio dell'esercito francese fu incaricato dei lavori di assedio. Fu collocato in Goito un corpo di esercito per osservare Mantova ed un altro corpo fu raccolto a Brescia per guardare i passi del Tirolo.

Il 3 luglio il capitano Baulaincourt eseguiva una ricognizione lungo la sinistra sponda del Mincio pei villaggi di Rivolta, di Castellimelo, di Galliana e di S. Lorenzo. Avvenne uno scontro, che dimostrò la necessità di stare in guardia con somma vigilanza, e per ciò l’imperatore Napoleone rinnovava, con circostanziate istruzioni, i suoi ordini formali a tale riguardo e li faceva pervenire a ciascun comandante in capo dei corpi d’armata.

Operazioni della flotta italo-francese

La flotta italo-francese stava sotto il comando superiore del vice ammiraglio Romain Desfossés e componevasi di sei vascelli di linea, due fregate ad elice sotto il comando di detto vice-ammiraglio e della flotta d'assedio sotto gli ordini diretti del contrammiraglio Bouèt-Villaumez. Questa flotta doveva coadiuvare ai successi dell'armata di terra attaccando il littorale di Venezia e minacciando anche le cittadelle marittime.

Dal 30 giugno al 1. luglio tutta la flotta parti da Antivari. Un gruppo condotto con tutta celerità verso il fondo dell’Adriatico fu destinato alla presa dell'isola di Lussin, il cui possesso era di grande importanza, ma gli Austriaci, o fosse timore che cadesse prigioniera una guarnigione, o fosse impotenza di difendersi su tutta l’estensione delle coste minacciate dalla flotta alleata, abbandonarono affatto a sé la numerosa popolazione di Lussin e disarmarono le torri massimiliane che dominarono la città ed il porto Augusto

La flotta, concentrala a Lussin, attendeva l’arrivo del corpo di spedizione, il quale doveva occupare i punti che sarebbero stati smantellati dai cannoni d’assedio e fece tutti i suoi preparativi ond'essere in grado di attaccare le difese esterne di Venezia Quel corpo di spedizione, forte di 4000 uomini apparve finalmente nel 0 luglio a Lussin, salutato dalle acclamazioni dei marini, mentre per essi era il segnale del combattimento si lungo tempo aspettato. Questo segnale era contemporaneamente dato dall'imperatore Napoleone, il quale spediva all'ammiraglio comandante in capo l'ordine di attaccare immediatamente gli approcci di Venezia.

Fu concertato un piano d'attacco appoggiato a vecchi documenti e a nuove nozioni prese sugli stessi luoghi. Eccone le particolarità.

«L’ingresso di Chioggia è difeso da parecchi forti stabiliti da ogni lato. Sul punto di sinistra si eleva il forte San Felice munito da H cannoni da 30 che battono alla scoperta e di sei mortai. Due batterie poste a qualche distanza da questo forte, lo fiancheggiano al sud, erano armate da tre cannoni da 30.

Sul punto di destra all'entrata si elevano il forte Caroman munito di sette pezzi, una batteria un poco più al nord, armala di tre pezzi e la torre Caroman con due pezzi di grosso calibro. L’ammiraglio Bouét-Vilhumez comandante la flotta di assedio doveva cominciare l’attacco alle cinque ore del mattino colle tre batterie galleggianti la Lave, capitano Benie, la Tonnante, capitano Lejeune e la Devaslalion, capitano Majastre. i quali avevano ordine di tenersi a 400 metri dal forte San Felice, la vera chiave dell'ingresso. Poco stante le 4 cannoniere di 1.ma e di 2. da classe, dirette dal capitano di vascello de La Ronciére, dovevano attaccare alla stessa distanza il bastione sud del forte San Felice e le due batterie che gli Austriaci avevano stabilite in vicinanza di questo bastione.

Quasi contemporaneamente una parte delle scialuppe cannoniere, condotte dal capitano di fregata Foulliog, aiutante di campo dell'ammiraglio Desfossés, doveva attaccare di fianco alla distanza di 500 metri il forte Caroman e le sue difese che le 4 fregate a ruote condotte dal capitano di vascello Adolfo Bouèt avrebbero attaccato di fronte a 800 a 4000 metri soltanto a motivo della poca profondità dell'acqua. Le corvette a ruote dovevano unire il loro fuoco a quello delle cannoniere nella vicinanza permessa dall’altezza dell’acqua.

Quanto ai vascelli ed alle fregate francesi e sarde, essi non potevano avvicinarsi a quelle difese più di 1800 a 2000 metri, ma potevano concorrere all'azione generale coi loro pezzi di gran portata.

L’ammiraglio Desfossés d'altronde si riservava di lasciare la Bretagne ove sventolava la sua bandiera e di portarla sulla corvetta la Monge per sorvegliare l’azione. La flotta d’assedio presentava adunque, senza calcolare i vascelli posti a lunga distanza una fronte di almeno cento bocche da fuoco del calibro di 50 o di 30 rigato; difesa dalle sue corazze di ferro, locché non lasciava alcun dubbio sul rapido successo dell'attacco che essa eseguiva a 400 o 500 metri dai forti del nemico. Smantellati i forti di Chioggia, si doveva far saltare in aria un bastimento che chiudeva l’ingresso, locché era facile ai nostri marini, i quali avevano fatte molte sperienze durante il loro soggiorno a Lussin. La flotta d'assedio, imbarcando e rimurchiando nelle imbarcazioni dei vascelli i 4000 uomini del generale de Wimpffen, li portava al porto di Chioggia e li metteva a terra sulla spiaggia in difesa di quella città.

Presa Chioggia, Brondolo al sud e Malamocco al nord divenivano di nuovo gli obbiettivi d'attacco del corpo di spedizione appoggiato dalla flotta di assedio. Una semplice occhiata sulla carta basta per dimostrare che le difese dello stesso Malamocco, prese nella maggior parte a tergo, sia nei canali, sia lungo i Murazzi, non avrebbero potuto resistere lungamente a questo duplice attacco. E Malamocco avrebbe resistito tanto meno in quanto che i nostri vascelli di linea si sarebbero avvicinali a breve distanza dai forti che ne difendono l'ingresso per coadiuvare le operazioni dell'interno eseguite dalla nostra flottiglia e dal corpo di spedizione.

Lo avanzarsi da Malamocco sopra Venezia era ancor meno difficile che quello da Chioggia a Malamocco, tanto per la maggior profondità delle lagune, quanto per le facilità che il terreno presentava alle nostre truppe.

L’attacco quindi contro Venezia aveva grande probabilità di successo pel solo fatto della nostra entrata nel porto di Chioggia, che ci permetteva di prendere successivamente a tergo andando dal sud al nord, tutte le difese esterne di quella capitalela cui popolazione non avrebbe mancato di sollevarsi al nostro avvicinamento.

Quanto alle lagune ostruite, esse non presentavano difficoltà, attesa la stessa loro poca profondità.»

Luglio. — Preliminari di Villafranca

Peschiera è sotto il cannone dell’armata sarda. Dinanzi Verona l’armata dell'imperatore Napoleone occupa una linea compatta che si estende parallelamente al Mincio, da Castelnovo fino a Pozzuolo. La flotta, impadronita dell'isola di Lussin, non attende che un ordine per cominciare l’attacco. L’ordine è mandato ed allo spuntar del giorno 8 luglio, i bastimenti si pongono in movimento per andare a dar fondo sul litorale di Venezia e disporsi al combattimento.

In tale minacciante posizione, dopo una marcia vittoriosa dalla Dora al Mincio, a sei leghe circa da Verona, nel momento in cui Peschiera è investita e l'esercito alleato, forte di 15,000 uomini circa, è pronto a dar battaglia, l’imperatore de' Francesi pensò di proporr re all’imperatore d’Austria una sospensione d’armi.

Nel 6 luglio a sei ore e mezzo della sera Napoleone mandava a Verona il generale Fleury, aiutante di campo e primo scudiero dell'imperatore, per consegnare all’imperatore d’Austria una lettera autografa, in cui proponevagli un armistizio che doveva preparare alle negoziazioni, già intavolate dalle grandi potenze, una più facile soluzione.

Come l’imperatore d Austria prese cognizione della lettera sì inattesa dell'imperator Napoleone, non potè celare il suo grande stupore.

«La proposta contenuta in questa lettera, diss’egli al generale Fleury, e di cui voi mi sviluppate i motivi, è gravissima, o generale, e merita ponderazione; domani vi darò la risposta».

Alle ore otto del domani l’imperatore Francesco Giuseppe consegnava questa risposta al generale, esprimendo il desiderio che la flotta dell’Adriatico ricevesse immediatamente avviso della sospensione d'armi in massima conchiusa. Il generale Fleury scrisse immediatamente al vice-ammiraglio invitandolo a sospendere le ostilità. Alle undici e mezzo lo stesso generale consegnava a Napoleone la lettera autografa di Francesco Giuseppe.

Fino dallo spuntare del giorno tutte le truppe erano sotto le armi, perché varie informazioni annunziavano che gli Austriaci dovevano attaccare gli alleati con forze considerabili, e Napoleone voleva che la sua armata, pronta a qualsiasi evento, fosse ordinata in battaglia e preparata alla lotta qualora l’armistizio da lui proposto fosse stato ricusato da Francesco Giuseppe. Per ciò nella giornata del 6 tutt’i comandanti in capo d’armata, come pure quelli d’artiglieria e del genio, avevano ricevuto un ordine di movimento preciso e circostanziato.

Nell'armata non v'era alcuno che sapesse la missione del generale Fleury, ed ognuno, vedendo spiegarsi tante forze, aspettava una battaglia generale, in cui tutt’i mezzi delle due armate sarebbero stati a fronte gli uni cogli altri.

Alle undici e mezzo, fra una nube di polvere si scopriva la vettura che riconduceva da Verona il generale Fieurv e dopo mezz’ora appena i corpi d'armata ricevevano l’ordine di ritornare ai loro rispettivi bivacchi.

Il villaggio di Villafranca, a mezza via tra Valeggio e Verona, era naturalmente indicato dalla sua stessa posizione, come il punto in cui dovevano incontrarsi le persone incaricate di stabilire le ultime condizioni dell’armistizio.

Per l’Imperatore d’Austria erano a tal uopo incaricati il generale d’artiglieria barone d’Hess, capo di stato maggiore dell’armata austriaca, ed il generale conte Mensdorf-Pouillv.

Per l'Imperatore dei Francesi il maresciallo Vaillant, maggiore generale dell’armata francese, ed il generale di divisione L. de Martimprey, aiutante-maggiore generale.

Pel Re di Sardegna il suo primo aiutante di campo luogotenente generale conte Morozzo della Rocca, maggiore generale dell’armata sarda.

Nell’8 luglio, dopo una conferenza che durò circa tre ore, i commissarii delle tre potenze stabilirono le condizioni dell’armistizio, la durata del quale fu portata sino al 15 agosto susseguente. Spedita in tre esemplari originali, fu nello stesso giorno ratificata dai tre sovrani.

Nel 16 agosto a mezzo giorno le ostilità dovevano ricominciarsi senza previo avviso.

Alle ore 9 dell'11 luglio l’imperatore Napoleone, alla testa della sua scorta, era a Villafranca, e siccome l’imperatore Francesco Giuseppe non era ancora arrivalo, così egli continuò il suo cammino in direzione di Verona volendo andare incontro all’imperatore d’Austria. Non andò guari che si vide Francesco Giuseppe, il quale marciava pure alla testa della sua scorta. Dopo alcuni minuti i due imperatori presero la via di Villafranca.

Qui giunti i due imperatori scesero da cavallo sulla strada maestra dinanzi ad una casa di buona apparenza appartenente al signor Gandini Morelli, e salirono il primo piano, ov'era stata preparata una stanza per la conferenza Questa conferenza durò poco meno di un’ora. La missione che alcune ore dopo conduceva il principe Napoleone a Verona fece conoscere le particolarità di questa grave Conferenza.

Napoleone, appena ritornalo a Valeggio, chiamò a sé il principe Napoleone, il quale si presentò a lui mentre intrattenevasi col suo alleato Vittorio Emanuele sulla conferenza tenuta nello stesso mattino coll'imperatore d'Austria. Mentre il principe si accingeva a partire per Verona, l’imperatore scrisse a Francesco Giuseppe ch’egli in massima accettava i preliminari, di cui nel mattino i due sovrani avevano posto le basi e che incaricava suo cugino, il principe Napoleone, di discuterne i termini coll'imperatore d’Austria e d'introdurvi le particolari modificazioni che potessero risultare dalla loro conferenza. il principe era parimente incaricato di dare all'imperatore 4' Austria tutte le necessarie dilucidazioni sui vari punti stipulati.

Tutt'i paragrafi del trattato di pace furono riveduti in questa conferenza. Il principe Napoleone aveva spiegato o lasciato chiaramente travedere i punti essenziali sui quali l’imperator de' Francesi avrebbe potuto far concessioni, ed anche quelli ch’era impossibile modificare. Quind’egli disse all’imperator d’Austria:

«Sire, io ebbi l’ordine di essere di ritorno al quartiere generale di Valeggio al più tardi alle ore 10, e quindi devo, onde obbedire alle datemi istruzioni, partire da Verona ad otto ore e un quarto, per cui non posso attendere la risposta di Vostra Maestà che per due ore. Se questa risposta Tosse negativa, sarebbe co-sa sommamente rincrescevole, o Sire, che l'imperatore Napoleone si trovasse in necessità di ripigliare la guerra, spiralo che fosse l'armistizio, la qual guerra, si da una parte che dall'altra sarebbe, non ne dubitate, più terribile ancora di quello che lo fu sinora e trarrebbe seco, colla conflagrazione generale dell'Italia, incalcolabili conseguenze.

«Benissimo, disse l’Imperatore levandosi in piedi, voi avrete la mia risposta.

A sette ore e mezzo il principe vide entrare nella sua camera l’imperator d’Austria.

«Vi reco la mia risposta, cessegli Francesco Giuseppe, ma io uon posso modificare di mollo le mie prime proposte.

«Bisogna dunque, o Sire, ch'io sia un ben cattivo avvocato, disse il principe Napoleone.

«Voi non conoscete abbastanza il valore del sagrifizio che faccio cedendo la Lombardia, soggiunse l'Imperatore, e porse al principe la carta che teneva in mano.

«È questa una definitiva determinazione, o Sire? disse il Principe dopo aver letto la risposta.

«Sì, rispose l’imperatore.

«Se la cosa è così, pregherò Vostra Maestà di voler firmare questa carta.

«E la firmerei ancor voi in nome dell'Imperatore?» disse Francesco Giuseppe.

«Sire, replicò il Principe, in condizioni siffatte non mi credo autorizzato a farlo Le modificazioni che Vostra Maestà giudicò dover fare aita redazione eh ebbi l'onore di assoggettarle, sono tali che io debbo riservare la libertàal mio Sovrano.

«Ma io non posso impegnarmi disse Francesco Giuseppe, se l’imperatore Napoleone non s’impegna egualmente per sua parte, a firmare tali concessioni senza esser certo ch’esse saranno ammesse dalla Francia.

«Sire, rispose allora il Principe con voce alta, dò a Vostra Maestà la mia parola d’onore, che domani mattina Ella riceverà questa stessa carta con o senza la firma dell‘ Imperatore dei Francesi.

«L’Imperatore d’Austria guardò il Principe Napoleone, e senza far parola firmò la carta; poscia, porgendola al Principe, gli disse con visibile emozione:

«È grande il sagrificio che faccio cedendo cosi una delle mie più belle provincie. Ma se possiamo intendercela colf Imperatore Napoleone sugli affari d’Italia, non vi saranno più motivi di discordia tra noi.

«Credo bene, replicò il Principe, che questi preliminari saranno bastanti per ottenere il fine che desideriamo».

Alle dieci il principe Napoleone era di ritorno al gran quartiere imperiale francese, e quando si presentò all'imperatore, vi era presente il re Vittorio Emanuele. Il principe consegnò la carta firmala da Francesco Giuseppe a Napoleone III. Nel domani questi spedì all'imperator d’Austria una copia di que’ preliminari munita della sua firma, accompagnandola con una lettera autografa.

Ecco il testo originale dei preliminari della pace di Villafranca:

«Tra S. M. l’Imperatore, d'Austria e S. M. l'Imperatore de' Francesi fu convenuto quanto segue:

«I due sovrani favoreggeranno la formazione di una Confederazione italiana.

«Questa Confederazione sarà sotto la presidenza onoraria del Santo Padre.

«L’Imperatore d’Austria cede all'Imperatore de' Francesi i suoi diritti sulla Lombardia, eccettuate le fortezze di Mantova e di Peschiera, di modo che la frontiera dei possedimenti austriaci partirà dal raggio estremo della fortezza di Peschiera e si estenderà in linea retta lungo il Mincio sino alle Grazie; da la a Scorzarolo e Suzana al Pò, da cui le attuali frontiere continueranno a formare i confini dell'Austria. L’Imperatore de' Francesi trasmetterà il territorio ceduto al re di Sardegna.

«Il Veneto farà parte della Confederazione italiana benché rimanga sotto lo scettro dell’Austria.

«Il gran duca di Toscana e il duca di Modena ritorneranno ai loro Stati dando una generale amnistia.

«I due Imperatori domanderanno al Santo Padre che nei suoi Stati vengano introdotte riforme indispensabili.

«Da ambe le parli viene accordata piena ed intera amnistia alle persone compromesse in occasione degli ultimi avvenimenti nei territorii delle parti belligeranti.

«Villafranca, 11 luglio 1859.

Firmati: Francesco Giuseppe, m. p.

NAPOLEONE, m. p.»

Nel domani Napoleone III annunziava alla sua armata questa inattesa novità nel seguente modo:

«Soldati!

«Le basi della pace sono stabilite coll'Imperator d’Austria; il fine principale della guerra è raggiunto, e l’Italia, per la prima volta, sta per divenire una nazione.

«Una Con federazione di tutti gli Stati dell’Italia, sotto la presidenza onoraria del Santo Padre, raccoglierà assieme i membri ili una stessa famiglia. È vero che il Veneto rimane sotto lo scettro dell’Austria, ma per altro esso sarà una provincia italiana che farà parte della Confederazione.

«La riunione della Lombardia al Piemonte ci forma da questa parte delle Alpi un possente alleato che ci sarà debitore della sua indipendenza. I governi che non parteciparono al movimento, o richiamati nei loro possedimenti, comprenderanno la necessità di salutari riforme.

«Un amnistia generale cancellerà le traccio delle discordie civili. L’Italia, ormai padrona de' suoi destini, non avrà che imputare a sé stessa se non progredirà regolarmente nella via dell’ordine e della libertà.

Quanto prima voi ritornerete in Francia, e la patria riconoscente accoglierà con trasporto que soldati che innalzarono cotanto la gloria delle nostre armi a Montebello, a Palestro, a Turbigo, a Magenta, a Marignano ed a Solferino, che in due mesi resero liberi jl Piemonte e la Lombardia e non si arrestarono se non perché la lotta andava ad assumere proporzioni che non istavano più in relazione cogli interessi che la Francia aveva in questa formidabile guerra.

«Andate dunque superbi dei vostri fatti, superbi degli ottenuti risultamenti e specialmente superbi di essere i figli prediletti di quella Francia, che sarà sempre la grande nazione sino a che avrà un cuore per comprendere le nobili cause e uomini come voi per difenderle.»

«Dal quartiere imperiale di Valeggio 12 luglio 1859.»

«NAPOLEONE.»

L’imperatore Napoleone III arrivato in Francia, con un discorso con cui rispondeva alle felicitazioni a lui dirette dai grandi corpi dello Stato (19 luglio), volle dare il vero senso alla pace che in massima era stata conchiusa. Ecco il suo discorso:

«Signori!

«Trovandomi fra voi, che durante la mia assenza avete dimostrato all'Imperatrice ed a mio Figlio tanta devozione, sento in me il bisogno primieramente di ringraziarvi e poscia di spiegarvi quale sia stato il movente di mia condotta.

«Allorquando, dopo una fortunata campagna le armale francese e sarda pervennero sotto le mura di Verona, la lotta andava inevitabilmente a cangiar natura tanto sotto l’aspetto militare, quanto sotto l’aspetto politico.

«Io era fatalmente costretto ad attaccare di fronte un nemico trincierato dietro grandi fortezze, protetto contro ogni diversione sui suoi fianchi dalla neutralità dei territorii da cui era circondalo, e cominciando la lunga e sterile guerra degli assedii trovava a me dinanzi l'Europa in armi, tanto per disputarci i nostri vantaggi, quanto per aggravare i nostri rovesci.

«Nondimeno la difficoltà dell'impresa non avrebbe smossa la mia risoluzione, né arrestato lo slancio della mia armata se i mezzi non fossero stati sproporzionati ai risultamenti che si potevano ottenere.

«Bisognava decidersi a spezzare arditamente gli ostacoli opposti dai territorii neutrali ed accettare la lotta tanto sul Reno che sull’Adige. Bisognava francamente fortificarsi ovunque del concorso della rivoluzione.

«Bisognava versare ancora un sangue prezioso, che era stato sparso anche troppo; in breve, per trionfare era d’uopo arrischiare ciò che un sovrano non può arrischiare se non che per I indipendenza del suo paese.

«Dunque se mi arrestai, non mi arrestai per istanchezza o rifinimento, né per abbandono della nobile causa cui voleva servire, ma perché nel mio animo un’altra cosa faceva sentire più imperiosa la sua voce, e questa voce era l’interesse della Francia.

«Credete voi dunque che poca pena mi abbia costato frenare l’ardore di que’ soldati che, esaltati dalla vittoria, non domandavano che di marciare innanzi?

«Credete voi che poca pena m’abbia costato cancellare pubblicamente in faccia all'Europa dal mio programma il territorio che dal Mincio si estende all’Adriatico?

«Per servire all'indipendenza italiana feci la guerra contro volontà dell'Europa, e tostoché le sorti del mio paese poterono essere poste in pericolo, io feci la pace.

«Possiamo forse dir ora che i nostri sforzi ed i nostri sagrificii non riuscirono che a mera perdita? No; come lo dissi nell'addio ai miei soldati, noi abbiamo diritto di andar superbi della nostra campagna.

«In quattro combattimenti e due battaglie, una numerosa armata, la quale non la cede ad un’altra per organizzazione e valore, è stata vinta. Il re di Piemonte, un tempo chiamato il guardiano delle Alpi, vide il suo paese liberato dall’invasione e la frontiera de' suoi Stati portata dal Ticino al Mincio.

«L’idea di una nazionalità italiana è ammessa da quelli, che maggiormente l’avversano. Tutti i sovrani della Penisola comprendono finalmente il bisogno di salutari riforme.

«Laonde, dopo aver dato nuova prova della potenza militare della Francia, la pace che conchiusi sarà feconda di felici risultamenti, l’avvenire si manifesterà vieppiù ogni giorno pel ben essere d’Italia, per l’influenza della Francia e per la quiete d'Europa.»

«Ma nell’abboccamento tenuto tra l’imperatore Napoleone e l’imperatore Francesco Giuseppe furono stabiliti però alcuni punti che non vennero specificamente indicati nel trattato di Villafranca. Come dichiararono in seguilo i fogli ufficiali dei due Stati, fu disposto: 1. che il gran duca di Toscana ed il duca di Modena non verranno riposti sul trono col mezzo della forza; 2. che la Venezia avrà un’amministrazione italiana separata; 3. che Verrebbero restituiti i bastimenti predati.

Nell’ordine del giorno del 12 luglio all’armata e nel manifesto ai suoi popoli l’imperatore d’Austria espresse il rammarico di aver dovuto combattere senza il soccorso dei suoi naturali alleati, e dichiarò che la pace fu fatta in faccia alla esigenza politica e nel riflesso che mediante dirette trattative coll'imperatore Napoleone potrebbero in ogni caso ottenersi condizioni meno sfavorevoli di quello che per l’ingerenza della mediazione delle potenze neutrali. Nel suddetto manifesto poi viene espressa la promessa di riforme liberali.

Il conte Cavour, dopo l’uscita di Rattazzi dal ministero, aveva continualo, si può dire, solo a reggere, sino alla pace di Villafranca, il governo del Piemonte e i destini d'Italia, raccogliendo in sé un’immensa fiducia non solo dall'assemblea, ma da lutti gl'italiani. Né crediamo che mai uomo abbia governalo con una così sicura fede di tutti nella forza dell'ingegno e dell'abilità sua, in tempi così combattuti e frementi di speranze e di dubbii, di odii e di affetti. Né Cavour pareva che amasse di dividere-con altri il potere ch’ei raccoglieva smisurato nelle sue mani; anzi mostrava di prediligere ne’ suoi compagni piuttosto degli animi pieghevoli all'obbedienza che non dei voleri tenaci al comando. Né forse trovava facilmente chi volesse assumersi parte della responsabilità enorme che allora pesava sugli omeri suoi; cosicché quando Lamarmora partì per l’ultima guerra, egli, già presidente del Consiglio e ministro degli esteri e degl'interni, anche della guerra, dovette addire a sé medesimo l’amministrazione. Ma la pace di Villafranca non poteva essere accettata da lui perché non concordi gli effetti colle promesse, né col fine della indipendenza nazionale, la cui necessità tutta l’Europa riconosceva. Egli stesso, adunque, dimettendosi, consigliò il re a chiamare Rattazzi e a dargli incarico di comporre una nuova amministrazione; non avendo potuto il conte Arese, amico personale di Napoleone, che n’era incaricato. Del nuovo ministero fecero parte Dabormida e Lamarmora presidente, ma Rattazzi ne era l’effettivo capo politico.

Se non che Rattazzi, né anche questa volta mostrò animo e mente pari alle occasioni. Quantunque, nell’affrontare gl'interessi e le vanità municipali, facesse prova di un coraggio degno di un uomo di Stato, pure nel complesso tenne nell’interno una politica violenta' sotto un rispetto e debole sotto un altro, ch'ebbe per effetto di turbare soverchiamente gli animi dei lombardi e di suscitare i partiti estremi, e, senza impedire, non progredì abbastanza nella soluzione delle gravi quistioni che l’Italia presentava.

Dopo la pace di Villafranca, Pio IX pubblicò un' enciclica a tutti i vescovi, in cui li esortava a ringraziare

Dio per la conclusione di quella pace, ma nello stesso tempo accennava che nelle Legazioni infuriava ancora il partito sovvertitore e per isventarlo conveniva far molte preghiere. Contemporaneamente interpellò l'imperatore Napoleone se avesse nulla in contrario qualora egli invocasse il soccorso armato di un principe cattolico, il quale non era che il re di Napoli Francesco II successo il 23 maggio 1859 a suo padre sul trono. Napoleone rispose che non aveva nulla da opporre, ma sconsigliò ogni attacco contro la Romagna per non complicare di più la condizione delle cose, additando poi al congresso che avrebbe tutto regolato definitivamente.

Il 21 luglio la flotta francese lasciò Lussin-Piccolo, e ritornò in Francia. Il 27 una decisione imperiale sciolse l’esercito di operazione sul Reno. La Francia dichiarò che quanto prima l’esercito e la flotta sarebbero posti in istato di pace. In Inghilterra continuava un timor panico che la pace improvvisa con l’Austria non avesse al"tro scopo per Napoleone che un attacco all'Inghilterra: la diffidenza si diffuse tra gli inglesi ed i francesi pei reciproci armamenti navali. Il ministero inglese, quantunque affatto aderente a Napoleone, mostrava di vedere sotto un punto di vista diverso il trattato preliminare di Villafranca e di favorire l’annessione della Toscana, dei Ducati e 'delle Legazioni al Piemonte. Estranea alla guerra ed alla conclusione della pace l'Inghilterra tentava di adoperare la sua influenza dirigendo l'opinione in questo senso.


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CAPITOLO III

Agosto, Settembre, Ottobre, Novembre, Dicembre

Il giorno 8 agosto si aprirono le conferenze in Zurigo onde convertire in trattato definitivo i preliminari di Villafranca. I plenipotenziari per la Francia erano il barone di Bourqueney ed il marchese di Banneville; per l’Austria il conte Colloredo ed il barone di Meysenburg, e per la Sardegna il cav. Des Ambrois.

Dopo la pace di Villafranca, in Toscana, nel ducato di Modena, in quello di Parma e nella Romagna venne convocata un’Assemblea rappresentativa che dichiarò decaduta la precedente dinastia e pronunciò l'annessione al Piemonte.

In Toscana dopo il richiamo del commissario sardo Buoncompagni entrò Ricasoli alla testa del governo provvisorio, egli convocò in base della precedente legge elettorale un’assemblea legislativa, che si raccolse lì I agosto 1859 in cui venne tosto presentata la proposta di dichiarare la casa di Lorena decaduta dal trono, avendo non solo abbandonato il paese nei suoi sforzi nazionali, ma fatto causa comune coi nemici d’Italia. L’assemblea ammise quella proposta a pieni voli il giorno 16 agosto. A questa prima determinazione segui immediatamente il 20 agosto la seconda, di annettere la Toscana al Piemonte.

Nel ducato di Modena il commissario sardo, quando venne richiamato, lasciò provvisoriamente al consiglio comunale della città di Modena le redini del governo, e quel comune mandò subito deputazioni a Torino, Parigi, e Londra, per esprimervi il desiderio di unirsi al Piemonte, e contemporaneamente conferì a Farini la dittatura. Egli, accettandola, dichiarò che avrebbe ben presto convocate delle assemblee elettive per erigere un governo fondalo sul principio della volontà nazionale e della sovranità del popolo; principio che è ormai la base attuale di governo di molti paesi i più civilizzati

Il 15 agosto ebbero luogo le elezioni per l'assemblea dei rappresentanti ed il giorno dopo essendosi radunata, il 20 dichiarò decaduta la dinastia estense ed al 23 l’annessione al Piemonte. Farini restò come governatore alla testa di quel governo provvisorio.

In quanto a Parma, di cui non venne fatta espressa menzione nelle stipulazioni di Villafranca, erasi da prima ritenuto in Italia, che la sua unione al Piemonte fosse una cosa già intesa. Ma in seguito ai passi fatti dalla espulsa duchessa a Vienna ed a Parigi si rinvenne da questa credenza e si pensò anche ivi a seguire lo stesso sistema come in Toscana ed in Modena. Farini che il 17 agosto aveva fatto una piccola corsa da Modena a Par. ma venne in quest’ultima città accolto con molto giubilo dai popolo ed assunse senza difficoltà l’offertagli dittatura di quel ducato. Egli convocò un’assemblea rappresentativa, che si raccolse in Parma il 7 settembre, e pronunciò l'11 la decadenza del trono della dinastia borbonica ed al 12 l’annessione al Piemonte. Farini fu confermato governatore.

Il 21 agosto si cangia il ministero in Austria; viene di nuovo instituita la presidenza del consiglio dei ministri ed affidata al conte Rechberg ministro degli esteri; viene sciolto il ministero del commercio, coi presiedeva il cav. Toggenburg, che fu poi nominato luogotenente in Venezia; fa sollevato il barone di Bach, quindi ambasciatore a Roma, ed in sua vece nominato ministro dell'interno il conte Goluschowsky, polacco, già luogotenente di Lemberg; posto in riposo Kempen e nominalo ministro di polizia il barone Hubner già ambasciatore a Parigi, nel qual posto venne nominato il principe Riccardo di Metternich figlio del fu principe ministro, che appena contava treni’ anni.

Il re Vittorio Emanuele ricevette la deputazione di Toscana il 3 settembre, e rispose essere immensamente commosso e accogliere divoto come una manifestatone solenne del popolo toscano, che facendo cessare gli ultimi vestigi dei dominio straniero, desidera di contribuire alla formazione di un Regno forte per far difendere l’indipendenza italiana. In conformità del desiderio della deputazione, egli, reso forte dal diritto che quel voto gl’impartisce, sosterrà la causa della Toscana presso quelle potenze in cui l’Assemblea ripone le sue speranze e particolarmente presso l’imperatore dei francesi che tanto operò per l’Italia. Egli spera che l’Europa non negherà alla Toscana quello che fece in circostanze meno favorevoli per la Grecia, pel Belgio e pei Principati danubiani. In fine il re lodò la moderazione e la concordia dei toscani e raccomandò loro la perseveranza. Lo stesso Vittorio Emanuele ricevette la deputazione di Parma e di Modena il 15 settembre e quella della Romagna all’occasione di un suo viaggio in Lombardia il 24 dello stesso mese in Monza, dando a ciascheduna una risposta sostanzialmente eguale.

Il giorno 11 Ottobre avvennero molti insurrezionali in Sicilia. Una banda insorta percorse i dintorni di Palermo, altre si gittarono sui monti, e vennero fatti arresti a Palermo, Catania e Messina.

Finalmente dopo lunghe tergiversazioni e ritardi, il 17 ottobre venne parafata a Zurigo la pace fra l'Austria e la Francia e quindi fra l'Austria e la Sardegna. Il 10 novembre giorno della festa di Schiller vennero sottoscritti, pure in Zurigo, tre trattati che confermano la pace, l'uno fra l'Austria e la Francia, il secondo fra la Francia e la Sardegna per la cessione della Lombardia, il terzo fra l'Austria, la Francia e la Sardegna.

Il primo trattato conferma la pace a perpetuità fra l'Austria e la Francia; che i prigionieri verrebbero restituiti immediatamente d'ambe due le parti; così pure restituisce la Francia i navigli austriaci catturati, però entro certi limiti pieni di equità e richiesti dalla natura della cosa. L'Austria cede la Lombardia (ad eccezione delle fortezze sul Mincio di Peschiera e di Mantova e del raggio necessario per conservarle, raggio che sarebbe determinato definitivamente da una commissione militare mista) all'imperatore Napoleone che dichiara trasmetterla al re di Sardegna. Le truppe delle due parti belligeranti, che stanno ancora al di là dei nuovi confini, dovranno tosto retrocedere da tutte le due parti. Il nuovo governo della Lombardia (quindi secondo la cessione fatta da Napoleone a Vittorio Emanuele, il governo sardo) assume tre quinti del debito del Monte Lombardo-Veneto e 40 milioni di fiorini, moneta di convenzione, del prestito nazionale del 1854, ed una commissione internazionale regolerà questo affare sulle basi già intese. Il nuovo governo della Lombardia sottentra nei diritti e nei doveri dell'ultimo cessato riguardo a tutt'i trattati risguardanti particolarmente gl'interessi del paese ceduto; il governo austriaco restituisce da parte sua tutte le somme deposte nelle casse austriache da sudditi lombardi, corporazioni ecc. a titolo di cauzione, deposito, o consegna; le somme di egual natura, che si trovassero nelle casse lombarde saranno parimente restituite dal nuovo governo il quale conferma semplicemente tutte le concessioni di ferrovie fatte dal governo austriaco sul territorio ceduto, assumendo pure dal giorno della ratifica tutti i diritti e le obbligazioni relativamente alle ferrovie di quel paese. Gli abitanti del medesimo che volessero emigrare in Au tria, oppure gli abitanti del territorio austriaco nativi del territorio ceduto e che vi volessero ritornare, dovevano per un anno intero ottenere ogni conveniente appoggio. I militari austriaci nativi di quel territorio verranno dietro loro dimanda tosto congedati e lasciati rimpatriare, ma se volessero restare al servigio dell’Austria lo potrebbero senza danno né delle loro persone, né delle loro sostanze. Eguale garanzia viene data agl'impiegati civili nativi della Lombardia, che trovansi e vogliono restare al servizio dell'Austria. Di tutte le pensioni civili e militari regolarmente pagate dalle casse pubbliche lombarde verrà continuato il pagamento a carico del nuovo governo della Lombardia. Gli archivi, che contengono i documenti di quella parte della Lombardia che resta all'Austria e del Veneto saranno consegnati senza ritardo ai commissari austriaci, come verranno consegnati a quelli del nuovo governo gli archivi risguardanti la parte g a ceduta della, Lombardia. Le comunicazioni relative agli archivi saranno pure continuate senza difficoltà dall'una e dall'altra parte sopra semplice richiesta delle superiori autorità amministrative. Viene assicurato alle corporazioni religiose nella ceduta Lombardia la libera disposizione del loro patrimonio mobile ed immobile, qualora il nuovo governo non permettesse loro di sussistere come corporazioni.

L’imperatore Napoleone e l'imperatore Francesco Giuseppe si obbligano di promuovere con tutte le loro forze lo stabilimento di una confederazione di tutti gli stati italiani. Questa confederazione dovrebbe stare sotto la presidenza onoraria del papa, e garantire l’indipendenza ed intangibilità degli stati confederati, come pure lo sviluppo dei loro interessi morali e materiali; un’armata federale dovrebbe tutelare la sicurezza esterna ed interna dell'Italia. Un’assemblea composta dai rappresentanti di tutti gli stati italiani progetterebbe un atto federale, ai cui diritti e doveri parteciperebbe anche il Veneto entrando a far parte di quella confederazione insieme col territorio lombardo rimasto all’Austria. I diritti del granduca di Toscana, del duca di Modena e della duchessa di Parma sono riservati espressamente dalle due parti contraenti, non potendo i rapporti territoriali degli stati indipendenti, che non presero, parte alla guerra del 1859 essere mutali, senza il consenso delle potenze, che ne avevano riconosciuto l’esistenza.

L’imperatore Napoleone e l’imperatore Francesco Giuseppe si adoprerebbero presso il Sommo Pontefice, onde introducesse nell'amministrazione del suo stato quelle riforme, che risultassero indispensabili per la pace del medesimo e per la sua intangibilità Finalmente viene assicurata un’amnistia generale ed incondizionata tanto dalla parte dell’Austria che dell'imperatore Napoleone, cioè quest'ultimo pel nuovo governo della ceduta Lombardia.

All’articolo suppletorio stabilisce in qual modo dovrà aver, luogo il pagamento all’Austria di 40 milioni di fiorini assunto dal nuovo governo della Lombardia per l’imprestito nazionale del 1854.

Col secondo trattato tra la Sardegna e la Francia cede quest'ultima al re Vittorio Emanuele quella parte della Lombardia che le venne abbandonata dall’imperatore Francesco Giuseppe con tutt'i diritti e doveri inerenti e coi quali ella li aveva assunti dall’Austria in nome del nuovo governo della Lombardia. La Sardegna rifonde alla Francia nel modo fissato i quaranta milioni moneta di convenzione, che l’ultimasi era obbligata di pagare all’Austria, pagando inoltre 60 milioni per indennizzo di guerra alla Francia.

Il terzo trattato fra la Sardegna, la Francia e l’Austria comprende il contenuto dei due precedenti, confermando nello stesso tempo la pace per sempre, lo scambio dei prigionieri, l’amnistia, i nuovi confini, i diritti ed i doveri sorti dalla cessione d'una gran parte della Lombardia per parte dell’Austria al nuovo governo, la facilitazione d’un libero transito per un tempo determinato fra i due confini; stipulando poi fra la Sardegna e l’Austria ciò che col primo trattato era stato conchiuso fra l’Austria e la Francia. Si confermarono, applicandoli anche alla Lombardia, tutt'i trattati e tutte le convenzioni che sussistevano fra l’Austria e la Sardegna prima del 1. aprile 1859 in quanto non fossero modificati dal nuovo stato di cose creato dalla pace di Zurigo. La navigazione sul lago di Garda doveva esser libera, senza però escludere l’impiego di certe misure di polizia; l’Austria e la Sardegna si obbligano a stipulare una speciale convenzione entro un anno per ovviare il contrabbando ai nuovi confini; e fino allora valessero le determinazioni della convenzione del 1851 pegli antichi confini fra il Ticino e il. lago Maggiore. Con un’altra convenzione si tratterebbe della manutenzione dei passaggi sul Mincio come pure delle opere sulle sue sponde la dove la strada lungo la valle forma l’attuale confine. Le stesse facilitazioni esistenti per l'addietro fra gli abitanti degli antichi confini, fra la Sardegna e l’Austria, saranno accordate anche pei nuovi confini.

Questi tre trattati componevano quindi la magra pace di Zurigo. Come si scorge, essa è essenzialmente una copia dei preliminari di pace di Villafranca in quanto ri. guarda la regolarizzazione dei confini tra la nuova Sardegna e l'Austria. Il trattato fra la Francia e l’Austria si riferisce espressamente ad un congresso. Tutto é rimesso ad un congresso. La pace di Zurigo non determina nulla, salvo la cessione della Lombardia dall’Austria alla Francia e da questa alla Sardegna. Tutto il resto è una questione aperta lasciando pendente la grande questione italiana, quella appunto che può agitare tutto il mondo, e rimettendola al congresso. Che che possa succedere in Italia, dice appunto la pace di Zurigo, noi non vogliamo riconoscerlo; la questione dell’Italia centrale è riservata, tanto più quella dell’Italia meridionale. Fate pure quello che volete! il congresso potrà annullar tutto.

L’Italia centrale fece quello che volle sotto questa riserva.

Il 20 ottobre l’imperatore Napoleone scrisse una lettera al re Vittorio Emanuele in cui vengono formulate nuove condizioni per I assestamento degli affari d'Italia. Questa lettera, che pur mantenendo il principio della confederazione, si spinge al di la del tenore dei trattati di Villafranca e di Zurigo, modificando di molto la politica francese, è feconda di grandi conseguenze. L’Inghilterra, che osteggiava fino allora il congresso, dichiara che nello spirito di questa lettera vi accede.

Le redini del governo della Sardegna vengono nuovamente in mano a Cavour.

I deputati delle Assemblee dell’Italia centrale il 13 novembre, rassegnano al principe Eugenio di Savoia Carignano la preghiera delle stesse perché accetti la reggenza conferitagli onde governare il paese in nome del re eletto. Il principe rispose ringraziando e dichiarando che potenti consigli e ragioni di politica convenienza al momento dell'apertura del Congresso lo impedivano di assumere il mandalo: nondimeno valendosi della fiducia in esso mostrata designa il commendatore Boncompagni, già ambasciatore sardo a Firenze e quindi commissario sardo in quella città, perché assuma la reggenza dell’Italia centrale. La Francia, che aveva insistilo presso il Piemonte pel rifiuto della reggenza Carignano, aveva disapprovato anche la combinazione Boncompagni come alti che pregiudicavano le quistioni devolute al Congresso; in seguito alla dichiarazione del Piemonte che la missione del Boncompagni non era che per mantenere l'ordine, la Francia vi aderì. Da questa combinazione nacque però principalmente per parte dell’Austria, Roma e Napoli un nuovo ostacolo al Congresso, al quale tutte le potenze erano già assai poco disposte, se si eccettui la Russia e la Francia.

Gl'italiani riguardavano a buon diritto Garibaldi, come il loro eroe nazionale, che distintissimo per ardire e fortuna nella piccola guerra, lo era ancor più pel suo affetto le tante volle dimostrato pel popolo e per la grande ed una patria italiana, nemico di ogni artifizio e di ogni astuzia diplomatica, vero figlio del popolo. Egli, trovavasi durante la pace di Villafranca verso i passi del Tirolo ed aveva il suo quartier generale a Lovere sul lago d(!) Iseo; conchiusa la pace, invitò i suoi volontari a restare per tutt'i casi sotto le armi pel 19 loglio. La sua intenzione era:!’ Italia non doveva fidare nella diplomazia; non doveva accettare quella soluzione arbitraria che avrebbe falla la diplomazia europea; doveva agire da se senza riguardo alla diplomazia, che avrebbe pur dovuto anche’ suo malgrado sancire il fatto compiuto; per l’Italia non esistere che un’idea ed una via; l’idea è l'unità italiana sotto lo scettro di Vittorio Emanuele, la via era pure tracciata sicura e dritta, ora che Napoleone colla pace di Villafranca aveva separata la sua causa da quella d’Italia; gl'italiani stessi dovevano portar innanzi la rivoluzione verso il mezzodì, colà, non già verso l'occidente, per non turbare la pace del Piemonte, e non potendosi per egual motivo impiegare truppe piemontesi pei la rivoluzione italiana, si sarebbero adoperate le forze militari organizzate o che si stavano organizzando nell’Italia centrale ancora indipendente. Al principio di agosto Garibaldi fu chiamato nell'Italia centrale, dove doveva originariamente assumere il comando supremo sopra tutte le truppe; con un ordine del giorno dell'11 agosto in data di Bergamo prese egli congedo dai suoi cacciatori delle Alpi, arrivò il 15 agosto in Livorno e di la per Firenze a Modena e finalmente nella Romagna. Frattanto aveva avuto luogo un’adunanza dei deputati di tutti quei quattro paesi, anche della Romagna, in cui erasi trattato dell’erezione di una lega militare; quel patto fu firmato il 3 settembre per la Toscana, Modena e Parma, mentre la Romagna vi restava ancora esclusa pel momento. Nella camera dei deputati di Modena era stato scelto Fanti, nativo di Modena e generai piemontese nello stesso tempo, ed a lui, non già a Garibaldi, venne trasmesso il comando superiore dell'armata, ch'egli tosto accettò ed assunse mediante un ordine del giorno 21 settembre. Garibaldi venne. nominato secondo comandante in capo, e comunque questa determinazione si potesse interpretare che Fanti si sarebbe precipuamente occupato del ministero della guerra, mentre Garibaldi sarebbe stato il vero comandante in capo, si deve ammettere che la nomina di Fanti sia stata una contramina del partito diplomatico per rendere innocuo Garibaldi e mantenere tranquilla l'Italia centrale in attesa delle determinazioni della pace di Zurigo e del Congresso. Quindi nei due generali, col loro diverso modo di vedere e differente attività entrarono fin dal primo momento in manifesto conflitto, che s’inasprì sempre più. Garibaldi credette per un momento di poter guadagnare al suo piano, ch’era quello di continuare immediatamente la guerra nel territorio romano e napoletano, Vittorio Emanuele, e parve in fatto che si fosse trovato un ripiego quando Garibaldi assunse il 28 ottobre il comando supremo dei volontari concentrati in Romagna, di quella provincia non ancora vincolala come gli altri tre ducati e che d'altronde aveva maggior titolo di trasportare l’insurrezione nel confinante territorio pontificio. Ma non fu che un’apparenza; imperocché appena prese le misure necessarie per attaccare le Marche, Fanti s’interpose per impedirvelo, e Garibaldi non trovando nemmeno nel ro lo sperato sostegno, dovette abbandonare la scena. Il 49 novembre egli diede le sue dimissioni dal posto militare nell’Italia centrale e si ritirò in Sardegna a vita privata.

Il 24 novembre, in relazione ai patti di Villafranca e Zurigo, un autografo dell'imperator d'Austria proclama nel Veneto l'amnistia illimitata quanto agli affari italiani civili e militari esclusi i reali comuni.

A sistemazione degli affari dell'Italia centrale l’Inghilterra proponeva l'unione di Parma e Piacenza al Piemonte e la formazione di un Regno unito della Toscana, Modena e Romagna sotto lo scettro di un principe della casa di Savoia o di altro principe che non fosse della famiglia dei sovrani regnanti delle cinque grandi potenze, e che quelle provincie si sceglierebbero. Si scorge che Russel manteneva il principio che i popoli regolassero in sostanza da per loro i loro affari, e ch'egli, quale rappresentante di una potenza protestante, sorpassava la quistione del papato e del poter temporale del Papa. A tale proposta Rechberg disse che un ministro austriaco, il quale proponesse al suo sovrano di riconoscere il principio della sovranità popolare, si renderebbe reo di alto tradimento. Napoleone non poteva respingere il principio della sovranità popolare e non gli restava quindi, in faccia ai progetti dell’Inghilterra, che ravvolgersi nel mantello dell'uomo d’onore, che non deve mancare alla data promessa e che doveva quindi tenersi strettamente alla pace di Villafranca e alle sue stipulazioni. Ma dal modo con cui procedevano gli abitanti della media Italia si fece sul principio di dicembre sempre più chiaro che Napoleone non era più tanto alieno dal lasciar andar di suo passo l’annessione della media Italia al Piemonte; né certamente gli avrebbe spiaciuto se dei fatti compiuti lo avessero liberato dalle obbligazioni da lui contratte verso l’Austria a Villafranca ed a Zurigo e fossero salve le apparenze.

Quindi nel mese di dicembre egli fece un salto di fianco lasciando attaccare in un opuscolo intitolato il Papa e il Congresso il poter temporale del Papa e così nel mentre pubblicamente impediva il meno, cioè l'annessione della media Italia, riportava ben più in la gli sguardi degl’italiani.

«Il Papa deve possedere una potenza temporale, dice quell'opuscolo. Altrimenti sarebbe egli suddito di qualche principe, ciocché contraddirebbe alla dignità della chiesa. Ma il governo del Papa è necessariamente teocratico patriarcale; e così sta nella natura del supremo pontificalo. Un tal governo non corrisponde agl'interessi d’un gran paese avvolto necessariamente nel vortice degli avvenimenti mondani. È quindi opportuno pel paese, che viene governalo teocraticamente, d'esser piccolo. Un piccolo stato basta pienamente al papa. Quello che importa per lui è di essere sovrano e non suddito; ed egli può essere sovrano tanto in un piccolo che in un grande stato. Questo piccolo stato, che formerebbe un’oasi pacifica nel deserto del mondo, sarebbe perciò più rispettata da lutti e meno esposta a violenze, più neutrale in tutti gl'intrighi del mondo e si accorderebbe pienamente col papato ed i suoi bisogni. Il papa deve riposare fisicamente e non creare. Egli deve benedire e non sguainare la spada. E se si dicesse che un piccolo dominio non fornirebbe i mezzi per mantenere esternamente la dignità del supremo pontificato, ci sarebbe un rimedio che rialzerebbe nel modo il più manifesto la dignità del papato, cioè il pagamento di un tributo di tutte le potenze cattoliche al papa, con cui verrebbe tolto ogni aggravio d’imposte al territorio a lui sottomesso. Sotto questi punti di vista così formulati risulta affatto inutile di restituire al Papa la Romagna, come è eziandio impossibile di farlo. Imperocche essa non vuol stare sotto il dominio del Papa, la sola violenza potrebbe risottomettervela, ma l’adoperarla sarebbe indegno del Papa, oltrecché egli otterrebbe così dei sudditi malcontenti del loro destino e sarebbe allora necessaria una occupazione permanente.

E chi dovrebbe usare la forza? la Francia che combatté or ora per la liberazione d’Italia, che fonda il suo governo sul principio della sovranità popolare, non lo potrebbe certamente. Si pensi d'altronde, che quando si ruppe l'antico dominio sopra la Romagna, quest’ultima era veramente un dominio degli austriaci e non del Papa. Identiche condizioni avevano luogo nei Ducati. La Francia non potrebbe d'altronde permettere un intervento per parte dell’Austria, e dopo aver combattuto jeri per spezzare la sovranità dell'Austria in Italia, non potrebbe oggi somministrare i mezzi per ristabilirla. Meno ancora si potrebbe concedere un tale intervento a Napoli, I' unica potenza italiana che vi si presentasse. Fatta anche astrazione, che Napoli ha abbastanza da fare in casa sua, il suo intervenire non farebbe che accendere la guerra civile in Italia, perché obbligherebbe il Piemonte necessariamente ad avanzarsi.

«L’unico possibile intervento in Italia è quello pacifico d'un congresso europeo, di cui non si può oppugnar la competenza, qualora non si voglia rimettere in questione tutto il diritto attuale delle genti, e riguardo al potere temporale del Papa deciderebbe opportunamente questo congresso in senso delle preesistenti complicazioni.»

Tale era il linguaggio di quell'opuscolo il Papa e il Congresso, seguito da una lettera dell'imperatore Napoleone al Papa del 31 decembre 1859.

Colla medesima Napoleone esprime l’idea, che sarebbe riuscito di ricondurre la Romagna sotto la sovranità di Pio IX, se egli avesse voluto istituirvi un laico qual governator generale, ed introdurvi le riforme relative. Non essendo stato ascoltato il consiglio di Napoleone, si consolidarono nella Romagna le nuove circostanze e riuscì quindi impossibile affatto all’Imperatore di trattenere il corso delle cose. Anche l'aspettalo Congresso escluderebbe, secondo ogni probabilità, l’intervento armato nella Romagna in favore del Papa. In tali circostanze ritiene Napoleone come il più conveniente pegl'interessi del Papato, se Pio facesse il sagrificio della sua sovranità sulla Romagna.

L’opuscolo e la lettera produssero in Italia una grande impressione,'fecero rivivere speranze già spente e confermarono quelle che ancora sussistevano. Si credette che l'Inghilterra e la Francia andrebbero d’accordo al Congresso; che l’ultima recalcitrasse solo per apparenza, e se noi. dicevano gli Italiani, col nostro spinger innanzi dessimo un appoggio all'Inghilterra sulla via in cui siamo entrati, l'annessione della media Italia al Piemonte sarebbe ormai sicura e senza pericoli. Il Piemonte farà quanto avea assunto.

La nomina del conte Cavour ad inviato al Congresso pel Piemonte dimostrava ormai chiaramente, che il Piemonte l’aveva rotta affatto colla politica, cui aveva dovuto adattarsi a Villafranca e sino alla conclusione della pace di Zurigo. Cavour aveva deposto il suo portafoglio in seguito alla pace di Villafranca; ora egli dovrebbe rappresentare di nuovo la politica del Piemonte in un atto decisivo europeo. Questa politica non poteva più essere la politica di Villafranca.

Queste circostanze opposero un nuovo e più grande ostacolo ali unione del Congresso, per cui il progetto questa volta cadde affatto senza risorgere più. L’Austria, il Papa e Napoli rifiutarono di aderirvi o meglio ritirarono l'adesione a fronte di tali fatti e nel silenzio del Monileur sulla origine dell'opuscolo.

Negli ultimi giorni di dicembre il commendatore

Maniscalco direttore generale della polizia in Palermo viene pugnalalo nella piazza della cattedrale ad un' ora pomeridiana in giorno di domenica mentre entrava in chiesa colla sua famiglia.

FINE DELL’ANNO 1859.


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CAPITOLO IV


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ANNO 1860

Gennaio, Febbraio e Marzo

La corte di Roma opponevasi agli avvenimenti dell’Italia centrale, per ciò che riguardavano la Santa Sede impiegando proteste e minaccie in mancanza di mezzi temporali. Il primo gennaio, in occasione che il corpo dell’ufficialità francese gli porse le sue congratulazioni pel nuovo anno, il Papa manifestò verso il generale Govon, la speranza che Dio avrebbe illuminato l’imperatore Napoleone e lo avrebbe ricondotto su miglior via. Il Santo Padre espresse i più vivi ringraziamenti al vescovo di Orleans, che avea scritto una lettera contro l’opuscolo il Papa e il Congresso.

Dopo il rivolgi mento della politica napoleonica manifestato in questo opuscolo, le opinioni del conte Walewsky non convenivano più con quelle dell’imperatore. Egli insisteva perché fosse uffìzialmente smentita l’origine augusta di quell’opuscolo, ed aveva dichiarato che l’opuscolo stesso non era il programma del Governo francese finch’ei rimaneva ministro. Il conte venne sollevato dal posto di ministro francese degli affari esteri e surrogato dal Thouvenel che fu ambasciatore a Costantinopoli.

Il ministro sardo Rattazzi si dimette il 17 gennaioe il conte Cavour è incaricalo della formazione di un nuovo ministero che viene così composto: Cavour presidente e ministro degli esteri; G. B. Cassinis ministro della giustizia; Manfredo Fanti ministro della guerra; Saverio Vegezzi alle finanze; Terenzio Mamiani all’istruzione pubblica; Stefano Jacini al ministero dei lavori pubblici. Cavour è frattanto incaricato anche del ministero dell'interno.

Il Papa aveva ricevuto la già ricordala lettera 31 dicembre 1859 di Napoleone in cui questi, come vedemmo, consigliava Sua Santità a rinunciare, pel riposo di Europa, alle provincie insorte, a domandare garanzie per le rimanenti; ricordava il consiglio dato appena cominciata la guerra di acconsentire ad una separazione amministrativa di quelle provincie ed alla nomina di un governatore laico; diceva che se ciò fosse stato fatto, esse sarebbero tornate sotto l’autorità pontificia; che non avendosi dato ascolto a questi consigli, gli sforzi dell’imperatore furono impotenti ad arrestare la instituzione del nuovo Governo e riuscirono solo ad impedire alla sollevazione di estendersi; che la dimissione di Garibaldi preservò le Marche da un’invasione. Lo stesso Sommo Pontefice rispose a questa lettera con una enciclica a lutt’i vescovi del 19 gennaio.

In essa li ringraziò del loro zelo per la chiesa, del comune rammarico manifestato da essi per quanto era successo nella Romagna, e degli eguali sentimenti che avevano saputo risvegliare nei fedeli. Rivolgendosi quindi alla lettera dell’imperatore Napoleone del 31 decembre, disse, aver dovuto respingere il consiglio di rinunziare alla Romagna, perché in aperta contraddizione alla dignità, al sacro carattere della Sede pontificia' ed ai suoi diritti, cui è interessalo tutto l’orbe cattolico. Aver in quest’occasione fatto presente all'imperatore dei Francesi, che con una tale rinunzia non si sarebbe fatto altro che riconoscere il diritto all'insurrezione, e che un tale procedere nuocerebbe allo stesso principio monarchico, mettendolo in questione. Voler soffrire ogni estremità per amore della giustizia; ma essere profondamente afflitto per la condizione delle anime nelle insorte Legazioni. Dover quindi i Vescovi, perdurando nella difesa della santa Sede, infiammare ogni giorno i fedeli a fare ogni cosa per la conservazione del potere temporale del Papa.

Fra la casa di Francia e di Piemonte si strinse a Plombiérs unpatto di famiglia, in forza del quale il principe Napoleone sposò. la principessa Clotilde, figlia maggiore del re Vittorio Emanuele, ed in cui si convenne eziandio che la Sardegna, in causa dell'ingrandimento che otterrebbe coll'incorporazione del Lombardo-Veneto, dovrebbe cedere la Savoja e Nizza alla Francia come quelle che davano ad essa un punto d'appoggio al di la delle Alpi e compromettevano la sicurezza della Francia, lasciando i valichi delle Alpi in mano di una potenza che non sarebbe più di secondo ordine come era prima il Piemonte. Conchiusa la pace di Villafranca non si parlò più offizialmente della cessione di Savoja e Nizza alla Francia, sebbene in que' due territori si ravvisasse una certa agitazione in favore della Francia, forse ad arte alimentata. Ora, pendendo le trattative per l’annessione dell'Italia centrale, per cui il Piemonte diverrebbe uno Stato più importante che se avesse ottenuto il Veneto, si rinnovarono i patti di Plombiérs essendone identiche le cause. Ricusare Savoja e Nizza al solo alleato che restava all'Italia e di cui il Piemonte aveva già contrastato in gran parte i desideri, sarebbe stata non audacia ma pazzia. E Cavour adunque accordò la cessione, e quantunque in alcuni particolari avesse proceduto con troppa fretta, n’ottenne l'approvazione del Parlamento; giacché gli dimostrò quanto necessaria conseguenza essa fosse della politica seguita e degli effetti ottenuti, della politica da seguire e degli effetti. sperati.

Insorta la guerra tra l’Austria e gli alleali franco-sardi, I idea della liberazione italiana colpi tosto le menti delle classi più incivilite delle Due Sicilie, mentre la corte napoletana mostrava grandissima voglia di far causa comune coll'Austria. Ma già Ferdinando era abbattuto da quell'orribile malattia che lo condusse alla tomba, e vi successe suo figlio Francesco II, debole di corpo e di spirito. Le notizie delle battaglie di Magenta e di Solferino vennero accolte col giubilo più manifesto tanto a Napoli che in Sicilia. In quest'isola apparve nel mese di gennaio un manifesto al popolo, divulgato con parecchie migliaia di esemplari, che invitava senz’altro ad un’aperta insurrezione armata in nome dell'Italia e di Vittorio Emanuele, siccome l’unico mezzo per ottenere un cangiamento della triste condizione dell'isola. Il 40 febbraio poi questi abitanti diressero una memoria a lutti gli Stati di Europa in cui narravano i loro patimenti di dodici anni, soggiungendo come immediata domanda il riconoscimento della costituzione dell’anno 1848, che già sussisteva di diritto.

I governi d Inghilterra e di Francia sino da quando Francesco II era asceso al trono, e specialmente dopo la dissoluzione dei reggimenti svizzeri e la pace di Villafranca, avevano fatto a quel re le più serie rimostranze sul suo sistema di governo e sulla necessità di cangiarlo. Essi le raddoppiarono allorché l’annessione della media Italia al Piemonte era ormai risoluta. L'inviato inglese Elliot richiamò l'attenzione del governo sul pericolo che lo minacciava nelle tendenze unitarie d’Italia, qualora non avesse saputo guadagnarsi l'animo delle popolazioni con giuste concessioni e con una applicazione opportuna e leale delle leggi. Un simile linguaggio tenne anche l’inviato francese Brenier.

Il 5 febbraio Lord Cowley consegnò a Thouvenel il progetto dell’Inghilterra per lo scioglimento della questione italiana. Esso era il seguente:

1. Né la Francia né l'Austria interverranno in Italia senza il consenso delle grandi potenze;

2. La Venezia rimarrà estranea ad ogni trattativa concernente i nuovi assestamenti territoriali e rimarrà sotto le dominazione austriaca,

3. L’Italia centrale è chiamata a votare sulla costituzione interna; se si pronunzia per l'annessione, al Piemonte, è autorizzata ad effettuarla;

4. Sino all'epoca della nuova votazione, il Piemonte si asterrà da ogni impresa destinata a favorire l’annessione;

5. La Francia ritirerebbe le sue truppe da Roma e dal rimanente dell’Italia.

Riguardo alla forma delle votazioni la Francia preferirebbe il suffragio universale, mentre I Inghilterra si atterrebbe alla votazione indiretta per mezzo delle Assemblee nazionali. —

Comunicati questi punti all'Austria, essa dichiarò non poter riconoscere il presente stato eccezionale di cose in Italia: essere poi sua. intenzione di non intervenire al momento con truppe nell’Italia centrale e di limitarsi per ora alla difesa dei suoi territori.

Il 6 febbraio Vittorio Emanuele inviò una lettera il Sommo Pontefice giustificando il suo operato ed i fatti della Romagna e domandando la cessione delle Marche e dell'Umbria, ch'egli riceverebbe sotto l'alto dominio della Chiesa, accennando all'irrequieta condi di quelle provincie, alla debolezza della sovranità pontificia e finalmente alla impossibilità di conservarle altrimenti che coll'impiego della forza sotto il dominio del Papa. La risposta del 14 febbraio del Papa fu assolutamente e ricisamente negativa.

Nell'8 successe una solenne dimostrazione in Nizza i principii della separazione di quel paese dal contro ·Piemonte. Essa avvenne nel teatro reale in mezzo a replicati Viva al Piemonte, a Cavour e a Garibaldi di Nizza, ed a Nizza italiana!

Col mezzo delle circolari dei vescovi, dei loro indirizzi alla corte di Roma e delle sottoscrizioni si diffonde in Francia un'agitazione poco favorevole al Governo. Ai 17 febbraio fu soppresso il giornale l'Univers, redatto da Veuillot, che rappresentava il principio religioso ed era devoto alla corte di Roma. Fu proibita nei giornali la riproduzione degli indirizzi e delle circolari dell'Episcopato; i ministri dell'interno e del culto diramarono intimazioni perchè tale agitazione fosse compressa.

In risposta ai punti della proposta inglese del 5 febbraio sopraindicata i governi di Russia e di Prussia propugnano l'adunamento di una Conferenza delle cinque grandi potenze per regolare gli affari d'Italia. È questa la terza volta che nel corso di un anno appena venne proposto un Congresso e sempre con lo stesso esito.

Un decreto del 1. marzo del governatore generale chiama i popoli dell'Italia centrale, Emilia e Toscana separatamente, al suffragio universale segreto e diretto sulle due seguenti proposizione;

1. Unione con la monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele:

2. Regno separato.

Tutti gl'individui maggiori di 21 anno e che godono i diritti civili sono ammessi a votare.

Dal discorso dell'imperatore Napoleone all’apertura delle Camere legislative risultava ch'esso consigliò il re di Sardegna a rispondere favorevolmente ai voto delle provincie che gli si offrivano volontariamente, ma di mantenere l’autonomia della Toscana e di rispettare in massima il diritto della Santa Sede. In quel discorso l’imperatore parlava della necessità dell'annessione della Savoja e Nizza; e questa annessione non avrebbe luogo violentemente, ma previo i concerti con le potenze e il voto delle popolazioni. Le proposizioni consistevano:

1. Nella costituzione della Toscana come uno Stato separato;

2. Nella costituzione di un Vicarialo Pontificio nelle Romagne che sarebbe affidato al re di Piemonte.

La Sardegna respinse tali proposizioni con risposta di Cavour in data I. marzo.

I governatori di Annecy e Chamberv in Savoja notificano alle popolazioni il io marzo che esse saranno chiamate a votare per la conservazione dell’unione colla monarchia o per l'annessione alla Francia. La Svizzera protesta a Torino ed a Parigi e più tardi a tutte le potenze contro il progetto di annessione delta Savoja alla Francia come ledente i diritti della Svizzera stessa nella Savoja neutrale.

Nel giorno 11 marzo ebbe luogo la votazione nell’Italia centrale. Il risultato fu quasi all'unanimità per l'annessione al Piemonte. Nella Toscana, sopra una popolazione di 1.806,940 abitanti e sopra 386,445 votanti, 366,571 furono i voti per l'annessione, 14 per regno separato e 4949 perduti. Nell'Emilia, cioè Modena, Parma e Legazioni, sopra 2,127,105 abitanti e sopra 526,258 iscritti votarono 427,152: per l’annessione vi furono voli 426,006, pel regno separato 756, nulli 750.

In seguito a queste votazioni un decreto reale dichiarò che le provincie dell'Emilia e della Toscana formavano parte integrante dello Stato. La Toscana però ebbe per allora un’amministrazione separata con alla testa il principe di Savoja-Carignano.

Il 16 marzo il generale principe Filangieri si ritirò definitivamente dal gabinetto napoletano. Regnava in Napoli una sorda agitazione. La flotta inglese-si accostò alla città. Il nuovo ministero venne costituito sotto la presidenza di Antonio Stratella principe di Cassaro; vi fecero parte il principe di Comitini, il generale Winspeare Francescantonio, Francesco Gamboa e Paolo Cumbo.

Il 19 avvenne una dimostrazione a Roma a favore dell’annessione, ed ebbe luogo nna collisione fra il popolo e i gendarmi che fecero uso delle armi, onde circa 40 dei popolo restarono feriti.

Una deputazione di consiglieri provinciali della Savoja e di consiglieri municipali delle principali città presentò nel 21 all'imperatore Napoleone gl’indirizzi dei propri cittadini in favore dell'annessione.

Il 22 il duca di Modena protestò contro l'annessione de' suoi Stati al Piemonte. Eguale protesta emise il granduca di Toscana.

Il 24 fu stipulato il trattato di cessione di Savoja e Nizza alla Francia con riserva della sanzione del Parlamento sardo e salvo di interrogare e comprovare la volontà delle popolazioni. La Francia ricevendo le provincie neutralizzate della Savoja, cioè Sciablese e Faucigny, accetta le condizioni alle quali la Sardegna possedeva quelle provincia dopo i trattati del 1815, prendendo in questo argomento i concerti colle potenze. Contro tale annessione non protestarono che l’Inghilterra e la Svizzera, e quest'ultima in modo assai energico. L’Austria dichiarò ch'essa unirebbe la sua azione a quella dell’Inghilterra qualora questa si opponesse anche all’annessione dell'Italia centrale. La Russia e la Prussia si limitarono a deplorare la nuova violazione dei trattati del 1815.

In seguito a ciò la Svizzera domandò la riunione di un Congresso delle grandi potenze per determinare le guarentigie necessarie in causa della cessione della Savoja neutralizzata alla Francia.

Il 26 marzo un breve pontificio scaglia la sua scomunica maggiore contro gli autori, promotori, coadiutori, consiglieri e aderenti alla ribellione, usurpazione ed invasione degli Stati della Chiesa. I termini però sono soltanto generici e non viene specificatamente indicata persona. Contemporaneamente il governo pontificio invia al corpo diplomatico una protesta contro l’annessione delle Legazioni al Piemonte.

I consiglieri di Pio IX compresero però che colle parole non si poteva pienamente raggiungere lo scopo desiderato ma che conveniva appoggiarsi sopra una forza materiale. Roma trovava sempre un grande sostegno nell'influenza che la Chiesa cattolica esercita sui popoli e quindi rinvenne un distinto generale che si mise alla testa della sua armata. Questi era Cristoforo Leone Luigi Inchault de Lamoriciére.

Disceso questi da un’antica famiglia della Brettagna, già nota pei suoi sentimenti legittimisti, era nato a Nantes nel 1806; nel 1824 entrò nella scuola politecnica di Parigi, uscì di la come tenente nel corpo del genio, e ben presto la spedizione di Algeri nel 1830 gli offerse l'occasione di far valere i suoi talenti e di acquistarsi un nome. Si distinse nella organizzazione del corpo dei zuavi, di cui divenne capitano, e restò, meno brevi intervalli, fino all’anno 1847 in Algeri. Nel 1843 fu nominato generalo, e nel 1845 governatore interinale d’Algeri. Il vinto Abdel-Kader gli rimise il 1847 la propria spada. Lamoricière era entrato nel 1847 anche nella carriera parlamentaria, essendo stato eletto membro della camera dei deputati. Nel febbraio dell’anno 1848 egli doveva assumere il ministero della guerra, e quando fu risoluta l’abdicazione di Luigi Filippo egli proclamò la reggenza della duchessa d’Orleans. Ma essendo la rivoluzione passata: all’ordine dal giorno anche sopra quell'atto, Lamoricière si tenne per qualche tempo lungi da ogni ufficio pubblico, solo accettando il posto di deputato conferitogli dal dipartimento della Sarthe. Nelle giornate di giugno 1848 sostenne attivamente Cavaignac, ed assunse quindi nel 28 giugno durante la repubblica il portafoglio del ministero della guerra, da cui si dimise tosto che Luigi Napoleone fu eletto presidente. Accettò però da quest’ultimo nel 1849 il posto d’inviato a Pietroburgo quando era ormai risoluto l’avanzarsi dei Russi in Ungheria; ma volle ritirarsene alla caduta del ministero Odilon-Barrot. Scelto più volte a vice-presidente dell’Assemblea legislativa si dimostrò sempre come uno dei più decisi antagonisti della politica di Luigi Napoleone. S’intende bene, che al colpo di stato del 2 decembre 1854, fu anch’egli fra gli arrestati. Dapprima fu rinchiuso ad Ham, poscia mandato al di là dei confini. D’allora in poi visse in. esiglio, alternando il suo soggiorno nel Belgio, Germania, ed Inghilterra fino al l’amnistia generale del 1859 di cui approfittò per ritornare in Francia, senza prender più parte alla vita politica dell'impero. Aveva nel Belgio stretta intima relazione colla famiglia Mérode ed era diventato sino ad un certo punto da un Saulo un Paolo.

Al papa venne proposto Lamoriciére qual generale delle sue truppe dal cardinal Saverio Merode, il quale andò anzi in Francia e condusse seco il generale il 26 marzo. Lamoriciére, avendo ispezionato l’esercito pontificio, sebbene lo avesse trovato molto al di sotto della sua aspettazione, ne assunse tuttavia il comando il 28 marzo, e prestò il giuramento di fedeltà alla Santa Sede. Egli si accinse nel modo il più attivo e con tutt i mezzi di cui poteva disporre all'organizzazione dell'esercito pontificio, reclutato da tutt’i paesi e principalmente dagli svizzeri e irlandesi.

Nello stesso giorno 28 marzo la duchessa di Parma protestò contro l’annessione dei suoi Stati al Piemonte..

Il 30 i corpi franchi di Ginevra nella Svizzera penetrarono nello Sciablese in Savoja; ma s’intromise il Governo svizzero e que’ corpi furono respinti ed arrestati.

Nella metà di marzo e nel corso del successivo mese le truppe francesi abbandonarono la Lombardia ritirandosi per Savoja e Nizza. Prima di tale disposizione l’imperatore Napoleone scandagliò le intenzioni dell’Austria riguardo al Piemonte, e l'Austria rispose non avere alcuna idea di attaccare la Sardegna, limitandosi per ora alla difesa delle proprie provincie pel caso che fossero attaccate.


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CAPITOLO V

Aprile

Giusta i concerti presi dal partilo dell’insurrezione siciliana, questa doveva seguire il 4 aprile per tutta l’isola, dietro il segnale che verrebbe dato dallo scoppiar della lotta in Palermo. Gl’insorti di questa città avevano scelto per loro quartier generale il convento dei frati minori della Gancia; ivi si radunarono i capi, ivi si depositarono le armi e le munizioni, ivi dovevasi raccogliere una parte dei palermitani, ch'erano d’intesa nel suindicato giorno, ed ivi pure al suonare a stormo le campane dovevano accorrere gl’insorti del contado. Di la si doveva avanzarsi all'attacco delle truppe regie, che stavano acquartierate all’estremità della città nel palazzo reale ed in quello di finanza.

Mentre gl'insorti si raccoglievano nel convento, uno dei frati, soprappreso da scrupolo, manifestò al governo la trama.

Il convento della Gancia è da tre parti circondato da angustissime vie, solo quella che, costeggiando la sua fronte riesce in Piazza Marina, ha una maggiore ampiezza. Gl’insorti rinchiusi nel convento, in numero di circa 300, videro con qualche costernazione che si sbarravano le vie intorno il. convento, però li tranquillizzò la presenza di Bosco. Lo salutarono anzi con evviva.

Bosco rispose colla intimazione di aprire il convento e di rimuovere le barricate costrutte in tutta fretta. Non vedendosi ascoltalo fece fare una scarica pensando così di intimidire gl’insorti.

Ma questi risposero tosto al fuoco. Bosco fece far fuoco egualmente da alcuni bersaglieri che avevano occupato le case più vicine, ed ordinò ad alcune compagnie di portarsi all'assalto del convento. I soldati napoletani non vi dimostrarono però la necessaria risoluzione; ricevuti vigorosamente dagli insorti si ritirarono in precipitosa fuga.

Mentre ciò succedeva dinanzi il convento della Gancia, altri distaccamenti di truppe erano venuti alle mani in diversi punti della periferia della città presso le porte colle masse d’insorti accorsi dal contado al suonare a stormo delle campane. Ma qui la lotta fu breve da per tutto. I soldati ebbero presto il di sopra sugl’insorti, e questi ultimi, vedendosi già attesi, conobbero che il piano era stato tradito, e vedendo quanto erano difettosi i preparativi fatti per una riunione di masse maggiori, credettero di non aver nulla di meglio a fare che ritirarsi nelle comuni. Seguirono il loro esempio gli stessi insorti di Palermo, che. non essendo per anco entrati nel convento della Gancia, incontravano strada facendo verso quel sito di comune ritrovo da per tutto truppe napoletane. Anch’essi si rifugiarono quindi per diverse vie nelle varie comuni di campagna.

Incoraggiti dall'aver respinto l’attacco dei napoletani, gl'insorti del convento decisero, udendo il fuoco in altri punti della città, di fare una sortita per aprirsi un varco attraverso le truppe di Bosco ed unirsi coi distaccamenti della città stessa e delle comuni di campagna.

Dopo aver ributtato un secondo attacco di Bosco, s'intraprese la risoluta sortita che già pareva coronata da buon successo, quando si avanzarono altre truppe napoletane sotto gli ordini dei generali Sury e Wittembach. Erano mandate dà Salzano che ebbe notizia da un lato della gravità della lotta intorno al convento, ed erasi d’altronde assicurato che in altri punti della città non c’era da temere alcun che d’importante.

Sury e Wittembach respinsero gl'insorti nel convento e ricominciarono l'attacco del medesimo; daprima con eguale cattivo successo pei napoletani, finché questi trassero innanzi i loro cannoni ed aprirono una breccia nel convento. Gl’insorgenti tennero fermo anche allora; ma da ultimo mancando loro le munizioni, il loro fuoco si fece più debole, e finalmente cessò affatto.

I soldati napoletani condotti di nuovo all’assalto, penetrarono finalmente nel convento, uccidendo ed abbattendo quanti ancora restavano, dopo di che il convento soggiacque ad un totale saccheggio.

La perdita delle truppe napoletane in tutto il combattimento del 4 aprile si asserisce che fosse, di 11 morti e 35 feriti; molto maggiore fu quello degl'insorti, che pugnarono in quel convento. Pochi si sottrassero a quell'eccidio per un fortunato accidente e per la propria risolutezza; quelli che non restarono morti caddero prigionieri.

Appena scoppiata la lotta del 4 aprile, Salzano assunse anche il potere civile sopra Palermo e suo distretto e proclamò lo stato d’assedio. Ma l’insurrezione non era vinta, erasi soltanto ritirata dalla città nelle comuni di campagna.

Intorno la città alla Favorita, a San Lorenzo, a Baida, a Monreale, al Parco, presso il convento Gibilrossa ed a Bagheria, dietro il ruscello Ficarazzi si formarono delle bande a guisa di guerriglie.

Queste bande si misero in relazione fra loro; il loro piano generale era d’interrompere per quanto possibile le comunicazioni dei regii che trovavansi a Palermo col resto del paese, d’inquietarli con piccoli attacchi isolati, senza compromettersi in un serio conflitto, restando in continua relazione colle varie città del l’isola, specialmente con quelle, dove era pure scoppiata l’insurrezione; stancheggiando per tal guisa i regii, e poter poi alla fine in un momento propizio riprendere più risolutamente l’offensiva.

Ben presto si rese sensibile una certa Stanchezza nelle truppe regie. Ogni giorno succedevano delle scaramuccie. Salzano non aveva diritto di aspettare, dietro i dispacci che aveva mandati a Napoli, e gli mancavano affatto le qualità che costituiscono un generale.

Scherano per natura e per abitudine, e nulla più, osservava ogni avvenimento militare dal punto di vista del gendarme o di un alunno dell'istituto dei cadetti di Berlino del 1848.

Il giorno 5 aprile, un distaccamento di soldati regii con artiglieria attaccò i Porrazzi a mezzodì di Palermo appena fuori di Porta nuova. Il giorno prima era ivi successo un conflitto con una schiera di insorti che volevano entrare in città. Il giorno 5 non c era effettivamente nemmeno l’ombra di un insorto in quel sito. Ma i regii fecero un chiasso come se avessero a combattere un esercito, né ci avrebbe fatto alcuna sorpresa, se si fossero dispensati degli ordini cavallereschi per la battaglia di Porrazzi. Fu appunto in tal guisa che le truppe dell’eroico Re di Gaeta riportarono più tardi le loro vittorie. Alcune donne ed alcuni fanciulli, i soli nemici contro i quali si fossero adoperati i cannoni, vennero massacrati, e le prime naturalmente anche stuprate, in quanto ne fossero state trovate degne.

Al 6 aprile ci fu un’altra battaglia di questo genere a Baida. Alcuni battaglioni regii fecero fuoco tutto il giorno alla distanza del cannone con circa 50 insorti. Naturalmente non si perdette un solo uomo né dall'una né dall'altra parte. I napoletani hanno per le armi che tirano da lontano una confidenza ed una inclinazione ancor maggiori di certe armate tedesche. Gl'insorti si ritirarono in fine sul monte Cuccio, annoiati di questo inutile scaramucciare e mancando loro d’altronde le munizioni. I regii saccheggiarono quindi il convento di Baida, i cui monaci furono incolpati di aver ricevuto cordialmente, e quasi ospiti, gl’insorti; ciocché può esser benissimo, stando quasi tutto il clero regolare dalla parte del popolo.

Nel 7 aprile nuovi conflitti a Monreale. Nello stesso giorno il generai Sury dovette marciare con un battaglione contro Bagheria per impedire, che gli insorti ivi riuniti, non andassero per avventura in aiuto di quelli del monte Cuccio e di Monreale. Sury incontrò una forza abbastanza importante; ma questa si distribuì tosto lungo la strada nelle case e dietro le siepi, e diedero ai regii un combattimento, che ebbe molta somiglianza con quello di Lexington. Sury dovette ritirarsi e domandare rinforzi.

Diffatti l'8 aprile uscirono parecchi battaglioni da Palermo; ma senza miglior risultato del giorno antecedente; i loro ufficiali con altrettanta incapacità quanto gl’inglesi a Lexington, facevano rispondere con una salva di plotone ad ogni singolo colpo che usciva da una casa o dietro una siepe. Finalmente i regii dovettero ritirarsi consci della loro propria impotenza e non seppero prendere altra rivincita che mettendo a sacco ed a fuoco le case abbandonate che trovarono nel loro cammino ritornando in città.

Il giorno 9 uscirono da Bagheria gl'insorti incoraggiti dal loro aperto successo, avanzandosi a nord-ovest verso la spiaggia del mare. Solo a 3000 passi di distanza da Palermo incontrarono un posto di regii e sostennero con essi una viva lotta, in cui da principio l’esito era così decisivo dal loro lato, che i regii invocarono l'aiuto di una fregata a vapore che incrociava dinanzi Palermo, e che realmente prese parte a quel combattimento.

Frattanto eransi prese le misure opportune per attaccare nello stesso tempo e sul serio le schiere degl’insorti del monte Pellegrino e del monte Cuccio. Nel giorno 9 aprile si misero in movimento due colonne per quei due punti, l’una per terra verso S. Lorenzo, mentre l’altra andava su battelli a vapore a Mondello, ed ivi sbarcando cercava di penetrare egualmente verso S. Lorenzo.

Gl'insorti del monte Pellegrino e di S. Lorenzo si ritirarono senza combattere verso il monte Cuccio; non si udirono che dei colpi isolati qua e la dalle case. I regii ne colsero il pretesto per mettere a sacco e fiamma le cascine di campagna ed altri fabbricati nella parte settentrionale della Conca d’oro. Del villaggio di S. Lorenzo restò assai poco. Questo tratto da briganti venne celebrato dal partito regio come una grande vittoria

Il giorno 11 si avanzarono le colonne riunite dei regii. verso Balda; qui si venne ad un conflitto, gl’insorti si ritirarono a Monreale, dove si difesero il giorno 12 di nuovo contro i regii. La lotta fu veramente assai calda; gl’insorti perdettero affatto il campo, e sostennero che degli abitanti retrogradi di Monreale avevano tirato su loro dalle case.

Gli abitanti di Palermo non si muovevano sotto il peso dello stato d’assedio; però le voci le più esagerate correvano per la città; il siciliano non ha bisogno della parola per farsi intendere da un altro; egli ha i suoi gesti. Sebbene non fosse permesso di stare e di camminare insieme per le strade, si conversava dalle finestre e dai poggiuoli colle mani e coi piedi. Ma è però certo che questo linguaggio per segni è sempre più equivoco di quello a voce; esso favorisce l’esagerazione e il malinteso per modo che ne derivano le voci le più avventate.

La nuova principale che correva per Palermo era, che sui punti di ritrovo delle bande degl'insorti intorno alla città si raccoglievano considerevoli forze da tutta l’isola e che si sarebbero ben presto fatte innanzi per togliere la città ai regii. Ogni qualvolta udivasi dal di fuori colpi di fucile o di cannone (né si risparmiava' il romore e la polvere nelle varie scaramuccie giornaliere, delle quali abbiamo accennato le principali), tosto che il fuoco cominciava al di fuori, i Palermitani credevano che le masse ormai raccolte dall'interno dell'isola procedessero all’attacco della capitale. .

Salzano, avendo ricevuto considerevoli rinforzi poteva disporre di oltre 13,000 uomini; tuttavia cercò di assicurarsi in altro modo della città di Palermo. Con reiterati proclami disse ai palermitani di non poter togliere lo stato di assedio, ma prometteva ogni possibile mitigazione, ed invitò ognuno a tornare tranquillamente al suo lavoro; dopo ogni scaramuccia si annunziava che ormai i ribelli erano pienamente distrutti. Ala i palermitani non vi prestavano fede.

Il 13 aprile quasi tutti gli uomini di Palermo erano per le vie pubbliche, le donne alle finestre, gridando evviva a Vittorio Emanuele ed all’Italia, imprecando alla polizia e protestando in tal modo contro l’asserzione, ch'essi non volevano saperne dell'insurrezione.

Salzano non impedì questa dimostrazione malgrado lo stato d’assedio. Egli aveva già risoluto di giovarsi del terrore d'una esecuzione per intimidire i palermitani. In un consiglio di guerra tenuto il 12 aprile, si convenne di presentare dinanzi al giudizio militare tredici individui arrestati dal 4 al 12 aprile per quanto si pretendeva colle armi in mano. E cosi avvenne; il 13 mattina alle ore otto si raccolse il tribunale di guerra, e secondo l’ordine ricevuto, condannarono a morte mediante fucilazione quei tredici accusati, sebbene relativamente a quattro di essi non si avessero prove, anzi fosse molto dubbio, se avessero mai preso parte alla sommossa. Di quei tredici accusati il più vecchio aveva 58 anni e 22 il più giovane. Nella mattina del giorno 14 aprile fu pubblicata la sentenza ed alle ore 4 pomeridiane dello stesso giorno eseguita in tutta fretta. Orrore e desolazione inondarono Palermo.

Il giorno seguente una gran parte della guarnigione si avanzò verso oriente. Trattavasi di andar a liberare due compagnie di regii, che dopo gli avvenimenti surriferiti essendo imprudentemente penetrati sino a Bagheria, eransi ivi lasciati formalmente rinserrare dagl'insorti in certi edificii. I regii furono divisi in tre colonne; la colonna di mezzo o la principale sotto Sury marciò direttamente su Bagheria; la colonna dell’ala sinistra sotto il colonnello Polizzi si mosse per Ficarazzi, quella dell'ala dritta sotto il generale Cataldo su Misilmeri: queste due colonne dovevano prima assicurare i fianchi della colonna di mezzo, poi volgendosi verso Bagheria tagliare la ritirata agl'insorti, che si credevano alle mani con Sury. Questa manovra complicata non ebbe, come al solito, alcuna riuscita; Sury venne troppo presto alle mani; gl'insorti ricevettero subito avviso della marcia e delle intenzioni delle due colonne di fianco. Non si addentrarono quindi in un serio combattimento e si ritirarono nelle montagne verso mezzodì. I napoletani però liberarono le due compagnie, ma non ottennero di più, anzi perdettero un numero proporzionatamente grave di soldati, che si erano sparpagliati saccheggiando le abitazioni, e furono fatti prigionieri dagl’insorti che vi stavano nascosti.

Nel giorno stesso delle forti pattuglie di regii erano penetrate verso mezzodì fino a S. Giuseppe li Mortilli, e verso ponente sul monte Cuccio fin verso Carini, e vi avevano sostenuto un piccolo scontro. La pattuglia di Carini recò la nuova che si trovava in quel sito un numero considerevole d’insorti, che sembravano abbastanza organizzati. Diffatti in Carini se ne erano formalmente stabiliti circa 4600; i capi delle singole squadre, che formavano quel piccolo corpo, agivano. a loro capriccio e di rado potevano mettersi fra loro pienamente d’accordo.

Salzano era d avviso, e non senza ragione, che vi si poteva eseguire un buon colpo, facendo una certa impressione sugli abitanti della Sicilia. Da una parte vista la posizione della città di Carini, non sembrava difficile di serrare gl'insorti in guisa, da sospingerli verso la spiaggia del mare e farli tutti prigionieri; dall’altra parte dovevasi ingrandire proporzionatamente nei bollettini la distruzione di quel corpo effettivo, illustrandolo coi numerosi prigionieri che si sarebbero condotti in Palermo ed infondendovi così una salutare costernazione.

Si fissò il giorno 18 aprile per attaccar Carini. Tutto sarebbe riuscito secondo il desiderio di Salzano, se anche questa volta il piano d’attacco non fosse stato complicato.

Tre colonne vennero destinate contro Carini, come prima contro Bagheria. Quella dell'ala sinistra forte di mille uomini sotto Wittembach andò per mare intorno al capo Gallo e sbarcò a Capaccio per proseguire poi la strada verso Carini. La colonna principale nel centro di 2000 uomini sotto il generale Cataldo marciò direttamente per Baida su Carini; la terza di 1200 uomini sotto Bosco, doveva uscendo da Monreale attaccare pei monti il fianco destro degl'insorti, rendendo loro impossibile la ritirata nell'interno dell'isola.

Gli abitanti della ricca Carini coi suoi fertili contorni, appena ebbero notizia dell'avvicinarsi della colonna Wittembach, pregarono i capi delle bande insorte, di sgombrare la loro città, che sarebbe stata senz’altro abbandonata al saccheggio ed alle fiamme, qualora diventasse il campo di battaglia. Quei capi erano di diverso avviso sul partito da prendersi. Una colonna di 500 uomini occupò la strada di Carini verso Capaccio, per ricevere la colonna Wittembach; gli altri in numero di 1100 ritennero più opportuno di ritirarsi a Partinico.

L’avanguardia di Wittembach, avanzandosi sbadatamente, venne ricevuta dal fuoco micidiale dei 500 insorti che si erano spartiti per le case lungo la strada e dietro le siepi, e ritirossi quindi nel più completo disordine. Gl'insorgenti resi arditi da quel primo successo, che era piuttosto l’effetto della sorpresa, abbandonarono i loro nascondigli e si misero in ordine di battaglia per cominciare regolarmente un aperto combattimento. Essi spiegarono un incontrastabile valore è si sostennero costantemente per lungo tempo contro Wittembach, ritirandosi passo a passo su Carini. Ivi apparvero quasi contemporaneamente sulle alture di Torretta e Montelepre guardanti la città le colonne di Cataldo e di Bosco.

I cinquecento si videro allora perduti, se non effettuavano sollecitamente la loro ritirata. Indietreggiando in fretta verso Carini lo trovarono già occupato da Cataldo. Si venne ad un furioso combattimento per le vie della città in cui gl'insorti impiegarono picche e coltelli in mancanza d’armi da fuoco e della baionetta. Essi avevano ancora l’intenzione di aprirsi un varco per Giardinello e Partinico onde unirsi con 1100 che avevano scelto quella direzione.

Ma questi a mezza strada fra Carini e Giardinello avevano inteso il fuoco sempre più forte dalla parte di Carmi ed i più valorosi fra essi si decisero di ritornar in quel paese per correre in aiuto dei loro compagni. E vi entrarono appunto quando la mischia ferveva per le vie di quella città; il loro attacco alle spalle mise in fuga le truppe di Cataldo e facilitarono in tal modo al resto dei 500 la ritirata verso Partinico.

Nessun scontro era stato fino allora cosi animato e valorosamente combattuto. Gl'insorti lasciarono 250 fra morti e gravemente feriti; i regii oltre 300, fra i quali 20 ufficiali.

Le truppe senza curarsi d‘ inseguire gl'insorgenti che fuggivano, raffreddarono il loro coraggio con infamie d ogni sorta. Essi mettevano a morte i nemici feriti, saccheggiavano, massacrando gli inermi, che tentavano di frenarli, stupravano le donne, spezzavano quello che non potevano portar via. e finalmente vi appiccavano il fuoco, secondo una loro abitudine, che col tempo mise in loro sempre più radice.

La giornata di Carini ebbe un risultato opposto a quello che si erano promesso Salzano ed i generali napoletani. Se avevano sperato di fare un colpo che annientasse tutte le speranze dei Siciliani era avvenuto tutto il contrario; il partito deli insurrezione solennizzò con proclami sparsi per lo stesso Palermo il combattimento di Carini, come una vittoria dei Siciliani, ed i soldati napoletani perdettero ogni fede nel trionfo del loro re. Ogni giorno dovevano marciare, ogni giorno si diceva loro che avevano vinto, ma ogni giorno sorgevano nuovi nemici che smentivano le asserzioni dei loro generali. Si vedevano superstiziosamente circondati da spiriti, che non era possibile né colpire né annientare, ed in poter dei quali stava finalmente il paese. Già compagnie e battaglioni interi si rifiutavano di marciare. Nè regnava migliore disposizione nelle truppe straniere. Fame e sete diventavano loro insopportabili, perché non ci vedevano mai la fine, né potevano mai conseguirla con successi reali.

Salzano era furente; egli si vendicava con arresti in città, perseguitando i fuggitivi perfino sui navigli delle nazioni straniere, né vi trovava sempre quell’opposizione che sarebbe stata richièsta dall'onor della bandiera nazionale. Egli minacciava di bombardare Palermo da Castellamare e fece rivolgere le sue artiglierie contro la città. I numerosi feriti venivano imbarcati per Napoli, senza riguardo se il loro stato io avrebbe permesso, onde sottrarli così agli sguardi dei Palermitani.

La Francia, l’Inghilterra e la Sardegna mandarono bastimenti nel porto di Palermo per procurare ai loro sudditi la necessaria protezione, ma era manifesto che tale protezione sarebbe stata accordata anche ai palermitani, e quindi questi salutarono con giubilo l’apparire di quelle varie squadre.

Il giorno 8 aprile comparve un proclama del generale Lamoriciére con cui partecipa di assumere il comando dell'esercito pontificio per difendere nella causa del Papa quella della civiltà e della libertà contro la rivoluzione che minaccia l’Europa come altre volte minacciavala l’islamismo.

Alla prima notizia dello scoppiare della lotta in Palermo, que’ di Messina si mossero per levarsi in armi e s’impegnarono in qualche scontro di poca importanza; ma quando intesero l’esito del combattimento della Gancia, i capi stessi dell'insurrezione ammonirono i loro aderenti a tenersi tranquilli in città, ma però la abbandonassero quanti più potessero con tutte le armi che potevano portar via e si ritirassero nelle montagne, per seguirvi lo stesso sistema sperimentalo con sì gran successo dalle bande di scorridori nei dintorni di Palermo, e il giorno 8 aprile i giovani messinesi abbandonarono a schiere la loro città e si ritirarono sui monti.

Comandante della piazza e provincia di Messina era il maresciallo di campo Pasquale Russo, il quale dichiarò lo stato di assedio e minacciò un bombardamento dalla cittadella in caso di più gravi turbolenze. Egli operò in Messina, come Salzano in Palermo. Gli arresti succedevano agli arresti, e tosto che arrivarono da terraferma truppe napoletane dovettero avanzarsi in due colonne l’una verso Gezzo e Milazzo, l’altra verso l'Etna e Catania. Ci limiteremo ad osservare che quanto si fece da Messina per inseguire le bande degl'insorti ebbe ancor meno successo, di quanto fu fatto da Palermo.

Ma l'insurrezione non si limitò soltanto ai dintorni di Palermo e di Messina; essa attaccò tutta l’isola.

In Trapani arrivò il 4 aprile la prima notizia degli avvenimenti di Palermo, che con incredibile entusiasmo venne accolta; gli abitanti si raccolsero nelle piazze e vi piantarono la bandiera tricolore e la guarnigione comandata dal colonnello Jauch si ritirò. Ma dai regii fu deciso di sottometter Trapani e il comando per la spedizione fu affidato al brigadiere Letizia; i capi della sommossa, che si videro alle strette, né avevano preso alcun provvedimento per la difesa, si perdettero d'animo, e la maggior parte di essi si rifuggi sulle navi delle nazioni neutrali. Dopo breve scaramuccia, Trapani cadde in mano di Letizia.

Letizia, lasciata a Trapani la necessaria guarnigione, marciò su Marsala, che insieme a tutta la riviera orientale, e più di lutto a Mazzara erasi sollevata contemporaneamente a Trapani, in cui I insurrezione si era resa padrona della città; ma gl'insorti sentendosi troppo deboli per resistere a Letizia, che si avvicinava, sgombrò la città, che fu tosto occupata dai regii.

Sulla costa meridionale Girgenti e Noto eransi tosto sollevate alla notizia degli avvedimenti di Palermo; nell’interno Caltanisetta; sulla costa orientale Siracusa, Catania e Taormina. Il 7 aprile a Noto si fece fuoco per le vie; gl'insorti si ritirarono nei monti, ed il comandante regio dichiarò Noto in istato d’assedio.

Quando la sommossa slava per iscoppiare a Catania ed il popolo si armava minacciando la guarnigione, il principe Fitalia, intendente della provincia, parente di Ruggero Settimo, l’eroe della libertà siciliana del 1848, rabbonì i capi con dolci parole e belle promesse; ma ottenuti rinforzi da Russo procedé indilatamente al disarmo dei cittadini, arrestandone parecchi e richiamando gli emigrati a rientrare tosto in città sotto minaccia di ogni pena possibile. A questo richiamo pochi diedero ascolto.

Garibaldi doveva passare in Sicilia onde procurare ai siciliani un centro per portare direzione al movimento insurrezionale; i siciliani fino dalla metà di aprile aspettavano Garibaldi e si studiavano frattanto di dare una certa unità alla loro organizzazione, e dove non c’erano truppe napoletane, si formò un campo siciliano. I comitati nascosti, invano cercati e perseguitati indefessamente dal governo napoletano continuarono ad esercitare la loro influenza in tutte le città di provincia. Un Governo provvisorio cui stava a capo Antonio Ferro, aveva piantato il suo quartier generale ad Alcamo.

Garibaldi era stato precorso nel 10 aprile da Rosolino Pilo Giveni, per annunciarne l’arrivo e raccogliere nuove schiere in vicinanza di Carini.

I fogli ufficiali napoletani però non cessavano in quel frattempo di dire e ridire che la sommossa era finita in Sicilia.

«Non v'ha ora del giorno, scriveva la Gazzella uffiziale del Regno delle due Sicilie nel 28 aprile, che non riceviamo notizie, tanto dalla Sicilia quanto da ciascun’altra parte del regno, né v'ha notizia che ci venga trasmessa dai telegrafi o portata dai piroscafi, la quale non sia una lieta e rassicurante ripetizione dei precedenti. Per ciò appunto, nell'ultimo cenno che facemmo della tranquillità perfetta de' reali dominii al di la del Faro, dichiarammo astenerci dal riferire i non interrotti annunzii sull'ordine e sulla quiete che dominano in tutte le provincie continentali ed insulari. In fatti, a pubblicarli tutti converrebbe inventar nuovi vocaboli e nuove frasi per esprimere la medesima cosa. La mercé di Dio, altra novità non abbiamo su questo esaurito argomento se non se quella di qualche voce foggiata o pescata da torbide fonti, con la quale si presume dar ad intendere le cose altrimenti da quello che lo sono. Se mai fosse nostro dovere confutare le ciance, non ci basterebbero il tempo, la carta e l’inchiostro. Noi non isprechiamo l'ufficio e la penna per dar mentile a vociferazioni assurde, che cadono da sé stesse, Altro è il nostro compito, quello di dire senza giri di parole quello che ci viene autenticamente riferito intorno alla tranquillità generale, al pacifico andamento degli affari ed alla piena osservanza delle leggi in ogni provincia, in ogni città, in ogni terra del Reame, siccome allo zelo ed alla vigilanza delle Autorità e dell'esercito nel tutelare la pubblica e privata sicurezza. Che se contro il consueto, or tocchiamo delle ciarle che la garrulità, la leggierezza e la malizia fan circolare, ciò è pure un adempimento del nostro dovere, sentendoci obbligati di rassicurare i creduli che tutte le cose che lor si dicono; contro le nostre asseveranze, altro non sono che menzogne, nessuna delle quali basta ad acquistar voga un sol giorno. Sian dunque tutti intenti a godere della pace che regna per ogni dove e chiudiam le orecchie alla fole, le quali non possono avere migliori successi che il disprezzo contro chi le inventa e il ludibrio di chi le accoglie.»

In questi giorni era molto intricata la condizione d’Italia. Un uomo di Stato, come il conte Cavour, trovava molti intoppi da ogni parte, né poteva facilmente risolvere di dove s’avesse a fare per superarli. L’Italia centrale era bensì unita al Piemonte, ma la Francia pareva aver piuttosto tollerata che voluta l'unione: l’Austria protestava, non frenandola d intervenire altro che la paura di attirare da capo i francesi in Italia con maggiore sua rovina. L’esercito pontificio aumentava e un generale d’illustre riputazione gli dava credito e baldanza. Il re di Napoli, quantunque scosso da commozioni interne, quantunque tentato con ogni qualità di proposte, si mostrava risoluto a seguire l’indirizzo del padre suo e a restare fedele al Pontefice e all’Austria, il conte Cavour aveva pericolo nel fermarsi e nel continuare; il fermarsi gli suscitava contro la parte più vivace e impetuosa, più audace e vigorosa del partito unitario italiano, il quale era andato ingrossando a misura che gli avvenimenti erano andati rendendo probabile quello che da prima era parso impossibile, l'unità italiana. E quella parte diventava un pericolo interno tanto maggiore, quanto più erano gl’incentivi alla sua azione, e allora appunto se ne era suscitato uno grandissimo, l’insurrezione di Sicilia, a cui non pareva tollerabile che i liberali dell’alta Italia, tanto per la fratellanza dell’origine, quanto per la comunità degli interessi, degli affetti alla patria e degli odii ai Borboni, non recassero aiuto. Anzi, c’era meglio che incentivo; quella audace e numerosa parte aveva un capo, il cui nome e i cui fatti affascinavano gli animi giovanili e gl'inducevano nella persuasione che veruna impresa generosa dovesse parer temeraria; un capo, per soprappiù, nemico, al governo di Cavour, così per i casi occorsi durante il ministero Rattazzi nello scorcio del 1859, quanto per la cessione di Nizza, che a Giuseppe Garibaldi, nizzardo, era parso un insulto ed una fellonia.

Cavour non poteva, come avea fatto prima e ha fatto poi, sviare le punte delle spade altrui alterandone l’elsa; non poteva, vogliam dire, far egli quello che la gioventù italiana avrebbe pur fatto con Garibaldi senza di lui. E non lo poteva, giacché egli non avrebbe messo a repentaglio solo pochi migliaia di bravi ed ardenti giovani, ma bensì tutto uno Stato di undici milioni, a cui uno scacco in Sicilia sarebbe stato un certo principio di rovina. D’altra parte, persino le potenze più amiche e benevole all’Italia protestavano che non avrebbero tollerato che dal governo dell’alta Italia fossero aggredite Roma e Napoli., Francia, in quel caso, non guarentiva più dall’intervento austriaco, e ogni speranza avvenire, come ogni successo passato, avrebbero potuto andare in dileguo; giacché gli undici milioni d’italiani già raccolti insieme sotto Casa Savoja avrebbero avuto contro di sé gli eserciti d’Austria al settentrione, di Roma e di Napoli al mezzogiorno.

Non c’era dunque modo d’impedire che dalla par te più fiduciosa dei liberali italiani non si tentasse senz’altro indugio un ulteriore passo verso il compimento dell'unità italiana con una avventurosa spedizione in Sicilia. Né era utile che s’impedisse, giacché, quando fosse riuscita, un desiderio comune a tutta oramai la gente colta ed influente della penisola si sarebbe potuto compiere; se non fosse riuscita, il governo dell'alta Italia, che non ci si era impegnato esso stesso, sarebbe di certo rimasto infiacchito, ma non avrebbe corso esso stesso una responsabilità troppo grave. Insomma, se la fortuna avesse favorito, non c’era che beneficii a raccogliere; se contrariato, il danno ad ogni modo, non era grande.

Se non che codesto passo doveva pure esser fatto in modo diverso da quello in cui si erano compiti i passi precedenti che avevano condotto gl’italiani fino alla Cattolica. Sin allora un governo regolare coi suoi mezzi legali e colle sue forze ordinate li aveva guidati: a quell’ultimo passo, che pure senza gli anteriori non sarebbe stato possibile, non si poteva avere la stessa guida. Il governo si aveva a nascondere e l'indirizzo doveva necessariamente venire alle mani d’un capo popolare, come il compimento avea a trovarsene affidato a forze scompigliate e di natura, siam per dire, spontanea, che, come si sarebbero raccolte sotto l’impulso, di un’idea e di un nome, così avrebbero poi ripugnato alla soggezione della legge ed all'autorità d’un governo qual fosse.

A dirla in altre parole, quel passo fatto a questo modo, che era pure il solo in cui si sarebbe potuto fare, avrebbe accresciuta la vigoria dell’elemento che si suol chiamare rivoluzionario e che non si può chiamare altrimenti; giacché la parola, senza esprimere nulla di ben preciso, significa pure un complesso di sentimenti, d’idee e di fatti che sarebbe malagevole indicare con altra. La vigoria di questo elemento accresciuta avrebbe forse potuto corrompere i beneficii che dalla riuscita si potevano augurare e corromperli sino a disperderli affatto e convertirli in una immensa sciagura. Se non che da simile risico non c’era scampo di sorta; non restava che di avere bene in mente che il pericolo ci potesse essere e grave, e cercare nel corso degli avvenimenti un momento in cui si sarebbe potuto sviarlo, anzi di quella stessa minaccia servirsi ad occasione e pretesto di maggiori imprese.

Si scorge che Cavour aveva ben ragione di dire che quella, in cui si trovava egli allora, non era già una delle più difficili congiunture in cui si fosse trovato mai, ma bensì la più difficile. La sola via ad uscirne e profittarne era pur questa che altri, giacché non poteva il governo, profittasse del credito, che la riuscita dell'impresa di Sicilia potesse dare, o s’assumesse la risponsabilità della sconfitta; lasciare insomma, che non per sua opera, nna nuova serie di fatti si aprisse, e spiare l’occasione opportuna per usufruirla a vantaggio della patria comune e del governo legale.

Cavour quindi non impedì la spedizione di Garibaldi e alle potenze estere disse che non avrebbe potuto impedire se non a risico di suscitare all’interno una perturbazione gravissima; né palesamento aiutò perché non venisse al governo nessuna esterna difficoltà da una violazione, che sarebbe stata patente, del diritto internazionale riconosciuto. Egli salvò ogni apparenza, tentando ad impedire tutt'i mezzi che non sarebbero stati valevoli ad altro effetto che a torre altrui ogni diritto di affermare che vi concorresse il governo di Vittorio Emanuele.

Il 6 aprile 1860 arrivò a Genova per via telegrafica la notizia dell’insurrezione di Palermo; Crispi, Nino Bixio, Rosolino Pilo si trovavano a Genova aspettando questa novella; Crispi e Rosolino Pilo avevano già ricevuto nel mese di febbraio la promessa di Garibaldi, che si sarebbe messo alla testa dell'insurrezione che fosse seriamente scoppiata nell'isola. Crispi bandito fino dal 1849, era ritornato di recente dalla Sicilia sua patria, ch'egli aveva percorsa con passaporto falso per conoscere coi suoi proprii occhi la condizione della medesima. Egli partì tosto con Bixio per Torino per ottenere da Garibaldi la rinnovazione della sua promessa e quindi concertare e predisporre l’occorrente per la spedizione. Rosolino Pilo era pronto a lasciar Genova e far vela per la Sicilia, tosto che fosse sicuro della partenza di Garibaldi.

Questi trovavasi allora a Torino nella camera dei deputati. Sebbene per temperamento e per carattere egli fosse inclinatissimo alle imprese le più arrischiate, sebbene il suo amore per l’Italia non lo facessero arretrare dinnanzi a cosa alcuna, pure eranvi ora altre circostanze che lo stimolavano a non mettere come condizione del rischio la sicurezza del risultato. Un miserabile inganno tessutogli sul finire dell’anno 1859 da una giovane gentildonna, figlia d’un suo amico, non senza che vi si potesse sospettarvi la macchinazione di qualche nemico politico, lo aveva profondamente ferito; la cessione di Nizza sua patria alla Francia, mai ufficialmente sancita dal trattato del 24 marzo, lo aveva riempiuto d’una ineffabile tristezza.

Ripeté egli tosto a Bixio e Crispi la sua promessa di andare in Sicilia, e mandò anzi Crispi a Milano per procurarsi ivi le armi necessarie, e Bixio a Genova per noleggiare un battello a vapore onde trasportare quella piccola spedizione.

Egli stesso rimase ancora in Torino per proporre che Cavour fosse messo in istato d accusa per la cessione della Savoia e di Nizza. Ma quando il 14 aprile la camera dei deputati passò su questa sua proposta all'ordine del giorno, Garibaldi abbandonò immediatamente quella città, arrivò lo stesso giorno a Genova e si recò il 15 aprile alla vicina Villa Spinola, proprietà del suo antico amico, il maggior Becchi, lo storico degli anni 1848 e 1849, dove trovò la più ospitale accoglienza. Quella villa diventò il quartier generale della spedizione. Antichi compagni in precedenti battaglie, giovani che ardevano di battersi per la liberazione d’Italia, si raccolsero al primo invito in Genova intorno all'amato generale.

Nel mentre da principio non si aveva contato che su qualche centinaio d’uomini, specialmente ufficiali, ed invece su un numero maggiore d’armi, stavano già alla fine d’aprile nella villa Spinola, in Genova e ne’ suoi dintorni, 1085 individui pronti ad imbarcarsi specialmente in seguito alle premure del veneziano Acerbi, poscia intendente generale dell’esercito meridionale; eranvi 150 di Brescia, 60 di Genova, 190 di Bergamo, 170 studenti di Pavia, 150 di Milano, 30 di Bologna, 50 di Toscana, 60 di Parma e Piacenza, 27 di Modena, 110 emigrati di Venezia.

Garibaldi ottenne, col consenso di Cavour 1019 fucili, le relative munizioni ed 8000 franchi per la cassa di guerra; la partenza della spedizione dalla Villa Spinola, centro di riunione e deposito principale della medesima, venne fissata per la sera del 5 maggio.

Ai 15 di aprile si ebbe il risultato definitivo della votazione del circondario di Nizza, che fu il seguente: inscritti 27,149; pel sì, cioè per l’unione alla Francia voti 24,418; pel no, 160. Il 22 si ebbe la votazione in Savoia che fu di 121,711 pel sì e 232 pel no.

Lo stesso giorno 22 le truppe napoletane si batterono a Calati contro gl'insorti. La città fu distrutta e le truppe regie battute si ripiegarono verso Messina. Trapani e tutta la costa erano in piena rivoluzione.


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CAPITOLO VI

Maggio

La spedizione siciliana raccolse un numero di barche in vicinanza della Villa Spinola sulla spiaggia del mare. Su queste dovevano imbarcarsi quei nuovi argonauti e con loro le armi e le munizioni; essi dovevano remigare fino in alto mare dove avrebbero trovato due battelli a vapore destinati a trasportarli in Sicilia. Conveniva almeno in apparenza impossessarsi per forza di quei due navigli appartenenti alla compagnia sarda Rubattino e che stavano nel porto di Genova. Nino Bixio con 40 uomini e due barche ricevette l’incarico di eseguire quell'impresa e poscia di condur fuori le due vaporiere in mare.

La sera del 5 maggio alle ore 7 si radunarono tutti i volontari, che non stavano sotto il comando di Bixio alla Villa Spinola, e due ore dopo cominciarono a montare sulle barche che avevano potuto riunire e che presto guadagnarono l’alto mare. Questo era da principio tranquillo, solo dopo mezzanotte cominciò a farsi agitato.

Garibaldi aveva atteso fino a mezzanotte meno un quarto l’arrivo dei vapori, ma non vedendoli ancora comparire, perdette la pazienza e si fece condurre in uno schifo verso il porto.

Egli vi trovò i due vapori il Piemonte ed il Lombardo già in potere di Bixio; subito dopo le 9 egli aveva abbordati quei due battelli per venire all’arrembaggio, e dopo di essersene impossessato, aveva rinserrati ufficiali, equipaggio, macchinisti e scaldatori; ma gli era riuscito difficile lo riscaldare la macchina perché nessuno dei suoi ne aveva la pratica necessaria. Il Piemonte era abbastanza pronto a partire, non così il Lombardo, e Garibaldi ordinò subito che il Lombardo fosse rimorchiato dal Piemonte e che quest’ultimo si mettesse in movimento tosto che tutto fosse in ordine. E cosi fu in breve. Alle 2 e mezza della mattina i due vapori lasciarono il porto, il Piemonte come rimorchiatore, mentre si stava riscaldando il Lombardo. Alle 3 essi raggiunsero le barche, dove il mal di mare aveva fatto strage, essendo le onde molto agitate. Cominciò sull'istante il tragitto dalle barche sui vapori, non senza però qualche disordine, che avrebbe potuto avere serie conseguenze.

Finito quel trasporto, i navigli si misero in moto; Garibaldi stesso comandava il Piemonte,Nino Bixio il Lombardo. Il Piemonte precedeva seguilo dal Lombardo a breve distanza. Questo correva meno del primo. La mattina di buon’ora si avvicinarono a terra per caricar viveri. Non fu che sulle alture di Castagnetto, che Garibaldi s’accorse che non si trovavano sul Piemonte né armi né munizioni Lasciò che Bixio si accostasse col Lombardo e gli dimandò se su quel vapore fossero state caricale le armi e le munizioni. Bixio aveva i 1019 fucili, ma né un certo numero di revolver, che pure erano stati apparecchiali nella Villa Spinola, né le munizioni. Risultò che la barca contenente gli uni e le altre non aveva scaricato il suo carico; se in causa della confusione che regnava in quel momento, od in seguito ad una trama di Cavour e

La Farina, è ancora incerto, e forse non si verrà mai al chiaro di questa faccenda. Garibaldi non si lasciò pertanto scoraggiare. I navigli ripresero la loro marcia, restando uniti per quanto era possibile, verso il piccolo porto di Talamone, dove si dovette far sosta per varii motivi.

Al 7 maggio alle ore 10 del mattino si arrivò a Talamone.

Garibaldi mandò da Talamone il colonnello Turr al governatore di Orbitello, per ricavarne se fosse possibile delle cartuccie. Turr seppe decidere il governatore non solo a rimettergli 100.000 cartuccie, ma eziandio quattro piccoli cannoni e relative munizioni per 300 colpi. Subito dopo l’arrivo a Talamone fece leggere da Carini ai capi della spedizione convocati tutti sul Piemonte il seguente ordine del giorno:

«Il corpo di truppe raccolto per questa impresa deve imporsi per legge la più completa annegazione e compiere la sua missione, non avendo altro in vista che la nuova trasformazione della patria. I bravi cacciatori delle Alpi hanno servito il paese e lo serviranno collo zelo e la disciplina delle migliori truppe regolari, senz’altra pretesa che quella d’una pura coscienza.

«Nessun grado, nessuna distinzione, nessun premio hanno attirato quei prodi. Cessato il pericolo rientrarono nella vita privata; ma ogni qualvolta suonerà I' ora del combattimento, l’Italia li rivedrà nelle prime file, allegri, pieni di buona volontà, pronti a spargere per essa il loro sangue. Il grido di guerra dei cacciatori delle Alpi è sempre quello stesso che risuonò un anno fa sulle rive del Ticino:

«Italia e Vittorio Emanuele!»

«E questo grido di guerra dovunque da noi mandato sarà sempre il terrore dei nemici d’Italia.»

Nello stesso tempo venne annunziata l'organizzazione del corpo:

Comandante in capo: Garibaldi.

Capo dello stato maggiore: il colonnello Sirtori. Sirtori, prete nella sua gioventù, era divenuto nel 1848 soldato della libertà ed erasi distinto per vero eroismo nell’anno 1849 durante la difesa di Venezia. Quindi nell’esiglio, egli studiò in Francia la teoria della guerra, benché non perfettamente, sperando nell’avvenire.

L’aiutante generale era Turr, ungherese, che nella sua gioventù servi sotto l’Austria, ma vi disertò nel 1848, prendendo parte nel 1849 all’insurrezione di Baden, e pugnando nel 1859 nel corpo dei cacciatori delle Alpi. In quest’Ultima campagna era rimasto ferito nel combattimento di Rezzato.

Il siciliano Crispi accompagnava la spedizione come commissario civile. In seguito alle più calde preghiere Garibaldi aveva acconsentito a prendere in compagnia la moglie di Crispi, sebbene egli fosse alieno dal permettere la compagnia di signore nelle spedizioni militari. Capo del genio era Minutilli; intendente generale Acerbi; medico in capo Ripari.

Tutta la ciurma fu divisa in sette compagnie d infanteria secondo il modello piemontese: le compagnie erano comandate da Nino Bixio, Orsini, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini e Cairoli.

Nino Bixio marinaro e soldato di terra, come Garibaldi, aveva combattuto al suo fianco in Roma nel 1849, e più tardi nel 1859; egli era noto per la sua impetuosità e pel suo valore che non conosceva ostacoli. Si raccontano molte fiabe sul suo abuso di potere verso i soldati.

Orsini era daprima ufficiale d’artiglieria napoletano, come tale combatté nell’insurrezione della Sicilia negli anni 1848 e 1849 dopo essere passato dalla parte dei suoi compatriotti. Quindi esigliato trovò collocamento come maggiore d’artiglieria al servizio della Turchia. E in tale posizione fece sotto Omer pascià la celebre spedizione nella Mingrelia. Al primo grido della nuova insurrezione della sua patria vi accorse da Costantinopoli e si unì alla spedizione di Garibaldi.

Stocco, calabrese, aveva grande influenza nella sua patria ed aveva preso una parte distinta all'insurrezione della Calabria del 1848.

La Masa, siciliano, aveva pure preso parte all’insurrezione della sua patria negli anni 1848 e 1849 e l’aveva anche descritta. Egli occupossi nell’esilio particolarmente studiando l’organizzazione d'un esercito italiano d’insurrezione e pubblicò su questo argomento un libro ben redatto. La Masa aveva molti nemici. Egli aveva il vizio, come dice Alessandro Dumas, di adoperare troppo spesso la parola io, ed altri avrebbero voluto, ch’’egli l’avesse piuttosto ommessa.

Anfossi aveva servito con distinzione nell’esercito sardo.

Il siciliano Carini aveva nell’insurrezione del 1849 istituito un reggimento di cavalleria siciliano e pubblicato a Parigi nell’anno 1859 il Courrier franco-italien.

Cairoli, che aveva perduto un fratello nell'anno 1859 nella guerra contro l’Austria, era accorso da Pavia appena ebbe sentore dell’intenzione di Garibaldi, arrecando alla spedizione 30,000 franchi.

Avendo il governatore di Orbitello consegnato i quattro cannoni summentovati, Orsini fu nominato comandante dell’artiglierà e il maggior Forni assunse il comando della sua compagnia.

Garibaldi lasciò a Talamone 60 e più uomini sotto Zambianchi. Essi dovevano penetrare negli Stati romani col grido: Viva Vittorio Emanuele e Garibaldi, e far credere di essere tutta la spedizione di Garibaldi, spargendo un proclama, che confermasse in questa credenza. Dovevano in tal guisa distorre l’attenzione dei napoletani dal vero scopo della spedizione. Come si può bene imaginare non avrebbe potuto durar a lungo questo inganno a motivo della debolezza di quel corpo, che si poteva riguardare come sagrificato.

Formate le compagnie, la spedizione si rimise in viaggio alle 3 e mezzo di mattino del giorno 9 da Talamone, facendo di nuovo una breve fermata a S. Stefano, e poscia si diressero verso il mezzodì sul capo Boulos, dopo che furono distribuite le camicie rosse e le armi e che furono ritirati da Orbitello i quattro cannoni.

Il Piemonte precedeva, il Lombardo lo seguiva. Verso sera del giorno 10 quest’ultimo restò molto indietro. Un volontario che si era due volte precipitato in mare, ed era stato ricuperalo, fece lo stesso salto per la terza volta. Si perdette del tempo per salvamelo. Sull’imbrunire non scorgevasi più il Lombardo stando a bordo del Piemonte, Garibaldi fece quindi stringerò tutte le vele a quest’ultimo e mettere alla cappa per attendere il primo, ordinando nello stesso tempo che si accendessero le lanterne in opposizione a quanto erasi antecedentemente concertato.

La qual cosa avrebbe quasi determinato Bixio ad allontanarsi di nuovo col Lombardo prendendo il Piemonte per un incrociatore napoletano. Ma presto riuscirono ad intendersi ed i due vapori si riunirono di nuovo. Il Lombardo seguiva da vicino il Piemonte per quanto gli era possibile.

L’11 maggio alle 10 ore della mattina Garibaldi osservò sull’altura di Favignana un vascello mercantile inglese proveniente da Marsala. Si fermò tosto per parlare col capitano, da cui rilevò che nel porto di Marsala non si trovava pel momento alcun bastimento da guerra napoletano, ed egli si diresse tosto verso quella città. Strada facendo, ricevette dal padrone di una barca la conferma di quella notizia.

E quella notizia era verissima. Dei due navigli da guerra napoletani di stazione nella rada di Marsala, il Capri, capitano Acton, aveva levato l’ancora il 10 maggio per far vela verso l'alto mare; lo Stromboli, capitano Caraccioli era uscito di rada solo il giorno 11 alle 9 antimeridiane per seguire il Capri.

Se non fosse saltato il ticchio a quel volontario del Lombardo di gettarsi in mare per la terza volta, la sera del giorno 10, producendo cosi il ritardo di più ore alla spedizione, avrebbe questa trovato lo Stromboli anche nella rada di Marsala, e come poi la sarebbe andata è cosa molto problematica. Ormai non c' era più a dubitare d’uno sbarco felice.

Diffatti il Piemonte senza perder tempo entrò nel porto di Marsala; i primi volontarii che toccarono terra sullo schifo del naviglio, s impossessarono delle barche che vi si trovavano per sollecitare lo sbarco, che si compì senza il minimo ostacolo in vista dei due bastimenti da guerra inglesi, ancorati nella rada di Marsala, l’Aigle e l’Independance.

Il Lombardo era rimasto indietro. Si scorgeva dal suo bordo come anche i due battelli a vapore napoletani si dirigevano con tutta forza verso il porto di Marsala. Esso era vicinissimo allo Stromboli, il quale aveva osservata la spedizione, ed era seguito dal Capri, che aveva a tale effetto fatto retrocedere.

Bixio rapidamente risoluto fece tosto urtare il Lombardo contro uno scoglio all'ingresso del porto, per dar così da fare ai napoletani e distorre la loro attenzione dal Piemonte, che portava il maggior numero dei volontari, i cannoni e sopra tutto la parte più importante della spedizione. Cominciò nello stesso tempo a scaricare aiutato dalle barche che remigavano dal lido anche verso il Lombardo.

Lo Stromboli erasi durante lo scarico messo in ordine, ed avvicinatosi a grande portata di cannone verso il Lombardo, aveva già aperto il fuoco. Il comandante dei navigli inglesi mandò un ufficiale al comandante dello Stromboli richiedendolo di sospendere il fuoco, poiché i suoi ufficiali erano quasi tutti smontati a Marsala, come era di fatto. Il comandante dello Stromboli trovò alquanto singolare quella pretesa; ma però sospese il fuoco pel momento, e s’intavolarono allora delle trattative veramente curiose, che diedero non solo al Piemonte, ma eziandio al Lombardo minacciato così dappresso, il tempo necessario per isbarcare senza verun pericolo il loro equipaggio, che arrivato a terra, si formò tosto in compagnie.

La debole guarnigione napoletana sgombrò in disordine la città.

Solo quando Marsala fu completamente in mano dei Garibaldini, lo Stromboli ed il Capri riaprirono il fuoco contro i due legni, già abbandonati, e contro la città, senza cagionare gran danno.

Subito dopo lo sbarco Garibaldi fece affiggere a tutti gli angoli delle vie il seguente proclama:

«Siciliani! Io vi ho guidato un pugno di bravi, che ascoltarono il vostro grido eroico, il resto di coloro che combatterono in Lombardia. Noi siamo con voi e non domandiamo altro che la liberazione della vostra patria. Se staremo tutti uniti, l’opera riuscirà facile. All'armi dunque I Chi non dà di piglio ad un’arma è un vile od un traditore. Non giova il pretesto che mancano le armi. Riceveremo dei fucili, ma per ora ogni arma è buona, purché in mano d’un prode. Le comuni avranno. cura dei fanciulli, delle donne, dei vecchi, che resteranno indietro. All’armi tutti! La Sicilia mostrerà di nuovo al mondo, come un paese sostenuto dalla energica volontà di tutto un popolo unito sa liberarsi dai suoi oppressori.»

Altri proclami, firmati da altri vennero ben presto diramati per la città e pei dintorni.

Allorché i volontarii di Garibaldi ebbero sbarcato a Marsala, essi si occuparono ad organizzare i loro diversi servigli ed a collocare posti di osservazione su tutt’i punti elevati. Nella sera, una colonna. composta di uomini scelti fece una forte ricognizione nel verso di Trapani e tornò al campo dopo aver conosciuta la direzione in cui si trovavano le truppe reali.

Il punto dello sbarco, stabilito da alcuni giorni, era stato tenuto segreto, ma venne comunicato a tutt'i capi del movimento che dimoravano nell'isola, e durante la notte questi giunsero al campo per intendersi sul contegno da tenersi. Nel domani le antiche torme, che avevano preso parte all'ultima rivolta, si congiunsero al corpo di spedizione e si risolvette di porsi in movimento nel 13 maggio allo spuntare del giorno. L’ordine di marcia stabilito si eseguì con molto insieme e da quel momento l’insurrezione andò aumentando.

Il comandante delle truppe regie, informato di quanto succedeva dagli avvisi che riceveva d’ora in ora, comprese che non doveva sparpagliare le sue forze, fece sgombrare a tempo Trapani, capo-luogo della provincia di tal nome, come pure tutt i siti intermedii, e si concentrò in Palermo.

La Giunta insurrezionale di Marsala prese immediatamente le sue disposizioni per mettersi in relazione colle piazze importanti delle provincie di Girgenti, di Siracusa, di Catania, di Caltanisetta e per rigettare la difesa sull'estremità nord e nord-est dell’isola.

Il 12 maggio Garibaldi lasciò colla sua gente Marsala per penetrare nell'interno del paese; prese quindi la direzione di Salemi distante da Marsala 20 miglia. La mattina dei 13 prosegui la sua marcia verso Salemi. I garibaldini furono accolti a Salemi con entusiasmo, e ad istanza di quegli abitanti, Garibaldi si dichiarò, il giorno 14, dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele.

Garibaldi formò coi volontari recentemente arrivati, fra i quali il fiore dei siciliani di Marsala, Trapani, Castelvetrano e Salemi, due nuove compagnie di cacciatori delle Alpi, cioè l’ottava e la nona, cosicché quel corpo ascese allora a 1200 uomini. Oltre a ciò erano giunti a Salemi nel corso del giorno 14 circa 2000 uomini di squadre volanti, che dimostravano buona volontà di marciare in compagnia per qualche tratto, ma non però di unirsi definitivamente ai cacciatori delle Alpi.

Il brigadiere napoletano Landi erasi avanzato il 14 da Alcamo verso Calatafimi, buona posizione militare con alture e lo aveva occupato. La forza di cui disponeva consisteva nell'8. battaglione di cacciatori, d’un battaglione di bersaglieri, di un battaglione del 10.° reggimento di linea, inoltre 200 uomini di cavalleria e 4 pezzi di montagna.

Garibaldi, informato nella notte dal 14 al 15 del movimento di Landi, divisò di avanzarsi verso Calatafimi. Egli poteva disporre tutt al più di 4 300 uomini; Landi di oltre 3000.

I napoletani mossi ad incontrare i garibaldini erano ancora distanti da essi quasi mille passi, quando arrivarono nelle file di questi ultimi le palle dei fucili rigali dei primi. Allora Garibaldi fece suonare l'attacco. I napoletani dovettero piegare e perdettero due obizzi di montagna.

Saranno state circa 14 ore antimeridiane, quando il combattimento cominciò a farsi serio; verso le 3 pomeridiane i regii erano già respinti fino nell'ultima e principale posizione da loro scelta a mezzogiorno di Calafatati. Garibaldi fece far sosta, e raccolse l'ala destra sotto il pendio del monte per preparare l’ultimo attacco; altrettanto fece Bixio colla sinistra; la maggior parte dei condottieri erano a piedi, o perché avessero perduto i loro cavalli, o perché riuscisse loro più comodo di marciare a piedi anzi che a cavallo su quel terreno frastagliato e montuoso.

L’artiglieria di Garibaldi non aveva ancora tirato un colpo. Orsini aveva fatto collocare e munire con barricate sulle alture di Vita e sulla strada a qualche distanza dai napoletani i due soli pezzi d’artiglieria di cui poteva disporre, mancandogli i mezzi di trasporto, ed alla sua gente la pratica di servirsene, locché impediva ogni rapido movimento avanti ed indietro, tanto per far fuoco, quanto per cambiar di posizione; molto più ch’egli si aspettava che i napoletani sarebbero proceduti all’attacco. Ma quando al primo avanzarsi dei bersaglieri genovesi le linee dei cacciatori napoletani indietreggiarono ritirandosi sulle alture della Pianta dei Romani, quando lo stato delle cose si mantenne cosi e divenne evidente che non si sarebbe più combattuto seriamente sulle alture di Vita. Orsini dispose quanto era necessario per sloggiare da quella posizione dove non poteva più giovare all’infanteria. Dovette però fermarvisi ancora lungo trailo, facendogli non lieve ostacolo ad avanzare le barricate che aveva fatte costruire egli stesso a difesa di quei due cannoni. Cosi che non potè arrivare che quando Garibaldi si disponeva già all’ultimo attacco decisivo. Gli riuscì allora di prendervi parte mettendo opportunamente in batteria quei suoi due pezzi.

Appena ebbe Garibaldi raccolti di nuovo 300 uomini dell’ala destra, che diede il segnale per cominciare quest’ultimo attacco decisivo. Lo si intraprese con veemenza, specialmente contro il fianco sinistro del nemico. Nello stesso tempo anche i cannoni di Orsini fecero qualche colpo.

I napoletani, vedendosi ora attaccati con nuovo furore, dopo poche salve cedettero il campo e fuggirono verso Calatafimi. Garibaldi aveva guadagnata la battaglia, bandi, pervenutagli la notizia che altre bande numerose si mostravano nelle vicinanze di Alcamo e di Carini sulla strada per cui doveva ritirarsi a Palermo, sgombrò in tutta fretta Calatafimi, per marciare verso Alcamo e Partinico. La mattina del 16 Garibaldi potè entrare in Calatafimi. in cui emise il seguente ordine del giorno:

«Con compagni, come voi, posso osare qualsiasi impresa, e ve l'ho mostralo ieri, avendovi condotto su una via aspra pel numero dei nemici e per le loro forti posizioni. Però io contai sulle vostre fatate baionette, e vedete che non mi sono ingannato.

«Lamentando la triste necessità di dover combattere soldati italiani, dobbiamo però confessare che trovammo una resistenza degna d’una miglior causa. E questo dimostra meglio di tutto, quanto saremo capaci di eseguire in quel giorno, in cui tutta la famiglia italiana si schiererà intorno al glorioso vessillo della liberazione.

«Domani il continente italiano sarà ornato a festa per celebrare il trionfo dei suoi liberi figli e dei nostri prodi siciliani; le vostre madri, le vostre spose superbe di dirvi suoi, procederanno con faccia alta e sorridente per le pubbliche vie.

«Il combattimento ci costa dei cari fratelli caduti nelle prime file. Negli annali della gloria italiana i nomi di questi martiri faranno rifulgere la nostra santa causa.

«Io dirò al vostro paese i nomi di quei bravi, che guidarono cosi valorosamente al combattimento i soldati più giovani e più inesperti e condurranno domani a trionfare su altro campo di battaglia quei soldati, che devono spezzane gli ultimi anelli delle catene con cui era inceppata la nostra cara Italia.

«GIUSEPPE GARIBALDI»

Il 15 maggio il tenente generale Ferdinando Lanza venne nominato commissario straordinario in Sicilia. Ecco il tenore del reale decreto:

«Considerando che dopo il disbarco de' faziosi in Sicilia, l’ordine pubblico trovasi gravemente compromesso, nella intenzione di far cessare il più presto possibile lo stato attuale delle cose, tanto dannoso alla pubblica sicurezza ed agli interessi de' nostri amatissimi sudditi al di la del Faro, e volendo or noi, nella sollecitudine dell'animo nostro convenevolmente ripristinare l’ordine con provvidi ed energici temperamenti governativi, ed accorrere con tutt'i mezzi adatti alla natura degli avvenimenti che colà si succedono; sulla proposizione del nostro consigliere ministro segretario di Stato, presidente del consiglio, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

«Art. 1. Nominiamo il tenente generale Ferdinando Lanza nostro commissario straordinario in Sicilia con tutt'i poteri dell'Alter ego, onde recarsi in quella parte de' nostri reali dominii e nei punti dove crederà meglio, per ristabilire la calma, ricondurre l'ordine, animare ì buoni e tutelare le persone e le proprietà.

«Art. 2. Egli eserciterà le funzioni inerenti a tale incarico, sino a che, ripristinato l’ordine, invieremo colà il real Principe che abbiamo già prescelto per nostro luogotenente generale nei nostri dominii oltre il Faro.

«Art. 3. Accorderà, in nostro real nome, ampio e generale perdono a tutt'i nostri sudditi che, or traviati, faranno la loro sommessione alla legittima Autorità».

Questo decreto fu susseguito da un altro, dello stesso giorno e del seguente tenore:

«Visto il nostro real decreto di questa data, col quale abbiamo nominato il tenente generale D. Ferdinando Lanza nostro commissario straordinario in Sicilia coi poteri dell'Alter ego, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

«Art. 1. D. Pietro Ventimiglia, nostro procurator generale presso la Gran Corte de' conti in Palermo, è destinato provvisoriamente alle funzioni di ministro segretario di Stato presso il nostro luogotenente generale nei nostri reali dominii oltre il Faro, e sarà incaricato di assistere nella spedizione di tutti gli affari il tenente generale D. Ferdinando Lanza, nostro commissario straordinario in Sicilia.»

Venne accordata piena amnistia a tutti quelli che avessero fatto la loro sottomissione; fu promessa alla Sicilia un’amministrazione separala e un principe reale per luogotenente generale.

Garibaldi spiccò da Catalafimi La Masa e Fuxa per raccogliere le bande di volontari a mezzodì ed ostro di Palermo e fare con essi degli attacchi simulati sui regii nella capitale, richiamando cosi da quel lato la loro attenzione, mentre egli stesso coi suoi cacciatori delle Alpi e con quanti siciliani gli si fossero uniti voleva avanzarsi per Alcamo e Partinico verso la capitale. Rosolino pilo, che aveva messi insieme presso Carini circa 1000 uomini, a quanto pareva sicuri, ebbe l’ordine di congiungersi a Partinico con Garibaldi.

Nella notte dal 15 al 16 Laudi aveva sgombrato in tutta fretta Calatafimi; arrivato ad Alcamo non v'incontrò quella resistenza che erasi aspettata; dopo essersi alquanto rinvigorito con requisizioni raggiunse Partinico alla mattina del 17. Quegli abitanti erano in piena insurrezione, essendovisi unite alcune bande di volontari dei dintorni, in parte quelli stessi che nella giornata di Calatafimi, prima ancora che il combattimento cominciasse a farsi serio, si erano sbandati qua e la in varie direzioni, e che poscia all'annunzio della vittoria si mostrarono di nuovo inseguendo coraggiosamente la vinta e fuggitiva colonna di Landi. Si venne a Partinico ad un caldo combattimento, per le vie della città, che i regii mettevano a fuoco, commettendo i soliti eccessi, ormai divenuti una massima per essi. In quella marcia precipitosa e colla indisciplina che prevaleva eransi smarriti molti sbandati della colonna di Laudi, cadendo isolatamente nella mani dei Siciliani, che vi sfogavano sopra il loro furore. Nel giorno stesso, proseguendo la loro marcia caddero molte di quelle truppe, già stanche, a Montelepre in una imboscata delle bande dei scorridori unite a quegli abitanti, vi perdettero molta gente e ritornarono il 18 a Palermo come una banda selvaggia dopo una lunga campagna.

Garibaldi seguendo le traccie di bandi, marciò il 17 verso Alcamo e il 18 verso Partinico. Quivi pubblicò un decreto, secondo il quale le comuni erano tenute d’indennizzare pel momento tutt'i danni che i regii avevano fatto ai privati; finita la guerra sarebbero poi state compensale dal pubblico erario. Dovevano pure aver cura delle famiglie di coloro che erano assenti per guerreggiare.

La sera del 18 Garibaldi usci da Partinico insieme coi suoi ed occupò un campo presso Renna sulla strada maestra che per Monreale mette a Palermo; ivi essendosi riuniti a lui il giorno 19 i volontari di Rosolino Pilo, egli contava in tutto sotto i suoi ordini presso a poco 4000 uomini.

In quelle e nel giorno seguente ebbero luogo parecchie scaramuccie fra le bande degl'insorti ed i regii, che custodivano a Monreale la parte sud-ovest della capitale, restandovi ucciso il giorno 20 maggio in una di esse, a S. Martino a nord-ovest di Monreale, Rosolino Pilo.

Il 19 maggio, alcuni volontari, comandati da Zambianchi, lasciato Talamone, entrarono negli Stati pontifici. Dopo un combattimento presso Montefiascone si ritirarono di nuovo in Toscana. Qui il corpo venne sciolto e disarmato dal Governo sardo, che si era già opposto alla spedizione. I pontifici erano comandati dal colonnello marchese Pimodan.

Lanza prese le disposizioni necessarie per collocare le truppe in modo da poter andar incontro ad un attacco di Garibaldi. Soltanto il 23 maggio ricevette avviso che Garibaldi non istava più a Renna, ma piuttosto presso il Parco. Il mattino del 24 vennero dirette a quella volta da Palermo parecchie colonne sotto il comando del generale Colonna e dei colonnelli Bosco e Mechel.

Garibaldi il 24 maggio decise di non accettare un serio combattimento perché i suoi cacciatori delle Alpi erano stremati per le marcio sforzate e il combattimento di Calatafimi, mentre le schiere dei volontari erano in altri luoghi e La Masa e Fuxa non gli avevano ancora condotto truppe. Stanziò quindi di ritirarsi onde attirare a se il maggiore numero possibile di truppe regie, allontanandole da Palermo, poscia con una nuova marcia di fianco guadagnare un’altra posizione verso quella città e penetrarvi. Come retroguardia fasciò Tùrr. e col resto delle truppe marciò per Corleone verso Piana dei Greci. Tùrr venne presto alle mani, ma dopo aver combattuto qualche tempo nella posizione del Parco, cominciò egli pure a ritirarsi prendendo di tratto in tratto nuove posizioni, e potè raggiungere Piana de' Greci.

Garibaldi raccolse un consiglio di guerra composto di Sirtori, Tùrr, Orsini, e Crispi sotto fa sua presidenza. Disse loro che probabilmente tutte le forze napoletane che in quel giorno avevano preso parte al combattimento sarebbero fatte avanzare verso Corleone, che, non lasciandovi se non una piccola parte delle proprie forze, il grosso dell'esercito potrebbe intanto marciare di fianco e piombare per altra via su Palermo, trovandola così considerevolmente sguernita di truppe. La direzione che doveva tenere il grosso dell'armata era già indicata da varie circostanze. Essa non poteva marciare che a dritta verso Marineo e Misilmeri; perché da quelle parti dovevasi attendere l’arrivo delle schiere di volontari raccolti da La Masa e da Fuxa. D’altronde fa parte orientale di Palermo era appunto la più sguernita di truppe, essendo l’attenzione dei napoletani specialmente rivolta sulla parte occidentale e meridionale verso Carini, Renna e Piana de' Greci. Sulla strada da Piana de Greci verso Marineo si poteva appena marciare con artiglieria; risultava quindi necessario di dover lasciar retrocedere l’artiglieria per la strada di Corleone, locché non avrebbe mancato di attirare nello stesso tempo anche i napoletani verso quella direzione. Imperocché come mai i soldati d’un esercito regolare avrebbero potuto pensare che la dov'è tutta l’artiglieria, non vi si trovasse anche il grosso delle forze belligeranti nemiche? Finalmente se non fosse altro, l’affare di Catalafimi doveva far conoscere ad ogni capitano di Garibaldi, che nello stato in cui trovavasi quell'artiglieria, se ne avrebbe potuto fare a meno»e che difficilmente sarebbe stata di una sensibile utilità. Orsini si pose in marcia verso Corleone. Garibaldi col grosso dell’armata si mise in cammino battendo la strada che da Piana mette a S. Cristino, d’onde si riesce nella valle superiore del ruscello. Ficarazzi. Il 25 alle 3 pomeridiane arrivò in Corleone, dove fu accolto con entusiasmo. Salzano stesso si mise alla testa delle truppe di Colonna per inseguire i garibaldini verso Corleone, conducendo seco 6000 uomini; nel 27 alle 10 antimeridiane si avvicinò presso le appendici meridionali della catena delle montagne di Ficozza, discendendo verso Corleone. Orsini fece occupare dai volontari siciliani il circuito settentrionale di Corleone, prese posizione con tre pezzi di artiglieria sul ponte di un confluente del Conjglione e sulla strada verso Chiusa a mezzogiorno della città, appostò due cannoni nel suo fianco destro sopra un’eminenza isolata. I napoletani svilupparono lunghe catene di cacciatori e si avanzarono all'attacco di Corleone seguendo la tortuosità della strada e tenendosi ai due lati della medesima. I siciliani in breve si sbandarono nella direzione di Chiusa. Orsini coi suoi tre pezzi di cannone li raccolse, fece alquanti tiri sulle truppe regie che penetravano per Corleone dal lato meridionale, ma si trovò costretto ben presto sgombrare. Per altro l’ufficiale comandante i due cannoni al fianco destro aveva fatto alcuni colpi felici sulle colonne napoletane. La mattina del 28 proseguì Orsini la sua ritirata nel gruppo di montagne di San Giuliano. Essendosi sparso il falso allarme chela cavalleria napoletana fosse già alle calcagna della colonna, Orsini fece bruciare i carretti su cui erano montati i cannoni, inchiodò questi ultimi e marciò senza artiglieria con la sua gente verso San Giuliano, ed al 29 era verso Sambuca.

I regii avevano dal 28 maggio in poi nulla o quasi nulla più pensato ad inseguire. La sera del 27 aveva già Salzano ricevuto la notizia, che nella mattina di quel giorno stesso Garibaldi era penetrato nella capitale, che si poteva considerare come presa. Egli fu richiamato. La stessa notizia era già penetrata per via sicura a Sambuca il 29 maggio ed anche Orsini ve la trovò. Coll’aiuto dei cittadini di Sambuca gli riuscì di raccogliere tutt" i cannoni lasciati per via, fornendoli delle relative carrette ed armandoli di nuovo. Seguiremo ora la marcia di Garibaldi.

Egli con circa 1000 uomini, i suoi cacciatori delle Alpi e quei volontari siciliani sui quali si poteva fare più conto, discese la sera del 24 maggio, come abbiamo già veduto, per S Erisimo nella valle del ruscello Ficarazzi. Verso mezzanotte aveva già raggiunto il bosco, che giace lungo la strada a ponente di Risalaimi, che conduce a mezzogiorno a Marineo ed a settentrione verso Palermo. La mattina del giorno 25 Garibaldi levò per tempissimo il campo posto presso quel piccolo bosco ed arrivò a Marineo alle 8 antimeridiane.

Nella sera del giorno istesso lasciò Marineo marciando verso Misilmeri, dove arrivò prima di mezzanotte.

Garibaldi che. con una parte della gente del Parco riunì, nel percorrere le contrade Marineo, Gibilrosso e Misilmeri, tutte le bande che vi rinvenne, si presentò a Palermo. I napoletani avevano intorno alle mura dell’interna città due grandi strade che, movendo dal palazzo reale e da Porta Nuova, dirigevasi l’una a destra presso Porta Termini, l’altra a sinistra presso Porta Macqueda verso il porto e il Castellamare. Dinanzi alla Porta Termini e alla Porta Antonio erano state erette barricate con cannoni che battevano per lungo le strade.

Garibaldi pensava di prendere al primo assalto ed all’improvviso il posto al ponto dell'Ammiraglio senza ferir colpo, penetrando così inosservato fino a Porta Termini, per farvi altrettanto. Questo progetto abortì per causa dei volontari siciliani.

Tukery marciava colla sua avanguardia silenziosamente e tranquillamente, quando arrivò alle prime case suburbane. Ma i siciliani, che lo seguivano, vedendo quelle prime case credettero di trovarsi già in Palermo e parte per giubilo, parte per animarsi alla lotta, che doveva pure scoppiare, mandarono un terribile grido di guerra e taluni spararono anche i loro fucili.

Ciò richiamò l'attenzione del posto al ponte dell'Ammiraglio, che prese le armi e si apparecchiò' alla resistenza. Tukery non potendo sorprenderlo dovette vincerlo colla forza. Arrivarono dei rinforzi da Porta Termini, coi quali uniti insieme allo spuntare del giorno sul primo albore quelli che erano appostati al ponte dell'Ammiraglio si ritirarono pei giardini e dietro le mura del sobborgo di Termini. La strada restò così libera.

Tukery seguì verso Porta Termini per la strada del sobborgo. I due cannoni dietro le barricate che dominavano la strada aprirono un fuoco di mitraglia. Tukery che si avanzava colla sua avanguardia se ne schermi alla meglio, camminando rasente le case.

I volontari siciliani vedendo che il posto al ponte dell'Ammiraglio era soprafatto seguivano in massa tumultuando, gridando e facendo fuoco. Ma il primo colpo di mitraglia, che li colpì, li gettò nella massima confusione. Per mettervi qualche freno e perché Tukery non restasse senza appoggio, Garibaldi comandò che i siciliani si raccogliessero nei giardini vicino alla strada, dove erano al coperto e fece che il battaglione di Bixio seguisse rapidamente l’avanguardia. Tukery e Bixio penetrarono rapidamente fin presso Porta Termini. Un primo attacco della medesima sulla barricata venne respinto dai regii.

Perdendosi frattanto molto tempo. Garibaldi temette che il suo attacco alla porta potesse essere disturbato da un contro attacco di fianco. Le riserve del palazzo reale e dei Porrazzi potevano avanzarsi per la strada di comunicazione di Porta Antonio per eseguire un attacco di fianco. E qualora il combattimento si fosse colà concentrato, tutto era rimesso in questione.

Garibaldi fece quindi occupare prima di tutto dai volontari siciliani le mura lungo il lato esterno della strada di comunicazione, per trattenere le truppe napoletane, che potessero penetrarvi.

Ad ogni modo ora premeva anzi tutto di penetrare in città il più presto possibile; una volta entrativi, si poteva formare delle barricate, fortificarsi, far insorgere tutta la città e render perigliosa la condizione dei napoletani.

Ma questi respinsero anche un secondo attacco sulla barricata.

Frattanto la città era stata spaventevolmente ridestata dal cominciato combattimento; un numero di uomini arditi chiamò all’armi gli abitanti, malgrado l’ordine del comando di piazza, che ognuno dovesse trattenersi a casa; già da alcuni conventi le campane suonavano a stormo

Non si poteva abbandonare gli abitanti di Palermo Garibaldi comandò un nuovo attacco della barricata. Questa volta riuscì di montarvi sopra; la guida Rullo fu il primo garibaldino che entrasse in città, lo seguì l’avanguardia e quindi i carabinieri genovesi. Tukery era ferito in una gamba; la ferita non era apparentemente grave, ma vi soggiacque quel prode ungherese il 7 giugno, specialmente perché non seppe adattarsi ai necessari riguardi dietetici.

Erano le 5 e mezzo della mattina quando Garibaldi entrò in città; i carabinieri genovesi si dispersero tosto in piccoli distaccamenti per le vie a dritta e a manca della Porla Termini ed obbligarono i posti delle porte vicine ed in alcune case occupate ad abbandonare le loro posizioni.

A Fiera Vecchia, Garibaldi fece la prima fermata, raccolse i suoi e prese le misure necessarie. Continuò poscia l’attacco contro il punto centrale della città nella direzione di piazza Bologni, ove istituì il suo quartier generale e vi piantò pure la sua sede un comitato generale d’insurrezione sotto la presidenza di Gaetano La Loggia. Alla sera del 27 quasi tutto Palermo era in mano dei garibaldini e della popolazione.

Nel 28 maggio fu continuata l’opera della conquista; i garibaldini si avanzavano per la piazza Quattro Cantoni sino a Porta Macqueda, occupando eziandio la piazza del duomo in vicinanza del palazzo reale; i napoletani nel palazzo reale da una parte, in Castellamare dall’altra, dove trovavasi anche Lanza. restarono allora affatto separati gli uni dagli altri, e Garibaldi per conservare quanto aveva sino allora conquistato, istituì un comitato di difesa sotto la presidenza del duca di Verdura, che avesse principalmente ad occuparsi della costruzione delle barricate intorno alle piazze principali della città ed alla sicurezza delle comunicazioni fra loro. Nello stesso giorno fu sciolta l'antica autorità comunale sottentrando al suo posto una nuova sotto la presidenza di Verdura come pretore.

Quando Lanza potè convincersi che i garibaldini erano realmente entrati in città, che i suoi soldati non vi si sostenevano, comandò loro di ritirarsi nei loro quartieri e cominciò il bombardamento da Castellammare alle 10 antimeridiane del 27 maggio, mentre la flotta collocata a fronte della via Toledo aperse il suo fuoco a mezzodì.

Questo era principalmente diretto sul punto centrale della città, dove Garibaldi aveva installato il suo quartier generale. Il bombardamento produsse immense rovine, senza, però raggiungere il può scopo. Nelle prime 24 ore furono slanciale dal solo Castellamare 2600 bombe sulla città. Nulla ciò ostante i garibaldini si avanzarono sempre, ed alla sera del 27, in mezzo a quel tempestare, le parti della città da essi occupate erano festosamente illuminate.

Il fuoco della flotta era già cessato affatto la mattina del 28; vedremo il perché.

Al 29 tentarono i napoletani per diversi punti d’impadronirsi delle posizioni da essi perdute il 27 ed il 28; ma. non vi riuscirono.

Dal palazzo reale e dal bastione Montalto i regii vennero alle mani coi volontari siciliani; Garibaldi mandò rinforzi dei suoi cacciatori delle Alpi daprima sotto Missori, poi sotto Sirtori. Quando dico rinforzi, non si devono già intendere battaglioni o reggimenti, erano schiere di 20 e 50 uomini. La lotta ferveva quando i garibaldini si fortificarono nel convento di S. Maria Annunziata erigendo delle barricate sulla piazza circostante verso il bastione Montalto. Tutt'i tentativi fatti dai napoletani, che sboccavano dal palazzo reale onde prendere quel convento, furono resi vani dai garibaldini, che finalmente mantennero in loro potere anche quel bastione.

Tanto dal convento dell'Annunziata e dai bastione Montalto a ponente, quanto dalla cattedrale e dalla piazza circostante a levante si poteva sorvegliare e nello stesso tempo dominare il palazzo reale. Sant Anna con un distaccamento di volontari siciliani faceva la guardia nella cattedrale Prima di mezzogiorno del 29 maggio venne respinto da quella posizione, che fu però ripresa da Garibaldi stesso alla lesta d'un piccolo distaccamento di cacciatori delle Alpi raccolti in fretta.

Nella notte del 28 al 29 alcuni navigli della flotta napoletana abbandonarono il porto facendo vela verso Termini. Presero ivi a bordo due battaglioni di truppe straniere e ritornarono con esse in Palermo. Ivi erasi sparsa la voce che le truppe fossero sbarcate a Porta de' Greci. Quando i due vapori si avvicinarono alle 3 pomeridiane del giorno 29 alla città si manifestarono un allarme generale ed una grande confusione nei quartieri vicini alla Porla de Greci. Però le truppe straniere non sbarcarono colà, ma bensì a Castellamare. Lanza aveva cangiato d’idea..

Egli avea combinalo pel giorno 29 un piano per riconquistare la perduta Palermo e per far prigioniero contemporaneamente Garibaldi; le truppe movendo dal palazzo reale dovevano impadronirsi dei quartieri limitrofi; le truppe straniere fatte venire da Termini, insieme con una divisione uscita da Castellamare, dovevano riprendere la parte settentrionale della città; quello destinate ad inseguire Orsini a Corleone e poscia di la richiamate dovevano penetrare nel frattempo a Palermo dal lato orientale.

Quest'ultime truppe non vi arrivarono il 29 maggio; gli attacchi del corpo di truppe uscite dal palazzo reale sopra Montalto da una parte, e dall’altra sulla piazza della cattedrale, non ebbero alcun successo o furono resi vani, ed allora si perdette d’animo il luogotenente generale del re.

La flotta napoletana aveva, come già abbiamo fatta menzione, sospeso il suo fuoco nella mattina del 28. E ciò in seguito a trattative intavolate fra il comandante della squadra napoletana e l’ammiraglio inglese Mundv. che trovavasi pure in quella rada.

Il 30 Garibaldi ricevette uno scritto da Lanza con cui questi accennava che Mundy era disposto a ricevere a bordo del suo vascello ammiraglio l’Annibale due generali napoletani onde potessero conferire con lui, e quindi Garibaldi stesso destinasse l’ora in cui avrebbe cominciato un armistizio, qualora non avesse nulla in contrario. Garibaldi accettò le proposte di Lanza; fece cessare il fuoco fin dalle ore 14 antimeridiane su lutti i punti occupati dalle sue truppe.

Garibaldi mandò a prendere il generale napoletano Letizia ed il comandante di stazione, che dovevano trattare con lui, dal palazzo reale e condurre fino alla spiaggià del mare. Egli stesso si recò con Tùrr contemporaneamente a bordo dell'Annibale. Letizia espose formulate in sei punti le cose su cui desiderava trattare con Garibaldi e questi li accettò tutti, meno il quinto articolo, con cui si pretendeva che l’autorità comunale di Palermo rimettesse a Francesco II un umile indirizzo, in cui verrebbero esposti i bisogni della città. Allorché Garibaldi ritornò dalla conferenza alle 5 pomeridiane, dichiarò ai palermitani di aver rigettato il quinto articolo e che quindi le ostilità sarebbero riprese nel mezzogiorno del 31 maggio. Tutti corsero tosto alle barricate e occuparono di nuovo i loro posti.

Il 31 maggio di mattina Lanza a mezzo di un parlamentario richiese a Garibaldi un nuovo convegno con Letizia; Garibaldi acconsenti ed alle 10 antimeridiane comparve Letizia nel quartier generale di Garibaldi nel palazzo pretoriale. Egli propose un armistizio a tempo indeterminato, che non venne da Garibaldi accettato; si stabili soltanto un prolungamento dell’armistizio attuale per altri tre giorni.

Garibaldi annunziò ai siciliani l’armistizio, dicendo che il nemico glielo aveva proposto, e ch'egli non istimò ragionevole denegarlo; che l’inumazione dei morti, il provvedimento pei feriti, quanto insomma è reclamato dalle leggi d’umanità onora sempre il valore del soldato italiano; che per altro i feriti napoletani sono pure fratelli loro, e che onde i termini degl'impegni contratti sieno mantenuti con religione, egli pubblica gli articoli di convenzione in data di Palermo 31 maggio 1860, del seguente tenore:

«Art. 1. La sospensione delle ostilità resta prolungata per tre giorni a contare da questo momento, che sono le 12 meridiane del dì 31 maggio, al termine del quale S. E. il generale in capo spedirà un suo aiutante di campo, onde di consenso si stabilisca l’ora per riprendere le ostilità; 2 11 regio banco sarà consegnato al rappresentante Crispi segretario di Stato con analoga ricevuta, ed il distaccamento che lo custodisce andrà a Castellammare con armi e bagaglio; 3. Sarà continuato l’imbarco di tutti i feriti e famiglie non trascurando alcun mezzo per impedire qualunque sopruso; 4. Sarà libero il transito per le due parti combattenti, in tutte le ore del giorno, dando le analoghe disposizioni per mandar ciò pienamente ad effetto; 5. Sarà permesso di contraccambiare i prigionieri Mosto e Rivalsa con il primo tenente colonnello ed altro uffiziale o il capitano Grasso.

Nel giorno 1. giugno Garibaldi emanò un proclama ai siciliani in cui dice loro che quasi sempre la tempesta segue la calma e che tutti devono prepararsi alla tempesta sinché non è raggiunta la meta; che le loro condizioni migliorano ogni momento, ma che ciò non toglie di fare il dovere e di sollecitare il raggiungimento del fine ultimo; che si preparino quindi armi ed armai e si allestisca ogni mezzo di difesa ed offesa; che per le esultanze e le feste si avrà tempo abbastanza quando il paese sarà sgombro da nemici, e che chi non pensa in questi tre giorni ad un’arma è un traditore od un vigliacco.

Dopo molte pratiche che qui è inutile riferire, ed in cui Garibaldi impose ai napoletani, per la fermezza colla quale insistette sulle cose più capitali e per la bonarietà e la non curanza con cui concesse loro quello che loro più importava, si devenne finalmente, al 6 giugno, dalla parte dei regii alla seguente convenzione per lo sgombro di Palermo:

«I. Gli ammalati (dell’esercito regio) che si trovano nei due ospedali od in altri siti saranno quanto prima imbarcati

«2. Resta libero a tutto il corpo d'armata (regio) che trovasi in Palermo di lasciare la città per terra o per mare con equipaggi, materiale, artiglierie, cavalli, bagagli, famiglie e qualsiasi altra cosa appartenesse loro, compreso il materiale di Castellammare. Sua Eccellenza il luogotenente generale Lanza avrà libera la scelta di abbandonare Palermo per terra o per mare.

«3. Qualora si preferisse la via di mare, si comincierà coll’imbarcare il materiale da guerra, gli equipaggi ed una parte dei cavalli e degli altri animali. Le truppe seguiranno da ultimo.

«4. Tutte le truppe s’imbarcheranno al molo; si recheranno quindi provvisoriamente nel quartiere Quattro Venti.

«5. Il generale Garibaldi sgombrerà Castelluccio, il molo e la batteria della Lanterna senza atto di ostilità.

«6. Il generale Garibaldi consegnerà tutti gli ammalati ed i feriti (dell’esercito regio) che si trovano in suo potere.

«7. I prigionieri saranno scambiati dalle due parti in massa e non individuo per individuo.

«8. Saranno messi in libertà sette prigionieri (non militari) trattenuti in Castellamare, quando sarà finita tutta l'imbarcazione, ed il forte Castellamare sarà completamente sgombrato. Questi prigionieri saranno condotti dalla stessa guarnigione al molo ed ivi consegnati.

«Accettati questi articoli sarà soggiunto in uno addizionale, che la guarnigione partirà per la via di mare e s’imbarcherà al molo di Palermo».

6 giugno 1860.

GARIBALDI.

In seguito a' pieni poteri avuti da Sua Eccellenza il luogotenente generale Lanza, comandante in capo del regio corpo d armata:

V. BONOPANE

Colonnello e sotto capo di Stato maggiore

L. LETIZIA

Marchese di Monpellier, Generale.

Palermo fu allora interamente in mano di Garibaldi, che aveva già installato il suo quartiere generale nel palazzo regio.

La capitolazione fatta tra il generale Garibaldi ed il generale Lanza venne ratificata dal re di Napoli. Immediatamente furono spediti da quella città a Palermo molti trasporti onde imbarcarvi le truppe. A tutto il giorno 7 giugno infatti le truppe napoletane, con tutti gli onori militari, avevano sgomberato Palermo, recando seco loro le armi e tutto il materiale di guerra. I regii occupavano ancora il castello, che in quel giorno si disponevano pure ad abbandonare e che realmente in seguito abbandonarono.

In virtù della capitolazione sottoscritta a Palermo il 6 giugno tra il generale Letizia ed il generale Garibaldi, il forte di Castellamare doveva essere consegnato in cauzione all’ammiraglio inglese finché fosse pienamente seguito lo sgombero dei regii.

Questo punto venne interpretato in tutte le forme: alcuni scorsero in esso un tentativo dell'Inghilterra di ristorare in Sicilia il suo protettorato del 1812; altri ridussero i fatti ad una semplice garantia accordata alle due parti belligeranti, sostenendo che l’Inghilterra intese di rimanere fedele al principio di non intervento, poiché essa attese che la capitolazione fosse sottoscritta e perché, d altra parte, la fortezza non le fu consegnata se non in deposito provvisoriamente e fino allo sgombero delle truppe napoletane.

La risposta su questo affare data da lord Palmerston nella tornata del 12 alla Camera de comuni non ebbe tutta la precisione che si poteva desiderare, e dalla parte del lord non risultava altro che a tenore della capitolazione il forte di Castellamare doveva, sino all’intero sgombero delle truppe napoletane, essere occupato dalle truppe poste sotto gli ordini dell'ammiraglio inglese.

Quello ch’è certo si è, che quell’occupazione doveva avvenire e che l’ammiraglio Mundv l’aveva perfino annunziata al sig. Elliot ministro inglese a Napoli, come un fatto quasi compiuto; ma il comandante delle forze navali britanniche non credette dover usare del diritto che la capitolazione gli dava, sia per aver incontrato ostacoli materiali da parte di Garibaldi, sia che gli siano stati fatti considerare gli inconvenienti che potevano derivare da tal atto, una volta compiuto, e la malleveria che gli incumbeva. E si ritenne in fatto che quell'occupazione non abbia avuto effetto per l’energica opposizione di Garibaldi.

Il forte di Castellamare venne in seguito demolito per ordine del dittatore, ed il popolo vi accorse per darvi mano alla demolizione. Essendo i cannoni, che formavano l’armamento, asportati a tenore della capitolazione, e l'esercito insurrezionale non avendo sufficiente artiglieria per sostituirli, si credette preferibile il distruggere la fortificazione per tema ch’ella servisse ai napoletani, qualora tentassero un ritorno offensivo contro la capitale della Sicilia.

L’uomo ardito, dicevasi, che la mattina del 7 maggio salpava dal porto di Genova con 1800 volontarii a bordo di due bastimenti per attaccare una potenza che dispone di una flotta ragguardevole e di un esercito di almeno 120,000 uomini, approdava pochi giorni dopo, quasi senza essersi battuto, ad una costa guardata da numerosi legni da guerra, occupava una città marittima, difesa da una forte guarnigione, e con un pugno di uomini, spalleggiato soltanto da una massa di gente senza militar disciplina e male armata, inoltravasi combattendo sempre ed avanzandosi continuamente, nello spazio di due settimane, da Marsala sino a Palermo, percorrendo una strada lunga ben venti leghe, e dopo un breve combattimento lungo la via, occupava la capitale di un paese che conta due milioni e mezzo di abitanti. Come sia stato possibile che una forza di almeno 30,000 uomini di truppe regolari non abbiano trattenuto te schiere di Garibaldi, come abbia potuto succedere che le truppe reali abbiano sgomberato le loro posizioni, una dopo l'altra, e quantunque fornite a dovizia di artiglierie, non abbiano distrutto un avversario che seco conduceva soltanto una mezza dozzina di obizzi da montagna, ella è cosa altrettanto singolare e sorprendente quanto il giuoco inudito che il telegrafo napoletano si permetteva di fare nelle gazzette. Il telegrafo elettrico, dacché avvolge la terra coi suoi fili, ci ha abituato a grandi cose; però non si sapeva che vi fosse esempio di una farragine di dispacci quale fu veduta negli otto giorni scorsi circa gli avvenimenti della Sicilia, ed è senza esempio nella storia delle guerre e degli sconvolgimenti della nuova epoca che il telegrafo annunzii con tale coerenza la verità tramutata in contrario, come questa volta, e il più deciso svantaggio come un esito luminoso, senza curarsi della mentita dell'ora successiva. L’annunzio del Tartaro della Crimea pose per 48 ore tutta l’Europa nella più forte combustione, ma fu ben presto riconosciuta l'assoluta mancanza di fondamento della notizia e sintanto che durò la guerra in Oriente non apparve più una simile baia nelle colonne dei giornali. Un primo errore non avrebbe dovuto sorprendere nemmeno questa volta al principio dell’impresa di Garibaldi, ma che per parte del governo napoletano si avesse tanta finzione e per parte dei liberali fosse quasi tutta nuda verità, fu cosa che giunse a molti inaspettata e più d'un lettore di fogli non può ancora riaversi da quelle allucinazioni che gli furono preparate mediante telegrammi autentici riproducentisi nelle medesime forme. Non può ammettersi che le notizie che recavano la dispersione delle schiere di Garibaldi e la fuga dei loro condottieri, quasi nello stesso tempo in cui seguiva l'assalto più decisivo di Palermo, venissero diffuse da Napoli nel mondo per mezzo di telegrafo colla coscienza della loro falsità. Conviene credere, soggiungevasi, che il governo napoletano sia stato in forma coerente falsamente informato dai suoi rappresentanti ai di la del Faro. Il telegrafo può avere ingannalo il governo al pari degli altri, e questo può essere venuto in cognizione del vero stato delle cose soltanto quand'era ormai troppo tardi. Che poi i rappresentanti del governo di Palermo abbiano creduto alla vittoria nel momento in cui la loro causa era già per metà perduta, può essere derivato dal disprezzo con cui i canuti guerrieri guardano dall’alto gli attacchi irregolari di schiere in fretta raccolte.

Quanto valga questo ragionamento a giustificare la sconfitta toccata alle truppe regie ognuno può scorgere da sé medesimo. Nondimeno il ministero napoletano vi diede peso, ed il ministro degli esteri Carafa emanò una circolare a tutt'i rappresentanti della corte di Napoli all'estero onde giustificare con una relazione storica degli avvenimenti di Sicilia, i successi delle armate regie in confronto di Garibaldi.

Lo stesso ministro degli esteri Carafa, nella ricordata circolare, volle provare come il Piemonte agiva con mala fede dando soccorso alla spedizione di Garibaldi dopo averla rinnegata e condannata, ed a tale proposito il ministro unisce alla circolare la seguente nota del ministro Cavour:

«Il sottoscritto ha ricevuto la nota 24 andante colla quale l’illustrissimo sig. cav. Canofari inviato, ecc. ha informato che nei proclami sparsi dal generale Garibaldi in Sicilia esso assume il titolo di dittatore in nome del re di Sardegna e richiama su tal fatto la disapprovazione e la contraddizione del Governo di S. M. il re di Sardegna. Benché non possa nemmeno cader dubbio in questo proposito, il sottoscritto, d’ordine di S. M. non esita a dichiarare che il Governo del re è talmente estraneo a qualsiasi atto del generale Garibaldi, che il titolo da lui assunto è onninamente usurpato e che il real Governo di S. M. non può che formalmente disapprovarlo.

CAVOUR.»

Finalmente in quella circolare il ministro Carafa protestò contro il titolo di dittatore che Garibaldi assunse in Sicilia a nome di Vittorio Emanuele e dichiarò che il reale Governo di Napoli, sebbene per evitare uno spaventoso spargimento di sangue abbia sgombrato Palermo, non riconoscerà mai quanto fosse per operare il partito rivoluzionario in Sicilia.

Lo stesso ministro Carafa poi diresse all'ambasciatore inglese signor Elliot una nota sullo sbarco di Garibaldi a Marsala. Esso è del seguente tenore:

«Il Governo delle Due Sicilie non ebbe mai intenzione di aggravare di biasimo e di responsabilità le operazioni della marina inglese. Esso ha voluto soltanto far conoscere le circostanze nelle quali si trovarono i bastimenti della marina regia, e soprattutto dimostrare l’esattezza colla quale essi hanno adempiuto le rigorose loro istruzioni che consistevano nel rispettare più ch'era possibile le persone e le proprietà estere. I capitani di S. M. il Re hanno soltanto voluto far emergere nel loro rapporto ch'essi non avevano nulla ommesso per prevenire i danni che avrebbero potuto risentire gli uffiziali che si trovavano a terra e i bastimenti inglesi, non meno che i sudditi britannici. S. E. il ministro della Gran Brettagna ha creduto di protestare contro il modo con cui furono riferiti i fatti. Ma il vero senso del rapporto pone il Governo nell'obbligo di respingere qualunque falsa spiegazione o qualunque interpretazione sfavorevole che si volesse dare alla comunicazione storica degli avvenimenti. E però si affretta a riconoscere che gli uffiziali della marina reale di S. M. britannica non hanno preso né involontariamente, né volontariamente alcuna parte che potesse impedire o ritardare le operazioni dei bastimenti napoletani. Questa dichiarazione esplicita e leale deve dunque distruggere le osservazioni alle quali diede luogo il passo della relazione che riguarda gli officiali inglesi.»

Il re di Napoli domandò inoltre l’intervento di tutte e cinque le grandi Potenze, promettendo riforme liberali senza fine da introdursi ne’ suoi Stati.

L’Inghilterra, per la prima, respinse la proposta e dopo di essa le altre Potenze rifiutarono l’intervento Napoleone rispose che un intervento era possibile sol tanto tra due Potenze indipendenti e che con un tentativo di mediazione si verrebbe quindi a riconoscere la rivoluzione. Lord John Russell promise di raccomandare al Piemonte di non fomentare inquietudini sul continente italiano, sperando, che le altre Potenze imiterebbero questo provvedimento. .

Il 29 maggio dopo assai calorosa discussione, venne approvato dal Parlamento sardo il trattato di cessione della Savoia e di Nizza con voti 209 contro 33.


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CAPITOLO VII

Giugno

Dopo gli esposti fatti, i generali Lanza, Letizia e gli altri comandanti a Palermo sono, appena giunti a Napoli, dimessi e sottoposti ad inquisizione. Simile trattamento avevano già avuto i legni napoletani che incrociavano nelle acque di Marsala all'atto dello sbarco di Garibaldi.

Nel 10 giugno si radunò in Napoli il consiglio dei ministri, ed il ministro della guerra sottopose al Re una relazione delle operazioni in Sicilia, dalla quale faceva risultare che non fu strategia preconcetta ed ordinata quella di Garibaldi di offendere dalla parte di Corleone per poi attaccare Palermo da Mislimeri; essere stati di fatto battuti e dispersi gl'insorti dai regii; le squadre fuggire e non ritirarsi dinanzi i regii battaglioni; Orsini essere stato costretto a darsi a precipitosa fuga per non vedere distrutto il suo corpo; codesto capo di ribelli aver offerto ai contadini del luogo cinque once ciascuno se avesser voluto prestarsi a trasportare i suoi cannoni; avere i contadini rifiutato, in vista del pericolo a cui sarebbero andati incontro, e perciò Orsini essere stato costretto di abbruciare gli affusti ed inchiodare i cannoni; le truppe regie aver dato prove di valore e di disciplina; quindi, sconfortate dall'improvviso attacco di Garibaldi a Palermo, essersi disordinate alquanto, ma ricondotte a buon ordine, mediante il non mai abbastanza encomiato comando degli uffiziali indistintamente. Dopo questa prima esposizione il ministro passò a fare un quadro delle presenti condizioni di Sicilia; disse che gl'insorti non erano allora talmente organizzati in milizia regolare da poter sostenere l’urto delle regie truppe; che gli insorti del paese sono indisciplinatissimi e senza buona direzione, ma quelle stesse squadre, quando avessero il tempo di ordinarsi regolarmente, siccome mirava Garibaldi, diverrebbero formidabili; epperò conveniva agire prontamente, tanto più che non si poteva fare assegnamento sulle guardie urbane e sugli impiegati dei distretti ch'erano tuttora soggetti ai Governo. La relazione accennava inoltre ai pericoli che minacciavano il Governo nelle Calabrie.

Il ministro dell'interno disse essere a sua cognizione che in Palermo e in tutt'i luoghi della Sicilia in potere degl'insorti esisteva una grande confusione; essere sorte molte ambizioni, le quali, unitamente alle passioni fomentate da diversi agenti diplomatici e dai partiti estremi, porgerebbero al regio Governo mezzo di ricondurre le cose nel primitivo stato, come nel 1848. A questo fine però sarebbe indispensabile una misura pronta, energica, quand'anche questa dovesse condurre lo Stato ad aperta guerra col Piemonte, e questa misura sarebbe d’indurre il Governo di Vittorio Emanuele a pubblicamente disconoscere e riprovare gli atti che Garibaldi emanava in Sicilia a nome suo; imperocché erano precisamente codesti decreti, leggi ed altro che colà si promulgavano in nome di Vittorio Emanuele, che davano forza alla rivoluzione e la rendevano vittoriosa; impiegati civili, militari, esercito, ogni pubblico funzionario infine, si lasciavano adescare da quel nome; credevano trovarvi certezza d avvenire e disertavano per ciò la causa del loro legittimo sovrano.

Le truppe che stanno in Napoli ed hanno la destinazione di gittarsi sui punti minacciali, sono divise in colonne, comandale dal conte di Trani, da Nunziante, Barbalunga e Bosco. L'esercito napoletano opera un movimento generale di concentrazione su alcuni punti. La sua difesa sembra appoggiarsi a tre piazze importanti, quali sono Siracusa, Agosta. appartenente alla medesima provincia, e Messina. Codeste città ricevono rinforzi, corredo e munizioni.

Grandi sono gli apparati che si stanno facendo per mettere la capitale in istato di difesa. Si lavora a Castel Nuovo, ove si sta erigendo una nuova batteria che domina il mare. Un altro forte si sta costruendo al Carmine; la entrata del Castel dell'Uovo è innalzala ed afforzata. Gran quantità di ogni specie di materiale da guerra è stato raccolto a Sant'Elmo. I comitati realisti stanno alacremente organizzando ed armando i lazzaroni di Santa Lucia, del Basso Porto e di Ghiaia.

Nel 18 giugno si diede l’ordine alla colonna mobile di partire alla volta delle Puglie e delle Calabrie, ove bande armate cominciano a percorrere la campagna. La colonna si compone del 14.°, 15.° e 16.° cacciatori, di un battaglione di bersaglieri della guardia, del secondo reggimento dei granatieri della guardia, di parecchi squadroni di dragoni e di usseri e di varie sezioni di artiglieria. La spedizione è comandata dal generale Nunziante, insieme a) colonnello Barbalunga ed al maggiore Bosco.

L’esercito napoletano è posto sul maximum del piede di guerra e si vuole tosto ridurlo alla somma lo tale di 160,000 uomini, comprendendovi la riserva normale, che è di 33,000 uomini e che dee far parte dell’armata attiva. Un secondo esercito di riserva deve sostituire il primo. Il suo effettivo debb’essere di 40,000 uomini ed è già in piena formazione.

Mentre l’insurrezione si apparecchiava a continuare energicamente la lotta da essa appiccata, la difesa, dal canto suo, spiegava tutt i mezzi e provvedeva ad ogni bisogno. Oltre alle squadre di blocco, essa ha formato una squadra di trasporti a vapore, incaricata esclusivamente di vettotagliare le fortezze della costa meridionale e gli stabilimenti militari dello Stretto.

Il re di Napoli, in seguilo ad un lunghissimo abboccamento coi suoi zii, il conte d’Aquila e il conte di Trapani, si appigliò al partito di accordare al suo popolo istituzioni liberali, e per consiglio dicesi, dell'imperatore Napoleone, si determinò a stringere con Vittorio Emanuele un'alleanza, e addivenire almeno ad un accordo franco, solido ed efficace.

L’Atto sovrano sulla concessione degli ordini costituzionali e rappresentativi era dei seguente tenore:

«Desiderando di dare ai nostri amatissimi sudditi un attestato della nostra sovrana benevolenza, ci siamo determinati di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel Regno in armonia coi principii italiani e nazionali, in modo da garantire la sicurezza e fa prosperità in avvenire e da stringere sempre più i legami che ci uniscono ai popoli che la Provvidenza ci ha chiamato a governare.

«A quest’oggetto siamo venuti nelle seguenti determinazioni:

«1. Accordiamo una generale amnistia per tutti i reati politici fino a questo giorno.

«2. Abbiamo incaricato il commendatore Antonio Spinelli della formazione di un nuovo ministero, il quale compilerà nel più breve termine possibile gli articoli dello Statuto sulla base delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali.

«3. Sarà stabilito con S. M. il re di-Sardegna un accordo pegl'interessi comuni delle due corone in Italia.

«4. La nostra bandiera sarà d’ora innanzi fregiata dei colori nazionali italiani in tre fasce verticali, conservando sempre nel mezzo le armi della nostra dinastia.

«5. In quanto alla Sicilia, accorderemo analoghe istituzioni rappresentative che possano soddisfare i bisogni dell'isola, ed uno de' Principi della nostra real casa ne sarà il nostro Viceré.

«Portici, 25 giugno 1860.

«FRANCESCO.»

Questo proclama fu accolto con singolare indifferenza L’indomani, 26, si fecero fare numerose dimostrazioni col grido di Viva il Re! Viva la Costituzione! ma tali dimostrazioni vennero fischiate. Non un lume, non una bandiera, non una coccarda. Nel 27 si rinnovò la stessa dimostrazione governativa, ma essa provocò quella del partito liberale che gridava: Viva Vittorio Emanuele! Viva l’Italia! Viva Garibaldi! Ciò diede origine sul far della sera ad una collisione nella via Toledo tra i due partiti. Il sig. Brenier, ministro di Francia, che attraversava quella via, venne percosso nel capo, come diremo in appresso.

Nella mattina del successivo giorno 28 la popolazione si recò nei dodici commissariati di polizia della capitale.; diè di piglio a carte, archi vii, registri, mobilie, biancheria, materassi e coperte; ammucchiò il tutto dinanzi a commissariali stessi e vi diè fuoco tra gli applausi della moltitudine. In tutt’i commissariati trovaronsi armi, orologii, danaro, oggetti preziosi; il tutto fu scrupolosamente rispettato, fedelmente portato in deposito e consegnato alla Prefettura da povera gente, sbalza e appena coperta di cenci. Eccettuato un agente di polizia chiamato Aversano, il quale venne ucciso nel quartiere di Porto, ed un ispettore di polizia chiamato Peveili, che rimase ferito, la polizia non ebbe a deplorare altre perdite. Si avverta però che commissarii, ispettori e la maggior parte degli agenti di polizia eransi, all'accostarsi del pericolo, allontanati dalla capitale, e che il marchese d’Ajossa, l’antico direttore della polizia, aveva fatto domandare rifugio al barone Brenier, il quale gli accordò la facoltà di recarsi a bordo di un bastimento della squadra.

In conseguenza di questi avvenimenti, Napoli fu dichiarala in istato d'assedio. Furono collocate in tutte le vie truppe con fucili carichi. L'artiglierà occupava la piazza del ministero e il palazzo reale con miccia accesa, e il palazzo del re era ingombro di truppe.

Il comandante della piazza di Napoli, maresciallo Emanuele Caraccioli pubblicò al popolo la seguente ordinanza:

«D’ordine del ministero, in seguito dei tumulti e degli avvenimenti di ieri sera e di oggi, si dichiara lo stato d’assedio per questa capitale, a norma degli articoli delle reali ordinanze di piazza, che avranno il loro pieno vigore dal momento che ne prende conoscenza il pubblico con quest'atto.

«Dovendo io prendere, qual comandante di piazza, l'assieme del comando, onde tutelare l’ordine pubblico, vivo sicuro che tutti gli abitanti di questa nobile capitale, nella loro sublime civiltà ed energia, già dimostrata, concorreranno al bene del paese con tutti i loro mezzi e piena volontà, e quindi si atterranno all'esecuzione dei dettami della legge, a cui ogni onesto cittadino debb’essere obbediente.

«La città di Napoli splenderà di quella gloria di cui si è cinta.

«In conseguenza di ciò dispongo:

«1. È inibito ogni attruppamento superiore di dieci persone, i quali se si verificheranno, dovranno essere subito dispersi dalla forza, che preventivamente, per ben due volle, dovrà avvertirli, e non venendo corrisposto, si farà uso delle armi.

«2. É proibito l’esportazione di armi, tanto da fuoco che bianche, e coloro che saranno sorpresi in difetto a questa disposizione, saranno arrestati per essere giudicati militarmente

«3. È proibita ancora l’esportazione dei grossi bastoni, per i quali si procederà come per le armi.

«In fine, chiassi, voci sediziose ed altro da produrre tumulto verranno represse colle precitate norme, ed i promotori ed esecutori arrestati.»

Il ministro dell’interno, Federico del Re, emanò il seguente proclama:

«Visti i gravi disordini, avvenuti nella capitale nel giorno d’ieri e d'oggi, si è ai termini delle leggi in vigore, trovato indispensabile proclamare lo stato di assedio, onde aversi la possibilità di recare in atto le novelle istituzioni e comporre una guardia cittadina per tutelare l’ordine e la tranquillità pubblica. Si sono già date le più urgenti disposizioni perché dal sindaco e dagli eletti si proceda alla compilazione delle liste per ogni quartiere.

Ed il prefetto di polizia Liborio Romano, pubblicò la seguente ordinanza:

«Cittadini,

«Le novelle istituzioni, promettitrici e garanti al nostro bel paese di un lieto e prospero avvenire, non possono convenientemente radicarsi e produrre frutti, soavi se il popolo non dà prova di averle meritate, aspettando con pazienza le nuove leggi e il tempo dell’operare; rispettando l’ordine pubblico, le persone e le. proprietà; confidando nello zelo e nella sapienza dei governanti; reggendosi in somma con quell'alto senno, civile, ch'è la più solenne testimonianza della coltura delle nazioni.

«Cosi si consolida, si assicura, si accresce la pubblica e privata felicità coll'esercizio delle virtù cittadine, colla moderazione, con la obbedienza alle leggi, e non già con insane parole ed oltraggiosi schiamazzi, non colle intemperanze di. crocchi incivili, non cogl’intempestivi attruppamenti atti solo ad ispirar dubbii e poca fiducia nella buona causa. Sono queste le male arti dei malvagi, che cercano migliorare la propria sorte suscitando private passioni, intolleranza e tumultuose dimostrazioni.

«Or mentre il contegno tranquillo e dignitoso di un popolo eminentemente civile distingue ed onora l’immensa maggiorità degli abitanti di questa metropoli, sono una eccezione pur troppo dolorosa quei pochi che, per inconsiderata avventatezza, osano trascorrere a provocazioni e dimostrazioni sovversive delle leggi e della pubblica tranquillità, lesive al diritto di proprietà, turbataci dei consigli del Governo, perigliose ai novelli ordini della comune rigenerazione.

«Preposto alla tutela della pubblica sicurezza, veggo in questo momento la necessità di rivolgermi ai buoni napoletani, fatti degni del novello reggime, ed invitarli a concorrere al mantenimento dell’ordine e della tranquillità, deponendo ogni elemento di privati odii e di rancori.

«In conseguenza di questo principio e nel fine di ovviare ad ogni menomo disordine, rimangono in questo momento inibiti gli attruppamenti e le grida di ogni specie, che potrebbero ingenerare tumulti

«La forza militare prenderà cura di tutelare l'ordine pubblico, dissipando con modi urbani le riunioni tumultuose, che potessero verificarsi.

«Ho fiducia che questa esortazione voglia essere bene accolla dai buoni cittadini, i quali col. loro moderato contegno non vorranno in niun modo obbligare la forza militare ad agire, trattenendo coloro che si rendessero sordi a siffatta esortazione per quindi essere inviati alle autorità competenti.»

In esecuzione degli ordini del re la bandiera costituzionale napoletana fu innalzata nella mattina del 26 sul forte S’ Elmo e salutata da tutta l’artiglieria dei forti della città. A ciò fecero eco i navigli stranieri ancorati nella rada, di bandiera francese, inglese, russa, austriaca, spagnuola ed americana.

Il poter regio era mantenuto in Catania dal principe Eitalia, ed il generale Clary ne aveva il comando militare. Per tenere in freno il popolo, Fitalia avevagli detto che Catania sarebbe rimessa senza spargimento di sangue nelle mani dei siciliani, qualora i regii non avessero più potuto conservare Palermo. Caduta questa città in potere di Garibaldi, que’ di Catania, memori della promessa, domandarono il ritiro delle truppe regie, ma Clary occupò tosto i punti principali della città e diede ordine alle truppe di far fuoco sugli abitanti al primo alto di ostilità che facessero. A questa risposta i cittadini si sollevarono il 31 maggio, e la parte occidentale e meridionale della città, dopo breve lotta, era caduta, insieme cogli avamposti napoletani in mano dei cittadini. In piazza del Duomo, dove Clary aveva riunito il meglio delle sue truppe, ebbe luogo un aspro combattimento; i cittadini ebbero da prima qualche vantaggio, ma finalmente dovettero cedere per mancanza d'armi e di munizioni. I regii vi fecero un gran saccheggio e in parecchi siti appiccarono il fuoco.

Durante questa aggradevole occupazione dei suoi soldati, Clary fu avvertito che l’insurrezione era scoppiata in Acireale nella sua linea di marcia verso Messina, e quindi partì da Catania prima dell'imbrunire mettendo fuoco alla parte settentrionale della città per coprire la sua ritirata. Ma mentre i cittadini erano intenti a smorzare il fuoco, Ri vera entrò in città in soccorso dei regii con 2000 uomini e parecchi pezzi di artiglieria, nella notte 31 al 1. giugno. Dichiarò ch’ei non avrebbe trattato coi ribelli e ch'era piuttosto risoluto di distruggere la città da cima a fondo. E così fece. Nel mentre s'incendiavano e saccheggiavano le parti della città risparmiale da Clary, s’impossessò del porto e vi imbarcò il 3 giugno l’infanteria per Messina, mentre la cavalleria e l'artiglieria prese la strada per Acireale già dominala da Clary. Una parte della popolazione di Catania diè di piglio disperatamente alle armi il 3 giugno e prima ancora che Rivera avesse compiuto il suo imbarco avvenne una nuova carnificina in cui i cittadini e i regii soffersero perdite rilevanti. Catania era libera.

Il giorno 7 entrarono in Messina anche quelle truppe di Clary e di Rivera che avevano presa la via di terra, dopo che Clary ebbe imposte considerevoli contribuzioni ad Acireale.

Messina si mantenne apparentemente tranquilla. La notizia dell'arrivo di Garibaldi in Palermo e poscia della capitolazione di quella città gittò la più grande costernazione nelle file dei regii e mosse il comandante ad evitare misure violenti contro gli abitanti. Le stesse notizie rialzarono il coraggio e l'animo del popolo, ma la speranza che Garibaldi sarebbe ben presto arrivato anche a Messina, lo trattenne da uno scoppio prematuro, molto più che la gioventù alla alle armi era quasi tutta emigrata. La presenza di vari navigli da guerra esteri in porto contribui a tener in freno gli abitanti.

Il 13 giugno due bastimenti, l'uno piemontese e l’altro americano con volontari per la Sicilia vennero catturati nelle acque di Ponza dagli incrociatori napoletani. Fu questo l’unico fatto di tal genere durante tutta la guerra, mentre tutte le altre spedizioni, che furono numerosissime, di armati, armi e munizioni passarono inosservate dinanzi ai bastimenti napoletani.

Il 25 detto il consiglio comunale di Palermo presentò al dittatore Garibaldi un indirizzo per l’immediata annessione della Sicilia al Piemonte. Il dittatore rispose che quantunque egli stesso desiderasse l'annessione, la reputava però inutile nel momento d’allora.

Nello steso giorno il ministero napoletano dà la sua dimissione. Venne proclamata l’attivazione di una costituzione liberale, l’alleanza col Piemonte e la bandiera nazionale tricolore.

Il nuovo ministero di Napoli viene sostenuto dai seguenti individui: Commendatore D. Antonio Spinelli dei principi di Scalea, ministro segretario di Stato, presidente del consiglio de' ministri; Commendatore D. Giacomo De Martino, incaricato di affari presso la Corte pontificia, ministro segretario di Stato pegli affari esteri; Cav. D. Federico Del Re, controllore generale della Real Tesoriera, ministro segretario di Stato dell'interno e della polizia generale; Principe di Torella D. Nicola Caracciolo, ministro segretario di Stato pegli affari ecclesiastici; D. Giovanni Manna, ministro segretario di Stato delle finanze; Marchese D. Augusto La Greca, ministro segretario di Stato de' lavori pubblici; D. Gregorio Morelli, procurator generale presso la gran Corte criminale in Salerno, ministro segretario di Stato di grazia e giustizia; Maresciallo di campo D. Giosuè Ritucci, ministro segretario di Stato della guerra; Retro-ammiraglio D. Francesco Saverio Garofalo, ministro segretario di Stato della marina. Ma con posteriori decreti a Del Re fu sostituito D. Liborio Romano, già prefetto di polizia, ed a Ritucci D. Giuseppe Salvatore Pianelli.

Si emanò il seguente decreto riguardo all’amnistia pei reati politici:

«Volendo che l'amnistia generale pei reati politici da noi concessa coll’Alto sovrano del 25 giugno, abbia la sua più larga e benigna estensione, da non rimanere arrestata pel disposto delle leggi di procedura penale; visto l'articolo 687 di quelle leggi, del seguente tenore: Le amnistie complessive non comprendono le condanne passate in giudicato, sia il condannato passato al luogo della pena, o che tuttora si rimanga in carcere, o sotto altra custodia o cauzione. Le amnistie non riguardano che i giudizii pendenti, e per conseguenza impediscono soltanto l'ulteriore procedimento pei reati, che vi si comprendono, quando l'eccezione di amnistia sia stata ammessa. L' ammissione dell'incolpato all'amnistia non reca alcun pregiudizio all'azione civile nascente dal reato, e lascia salvo all'Amministrazione del registro e bollo ed alla parte civile l'azione per la ricuperazione delle spese.

«Sulla proposizione del nostro ministro segretario di Stato di grazia e giustizia; udito il Consiglio ordinario di Stato; abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

«Art. 1. È abolita l’azione penale per tutti giudicabili per l'imputazione di reato pubblico, e quindi vietato l’ulteriore procedimento contro i detenuti od assenti per fatti ulteriori al sopraddetto giorno 26 giugno.

«Art. 2. Rimane parimente condonata ogni pena principale ed accessoria, che resterebbe ad espiarsi ai condannati per simili delinquenze, non che l'esilio perpetuo dal Regno anche per coloro a quali venne inflitto in commutazione di altre pene.

«Art. 3. Favoriti dal beneficio dell'amnistia saranno pure coloro che per politica imputabilità si trovassero già condannati in contumacia. Similmente coloro che per disposizione di prevenzione, motivata da politici addebiti, uscirono dal regno, sono facoltati a rientrarvi.

«Art. 4. Quante volte i giudicabili politici dovessero rispondere alla giustizia ancora di altri reati comuni, per tali delinquenze soltanto il corso della giustizia sarà proseguito. Per i condannati similmente per reati politici e per reati comuni, ci riserbiamo ad ogni caso nominativamente determinare la minorazione di pena che vorremo ad essi accordare.

«Art. 5. Le sopradette estensioni non derogano, come per legge, a' diritti per le azioni e riparazioni civili, e per lo indennizzo delle spese giudiziarie, competenti alle sole parti private. Quelli però che competono all'Amministrazione generale dei registro e bollo, ed allo Stato, non avranno altro corso, né ulteriore esecuzione.»

Venne pure emanato un decreto per la riduzione e attenuazione delle condanne pei reati comuni. Esso è del seguente tenore:

Volendo non rendere estranea al beneficio, derivante dall'Atto sovrano del 25 giugno pegli ordini costituzionali ed amministrativi, anche la classe di coloro che espiano pene e trovansi imputati per reati comuni; sulla proposizione del nostro ministro segretario di Stato di graziale giustizia; udito il nostro Consiglio ordinario di Stato, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

«Art. 1. La pena di ferri per condannati sì nei bagni che nei presidii è diminuita di due anni. La pena di reclusione e quella di relegazione è minorata di un anno, Alla minorazione stabilita col presente articolo saranno ammessi soltanto coloro che si trovano attualmente ad espiare la pena.

Art. 2. L’azione penale per delitti, avvenuti sino a tutto il giorno d’oggi è abolita. Le pene eccezionali di prigionia, confino ed esilio correzionale, già divenute esecutive, sono diminuite di mesi sei. L'ammenda correzionale è condonata.

«Art. 3. L’azione penale, per contravvenzioni anteriori al presente giorno, è abolita. Le pene contravvenzionali di detenzione, mandalo in casa ed ammenda, già rese esecutive, sono condonate.

«Art. 4. Non sono compresi in questa Sovrana indulgenza i recidivi ed i giudicabili o condannati per furto, calunnia e falsa testimonianza, ancorché l’imputabilità sia connessa con altri reati, i quali non patirebbero esclusione.»

Con Atto sovrano 25 giugno il re incaricò il ministero della compilazione dello Statuto costituzionale, ma quel ministero propose di rimettere in vigore la Costituzione che il re Ferdinando promulgò nel 1848, anziché compilarne una nuova. I motivi trovansi nel seguente rapporto che nel 1. luglio i ministri De Martino, principe di Torella, Garofalo, Ritucci, del Re, Morelli, La Greca e Spinelli diressero a S. M. Francesco II.

«Sire,

«Col memorabile Atto sovrano del di 25 giugno la M. V. annunziava ai popoli suoi due grandi idee, cioè quella di mettere in atto nei suoi Stati il reggime costituzionale, e l’altro di entrare in accordi col re Vittorio Emanuele a maggior vantaggio delle due Corone-d’Italia.

Quelle sublimi parole che segnano, per la M. V. e pel suo Regno insieme, il principio di un’era grande e gloriosa, risonarono già in tutta Europa ed aprirono alla gioia il cuore dei suoi sudditi, che aspettano dalla virtù e dalla lealtà del loro Re il compimento della grande opera.

«Degna vasi la M. V. in pari tempo chiamare al potere i sottoscritti per comporre il suo Consiglio dei ministri, nel quale riponeva la sua fiducia per la pronta esecuzione dei suoi voleri, e lo incaricava della compilazione dello Statuto per questa parte del reame. Ma il vostro Consiglio, o Sire, nell'accingersi all’adempimento del sovrano comando, ha considerato che uno Statuto costituzionale sta nel diritto pubblico del Regno, cioè quello che venne largito dal defunto vostro genitore Ferdinando II. Il quale Statuto, se dopo qualche tempo si trovò sospeso in conseguenza di luttuosi avvenimenti, che non accade ora rammentare, non però fu mai abrogato, come in qualche altro Stato europeo è avvenuto.

Che però sembra ai sottoscritti esser semplice e logica la idea che quello Statuto appunto sia richiamato nel suo pieno vigore.

«Così facendo la M. V. trova bella e fatta l’opera, della quale vuole che questi suoi Stati godano i benefici effetti; lo straniero ammirerà la sapienza della mente sovrana in questo alto provvedimento, ed i vostri popoli, senza attendere una novella compilazione, con assai maggior sollecitudine sapranno quali sono le loro franchigie, e riceveranno con animo riconoscente questo pegno novello del Re per l’inaugurazione del regno costituzionale.»

Il ministro di Francia Brenier. giusta la sua consuetudine di ogni sera, erasi recato in carrozza alla passeggiata di Chiaia e ritornando da Posillipo nel 27 giugno verso le 8 e mezzo trovavasi nella via di Toledo, dove c'erano molte carrozze e considerevole numero di gente a piedi. Alcune grida Viva!Italia, Viva Vittorio Emanuele, Viva la Francia, Viva Garibaldi, si fecero udire da varii crocchi. In ogni punto per dove passava il ministro di Francia era salutato colla più grande sollecitudine. Presso al palazzo del Nunzio ed alla via Corrazzieri, la moltitudine ingombrava la via ed i marciapiedi e le carrozze avanzavano assai lentamente.

In quel punto, due uomini armati di grossi bastoni impiombati, uno a destra, l'altro a sinistra della carozza dei barone Brenier, lo percossero dandogli due colpi violenti sul capo e aprendogli una piaga sull'osso frontale.

La forza del colpo aveva rovesciato il barone Brenier, il quale cadde per un istante sui cuscini della carrozza. Il suo servo, in quel punto, riceveva due bastonate sul capo e rimaneva mezzo svenuto. Gli autori di quell'attentato sparvero in fretta tra la folla.

Il barone Brenier rientrò nella sua abitazione colle vesti e colla camicia insanguinate. Immediatamente si fece chiamare presso di lui, dal bordo della Bretagne, il primo chirurgo, il quale chiuse la ferita, dopo aver lasciato colare buona copia di sangue da essa. Il barone si ristabilì perfettamente in pochi giorni.

Dacché la voce di codesto fatto si diffuse per la città, il palazzo del ministro di Francia fu ingombro di visite, che accorsero a manifestare al ministro il loro cordoglio per l'avvenuto. Il principe d’Ischitella, luogotenente generale dell’esercito, fu il primo a recarsi presso il barone Brenier. L’ammiraglio Le Barbier de Tinan rimase lungo tempo coll’ambasciatore, come pure il generale conte d’Aragon inviato a nome del conte di Trapani. Il conte d’Aquila andò due volte, De Martino ministro degli affari esterni, il duca di Sangro, aiutante di campo del re ed il conte di Siracusa si recarono pure presso il barone, e tutti i membri del corpo diplomatico, tutt’i personaggi dell'alta società, sì stranieri che nazionali andarono a farsi iscrivere all'Ambasciata.

Senza la promulgazione dello stato d'assedio, il quale vietava i radunamenti e senza il desiderio manifestato dal barone Brenier, una dimostrazione imponente sarebbesi recata all’Ambasciata di Francia.

Appena fu noto l'alto, di cui era vittima il barone Brenier, un vascello inglese, un vascello francese, una fregata spagnuola ed una fregata austriaca abbandonarono il loro ancoraggio e vennero ad ormeggiarsi presso la riviera di Chiaramonte.

Gli ufficiali della marina napoletana percorsero le strade per imporre alla plebaglia, e uno di essi, capitano di fregata, arrestò una persona che proferiva insolenti parole contro il barone Brenier ((1)), accusandolo di esser lui la cagione del tradimento che il re aveva commessa.

Parecchie persone si recarono alla Legazione di Francia dando tutt’i connotati degl'individui che avevano commesso l’attentato contro il barone Brenier, e questi connotati si accordavano in ogni deposizione. Gli autori del fatto furono quindi riconosciuti nel famigerato Campagna e nel Manetta, ed immediatamente fu spedito l’ordine di arrestarli.

Il comandante della squadra francese vice-ammiraglio Romano Desfossés era munito di poteri estesissimi e si disponeva ad operare uno sbarco per la protezione degl'interessi affidati alla sua custodia, quando un più esatto giudizio sulla situazione lo indusse a non avere per anco ricorso ad un provvedimento si grave.

Dall'Anzianato della città di Napoli venne fatto il seguente indirizzo al barone Brenier:

«Il popolo napoletano, fortemente commosso ed addolorato pel luttuoso avvenimento che ha colpito l'Eccellenza Vostra, sente il dovere di altamente protestare contro di esso, e far testimonio all'Eccellenza Vostra ed all'augusto personaggio che rappresenta, come quell’attentato non sia avvenuto che per colpa di que’ tristi, che, dopo di avere per si lungo tempo oppresso e straziato questo nostro paese, con mala intenzione han voluto appigliarsi ad un ultimo mezzo ed infame. Il popolo napoletano, che ci diè carico di rappresentarlo, sente però tutto il debito di gratitudine verso l'Eccellenza Vostra che si è tanto adoperala pe’ suoi vantaggi, non che verso la Francia ed il suo augusto Imperatore, il quale, in uno col Re Vittorio Emanuele, dava inizio sui campi di battaglia al risorgimento d’Italia; ed è pronto il popolo stesso a versare tutto il suo sangue per iscagionarsi di ogni sospetto di cooperazione in un fatto che solo varrebbe a disonorarlo.»L’indirizzo è firmato da tre anziani per ogni quartiere.

Il barone Brenier rispose a quest'indirizzo presentatogli dall'Anzianato a nome della popolazione di Napoli colle seguenti parole:

«Signori,

«Sono profondamente grato all’onore che mi avete fatto, rimettendomi l’indirizzo. Nulla riesce più commovente dell'espressione del sentimento popolare, commosso all'aspetto di una bassezza e di un’ingiustizia Io non aveva bisogno di questo attestato d’interesse per essere convinto che la popolazione di Napoli rispetta il rappresentante di un Sovrano, che ha compite cose memorabili per l'interesse d'Italia e per credere ch’ella riprova quello che mi è accaduto la sera del 27.

«Conserverò quest’indirizzo come titolo d’onor personale e di mia famiglia, e mi chiamo fortunato, signori, dopo aver passati molti anni della mia vita in Italia, d essere trattato con tanta distinzione da una delle più belle e migliori città di questo nobile paese.

«Compiacetevi aggradire la nuova protesta de' miei sentimenti di gratitudine e di affetto. — BRENIER.»


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CAPITOLO VIII

Luglio

In seguito al rapporto dei ministri venne emanato in Napoli il seguente decreto:

«Visto il nostro Allo sovrano 25 giugno, e visto il rapporto dei nostri ministri segretarii di Stato, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: Art. 1. La Costituzione del 10 febbraio 1848 concessa dal nostro angusto genitore, è richiamata in vigore; Ari. 2. Le di sposizioni contenute nell'articolo 88 della Costituzione relativa allo Stato discusso ed alle antiche facoltà del Governo per provvedere con espedienti straordinarii ai complicati ed urgentissimi bisogni dello Stato, restano in pieno vigore, finché non vi sarà provveduto dal Parlamento nei modi costituzionali.»

Con altro decreto, pure del primo luglio, il Re convocò il Parlamento nazionale. Esso è del seguente tenore:

«Visto il decreto del 1. luglio col quale si richiama in vigore la Costituzione del 10 febbraio 1848; volendo al più presto circondarci de' lumi e dello appoggio della nazione rappresentata legittimamente al Parlamento, onde rendere un fatto, con la propagazione delle leggi organiche, i diritti garantiti dalla Costituzione; sulla proposizione del nostro Consiglio de' ministri, abbiamo ritenuto di decretare e decretiamo quanto segue: Art. 1. Il Parlamento nazionale sarà convocato in Napoli pel dì 10 settembre 1860; Art. 2. I collegi elettorali sono convocati per procedere alla elezione dei deputati nel di 19 agosto; Art 3. In mancanza di una legge elettorale definitiva le elezioni saranno eseguite a norma della legge centrale provvisoria del 29 febbraio 1848 e del decreto 24 maggio dello stesso anno.»

Alla stampa il Re provvide nel seguente modo con decreto dello stesso giorno:

«Sulla proposizione dei nostri ministri segretarii di Stato di grazia e giustizia, dell'interno e dell'istruzione pubblica; udito il parere de' nostri ministri segretarii di Stato; volendo provvedere all'esercizio del diritto della stampa, evitando gl'inconvenienti che deriverebbero dalla mancanza di norme atte a reprimerne l’abuso; abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: Art t. Finché non verrà sanzionata e pubblicata la legge definitiva intorno all’esercizio del diritto di stampa, saranno provvisoriamente osservate le disposizioni contenute nei decreti del 23 maggio 1848, 27 marzo 1849 e 6 novembre 1849.»

Parimente col seguente decreto il Re istituì una Commissione pegli oggetti menzionati nello stesso decreto:

«Visti i decreti di quest'istessa data per l'attuazione della Costituzione, e per la convocazione del Parlamento; volendo provvedere anticipatamente alla preparazione delle leggi organiche costituzionali, che la legislatura dovrà votare; sulla proposizione, del nostro Consiglio de' ministri, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: Art. 1. È istituita una Commissione di quattro componenti, alla dipendenza del ministro dell’interno, e da esso preseduta, per preparare i progetti a) della legge elettorale; b) della legge sulla guardia nazionale; c) della legge sull'organizzazione amministrativa; d) della legge sul Consiglio di Stato; e) della legge sulla responsabilità ministeriale. Art. 2. Simile Commissione è istituita, alla dipendenza del ministro dell'istruzione pubblica, e da esso preseduta, per preparare il progetto della legge sulla stampa. Art. 3. I rispettivi ministri sono autorizzati di scegliere i componenti della suddetta Commissione, i quali presteranno il loro uffizio gratuitamente.»

La Costituzione del 1848 richiamata ora a Napoli in vigore ha per base la sovranità reale e dichiara che la religione cattolica è esclusiva e che non è tolleralo l’esercizio di alcun altro cullo; il potere esecutivo appartiene al. Re, il legislativo si riassume in una Camera dei pari vitalizia, ed in un’altra dei deputali, i cui elettori ed eleggibili devono avere venticinque anni, e possedere un reddito determinalo dalla legge elettorale. Sono elettivi inoltre i membri delle Accademie, i professori titolari e laureati dell’università, i decurioni, i sindaci, e gli aggiunti dei Comuni, i pubblici funzionarli in ritiro; godenti una pensione di 425 ducati e gli ufficiali superiori in ritiro. La stampa è soggetta ad una legge repressiva ed alla censura per le opere riguardanti specialmente le materie religiose. Il Re è il capo supremo dello Stato; la sua persona è sacra, inviolabile ed irresponsabile; egli comanda le forze di terra e di mare e nomina a tutti gl'impieghi; può sciogliere la Camera dei deputali, ma deve convocarne un’altra entro tre mesi, e la sanzione delle leggi è a lui riserbata. I ministri sono responsabili; hanno libero ingresso nelle due Camere e possono farne parte; possono essere posti in istato di accusa dalla Camera dei deputati ed essere giudicati da quella dei pari.

Col decreto dell'8 luglio fu stabilito che lutti gli impiegati di qualunque grado e qualità non potranno esercitare le funzioni inerenti alle rispettive loro cariche ed impieghi se non avranno prestato il giuramento di fedeltà ed obbedienza al Re ed alla Costituzione dello stato giusta la seguente formula: «Io N. N. prometto e giuro innanzi a Dio fedeltà ed obbedienza a Francesco II, Re del Regno delle Due Sicilie ed esatta obbedienza ai suoi ordini; prometto e giuro di compiere col massimo zelo e con la massima probità ed onoratezza le funzioni a me affidate; prometto e giuro di osservare e di far osservare la Costituzione del 10 febbraio 1848, richiamata in vigore da S. M. il Re N. S. con reale decreto 1. luglio 1860; prometto e giuro di osservare e di far osservare le leggi, i decreti ed i regolamenti attualmente in vigore, e quelli che saranno sanzionali e pubblicati in avvenire nei termini della Costituzione medesima; prometto e giuro di non volere appartenere ora né mai a qualsivoglia associazione segreta. Cosi Dio mi aiuti.»

Lo stesso giuramento debb’essere prestato da tutti gli impiegati militari, ma per essi alla' formola esposta più sopra si aggiunge anche la seguente: «Prometto e giuro di difendere anche con la effusione di tutto il mio sangue le bandiere (o gli stendardi) che S. M. si è degnata di affidarmi.»

In seguito all’improvviso mutamento della politica in Napoli, l’incaricato del granduca di Toscana, che ancora dimorava in quella capitale, dovette abbassare lo stemma granducale il 1. luglio.

Il 7 dello stesso mese il generale Nunziante che finora era stato partigiano dell’assolutismo ed attaccato alla dinastia di Napoli, diede la sua dimissione e passò quindi in Piemonte, dove spiegò con una dichiarazione i motivi della sua conversione politica.

Nello stesso giorno La Farina venne arrestato ed espulso da Palermo. Il motivo di tale misura derivò dalle brighe che egli adoperava per ottenere nel più ristretto termine la dichiarazione di annessione al Piemonte. Garibaldi, sempre proclamando l’annessione ed agendo a nome di Vittorio Emanuele, non voleva però che questa avesse luogo tanto presto, perché in tal caso avrebbe perduto la libertà d’azione ed i mezzi di cui disponeva. Egli dichiarò di voler prima compire il suo programma, la conquista cioè e l’unificazione di tutta l’Italia. In seguito allo sfratto di La Farina, il ministero siciliano diede la sua dimissione.

L’impartita Costituzione non valse a cangiare ad un tratto la situazione di Napoli. Continuava la diffidenza da parte della Corte e del popolo e si appalesava ad ogni occasione. I periodici napoletani si lamentavano amaramente che già da lungo tempo i ricchi ed i benestanti si recassero in tutta fretta alla campagna quasi che stasse un nuovo Attila alle porte. Uomini, che per la loro posizione o il loro credito avrebbero dovuto col proprio contegno rassicurare i pusillanimi ed i deboli ed infondere loro coraggio, facevano in ogni occasione conoscere l’angustia ed il timore da cui erano compresi. La plebe approfittava di un istante di movimento più liberamente concesso per soddisfare al propria sete di vendetta facilmente accesa. Da ciò derivavano le giornaliere persecuzioni degl'impiegati di polizia licenziati. D’altra parte, veniva intanto posta in ispavento la popolazione concentrando le truppe nell'interno ed intorno alla città. Venivano in fatti richiamate in città le guarnigioni di S. Maria, Caserta, Nola, Capua e via discorrendo, e si completavano ed armavano i forti che circondano la città. Ciò soffocava sino all'ultima scintilla la fiducia e si diceva che la libertà durerà sinché quelle mura rimanevano incomplete. Il Ministero divenne ben presto vacillante e si nominarono quali nuovi ministri Baldacchini, Ferrigni e Ventimiglia. E si deve ascrivere alla credenza generalmente diffusa sulla instabilità della presente situazione che il marchese Camillo di Bella, di principii assai liberali, abbia rifiutato il posto di ambasciatore a Parigi, che gli era stato offerto in sostituzione del marchese Antonini. Il marchese di Bella abbandonava Napoli in marzo del presente anno, per andare in esilio e d’allora in poi viveva in Toscana.

Una controrivoluzione militare gittò, nella domenica 14 luglio, la desolazione e lo sgomento nella capitale, nei dintorni e nelle provincie, quasi nello stesso tempo. (Immettendo i ragguagli su ciò ch'è accaduto al di fuori, ci limiteremo a quello ch'è avvenuto in Napoli.

La reazione, che da diversi giorni era minacciosa, tentò di aprirsi una via nel suindicato giorno alle 4 pomeridiane. Tutto pareva organizzato a quanto risultava dalle informazioni che si poterono raccogliere, e se il tentativo non ha pigliato larghe e serie dimensioni fu tutto dovuto alla prudenza dei cittadini contro quelli, i quali volevano pescare nel torbido e trovare successo nei loro inconsiderati tentativi.

A Porta Capuana, un popolano si brigava con una di quelle donne. Un soldato de' granatieri si fece innanzi minaccioso, e, facendo le viste di proteggere la donna, cominciò a percuotere quell'uomo colla sciabola. Sembra che questo fosse il segnale convenuto, perché alquante centinaia di soldati si raccogliessero tosto a correre le strade, obbligando i pacifici cittadini a gridare con essi Viva il Re.

Di la la massa reazionaria si partì in due e parte si avviò per la strada che mette a Foria, parte per la strada Porto, sempre percotendo, togliendo bastoni e fino gli ombrelli, e facendo fuggire spaventata la gente ch'era nelle strade. La banda, che prese la strada Furia, per le Fosse del Grano, scese per Monte Oliveto, ed al Largo del Castello si riunì a quella, che sboccò da Porto. Di là, sempre manomettendo i cittadini, passarono a Toledo ove rinnovarono le grida, costringendo colle minacce a ripeterle. Lungo Toledo fracassarono tutte le lastre.

Gli uffiziali, che incontravano per via, erano costretti anch'essi a gridare Viva il Re, mentre a perdita di fiato vanamente eglino tentavano di ridurre quei soldati a riporre le armi e ritirarsi.

Alla strada Fiorentini, ove si era gittata quella massa, furono accerchiati dalla cavalleria ed arrestati.

Lo stesso movimento avvenne contemporaneamente' in buona parte dei quartieri di Napoli ed anche in diverse città vicine.

All’ospitale de' Pellegrini furono portati una cinquantina di feriti, alcuni de' quali gravemente. Varii marinai inglesi e francesi riportarono ferite e due anche morirono.

Nel domani tutte le botteghe di Toledo restarono chiuse e la popolazione è rimasta sgomentata.

Verso mezzodì si pubblicò un’ordinanza del ministro dell’interno, Liborio Romano, che ha rassicurato alquanto gli animi. Il Re visitò i quartieri, esortando i soldati a mantenersi ne’ limiti della loro disciplina, minacciandoli di rigori nel caso di nuovi disordini.

Nel 15 luglio il Re emanò i seguenti proclami:

Proclama di S. M. a questi suoi Regi Stati

«Dopo la pubblicazione del nostro Atto Sovrano del 25 giugno ultimo, col quale concedemmo ai nostri popoli uno Statuto sopra basi nazionali ed italiane, insieme ad un’amnistia generale per lutti i reati politici, ed annunziammo l’idea di entrare in accordo col Re Vittorio Emanuele per l’interesse delle due Corone in Italia, e dopo il nostro Atto successivo del di 4. di questo mese, col quale richiamammo in vigore per questa parte de' nostri Stati lo Statuto promulgato nel dì 10 febbraio 1848, nobile e grande è stato il senno civile di tutte queste nostre Provincie continentali e di questa nostra grande Metropoli.

«Hanno esse mostrato a tutta la colta Europa che questi nostri Domini non eran da meno di tutti gli altri Stati italiani, i quali sono dianzi pervenuti a rigenerazione politica ed a unità di principii. Che se questi Stati, dopo tanti secoli, nel corso dei quali il risorgimento d’Italia si ebbe per delirio di mente inferma, vincendo ostacoli di ogni maniera, seppero elevarsi a tanta gloria, ciò non avvenne, altrimenti se non per la piena sommessione, ch'ebbero all'indirizzo dato da valenti uomini ai grandi interessi nazionali ed alla gloria della penisola.

«Né inferiori agli altri Italiani si son dati a divedere i popoli di questi reali Stati, poiché, lungi dall’abbandonarsi in questi gravi momenti agli errori, che spesso riescono fatali alla libertà e macchiano la storia delle nazioni, attendono invece, nella calma più ammirevole, da noi e dal Governo dello Stato, l'attuazione della grande opera loro promessa.

«La nostra aspettativa dunque non fu delusa, e noi, nel rendere grazie a' nostri popoli di un sì nobile e glorioso contegno, li vediamo perciò altamente, rincorati menare a compimento con la maggiore perseveranza il gran disegno, donde emanar debbono la piena felicità, la grandezza e la gloria di questi popoli colti e gentili, che la Provvidenza affidò alle nostre cure.

«Ed assai più accresce la gioia del nostro reale animo il pensiero che, chiamati dagli imperscrutabili decreti della Provvidenza a reggere le Due Sicilie in età tanto giovanile, ci troviamo assai di buon’ora iniziati in quel sistema rappresentativo, il. quale forma ormai il diritto pubblico di tanti Stati inciviliti.

«Così che, inoltrandoci nella difficile arte del governare, questa ci verrà come spianata e fatta più facile da' lumi di una stampa saggia e veramente, nazionale, e dal concorso di tutti gli uomini di alto senno politico e civile, che sederanno nelle camere legislative.

«Abituati cosi noi ben presto alla pratica del sistema novellamente inauguralo, abbiamo piena fede che, col divino aiuto, queste belle Provincie continentali, che formano una parte de' nostri Stati, portando a compi mento gli alti destini della grande nazione italiana, sapranno aggiungere e conseguire in breve tempo quella potenza, grandezza e prosperità, che formano il maggior voto nel nostro real animo.»

Proclama di S. M. all'esercito ed all'armata

«Di nostra piena, libera e spontanea volontà, abbiamo conceduto ordini costituzionali e rappresentativi al Reame, in armonia co’ progressi della civiltà e coi bisogni dei popoli che la Provvidenza ha alle nostre cure affidati.

«Voi entrerete lealmente in questa nobile e gloriosa Via e vi unirete al patto costituzionale, che ci lega in una sola famiglia; voi sarete campioni di giustizia, di umanità, di disciplina, d’amor di patria; voi, la speranza de' vostri concittadini, sarete saldo sostegno del trono e delle nuove istituzioni e strumento della grandezza e prosperità nazionale.

«Io ricordo con tenerezza e gratitudine di qual fedeltà ed ubbidienza siete stati fin oggi capaci, ed abbiatetene le più vive grazie, come segno della mia soddisfazione. Niuno più del vostro Sovrano può rendere le debite lodi ai vostri meriti, che i deplorabili trascorsi di taluni pochi, traviati per ignoranza o per maligne e stolte insinuazioni, non possono denigrare. Ora conviene, che, onorevoli per dignità e moderazione, facciale del vostro braccio sostegno al nuovo ordine di cose e ad una nuova politica ferma e conciliante, la quale valga a dar fiducia alle popolazioni e a dileguare le apprensioni della diplomazia di vedere sconvolto l’equilibrio politico dell'Europa; ed il vostro passato mi è garante dell'avvenire.

«Soldati, novelle sorti ci chiamano a rialzare la dignità del nostro paese italiano; siate alteri di questo mandalo. Il popolo che ha fatto redivivere per due volte la civiltà d’Europa, non verrà meno nel difficile arringo di riconquistare colla sua indipendenza quell’alto primato che la sua posizione geografica, la forza delle armi e la storia gli consentono; di questo popolo voi siete gran parte, e sostener dovete oggimai la gloria e la grandezza.»

Medici estese le sue ricognizioni, senza essere impedito, fino sulle alture di Gesso, nel palazzo della costa occidentale sopra le montagne nettuniche verso Messina. Il 10 luglio l’avanguardia delle sue truppe arrivò a Barcellona, ed avendo sempre in vista un colpo sopra di essa, credette di doversi limitare per allora alla difesa di quella città. Egli scelse a tale effetto la posizione sul ruscello di Meri col centro nel villaggio di questo nome. Nel 15 luglio concentrò colà le sue truppe.

Santa Lucia formava l’ala destra della posizione con un posto avanzato verso S. Filippo fra il ruscello Nocito e quello di Meri; di la il terreno si curvava verso quest'ultimo e ne seguiva il corso fino al suo sbocco in mare. Quella posizione aveva una lunghezza di 5 miglia italiane e lutto ciò che Medici aveva asua disposizione poteva ascendere a 2500 uomini sotto le armi. Sul ponte di Meri erano stati collocati due piccoli cannoni trovati in Barcellona e che battevano la strada principale da Meri a S. Pietro.

Il colonnello Bosco lasciò il 14 luglio Messina colla sua brigata di 4 battaglioni, uno squadrone e 4 pezzi d’artiglieria, totale 3500 uomini circa. Egli non agiva in pieno accordo con Clary, che ne era il comandante, ma bensì d’intelligenza colla corte di Napoli: si era vantato di annientare tutta la colonna di Medici e di voler ritornare in quella città, ormai divenuta la capitale dei regii, sullo stesso cavallo che gli emigrati di Messina avevano regalato a Medici. Avendo lasciato a Gesso un battaglione a custodia di quel passo importante sulle montagne, marciò col resto delle sue truppe nello stesso giorno a Spadafora, e di la il giorno 15 a Milazzo.

Al suo avanzarsi, avendo la guarnigione di Milazzo spinto un distaccamento fino ai posti avanzati di Medici, ne successe una leggiera scaramuccia.

Bosco prese la sua posizione principale nei sobborghi a mezzodì della radice della penisola di Milazzo, coll’ala sinistra ad Archi; la città ed il forte servivano di posizioni di riserva, e furono come tali disposte

Nel giorno 17 cominciarono seriamente le ostilità. Bosco mandò un battaglione contro l’estrema destra, un altro contro l’estrema sinistra di Medici. Su quei due punti si venne la mattina assai di buona ora alle mani, specialmente sul primo, dove gl'Italiani erano comandati dal maggior Simonetta. I regii si ritirarono nelle loro posizioni. Medici prevedendo un nuovo attacco si avanzò colla sua ala destra rinforzata fino a S. Filippo con un distaccamento di fianco presso Corriola sul ruscello Nocito e fece costruire una barricala sulla strada principale da Meri a Milazzo la dove essa taglia la strada che da S. Filippo va a S. Marina.

Buscò rinnovò nel dopo pranzo l’attacco con forze raddoppiate, e l’attacco principale veniva da Archi verso Corriola; l’ala destra dei regii stava sulla strada principale da Milazzo a Meri, ma sul principio si trattenne indietro. I regii passarono colla loro ala sinistra il ruscello Nocito presso Corriola, ma vi trovarono una calda accoglienza per parte dell'ala destra di Medici. Questa mise i regii in pericolo di esser tagliati fuori dal grosso delle loro truppe. Per ovviare a questo pericolo si avanzò anche l’ala destra di Bosco ed allora si devenne ad un vivo combattimento sulla barricata recentemente edificata, combattimento che da principio pareva inclinare a svantaggio dei garibaldini, ma ben presto venne ristabilito in favore di questi ultimi essendosi avanzato un battaglione della riserva Medici. Sull’imbrunire cessò il combattimento.

Amendue i comandanti si separarono da quel combattimento, sebbene insignificante, colla convinzione di esser troppo deboli e di aver bisogno di rinforzi.

Bosco, che aveva assunto anche il comando del forte Milazzo in luogo del comandante Torre Bruna, ritirò le sue truppe nella posizione già preparata a mezzodì dalla radice della penisola e richiese rinforzi a Clary. Questi non mandò che un battaglione a Gesso, che sottentrò a quello lasciatovi da Bosco, il quale potè cosi marciare verso Milazzo, dove arrivò sulla sera del 18 luglio. Con questo battaglione e detratte le perdite fino allora sofferte, d’altronde ben leggiere, Bosco aveva ormai a sua disposizione 4600 uomini.

Medici telegrafò a Palermo chiedendo nuove truppe a Garibaldi. La spedizione del colonnello Cosenz si uni a lui nel 18 giugno. Bosco che s’immaginava esser Medici più forte che non lo era in fatto, voleva mantenersi sulla difensiva e precisamente un miglio a mezzogiorno di Milazzo, posizione designata dai più avanza li edifizii dei sobborghi e dai cannetti paludosi.

Medici era in evidente pericolo se i napoletani avessero fatto uno sforzo energico. E d’altronde c’ era a fare qualche cosa di decisivo se Garibaldi avesse potuto agire con robustezza. Sin dalla fine di maggio riposavano le armi; cento intriganti avevano frattanto ordito le loro trame in tutt'i campi, torinesi, napoletani e palermitani. Garibaldi aveva bisogno di dimostrare ancora una volta che quello era il tempo ùn cui le armi soltanto potevano decidere degli avvenimenti.

Egli s’imbarcò a Palermo il 18 luglio con circa 1000 uomini di diversi corpi, sbarcò a Patti il 19 e precorse la sua gente nel quartier generale di Medici. Ivi fissò il giorno 20 luglio per ùn attacco generale su Milazzo. Pubblicò il seguente ordine del giorno:

«La brigata Medici si è resa benemerita della patria. I suoi soldati attaccati da forze preponderanti hanno provato di nuovo quanto valgono le baionette dei figli della libertà. I brigadieri Cosenz, Medici, Carini, Bixio vengono promossi a generali maggiori, il colonnello Eber a brigadiere. L’armata nazionale di Sicilia consisterà per ora di quattro divisioni d’infanteria della prima categoria, d'una brigata d’artiglieria e d’una brigata di cavalleria. Le divisioni saranno contate cominciando dalla I5. (a) comandata dal generale Tiìrr. Riguardo alla formazione della brigata mi, verranno tosto prodotte dai generali maggiori le proposizioni necessarie per la nomina degli ufficiali comandanti. Per l’avvenire le nostre truppe assumeranno il nome di esercito meridionale. Il segretario generale del dipartimento della guerra è incaricato dell’esecuzione. del presente decreto.

Alle 5 del mattino del 20 luglio tutto il campo di Garibaldi era già sotto l’armi; Malenchini a sinistra, Medici con Simonetta a destra, si misero in movimento verso S. Pietro. Appena oltrepassata l’eminenza di quel sito Malenchini trovò da prima una seria e regolare resistenza nelle case e nelle ville lungo la spiaggia di S. Papino. Alle 7 della mattina cominciò ivi il fuoco. Dopo aver durato un certo tempo senza un importante risultato, i napoletani fecero avanzare l’artiglieria, e protetti dalla medesima, disposero la loro fanteria in colonne, vi aggiunsero alquanta cavalleria e procedettero all’attacco. I giovani soldati di Malenchini non resistettero e molto meno all’urto della cavalleria. Essi cedettero e sebbene Malenchini ne raccogliesse qua e la qualche distaccamento per ricondurli al nemico, e sebbene gli riuscisse quà e la di avanzare di nuovo, il risultato generale era però quello di perdere a poco a poco terreno.

Garibaldi comandò a Medici di tenersi a destra e di attaccare i molini del ruscello di Nocito e di la spingersi direttamente sopra Milazzo. Prese pel momento con sé i bersaglieri genovesi soltanto e si volse a sinistra verso gli edifici e le cascine della spiaggia di San Papino; ed ordinò a Cosenz di venire in appoggio colla riserva tosto che fosse arrivato a Meri. Si precipitò solo coi bersaglieri genovesi e le sue poche guide sulle posizioni dei napoletani, che dopo aver respinto Malenchini mettevano in ordine la loro cavalleria per inseguirlo. La lotta fu corpo a corpo, e Garibaldi fu salvato dall’essere ucciso o fatto prigioniero pel valore di Missori capitano delle guide. Cosi fu impedito l’attacco della cavalleria napoletana.

Malenchini procedette ad un nuovo attacco, ma anche questa volta trovò grandi difficoltà, specialmente per mancanza di un punto eminente su cui osservare quella posizione tutta ristretta e rinserrata da muri di casamenti, siepi, cannetti e per mancanza di strade, per cui i garibaldini erano ridotti fra angusti viottoli. Il nemico intanto faceva grandinar sui garibaldini le sue palle stando al coperto dietro un’imboscata.

Garibaldi, desiderando di poter gettare un colpo d’occhio sulla posizione del nemico onde guadagnare un punto d’appoggio per la direzione dell’attacco, si allontanò. Appena ritornato spinse innanzi l’ala sinistra ad un nuovo attacco energico. I cacciatori di Bosco, si ritiravano nelle posizioni di riserva ed in città, dietro le mura, e le case e le barricate erette in gran parte sulla sabbia colle barche peschereccie ivi ritirate. L’ala sinistra penetrò allora senza serii ostacoli pel ponte sulla lingua di terra ed unita coll'ala destra procedette all'attacco della città. La resistenza dei napoletani non fu seria; essi sgombravano anzi la posizione di riserva in città per ritirare tutte le truppe nel forte e lasciar cosi libero il campo ai cannoni del medesimo.

I garibaldini penetrarono in città bersagliati dai cannoni del forte. Il Tukery, vapore da guerra comperalo in Inghilterra dal governo insurrezionale siciliano ricevette l’ordine di far vela pel capo di Milazzo nell'ansa orientale e gettar l’ancora in quel porto. Questo vapore aveva sbarcalo gente della riserva a nord del forte, la quale erasi impadronita delle torri sgombrate dal nemico.

Garibaldi perdette nel combattimento di Milazzo un cavallo e riportò una leggiera contusione; Missori e Medici ebbero i loro cavalli uccisi sotto di loro, e Cosenz fu leggermente ferito nel collo.

Il 21 luglio giunse in rada di Milazzo un pachebotto, il cui comandante doveva porsi a disposizione del colonnello Bosco, comandante della piazza. Con sua grande sorpresa, l'ufficiale di marina trovò, essendosi recato a terra, la città occupata dai garibaldini, e udì nel medesimo istante che Bosco erasi rifugiato colle sue truppe nella cittadella. Geloso di adempiere la sua missione, ei si recò presso Garibaldi, e gli chiese licenza di abboccarsi col colonnello, la qual cosa gli venne accordata.

Egli parti scortalo da un uffiziale dei volontari e da un trombetta con bandiera bianca. A qualche distanza della cittadella fu sonata la tromba e fatta sventolar la bandiera, in segno di parlamentario; tosto due uffiziali napoletani uscirono dal forte, e dopo alcune spiegazioni preliminari sull'oggetto della visita, bendarono gli occhi al comandante, lo condussero seco, chiusero le porte alle sue spalle e non gli tolsero la benda se non dopo ch'egli fu entralo nella stanza di Bosco.

Dopo aver fatto conoscere al colonnello la missione, di cui egli era incaricato presso di lui, per ordine del Governo napoletano, l’uffiziale credette di dover aggiungere che egli era latore altresì di proposizioni di Garibaldi per una capitolazione. — Parlate, dissegli Bosco, v'ascolto. — Colonnello, rispose l’ufficiale, ecco le precise parole di Garibaldi: «Dacché vi recate presso Bosco, ditegli che, s’egli vuole accettare, gli permetto d’imbarcarsi coi suoi uffiziali, ma, quanto alle sue truppe, no. Egli è eccessivamente tenace; s’egli ricusa, ditegli di più, che la cittadella è minata e che, entro ventiquattr’ore, io la farò saltare in aria. «— «Nò, esclamò il colonnello, i miei soldati si batterono troppo bene perché io gli abbandoni. Dite a Garibaldiche, s’egli vuole indicare il luogo della mina, Bosco s’impegna sul proprio onore, di sedervisi sopra a fumare il sigaro, e che, allo scoppio della mina, il suo ultimo grido sarà: Viva il Re! La sola grazia ch’egli domanda è che si risparmi il sangue dei suoi soldati.»

Il parlamentario riportò immediatamente codeste coraggiose parole a Garibaldi, il cui animo ne rimase fortemente commosso. — Bene! esclamò il dittatore, dopo un momento di riflessione, ecco la nuova proposizione che io fo a Bosco: lo autorizzo ad imbarcarsi colle sue truppe, ma senz’armi e con riserva che i soldati napoletani non partiranno se non per propria volontà. —

Siccome la sua intromissione non era che uffiziosa, l’uffiziale domandò codeste condizioni per iscritto a Garibaldi, il quale gliele diede, aggiungendo tuttavia parecchie condizioni concernenti la capitolazione. Lieto di adempiere a codesto dovere di umanità, l'uffiziale tornò alla cittadella e comunicò il suo messaggio a Bosco; ma il colonnello non solo ricusò di accettare codeste condizioni senza ordine del suo Governo, ma non volle neppure farne lettura ei medesimo. Rispose che — la sua situazione non era si disperata da trovarsi ridotto a fare simile capitolazione, e che, d’altra parte, tra alcuni giorni, farebbe domandare egli stesso un parlamentario, per evitare, più che per lui si potesse, lo spargimento del sangue italiano. In caso di attacco per far saltar in aria il forte, ei sacrificherebbe prima la sua vita per far salvare il suo onore e quello dei suoi soldati. —

Dopo si energico rifiuto, l’uffiziale ritornò presso Garibaldi per rendergli conto del mal esito della sua missione, allorché apparvero dinanzi Milazzo quattro fregate napoletane tra cui la Fulminante.

Tosto si apri l'adito a mille supposizioni. Gli uni immaginavano uno sbarco, altri un semplice approvvigionamento di vettovaglie, ma tutti si aspettavano un cannoneggiamento. Nell’armata di Garibaldi era stata sonata la generale, ed una batteria di sedici pezzi, disposta come per incanto, s’elevava nella spiaggia a pie’ della fortezza, ed un’altra di due pezzi vedevasi alla estremità della baia presso l’imboccatura della riviera. Il fuoco di queste due batterie doveva incrociarsi. Le due torri, sulla sommità della penisola, che sulle prime erano cadute in potere di Garibaldi, avevano diretto verso la squadra i quattro pezzi di cui erano armate.

Tutti questi apparati belligeri dovevano riuscire inutili. La fregata napoletana innalzò la bandiera parlamentaria al suo albero di mezzana.

Il colonnello di stato maggiore, Francesco Anzani, inviato dal Re per trattare della capitolazione, smontò a terra per avere un abboccamento con Garibaldi, il quale inviò a lui un colonnello che gli servisse di scorta.

In codesto abboccamento furono pattuite le clausole della capitolazione, per cui le truppe regie dovevano sgomberare la cittadella con armi e bagaglio, ed il materiale del forte dovea dividersi in due parti, metà agli assedianti e metà agli assediati.

Dopo la presa di Milazzo, Garibaldi e Medici marciarono sopra Messina, ed il,23 luglio la circondavano.

Il generale napoletano Clary, aveva prese tutte le misure necessarie per mettere Messina in istato di resistere agli attacchi di Garibaldi. Il numero delle truppe, che fin dal 14 luglio erano scaglionale all’avanguardia sino a sei leghe da Messina, ascendeva a 26,000 uomini, tra infanteria, cavalleria ed artiglieria,

Opere esterne sorgono all'est ed all'ovest della piazza e ne difendono gli approcci; al centro si è costruita un’opera a denti, fiancheggiata da inaccessibili rocce, che rendono difficile lo stabilimento dei lavori di contrapproccio; di più, i bastioni di San Francesco, San Diego, Santo Stefano e Nuremberg, già per sé stessi tanto formidabili, erano stati armati di cannoni rigali dell’ultimo modello. Alcune vie della città erano disposte in maniera da respingere un attacco, e il loro ingresso era difeso da cannoni in batteria.

Nel 22, ai legni da guerra di stazione nel porto era stato intimato dal generale Clary di ancorarsi fuori per non essere d’imbarazzo alle operazioni difensive o aggressive della cittadella.

Dallo sgombro dei bastimenti da guerra derivò di conseguenza lo scoraggiamento e la fuga di tutti coloro che rimanevano ancora in città. La parte della popolazione più agiata era già fuggita, e per le vie non s’incontravano che soldati, cavalieri, cannoni e pattuglie. La restante popolazione trovavasi accalcata sulle spiaggie dello stretto di Messina, parte su talune tende logore, parte entro battelli di ogni sorta, ove le donne e i fanciulli erano stivati in modo che in un solo di essi vennero contati ventotto fanciulli e dieciotto femmine. I consoli eransi ritirati a bordo dei bastimenti da guerra.

La città era deserta e squallida come un sepolcro, e il silenzio era soltanto interrotto dalle grida di all'erta, delle sentinelle e dai colpi di fucile che queste lanciavano senza ragione sui passanti. Il porto non era meno deserto; tranne qualche corvetta napoletana, già prossima a metter le vele, non rimaneva che la sola Mouette, la quale, nel bisognò di far carbone, era ancorata a Terranuova.

I giorni 24 e 25 trascorsero senz’altra novità; ma un combattimento sembrava imminente.

Secondo le intenzioni manifestate dal generale Clary, doveva aspettarsi una difesa disperata. Ed in effetto, le truppe napoletane occupavano tutte le creste dei monti che circondano Messina. Artiglieria, cavalleria, genio, nulla mancava per mettere in opera le forze comandate dal generale dell'armala regia.

Il 25, alle ore 7 della sera, un attacco di poco momento ebbe luogo fra gli avamposti napoletani e le truppe di uno dei capi di Garibaldi, nominato Interdonato, malgrado il fatto divieto.

Ciò faceva presumere per l’indomani un’azione interessante. Ma al levarsi del sole i napoletani si erano ritirati in città; i picciotti discesi nelle fiumane, ove stavano in attenzione di ordini, in fine incominciavasi ad evacuare il forte.

Il generale Clary, in seguito a nuovi ordini emanati da Napoli, entrò in trattative con Medici e fu tosto firmala la seguente convenzione:

«L’anno 1860, il giorno 28 luglio, in Messina, Tommaso di Clary, maresciallo di campo, comandante superiore le truppe riunite in Messina, ed il cavaliere maggiore generale Giacomo Medici, animati da sensi di umanità e nell’intendimento di evitare lo spargimento di sangue, che avrebbe Causato l’occupazione di Messina da una parte e la difesa della città e forti dall'altra, in virtù, ecc.

«1. Le regie truppe abbandoneranno la città di Messina, senza essere molestate, e la città sarà occupata dalle truppe siciliane, senza pure venir queste molestale dalle prime.

«2. Le truppe regie evacueranno i forti Gonzaga e Castellaccio, nello spazio di due giorni a partire dalla data della sottoscrizione della presente convenzione ognuna delle due parti contraenti designerà due uffiziali ed un commissario per inventariare le diverse bocche da fuoco, i materiali tutti da guerra, e gli approvvigionamenti de' viveri e di quanto altro esisterà nei forti suindicati all’epoca che questi verranno sgombrati. Resta a cura poi del Governo siciliano lo incominciare il trasporto di tutti gli oggetti inventariati, appena verrà effettualo lo sgombro de' soldati, di compierlo nel minor tempo possibile e consegnare i materiali trasportati nella zona neutrale, di cui si tratterà in appresso.

«3. L’imbarco delle regie truppe verrà eseguito senza che venga molestato per parte de' siciliani.

«4. Le truppe regie riterranno la cittadella coi suoi forti Don Blasco, Lanterna, San Salvatore, a condizione però di non dovere, in qualsiasi avvenimento futuro, recar danno alla città, salvo il caso che tali fortificazioni venissero aggredite, e che lavori di attacco si costruissero nella città medesima. Stabilite e mantenute coteste condizioni, la inoffensiva della cittadella verso la città durerà fino al termine delle ostilità.

«5. Vi sarà una fascia di terreno neutrale, parallela e contigua alla zona militare, la quale s’intende debba allargarsi per venti metri oltre i limiti dell'attuale zona, che va inerente alla cittadella.

«6. Il commercio marittimo rimane completamente libero da ambe le parti.

«Saranno quindi rispettate le bandiere reciproche. In ultimo resta alla urbanità de' comandanti rispettivi, che stipulano la presente convenzione, la libertà d’intendersi per que’ bisogni inerenti al vivere civile, che, per parte delle regie truppe, debbono venire soddisfatti e provveduti nella città di Messina.

«Fatto letto, chiuso il giorno, mese ed anno come sopra nella casa del signor Fiorentino Francesco, banchiere alle Quattro Fontane: — Sottoscritti. Tommaso di Clary, maresciallo di campo; cav. G. Medici maggiore generale.»

In seguito alla convenzione militare Medici-Clary i regii abbandonarono la città di Messina e s’imbarcarono sui legni da guerra napoletani pel continente in numero di 12,000. I garibaldini occuparono la città e i forti delle colline.

L’Autorità di Messina, in presenza della ritirala delle truppe regie, pubblicò due manifesti. Nel primo invitava i cittadini a ritornare immediatamente nella città per acclamare e celebrare colla loro presenza l'attuale Governo. Nel secondo, adorno dello scudo di Savoia, il sindaco invitava i cittadini ad illuminare le loro case per festeggiare l’ingresso del generale Medici.

Nel 26 la colonna Medici entrava solennemente in Messina II generale Clary si ritirò nella fortezza e le due parti s’impegnarono a non venire alle mani per qualsivoglia motivo.

Nel 27, entrò alla sua volta il dittatore alla testa del suo numeroso stato maggiore. Percorse la città. Fino dal suo arrivo si occupò di diversi lavori di fortificazioni da far eseguire, ed emanò varii decreti che garantivano la pubblica quiete, punivano severamente ogni attentato alla sicurezza personale ed organizzavano la guardia nazionale, che prendeva posto al presidio dei forti abbandonati dell’armata napoletana.

Arrivarono pure gli altri generali, Bixio, Cosenz, ecc. colle loro truppe.

Gli abitanti, ch'erano fuggiti da Messina, vi rientrarono. Tutt’i bastimenti da guerra e di commercio, che dopo il 22 erano ancorati nella rada, ripigliarono posto nel porto. Alle finestre sventolavano le bandiere sarde. Le botteghe si riaprirono. Alle pattuglie napoletane succedettero i movimenti dell'armala del dittatore, che percorreva la città in tutt’i sensi.

Il 27 luglio, in seguito a domanda degl'inviati napoletani e dei rappresentanti della Francia e dell'Inghilterra, Vittorio Emanuele consigliò Garibaldi a conchiudere un armistizio coi napoletani di sei mesi astenendosi da ogni sbarco sul continente. Il conte Litta Mordignani portò a Garibaldi la lettera del re. Garibaldi diede la seguente risposta:

«Sire!

«Sono ben noti a Vostra Maestà il rispetto e l'amore che nutro per voi. Ma la condizione attuale delle cose in Italia non mi permette di obbedirvi come lo desidererei. Chiamato dai popoli, io mi tenni indietro fino a tanto che mi fu possibile. Ma se ora indugiassi malgrado di tutti gli eccitamenti che ricevo, mancherei al mio dovere e metterei a repentaglio la causa sacra d’Italia.

«Concedetemi quindi Sire, che per questa volta vi disobbedisca Tosto che avrò adempiuto il mio assunto e liberato i popoli da un giogo abbominato, deporrò la mia spada ai vostri piedi, per obbedirvi fino alla fine della mia vita.

«GIUSEPPE GARIBALDI. »

Il Governo napoletano fece al Governo della Sardegna distinte proposte. La prima, riguardante la Sicilia, portava il ritorno dell'isola sotto la dominazione della casa di Napoli; essa però si formerebbe da sé stessa una particolare Costituzione mediante il Parlamento da convocarsi secondo le regole prescritte dallo Statuto del 1812. Quanto a Napoli, le basi della sua alleanza colla Sardegna, per quello che concerne il Reame, erano fondate sui seguenti elementi: Costituzione simile alla piemontese, unità di pesi e misure, abolizione delle dogane, tariffe daziarie tra le due nazioni sorelle, abolizione dei passaporti fra sudditi dei due paesi e finalmente scambio di truppe e guarnigioni in talune fortezze dei Reami. Ma condizione sine qua non a queste concessioni che il Governo di Napoli farebbe in vantaggio degli interessi italiani e dell'unità federale della Penisola, era la ristorazione del dominio napoletano sulla Sicilia giusta l'Atto sovrano del 25 giugno.

Le proposte del Gabinetto sardo dicevansi all'incontro consistere nei seguenti punti: 1. Si attenderà che la Costituzione promulgata entri in attività e che, fatte le elezioni e convocate le Camere napoletane, il paese possa esprimere il proprio sentimento circa le concessioni che il re di Napoli fece a' suoi Stati. Il re di Sardegna deve anzi tutto conoscere se i napoletani considereranno la data Costituzione come soddisfacente ai loro voli e come distruttrice delle cause del loro malcontento e dei loro reclami; 2. Il re di Napoli farà cessare qualunque guerra civile colla Sicilia; egli non cercherà colla via delle armi di far rientrare i siciliani nel suo dominio; essi saranno liberi di pronunziarsi sulla loro sorte avvenire; 3. Il re di Napoli metterà la sua politica d'accordo con quella del Piemonte, e gli sforzi costanti dei due Sovrani, come scopo manifesto e perseverante della loro politica, sarà l'affrancamento di tutto il territorio italiano da qualunque dominazione straniera; 4. Il re di Napoli s’adoprerà presso la Santa Sede, d'accordo col re Vittorio Emanuele, per ottenere dal Papa una Costituzione liberale ed una politica nazionale pe' suoi Stati e la ratifica del voto delle Romagne.

Queste controproposte del gabinetto sardo sarebbero anche state comunicate a Parigi per mezzo del barone Talleyrand e del cav. Nigra.

In uno dei primi abboccamenti ch'ebbero luogo tra il ministro degli affari esterni e gl'inviati straordinarii napoletani, questi esposero che uno dei precipui oggetti della loro missione era quella di sollecitare il Piemonte a far uso di tutta la sua influenza appo il generale Garibaldi a fine d’indurlo ad abbandonare qualunque disegno che avesse mai concepito per attacchi contro il regno di Napoli in terra ferma. A questo patto, soggiungevano gl'inviati napoletani, S. M. il re Francesco II, essere pronto a sospendere le ostilità in Sicilia e ad evacuar l’isola. Il conte Cavour rispose ch'egli veramente non saprebbe quanto potesse valere l’influenza del Governo piemontese sull'animo di Garibaldi, citando a prova il fatto della spedizione in Sicilia compiutasi a totale insaputa del Governo stesso. Tuttavia, soggiunse il ministro, il Governo di S. M. sarda, per dar prova di buon volere, avrebbe accondisceso a manifestare al generale Garibaldi le buone intenzioni di S. M. Borbonica, purché Francesco II, per garanzia delle pacifiche sue disposizioni, mandasse tosto ad effetto le sue promesse riguardo alla Sicilia, sembrando cosa assolutamente impossibile che Garibaldi si acquetasse alle dichiarazioni del re di Napoli insino a che questi si tenesse in una minacciosa posizione a Messina.

Il barone Manna comunicò tosto al suo Re le parole del conte Cavour insistendo vivamente per Io sgombero totale ed immediato della Sicilia e dichiarando che a questo patto soltanto si poteva concepire speranza che Garibaldi desistesse dai suoi progetti sulla terra ferma. I consigli del Manna ebbero per effetto gli ordini immediati dello sgombero della Sicilia, ordini che contemporaneamente furono trasmessi a Messina e comunicati alla Legazione Napoletana a Torino.

Era duopo che il Governo piemontese mandasse comunicazione al generale Garibaldi delle citate disposizioni del re di Napoli ed aggiugnesse I espressione dei desiderio che cessino le ostilità. Nel fare questa comunicazione a mezzo del conte Litta, il Governo piemontese non si è assunta alcuna responsabilità, avendo dichiarato preventivamente di non esser punto a parte dei disegni di Garibaldi, tenendo questi celati i suoi pensieri anche ai suoi più intimi amici, e quindi di non poter in modo alcuno vincolare la libertà d'azione del dittatore della Sicilia.

Avuta la risposta negativa per parte del generale Garibaldi, rispetto alla conclusione dell'armistizio coi napoletani, il conte Cavour dichiarò agli inviati napoletani che Garibaldi, prevalendosi dell'indipendenza di fatto, nella quale le circostanze l'hanno posto, rifiuta di cedere ai consigli di moderazione, che il Re, nella sua alta premura per la conservazione della pace nella Penisola, aveva creduto opportuno di dargli, e manifesta chiaramente la sua intenzione di non arrestarsi nel corso delle sue ardite imprese; che in conseguenza di ciò si deve riconoscere nella condizione attuale delle cose un grave ostacolo alla buona riuscita delle trattative aperte tra le due corti; che per quanto gli sia doloroso di vedere l’inefficacia dell'opera di conciliazione, che era stata intrapresa, il Governo del Re non potrebbe uscire dalla sfera de' consigli e della persuasione; ch’esso deve, anzi tutto astenersi dal prender parte ad una guerra tra italiani, ch'esso deplora altamente. Il co. Cavour concluse dicendo ch'egli si vede costretto ad attendere che nuove circostanze offrano al Governo reale un’occasione di esercitare, con miglior successo, la propria azione moderatrice e conciliativa, ed e perciò ch'esso continua a contare sulla cooperazione degl'inviati napoletani.

Il marchese La Greca era stato incaricalo di proporre alla Francia ed all'Inghilterra ch'esse esercitassero una pressione su Garibaldi a fine di ottenere una tregua regolare di sei mesi onde poter meglio conchiudere i negoziati d’alleanza col Piemonte e affinché i rappresentanti della nazione potessero raccogliersi in assemblea. Il marchese La Greca venne dal Governo francese raccomandato a quello di Londra, presso il quale egli si recò coll’indicazione che all’imperatore Napoleone sarebbe. in ogni modo cosa grata il trovare, d'accordo coll'Inghilterra e senza offendere il principio del non intervento, un mezzo per salvare il trono di Napoli. Lord John Russell credette quindi di non poter a meno di dichiarare al conte di Persigny, cui era appoggiato l'inviato napoletano, come e perché il Gabinetto inglese, colla migliore volontà, non si trovava in istato di fare alcun passo, diretto od indiretto, a favore del re di Napoli.

L’inviato napoletano La Greca. non potè ottenere neppure dal Governo francese che parole evasive, rifiutandosi esso assolutamente a prendere l’iniziativa in una mediazione. D’altro canto, l’Imperatore, sapendo che verso Garibaldi non avrebbero giovato nemmeno i consigli del Piemonte, trovava affatto inutile di tentare il proprio. Ad ogni modo, egli promise di cooperare per il meglio del Reame di Napoli.

Il re di Napoli fece a Napoleone III vivissime rimostranze. ed a tale riguardo si ricorda una lettera diretta a S. M. l’Imperatore del seguente tenore: «Voi mi avete consigliato di dare delle istituzioni costituzionali ad un popolo che non ne domandava; io ho aderito al vostro desiderio. Voi mi avete fatto abbandonare la Sicilia senza combattere, promettendomi che così facendo il mio Regno sarebbe garantito. Finora le Potenze sembrano persistere nel loro pensiero di abbandonarmi. Ora io devo prevenire V. M. che sono risoluto di non discendere dal mio trono senza combattere; io farò un appello alla giustizia dell'Europa, ed ella saprà che io difenderò Napoli, ove sia assalito»

Gli inviati del Governo di Napoli, dopo le avute risposte, dichiararono immediatamente al conte Cavour che la missione era finita e che essi partirebbero; ma il conte Cavour li trattenne, dimostrando loro come la risposta di Garibaldi al re di Sardegna non fosse un motivo sufficiente per rompere i negoziati, che era dovere reciproco dei due Stati di non troncare se non all'ultimo estremo, e quando ogni speranza di conciliazione fosse svanita; fra la dichiarazione di Garibaldi ed il compimento del suo progetto poteva nascere qualche incidente, Che permettesse nuove trattative. D’altronde, stava all'armata napoletana di provare. colla sua resistenza la solidità dell'ordine di cose da essa propugnato.

Gli inviati napoletani rimasero dunque a Torino, a negoziare l’alleanza dei due paesi, malgrado la lettera di Garibaldi e malgrado i preparativi ch’egli faceva per eseguire il programma in essa contenuto.

In seguito all'occupazione della Sicilia ed alla quasi abortita proposta del Governo napoletano a quello della Sardegna, il ministro degli affari esteri di Napoli diresse ai rappresentanti delle Potenze estere accreditate presso S. M. Siciliana, la seguente circolare.

«Il generale Garibaldi, dopo aver invaso la Sicilia, non contento di aver usurpato la bandiera reale di Sardegna ed intestato tutt’i suoi atti col nome del re Vittorio Emanuele, per decreti del 3 andante, ha messo in vigore lo Statuto piemontese, ed obbligati tutti gl'impiegati e le municipalità, nominate dalla rivoluzione, a prestare giuramento di fedeltà al re Vittorio Emanuele.

«Il Governo di S. M. siciliana si crede nel dovere di portare alla conoscenza di tutte le Potenze queste nuove usurpazioni e questi attentati, che conculcano le prerogative le più evidenti della sovranità, i principii più inconcussi della ragione delle genti, e fanno dipendere la sorte di un popolo dal capriccio arbitrario di una forza straniera.

«Il Governo di S. M., volendo a costo dei più gravi sacrifizii, evitare l'effusione di sangue, sin dalla promulgazione dell'Atto sovrano 25 giugno, net desiderio di armonizzare la sua politica con quella della Sardegna pel mantenimento della pace in Italia, ha speralo la soluzione della questione siciliana nelle sue lunghe e persistenti trattative.

«Delusa quest'ultima speranza, il Governo di S. M. per organo del sottoscritto, ecc. si vede nell'imprescindibile obbligo di denunziare a S. E. il sig..... questi attentati, che si commettono sotto la pressione di una forza straniera in Sicilia; di protestare formalmente contro tutti gli atti che tendono a negare od indebolire i legittimi diritti del Re, e dichiarare che non riconosce, né riconoscerà alcuna delle loro conseguenze, essendo fermamente deciso a mantenere le ampie istituzioni liberali promesse specialmente a quell'isola, e a non transigere mai sul principio, poggiato sulla storia e sul diritto pubblico europeo, che riunisce sotto la real casa di Borbone i due regni di Napoli e di Sicilia.»


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CAPITOLO IX


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Agosto

Garibaldi, fermamente risoluto dagli ultimi giorni di luglio ai primi di agosto di varcare sul continente napoletano, stava facendo i suoi preparativi per quel passaggio. Incominciò quindi dal provvedere 300 barche per operare lo sbarco di 12,000 uomini, e, per proteggere questo sbarco, dal fortificare la Punta del Faro ond'essere completamente padrone di quel passaggio.

Nella notte dall'8 al 9 agosto imbarcò a Torre del Faro 400 uomini su 20 barche, che dovevano come avanguardia sbarcare in faccia sulla costa della Calabria, battersi nell'interno ed organizzare l'insurrezione nella Calabria meridionale. Quel distaccamento si divise in parecchi piccoli corpi, uno dei quali fu ricevuto dalla batteria di Altafiumara fra Punta del Pezzo e Torre del Cavallo da un fuoco vivo e dovette cercare il largo. Al contrario riuscì ad un altro corpo di 150 uomini, sotto il comando di Missori, di prender terra inosservati a Cannetello vicino alla Punta del Pezzo. Missori si fermò sulle eminenze di Aspromonte, ove molli calabresi a lui si unirogo per cui egli credette di poter attaccare Bagnara ed in tal modo facilitare lo sbarco delle forze maggiori di Garibaldi; ma dopo brevi scaramucce si gettò sui monti.

Contemporaneamente ebbero luogo altri piccoli sbarchi sulla costa orientale della Calabria, senza incontrarvi resistenza.

A’ piccoli sbarchi già operati in diversi giorni successe finalmente lo sbarco del grosso della truppa dei volontari.

Il 19 agosto, alle dieci pomeridiane. Garibaldi si recò al Faro Alle ore una del 20 rientrava a bordo dell’Aberdeen col suo stato maggiore e col comandante la 13.° divisione a Messina. Alle 5 partiva per Giardino ad ispezionare la brigata Bixio. Alle 9 tutte le truppe erano imbarcate, 5000 uomini in due vapori, il Torino ed il Franklin. I due vapori partirono facendo mostra di bordeggiare alla volta di Catania. Verso le 10 e mezzo, avendo veduto che il passaggio non era sorvegliato, il Franklin con bandiera americana si portò a tutta macchina verso un paese alla destra di Reggio, lasciando il Torino in osservazione.

Il generale, veduta la spiaggia deserta, fu il primo a portarsi a terra. In meno di un' ora lo sbarco del Franklin fu compiuto. Intanto un fumo lontano annunziava che due vapori si avvignavano a tutta forza. Allora il Franklin fece segnale al Torino, perché tosto si recasse ad operare lo sbarco a sua volta. Bixio ordinò che questo vapore s’investisse per assicurare lo sbarco. Sopraggiunse il bastimento napoletano il Fulminante e prese a cannoneggiarlo. In mezzo a tutto questo e mentre si operava lo sbarco, si vedeva da lontano venire un altro vapore. I regii lo credettero garibaldiano, e. temendo di essere presi fra due fuochi, andarono a fare una ricognizione. Il nuovo vapore era delle Messaggerie imperiali. Al loro ritorno i regii trovarono che Garibaldi aveva compiuto, lo sbarco senza la perdita di un sol uomo. Il Franklin lavorava da due ore per salvare il Torino, ma vedendo ritornare i regii, issò bandiera inglese e si ritirò a Messina.

Garibaldi, appena sbarcalo sul continente, prese il cammino delle montagne, girando le posizioni occupate dai napoletani.

Egli fece approdare al nord di Reggio, una quantità di piccoli sbarchi, i quali si diressero tutti verso Aspromonte, alture che dominanola strada, che da Cosenza, mette a Reggio, con che tenne tagliata la base d’operazione ad una parte della truppa napoletana.

Il comandante di quel corpo attaccò Bagnara, ove trovavasi il generale Melendez con una divisione di truppa di linea, ma girando questa posizione, si volse quindi verso Palmi. Con ciò fu minacciata l'unione del generale Melendez con Monteleone, ov'era il grosso dell'armata, perché gli mancava la ritirata.

Questa manovra fu assai destra e riuscì perfettamente. Frattanto sbarcò nel 20 agosto presso Capo dell’Armi la spedizione principale ed attaccò Reggio.

Per attaccar Reggio fu concertato che il generale Bixio, il più audace dei generali dell'armata siciliana, attaccherebbe la città di fronte, intanto che Garibaldi e Missori, girando il forte di Reggio, prenderebbero i napoletani tra due fuochi.

Le colonne si misero in marcia e, protette dal silenzio della notte, sorpresero le truppe reali scaglionate sulla grande strada di Reggio.

Erano le tre ore e un quarto del mattino quando l’avanguardia di Bixio s’. imbatteva nelle vedette nemiche. Il fuoco fu subito incominciato e ben presto l’azione divenne generale.

Il comandante le truppe napoletane concentrò le sue forze e cominciò un fuoco di battaglione cosi ben nutrito che Pala destra dei siciliani per un momento vacillò. Bixio, vedendo la sua destra minacciata, portò due battaglioni sul punto del pericolo e in poco tempo ristabilì l’ordine e riprese l’offensiva.

Dopo due o tre scariche, Bixio alla testa della colonna, ordinò la carica alla baionetta. La mischia fu terribile, e i napoletani, sbaragliati, si ripiegarono in massa sulla cittadella.

Intanto Garibaldi e Missori erano arrivali a tiro di fucile dal forte, e i loro cacciatori cominciavano a dirigere le carabine inglesi, delle quali erano armati, contro le cannoniere del forte. Il loro tiro era cosi preciso che molli napoletani rimasero uccisi sui pezzi.

Garibaldi e Bixio si avanzavano sempre, quando quest’ultimo, avendo sloggiato una compagnia di napoletani dalle prigioni della città, ch'essa aveva occupato, trovò 24 cavalli e due pezzi d’artiglieria. Era questa una preziosa conquista, giacché Garibaldi non aveva cannoni. I cavalli furono attaccati, i cannoni furono messi in posizione e il fuoco aperto contro il forte.

Le colonne di Bixio avanzavano sempre e quelle di Garibaldi facevano la scalata. Dopo un’accanita pugna, alle ore 9 e mezzo il forte cessò dal fuoco.

Nel combattimento esterno e nell’assalto i napoletani soffersero la perdita di circa 500 tra morti e feriti e di 400 circa prigionieri. Anche le perdite del corpo di Bixio (che rimase leggermente ferito in un braccio) furono notevoli.

La guarnigione uscì coi soli fucili e bagagli personali. Rimanevano in potere di Garibaldi 8 pezzi da campagna, 2 alla paixhans da 80 e 6 da 36, 12 obici, 8pezzi da posizione e più 2 mortai di bronzo, 500 fucili, molti viveri, carbon fossile, cavalli, muli, ecc.

Le truppe napoletane, dopo aver sostenuto coraggiosamente il primo attacco, ma rovesciate poscia e cacciate nella fortezza della città, e dopo aver sostenuta un’accanita pugna, dovettero ritirarsi nella posizione che i generali Melendez e Briganti avevano preso presso Piale.

Il domani di buon mattino s'impegnò nuovamente il combattimento. Essendo stata tagliata la ritirala delle brigate Melendez e Briganti, le truppe comandato dai generali Vial e Chic., che procedevano da Reggio, non trovarono in esse nessun appoggio e tutti questi corpi sono stati sbaragliati o fatti prigionieri.

Cosi il combattimento di Piale fu decisivo e si ebbe per risultato che tutt'i reggimenti, stanziati a Monteleone, si ritirassero in disordine.

Non si tosto fu Garibaldi padrone dell’altura di Piale, la guarnigione di Scilla, tagliata fuori dalla sua unione con Catanzaro, dovette capitolare.

Garibaldi domina ormai lo Stretto, sta io pari lem po a cavaliere della strada di Catanzaro ed ha libero movimento per terra ed alle coste di Reggio.

In Villa San Giovanni e nelle due adiacenti borgate si eran raccolte tutte le forze testé sparpagliate tra Reggio e Scilla.

I napoletani tenevano il castello dei Pezzo e il rialto sopra Aniarello. Al di sopra stavano i garibaldini e sul fianco destro del nemico il corpo di Bixio.

La condizione dei regii era tale, che se si fossero ostinali a resistere sarebbero stati tutti distrutti. Difatti, Garibaldi, fece annunziare ai regii, che, se prima delle ore 3 pomeridiane del giorno 24 agosto non si arrendevano, verrebbero distrutti, essendo per la prima volta i suoi soldati superiori in numero ai loro nemici, che sommavano a 5000.

Il generale napoletano si lasciò persuadere e stipulò una convenzione con Garibaldi, in forza della quale i soldati napoletani sarebbero usciti senz’armi e bagagli.

Contemporaneamente allo sbarco delle prime truppe di Garibaldi nelle provincie di terraferma, si estese l’insurrezione per tutto il territorio del re Francesco.

L’armata di Garibaldi non fu da prima che l’appoggio della medesima che la precedette dovunque. É impossibile di seguirla dapertutto in tutte le sue particolarità, è però necessario di renderne in qualche modo inteso il lettore. Ed ora cercheremo di farlo, tenendo meno alla successione dei fatti che al loro aggrupparsi secondo i siti. Osserveremo però in generale che nell’ordinamento dell’insurrezione si dimostravano più attivi quegli agenti di Garibaldi, che dopo il primo sbarco di Missori si sparsero a poco a poco per la provincia, dando cosi forza ed unità all’insurrezione.

Nella Calabria settentrionale al primo avviso dei trionfi di Garibaldi a Reggio e s. Giovanni si sollevò tutta la popolazione. A Catanzaro, Cosenza, Castrovillari sulla spiaggia occidentale a Paola e s. Lucido si scacciarono i gendarmi, s’installarono impiegati nazionali, dichiarando l’insurrezione in nome dell’Italia, di Vittorio Emanuele e di Garibaldi. Stava allora a Cosenza la brigata napoletana Caldarelli. Il governo insurrezionale stipulò con Caldarelli una convenzione il 26 agosto, in forza della quale egli doveva ritirarsi pacificamente e quietamente a Salerno, lasciando le armi superflue ed obbligandosi a non combattere contro Garibaldi. Caldarelli, che doveva arrivare a Salerno il 6 settembre, si mise tosto in marcia, in coi lo ritroveremo nei primi giorni di settembre. Il partito dell’insurrezione formò in tutta la Calabria la guardia nazionale, ne mobilizzò una parte, raccogliendola io campi, e prese le misure necessarie per opporsi da un lato ad un’offensiva di Caldarelli e dall’altro per rendere difficile, per quanto era possibile, la ritirata delle truppe regie concentrate nella Calabria meridionale.

Nella Basilicata aveva il colonnello Camillo Boldoni raccolto ai 17 agosto da 500 ai 600 individui coll'annunzio, ch’egli stesso sarebbe marciato su Potenza il giorno dopo. In questa città, capitale di provincia non eravi da parte dei regii che un forte distaccamento di gendarmeria sotto il capitano Castagna. L’autorità insurrezionale di Potenza aveva fatto con esso un convegno, ch’egli non avrebbe attaccalo se lo si fosse lasciato in pace. All’annunzio di Boldoni, si avanzò Castagna colla sua gente nella mattina del 18 dinanzi la città per combattere contro gli attesi insorti. Un distaccamento della guardia nazionale l’osservava dalla città. Nella verisimile e non infondata persuasione, che la guardia nazionale al primo apparire di Boldoni avrebbe falla causa comune con lui, e che si sarebbe quindi trovato fra due fuochi, ritornò Castagna ad un tratto in città, ed attaccò la guardia nazionale, ovvero per parlare più esattamente, venne con essa alle mani. Dopo un lungo combattimento per le vie, in cui ambe le parti ebbero morti e feriti, i gendarmi si dispersero dapertutto, avvicinandosi anche Boldoni.

Addì 19 s’installò quindi a Potenza un governo prodittatoriale in nome di Vittorio Emanuele re d’Italia, e di Garibaldi dittatore delle due Sicilie; esso dichiarò legittima l’insurrezione della Lucania, nominò il colonnello Boldoni capo delle truppe lucane, ed ordinò l’istituzione d’una giunta insurrezionale per ogni comune. Un terzo della guardia nazionale doveva essere tosto mobilizzata.

Boldoni intese quindi nel raccogliere militi, nell’organizzarli, occupò i passi più importanti per proteggere Potenza, e pubblicò una istruzione per la guerra di partigiani. Tutta la parte nord-ovest della Basilicata mise ordinamento alla insurrezione, nel giorno 19 sollevossi anche Tito; la parte nord-ovest della Terra di Bari volle pure. unirsi all’insurrezione Lucana; da Spinazzola si avanzavano delle schiere armate verso Potenza. Il basso clero prese parte in gran numero all’insurrezione, ed in pochi giorni segui anche la parte occidentale della Basilicata l’esempio dato dalla parte nord-ovest e dalla capitale. Boldoni vietò l’istituzione di qualsiasi corpo armato senza sua saputa e sua autorizzazione, misura diretta contro eventuali tentativi di armamenti in senso retrogrado.

L’insurrezione guadagnò ben presto anche le truppe. Al grido di Castagna, che chiedeva soccorsi, non potendo coi suoi gendarmi tener fermo in Potenza, doveva marciare da Salerno verso quella città il 6.° reggimento di linea. Esso lasciò la città gridando: Viva Vittorio Emanuele! viva Garibaldi! però si avanzò fino ad Auletta. Ivi arrivato, la maggior parte dei soldati rifiutò di progredire, di passare i confini della Basilicata e di combattere contro i suoi concittadini. Quel reggimento dovette essere richiamato a Salerno nel 30 agosto.

Nella Capitanata scoppiò il giorno 17 l’insurrezione in Foggia. Due squadroni di dragoni, che stavano colà, e dovevano combattere i ribelli, fecero invece causa comune coi medesimi. Il comandante militare della Puglia, general Flores, mandò quindi due compagnie del 13.° reggimento di linea da Bari a Foggia. Appena arrivate anche quelle truppe si unirono agli insorti. Lo stesso Flores accorse a Foggia, ma inutilmente. Essendosi però sollevate anche Bari ed altre città della Puglia, egli concentrò le sue truppe, in quanto ne poteva disporre, e si ritirò a poco a poco dalla Puglia verso i confini del Principato ulteriore, dove pensava di prendere una posizione sicura e credeva di poter far conto d’un partito regio importante.

Tutta la Puglia fu libera e si organizzò sull’istante per appoggiar. Garibaldi.

Subito che il governo insurrezionale della Basilicata si vide al sicuro, impiegò tutte le sue forze per importare col mezzo di agenti l’insurrezione anche nel Principato ed estenderla anche nella Terra di Lavoro e negli Abruzzi. Dal 15 agosto in poi insorsero Eboli, la Sala, il distretto di Cilento nel Principato citeriore. I regii lasciarono tranquillamente succedere tutto ciò, ma non però quando videro che la rivoluzione cominciava ad agitarsi anche nel Principato ulteriore. La provincia di Benevento fu la prima a commuoversi; poscia si unirono delle bande di volontari! nella parte sud-est della Terra di Lavoro, intorno Alife e Piedimonte, ed era fama che si sarebbero gettate su Avellino. Per tal guisa sarebbe stata rotta la comunicazione di Salerno col generai Flores e con tutti quei corpi, che erano ancora negli Abruzzi. Negli Abruzzi settentrionali comandava il generale Benedictis. Confuso dalle varie voci messe in giro e dall’apparizione di alcuni bastimenti nel mare Adriatico vi aveva egli concentrato le sue truppe, prendendo Giulianova per quartier generale.

Per assicurare la comunicazione fra Salerno ed Arriano si mandò subito da Salerno ad Avellino una forte brigata sotto il generai Perez, che vi arrivò il 26 agosto.

La vera linea di difesa dei regii contro Garibaldi era quindi sul. finire d’agosto quella da Salerno ad Arriano per Avellino. Contavansi su quella linea nel 26 agosto circa 20,000 uomini; si calcolano altrettante le truppe che si trovavano dietro Salerno sulla linea da questa città per Nocera e Napoli ed in quella capitale. Fra quelle annoveravansi il più gran numero delle truppe straniere. Come riserva di questa forza di 40,000 uomini potevansi riguardare allora i presidii delle due fortezze di Gaeta e di Capua e parecchi altri piccoli corpi negli Abruzzi, allora in tutto 15,000 uomini, poscia il corpo del generale de Benedictis negli Abruzzi settentrionali e sulla costa del mare Adriatico, circa 8000 uomini. Tutta la forza, di cui disponeva Francesco II negli ultimi giorni d’agosto nella linea di difesa Salerno, Avellino, Arriano, ed al nord della medesima, ammontava quindi almeno a 63,000 uomini. Vi si avrebbero potuto aggiungere altri due corpi che in quel momento trovavansi al sud della predella linea di difesa. L’uno era la brigata Caldarelli, circa 4000 uomini, che alla fine di agosto erano in marcia da Cosenza a Salerno, l’altro era il corpo del generale Viale in Calabria, la riserva delle sciolte brigate Melendez e Briganti, stimale 12,000 uomini. Se fosse riuscito a questi due corpi di unirsi all’armata regia principale, Francesco li avrebbe disposto contro Garibaldi verso la fine di agosto di 86,000 uomini.

Il generale napoletano Ghio aveva il comando del corpo di Monteleone forte di almeno 12,000 uomini, andavasi ritirando. Garibaldi precedendo le sue truppe, seguiva la ritirata di Ghio, il quale la mattina del 29 per tempissimo aveva lascialo Tiviolo. Garibaldi diede ordine che dovessero immediatamente concentrarsi a Tiviolo tutt'i corpi dell’esercito meridionale dovunque essi fossero. Il 30 agosto, allo spuntare del giorno Garibaldi si spinse con una leggiera scorta sulla strada maestra verso Saverio-Manelli, ma lasciò quella strada prima di arrivare a quel punto e andò in traccia delle schiere di Stocco, che fece tosto discendere dalle eminenze settentrionali per tutte le parti verso le posizioni de' regii. Ben presto si aprì un fuoco di moschetteria che durò parecchie ore senza alcun risultato. Garibaldi intimò a Ghio di arrendersi, ed essendosi questo rifiutalo, aspettò che l’avanguardia del suo esercito giungesse da Tiviolo. Essendo dopo mezzogiorno arrivala l’avanguardia della divisione Cosenz, circa 1,500 uomini, ed avendo presa posizione al sud del campo di Ghio, questi si decise in fine a capitolare. Questa capitolazione procurò a Garibaldi 10,000 fucili, 12 cannoni di campagna, quasi 600 cavalli e muli ed un importante materiale da guerra di ogni specie.

Ai primi di agosto venne in Napoli pubblicata la seguente ordinanza del maresciallo di campo Giosuè Ritucci, comandante della piazza e provincia di Napoli, con cui viene dichiaralo lo stato d’assedio:

«Per effetto di determinazione presa dal Consiglio dei ministri, dietro dimostrazioni e falli ostili già avvenuti in Castellamare ed in altri punti, viene dichiarato lo stato d’assedio nella capitale e provincia di Napoli, a norma dei corrispondenti articoli della reale ordinanza di piazza, che avranno il pieno loro vigore dal momento che il pubblico ne prenda conoscenza con quest’atto.

«Dovendo in conseguenza io prendere l’assieme del comando per tutelare l’ordine pubblico, sono nella fiducia che lutti gli abitanti di questa nobile capitale, nella loro avanzala civiltà ed inclinazione pacifica, concorreranno al bene del paese volonterosamente e con tutti i loro mezzi, evitando il soffio malefico dei nemici della pace, e si atterranno all’esecuzione dei dettami della legge, a cui ogni onesto cittadino debb’essere ubbidiente. E cosi la insigne città di Napoli splenderà, anche nell’attuale occasione, di quella gloria della quale si è sempre coverta.

«In conseguenza di ciò sono a disporre:

«1.° É inibito ogni attruppamento maggiore di dieci persone, il quale verificandosi, dovrà essere subito sciolto dalla forza, sia di truppa o di guardia nazionale, che dovrà preventivamente avvertirlo per due volte onde far uso delle armi, se dispiacevolmente non si vedesse corrisposta.

«2.° È proibita non meno ogni riunione clandestina nelle abitazioni sotto il titolo di comitato, o altro, i cui trasgressori saranno arrestali.

3.° É proibita l’asportazione di armi, tanto da fuoco che bianche, e coloro che saranno colli in difetto, saranno arrestati per essere giudicali militarmente.

«4.° É proibita del pari l’asportazione dei grossi bastoni, e si procederà come si è espresso per le armi.

«5.° L’uso delle pietre sarà trattato. in egual modo.

«6.° In fine i chiassi, le voci sediziose ed altro da produrre tumulti verranno represse colle precitate norme, ed i promotori ed esecutori arrestati.»

Nel giorno 13 il conte d’Aquila, zio del re, tenuto per centro de' reazionari, viene allontanato da Napoli sotto pretesto di una missione a Londra.

Venne stampata e diffusa a miglia d’esemplari una lettera in data 24 agosto del conte di Siracusa al re, colla quale consiglia il nipote a cedere alle circostanze e risparmiare una pagina sanguinosa nella monarchia. Eccone il tenore:

«Se la mia voce si levò un giorno a scongiurare i pericoli che soprastavano alla nostra Casa, e non fu ascoltata, fate ora che, presago di maggiori sventure, trovi adito nel vostro cuore e non sia respinta da improvvido e più funesto consiglio.

«Le mutate condizioni d’Italia ed il sentimento dell’unità nazionale, fatto gigante nei pochi mesi che seguirono la caduta di Palermo, tolsero al Governo di V. M. quella forza onde si reggono gli Stati e resero impossibile la lega col Piemonte. Le popolazioni d’Italia superiore, inorridite alla nuova delle stragi di Sicilia, respingono co’ loro voli gli ambasciatori di Napoli, e noi fummo dolorosamente abbandonati alla sorte delle armi, soli, privati di alleanze ed in preda al risentimento delle moltitudini, che da tutt’i luoghi d’Italia si sollevarono al grido d’esterminio lanciato contro la vostra Casa, fatta segno dell’universale riprovazione. Ed intanto la guerra civile, che già invade le Provincie del continente, travolgerà seco la dinastia in quella suprema rovina, che le inique arti di consiglieri perversi hanno lunga mano preparata alla discendenza di Carlo 111 Borbone; il sangue cittadino, inutilmente sparso, inonderà ancora le mille città del Reame; e voi, un di speranza ed amore de' popoli, sarete riguardato con orrore una cagione di una guerra fratricida.

«Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, salvale la vostra Casa dalle maledizioni di tutta Italia! Seguite il nobile esempio della nostra regale congiunta di Parma che, all'irrompere della guerra civile, sciolse i sudditi dalla obbedienza e li fece arbitri dei proprii destini.!Europa ed i vostri popoli vi terranno conto del sublime sacrifizio; e voi potrete, o Sire, levare confidente la fronte a Dio, che premierà l’atto magnanimo della M. V. Ritemprato nella sventura il vostro cuore, esso si aprirà alle nobili aspirazioni della patria, e voi benedirete il giorno, in cui generosamente vi sagrificaste alla grandezza d’Italia.

«Compio, o Sire, con queste parole il sacro mandato, che la mia esperienza m’impone, e prego Iddio che possa illuminarvi e farvi meritevole delle sue benedizioni.»

La sera del 27 agosto un telegramma venuto da Torino annunziava al conte di Siracusa che la fregata sarda la Costituzione era posta a disposizione di S. A. e che l’ammiraglio Persano aveva ricevuto gli opportuni ordini. Nelle ore pomeridiane del 31 dello stesso mese il conte di Siracusa s’imbarcava, accompagnato dal ministro Villamarina e dall’ammiraglio Persano a bordo di quel bastimento.

Il conte fu ricevuto cogli onori dovuti, e s’intuonò l’inno di Savoia. Egli sbarcò a Livorno.

Nella notte del 30 agosto si radunò a palazzo un consiglio di generali, tra i quali v’era il generale Gerolamo Ulloa. Si disputò sulla risoluzione da prendere. I più noli esponevano i loro divisamenti ma niuno veniva accettato. Il generale Pianelli, da ultimo, osservò che il distribuire l’esercito in piccoli corpi, sparpagliati per le Calabrie, tornava favorevole a Garibaldi e a danno dei napoletani; giudicar miglior provvedimento di guerra raccorrò in uno l’esercito, marciare contro Garibaldi e schiacciarlo col numero e colle molte artiglierie.

Piacque il parere, e già il Consiglio era per venire in quella risoluzione, quando usci fuori a parlare il generale Ulloa, e da quell’avveduto maestro di guerra ch'è, discopri i vizii e gli errori del concetto di Pianelli. Dilatandosi l’insurrezione, ei disse, l’esercito napoletano non potrebbe rimaner unito; minacciato dai drappelli delle Provincie in sommossa alle spalle, ai fianchi, oltre a non poter conservare libere le sue comunicazioni, dovrebbe di necessità sparpagliarsi, non tanto per sedare i tumulti, che lo premono da tutt'i lati, quanto per aver aperta la via, in ogni caso, ad una ritirata. Il miglior partito è raccorre quanti battaglioni si possono intorno a Napoli e quindi aspettar di piè fermo il nemico in Napoli, gran deposito d’armi e di viveri, libere le comunicazioni, possibile uno sbarco a fianco del nemico, ben difeso da ogni lato l’esercito per le forti castella. Si tenterebbe la fortuna delle armi., dopo avere stancato in una lunga guerra il nemico, dopo aver lasciato le Provincie in preda ai partili opposti e nemici. Terribile nemico Garibaldi in una guerra breve, debolissimo in una guerra lunga. Le sue schiere non sono dirette dalla disciplina, ma dall’entusiasmo, e l’entusiasmo cessa negli assedii, difficili a sostenersi anche da ben disciplinato esercito. Essere stato lo stesso concepimento ardito di Radetzky nel 1848. Una vittoria apparecchiata con arte profonda non solo ridurrebbe a nulla l’esercito di Garibaldi, ma si ripristinerebbe l’autorità del Re, subitamente, in tutte le provincie.

Il consiglio del generale Ulloa consegui l’universale approvazione in quel consesso. L’esercito verrà richiamato dalla Calabria e si raccoglierà intorno a Napoli.

Anche il ministero si è adagiato nella risoluzione presa dal Consiglio di guerra.

Fu stabilito che il Re ed i Principi di Casa reale si porranno a capo dell’esercito il quale verrà diviso in tre corpi. II primo verrà collocato ad Eboli, e avrà per capo il generale Bosco; il secondo a Gapua, e il terzo a San Germano.

In caso di rovescio, l’esercito napoletano, col Re a capo, riparerà nell’Umbria e si unirà a quello di Lamoriciére. La città di Napoli, per convegno fatto cogli ambasciatori esteri, sarà dichiarata neutrale durante la guerra ed affidata alla guardia nazionale.

Onde reprimere i movimenti interni, il ministro dell'interno di Napoli M. Giacchi, spedi, nel 29 agosto, agl’intendenti e sotto-intendenti la seguente circolare:

«Signori,

«Le condizioni, in che versiamo, non sono le più felici e sarebbe follia farsi illusione del contrario. Da tutte le parli vengono a questo ministero novelle di disordini e domande che vi si provegga, mandando forze regolari per contener gli animi nella moderazione e nel rispetto dovuto alla pubblica podestà ed a' diritti de' singoli cittadini. Ma, sciaguratamente, sembra che i mandatarii del potere non s’abbiano formata un’idea giusta dello stato del paese e de' mezzi che sono in poter loro per resistere alla piena delle passioni politiche, che meglio si direbbero egoistiche, le quali spingono alla reazione da un canto, a contrarii eccessi dall’altro. L’esercito (dovrebbero essi saperlo) non è in grado di molto operare per la quiete interna del Regno, distratto com’è contro le esterne aggressioni; né dall’altra parte gioverebbe sempre usare il braccio militare a reprimere e contenere i perturbatori dell’ordine pubblico, quando, a conseguire lo stesso scopo, vi fossero altri modi più civili e più alle presenti condizioni accomodati.

«Le persone, cui scrivo, vorranno bene intendere il mio pensiero, senza ch'io abbia a stemperarlo in più lunghe parole. Esse sanno quali sono le forze vive del paese e le hanno tutte sotto mano. Sono i proprietarii, gli uomini d’intelligenza, quelli della Chiesa, che più predicano coll’esempio che colle parole, gli uomini in fine, di mano ferma e risoluta; resta solo che si sappiano bene ed acconciatamente adoperare. E riuscire in ciò con piena soddisfazione del Governo, non meno che del paese alla loro amministrazione affidato, è opera, non dirò facile, ma neppure ardua in modo che, a fronte di essa, debba venir meno il coraggio civile di personaggi onorevoli, pei quali non è nome vano amor di patria e sentimento del proprio dovere.

«Vi è pur da per tutto una guardia nazionale che in moltissimi luoghi ha meritato, per gli atti suoi, la universale approvazione, e dove questa fosse scarsa di numero o mal ordinata (che non crederò mai), da non ispirare molla fiducia, manca forse di quegli uomini detti di sopra, da una banda, e di altri di sufficiente abnegazione, dall'altra, per supplire a ciò che possa difettare dal lato di quella che più propriamente va dinotata sotto il nome di forza pubblicarlo tempi difficili, la forza pubblica, è nello stesso paese, occorre solo cercarla, ordinarla, indirizzarla al fine supremo della comune salvezza. E questo, sopra tutto, si domanda agli uffiziali del Governo, che sappiano suscitarla ed usarla. S’informino le signorie loro a questo gran principio della salute pubblica, ed io spero, anzi ne vado certo, troveranno, Ano nei più piccoli villaggi, tanto che basti a tener testa a' tristi sommovitori dei popoli contro il presente ordine di cose. Degli effetti ne terrà loro gran conto la patria.»


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CAPITOLO X

Settembre

I ministri, col signor Liborio Romano, ch'era l’anima del ministero, prima della fine d’agosto, avevano data la loro dimissione verbalmente, ma il Re esitava fino al di 2 settembre, nel qual giorno, alle 7 di sera, i ministri rinnovarono le domande della loro dimissione, stendendola in iscritto e corredandola con varie ragioni, prima delle quali, se non unica, fu questa che cioè, v’erano in Corte e nell’esercito persone che accusavano i ministri di tradire il Re; perciò eglino non potevano rimanere con decoro al potere; era necessario che provvedessero al proprio onore. Il Re rimproverò ai suoi ministri di non aver arrestato nemmeno un annessionista, sebbene molti di costoro fossero a Napoli. I ministri risposero ch’essi avevano fatto quel che poterono. Il Re prese lo scritto contenente la dimissione e consultò varii, ma nessuno accettava. Nella sera del 4 il foglio uffiziale annunciava che il gabinetto dimissionario resterebbe al potere fino alla formazione del nuovo ministero.

Tra i ministri dimissionarii v’era il generale Pianelli, che rinunciò al portafoglio della guerra, ed al grado di generale, perché un Consiglio di alcuni ufficiali superiori, composto dei generali Colonna, Ferrara, Cutrofiano, Bosco e dal colonnello Anioni, spose a Sua Maestà che il generale Pianelli aveva formato il campo di Sabino per collocare l’esercito in mezzo alle Provincie ribelli, in un territorio colla mal aria, aperto da tute i lati, e che per conseguenza offriva ai soldati tutta la facilità di disertare; inoltre la postura del campo era tale che, assalito da Garibaldi, era certa la rovina della dinastia alla prima sconfitta. Pianelli quindi fu surrogato da un altro.

Ai primi di settembre, oltre alle Provincie calabresi erano in movimento rivoluzionario la Basilicata e una parte del Principato Ulteriore. A Potenza e nella Provincia di Salerno erano instituiti Governi provvisori i. Certo Giovanni Mulina aveva sollevato il distretto di Campagna ed assunto il titolo di prodittatore. Fatto questo movimento, tutta la Provincia era insorta, meno il distretto di Salerno. In tal modo cinque Provincie trovavansi già in potere della rivoluzione ed erano insorte anche le Puglie. Altamura io cui erasi formato uo Governo provvisorio, fu sussidiata da armati spedili da Potenza e comandati dal colonnello Boldoni. In appresso insorse anche Terra di Lavoro e nel 2 settembre gl’insorti marciavano sopra Campobasso. Ad Ariano si era formato un nucleo d’armati che si ponevano a marciare sopra Avellino già insorto, insieme con masse venule da Benevento. Tutto il Molise era in rivolta. A Mondragone era successo uno sbarco fatto da tre vapori. Garibaldi vittorioso andava sopra Salerno.

Nel 3 settembre di notte si seppe che Garibaldi muoveva sopra Salerno e la mattina del 4 si tenne a Palazzo consiglio di guerra in cvi furono proposti tre disegni.

Il primo consisteva nel concentrarsi a Salvia fra Nocera e Salerno, punto perfettamente scelto, e nell’attendere in quel luogo l’esercito garibaldino. Questo disegno, dicevasi, aveva il vantaggio, in caso di riuscita, di liberare la capitale e di rincacciar l’insurrezione nelle Calabrie. Ma e’ non fu ammesso perché si riteneva a sapere in maniera sicura che Garibaldi, anziché tenere la via di terra e traversare Nocera, doveva imbarcarsi a Salerno e sbarcare direttamente a Napoli, ove il Comitato annessionista gli aveva assicurato il concorso della guardia nazionale e della marina regia. Garibaldi, a Napoli avrebbe girato l’esercito napoletano in battaglia a Salvia e l’avrebbe cosi pienamente paralizzato.

Il secondo disegno consisteva nel dar battaglia in Napoli stessa; Dicevasi che strategicamente esso era il migliore. Quella città, la quale possedé un buon arsenale, forti che la dominano, ed un sistema di strade favorevolissimo all’azione della moschetteria, è in certa guisa, imprendibile.

Il terzo consisteva nello sgombrar Napoli e concentrare fra Capua e Gaeta l’esercito regio, il quale, in tal caso, si appoggierebbe due piazze forti importanti. E’ presenterebbe, dicevasi, grandi vantaggi per un esercito vero, il quale sarebbe in istato di continuare le operazioni, di fare un ritorno offensivo e di approfittare delle vicende della guerra. Capua, situata sul Volturno, 30 chilometri a settentrione di Napoli, è piazza ben munita e provvista. Possedé ella una testa di ponte, della quale si può trarre grande partito. Ella è, dicevasi, come Gaeta, piazza più forte ancora, situata nella Terra di Lavoro, provincia i cui. abitanti non sono ostili al Re. Questo progetto lu proposto e sostenuto dal generale Bosco.

Il piano del re Francesco II era di dare una grande battaglia dinanzi a Napoli, ma tatto si sventò coll’entrata di Garibaldi in Napoli stessa, come vedremo in appresso.

Quindi li più intimi suoi consiglieri, vedendo com’egli non potesse confidare su valida difesa, lo esortarono a partire. Francesco II abbandonando il concetto primitivo di andare a mettersi a capo dell’armata, nel giorno 5 settembre chiamò a sé i comandanti della guardia nazionale, li ringraziò di aver conservato l'ordine e salvata la capitale, li pregò di fare altrettanto per l’avvenire, raccomandando il paese nella sua assenza, e si dispose a partire per Gaeta.

E di fatto nel 6 egli parti. Si fece precedere dati tamburi battenti e domandò al Tesoro 220,000 ducati per la cassa di Gaeta, 40,000 per quella di Capua, 880,000 per sé. E siccome il Tesoro non aveva danaro, si è preso danaro alla Banca rilasciandole certificato di rendita.

Prima di partire il Re fece la seguente:protesta:

«Dacché un ardito condottiero, con tutte le forze di che l’Europa rivoluzionaria dispone, ha attaccali i nostri dominii, invocando il nome di un sovrano d’Italia, congiunto ed amico, noi abbiamo, con tutt’i mezzi del poter nostro, combattuto durante cinque mesi per la sacra indipendenza de' nostri Stati. La sorte delle armi ci è stata contraria. L’ardita impresa, che quel sovrano nel modo più formale protestava sconoscerei e che non pertanto, nella pendenza delle trattative di un intimo accordo, riceveva ne’ suoi Stati principalmente aiuto e appoggio, quell'impresa cui tutta Europa, dopo di aver proclamato il principio di non intervenzione, assiste indifferente, lasciandoci soli lottare contro il nemico di tutti, è sul punto di estendere i suoi tristi effetti fin sulla nostra capitale. Le forze nemiche si avanzano in queste vicinanze.

«D’altra parte la Sicilia e le Provincie del continente, da lunga mano e in tutt'i modi travagliate dalla rivoluzione, insorte sullo tanta pressione, hanno formato dei Governi provvisorii col titolo e sotto la protezione nominale di quel sovrano, ed hanno confidato ad un preteso dittatore l’autorità ed il pieno arbitrio dei loro destini.

«Forti nei nostri diritti, fondati sulla storia, sui patti internazionali e sul diritto pubblico europeo, mentre noi contiamo prolungare, finché ci sarà possibile, la nostra difesa, non siamo meno determinali a qualunque sacrifizio per risparmiare gli orrori d’una lotta e dell’anarchia a questa vasta' metropoli, sede gloriosa delle più vetuste memorie e culla delle arti e della civiltà del Reame.

«In conseguenza noi moveremo col nostro esercito fuori delle sue mura, confidando nella lealtà e nell’amore dei nostri sudditi pel mantenimento dell’ordine e del rispetto alle Autorità.

«Nel prendere tanta determinazione sentiamo però al tempo «stesso il dovere che ci dettano i nostri diritti antichi ed inconcussi, il nostro onore, l’interesse dei nostri eredi e successori e più ancora quello dei nostri amatissimi sudditi, ed altamente protestiamo contro lutti gli atti finora consumali e gli avvenimenti che sonosi compiuti o si compiranno in avvenire.

«Riserbiamo tutt’i nostri titoli e ragioni sorgenti da sacri incontrastabili diritti di successione e dai trattati, e dichiariamo solennemente tutt’i mentovali avvenimenti e fatti nulli, irriti e di niun valore, rassegnando, per quel che ci riguarda, nelle mani dell'Onnipotente Iddio la nostra causa e quella dei nostri popoli, nella ferma coscienza di non aver avuto, nel breve tempo del nostro regno, un sol pensiero che non fosse stato consacrato al loro bene ed alla loro felicità. Le istituzioni, che abbiamo loro irrevocabilmente garantite, ne sono il pegno.

«Questa nostra protesta sarà da noi trasmessa a tutte le Corti, e vogliamo che, sottoscritta da noi, munita dal suggello delle nostre armi reali e controsegnata dal nostro ministro degli affari esterni, sia conservata nei nostri reali ministeri di Stato degli affari esteri, della Presidenza del Consiglio dei ministri, e di grazia e di giustizia, come un monumento della nostra costante volontà di opporre sempre la ragione ed il diritto alla violenza ed alla usurpazione.»

Nel giorno 7 venne in Napoli pubblicato il seguente proclama del Re al popolo:

«Fra i doveri prescritti al Re, quelli del giorno di sventura sono i più grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione, scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi.

«A tale uopo, rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo di questa metropoli, da cui debbo ora allontanarmi con dolore.

«Una guerra ingiusta, e, contro la ragione delle genti, ha invaso i miei stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le potenze europee.

«I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principii nazionali ed italiani, non valsero ad allontanarla; ché anzi la necessità di difendere l’integrità dello Stato trascinò seco avvenimenti che ho sempre deplorati. Onde io protesto solennemente contro queste inqualificabili ostilità, sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l'età presente e la futura.

«Il corpo diplomatico residente presso la mia persona seppe, fin dal principio di questa inudita invasione, da quali sentimenti era compreso l’animo mio per tutt’i miei popoli e per questa illustre città; cioè, garantirla dalle rovine della guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d’arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua grandezza, e che, appartenendo alle generazioni future, è superiore alle passioni di un tempo.

«Questa parola, è giunta ormai l’ora di compierla. La guerra si avvicina alle mura della città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte del mio esercito, trasportandomi la dove la difesa de' miei diritti mi chiama. L’altra parte di esso resta per contribuire, in concorso coll’onorevole guardia nazionale, alla inviolabilità ed incolumità della capitale, che, come un palladio sacro, raccomando allo zelo del ministero. E chieggo all’onore ed al civismo del sindaco di Napoli e del comandante della stessa guardia cittadina risparmiare a questa patria carissima gli orrori dei disordini interni ed i disastri della guerra vicina; al qual uopo concedo a questi ultimi tutte le necessarie e più estese facoltà.

«Discendente da una dinastia che per 126 anni regnò in queste contrade continentali, dopo averle salvate dagli orrori di un lungo governo viceregnale, i miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli ed a' miei compatriotti.

«Qualunque sarà il mio destino, prosperò od avverso, serberò sempre per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia corona non diventi face di turbolenze. Sia che per le sorti' della presente guerra ritorni in breve fra voi, o in ogni altro tempo, in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al trono de' miei maggiori, fatto più splendido delle libere istituzioni, di cui l’ho irrevocabilmente circondalo, quello, che imploro da ora, è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici».

La flotta napoletana rifiutò di recarsi a Gaeta e si uni alla sarda. L’esercito regio sgombrando la capitale ed il territorio si concentrò nelle rive del Volturno fra le due fortezze di Capua e di Gaeta. Gli ambasciatori seguirono il re.

Garibaldi, il quale fino dal 6 settembre era marciato colla brigata Milano, lasciolla dietro le notizie ricevute da Salerno e da Napoli, e corse solo innanzi verso la prima città, dove smontò all’ufficio dell’intendenza.

Alle ore 6 antimeridiane del giorno 7 ebbe luogo a Napoli un nuovo consiglio di ministri, cui non assistettero però né Spinelli, né de Martino, né Pianelli. Vi si decise di fare un indirizzo a Garibaldi, e di presentarglielo al suo ingresso in città. Era inutile di attendere alla redazione di quell’indirizzo, giacché Liborio Romano ne trasse di tasca uno bello e composto.

Per gli angoli delle vie leggevasi un proclama di Bardari, prefetto di polizia, con cui si disponeva il popolo ad attendere il nuovo reggente. Il proclama era in data dei 6. Ricordiamoci, che Napoli era ancora occupata da truppe regie.

Nella mattina del giorno 7 essendo arrivata a Salerno la deputazione mandata a Garibaldi, questi mandò per telegrafo a Liborio Romano quanto segue:

«Italia e Vittorio Emanuele!»

«Al popolo di Napoli!»

«Tosto che saranno arrivati qui da Napoli il sindaco ed il comandante della guardia nazionale, che aspetto, verrò a voi.

«In questo momento solenne vi raccomando l’ordine e la tranquillità, che convengono alla dignità d’un popolo, che riprende il possesso dei suoi diritti».

Salerno, 7 settembre 6 1(2 antimeridiane.

Il Dittatore delle due Sicilie

«GIUSEPPE GARIBALDI».

Liborio Romano vi rispose:

«All’invincibile general Garibaldi dittatore delle due Sicilie!

«Liborio Romano ministro dell’interno e della polizia:

«Colla massima impazienza aspetta Napoli il Vostro arrivo; per salutare il redentore d’Italia e deporre nelle Vostre mani i poteri dello Stato ed il suo destino.

«Fino a quel giorno rispondo io della quiete e dell’ordine. Le Vostre parole, già rese note al popolo, sono il pegno pel successo dei miei sforzi sotto questo riguardo.

«Aspetto i Vostri ulteriori comandi, e sono colla stima la più illimitata il vostro

«LIBORIO ROMANO.»

Alle dieci e mezza antimeridiane montò Garibaldi nella strada ferrata con un piccolo seguito di ufficiali, ed arrivò a Napoli verso mezzodì. Liborio Romano alla stazione, accompagnato dai ministri che erano ancora rimasti al loro posto e coi direttori ministeriali io complimentò colle seguenti parole:

«Signor generale. Voi vedete dinanzi a Voi un ministero che ricevette i suoi poteri da Francesco II. Noi li accettammo colla persuasione di fare un sagrificio alla patria. Noi li accettammo in tempi difficilissimi, quando l’idea dell’unità italiana sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele, che già commosse i napoletani, da lunghissimo tempo, portata dalla vostra spada, proclamata dalla prossima Sicilia, era già divenuta onnipotente; quando era già svanita ogni fiducia fra governanti e governati; quando antica diffidenza e odio rattenuto, poterono manifestarsi liberamente mediante le nuove franchigie elettorali; quando il paese era scosso profondamente da gravi affanni d’una nuova e violenta reazione. In mezzo a tali circostanze accettammo il potere per mantenere la tranquillità pubblica e preservare lo stato dall’anarchia e dalla guerra civile. A tal fine furono rivolte tutte le nostre fatiche. Il paese seppe comprendere le nostre viste ed apprezzare i nostri sforzi. La fiducia dei nostri concittadini non ci ha fatto mai difetto, ed andiamo debitori alla vostra attiva cooperazione, se, fra tanto odio dei parliti, la città si mantenne illesa dalla violenza e dalla distruzione.

«Generale, tutt'i popoli del regno qui in aperta insurrezione, colà col mezzo della stampa, altrove con altre manifestazioni, hanno in modo abbastanza evidente espresso il loro voto. Anch'essi vogliono formar parte della grande patria italiana, sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele. Voi siete, generale, il simbolo più sublime di quei voli e di quell’idea, e perciò lutti gli sguardi si rivolgono a voi ed ogni speranza è riposta in voi.

«E noi amministratori del potere, cittadini ed italiani anche noi, trasmettiamo il potere nelle vostre mani, sicuri, che lo manterrete con energia, e guiderete sapientemente questo paese al nobile fine, che sta scritto sulle vostre bandiere vittoriose, come pure nel cuore di lutti: Italia e Vittorio Emanuele!»

Garibaldi ringraziò, nominando Liborio Romano il salvatore di Napoli, gli strinse la mano ed entrò in trionfo nella capitale fra il giubilo del popolo. Fra le truppe del castello si diè a vedere qualche movimento, quasi volessero salutare il dittatore a colpi di cannone; però non successe nulla. Garibaldi essendo passato nel suo ingresso in città per un corpo di guardia, l’ufficiale voleva che i soldati facessero fuoco, ma questi rifiutaronsi di obbedire. quindi smontò nella Forestia, dal cui balcone dovette parlare al popolo; ma ben presto trasferì il suo quartiere nel palazzo Angri in via Toledo.

Gli angoli delle vie coprironsi subito col seguente proclama di Garibaldi, ancora in data di Salerno:

Alla diletta popolazione di Napoli

«Figlio del popolo, è con vera stima ed intimo affetto ch’io metto il piede su questo magnifico centro di popolazioni italiane, che molti secoli di dispotismo non poterono né avvilire né costringere a piegare il ginocchio dinanzi la tirannia.

«Il primo bisogno d’Italia sia la concordia per arrivare all’unità della grande famiglia italiana. Oggi la provvidenza ci ha accordato la concordia, grazie al sublime accordo di tutte le provincie nell’idea del ristabilimento della nazione. Procuriamo ora l’unità. La Provvidenza ha dato al nostro paese Vittorio Emanuele, che da questo momento in poi. possiamo chiamare il vero padre della patria italiana.

Vittorio Emanuele, modello dei principi, imprimerà ai suoi successori i loro doveri per la felicità d’un popolo, che lo har collocato alla sua testa con impetuosa devozione.

«Ai numerosi sacerdoti, che sono penetrati del sentimento della, loro missione, stanno mallevadori della stima, che loro verrà attribuita, lo slancio, il patriottismo; il contegno veramente cristiano dei loro innumerevoli confratelli, che, dai degni monaci della Gancia fino ai nobili preti del continente napoletano, abbiamo veduto costantemente alla testa dei nostri soldati affrontare i più grandi pericoli della guerra. Lo ripeto: la concordia è il primo bisogno dell’Italia. Riceveremo quindi come fratelli tutti coloro che da prima erano discordi da noi, ma che adesso apporteranno la loro pietra all’edifizio della patria. Finalmente pieni di riguardo per la casa d’altri, vogliamo esser padroni in casa propria, lo vogliano o no i potenti della terra.»

Il 10 settembre Garibaldi emanò un proclama in cui dichiara che l'annessione non avrà luogo se prima non sia completata l’opera, cioè non siano scacciati da Roma i francesi e da Venezia gli austriaci.

Francesco II in Gaeta costituì il suo ministero nel seguente modo: Presidente dei Consiglio, ministro della guerra e ministro degli affari esterni, il generale Casella; ministro di grazia e giustizia e ministro dell’interno e polizia, cav. Ulloa fratello del generale; ministro di finanza e ad interim dell’istruzione pubblica e de' lavori pubblici, barone Carbonelli; ministro della marina, il retro-ammiraglio Del Re.

Nella notte dei 14 al 15 settembre partirono da Santa Maria diverse compagnie di bersaglieri per fare sloggiare i regii dalle posizioni prese attorno al paese. In fatti, circa le dieci e mezzo, il cannone della piazza tuonò e s’intese un fuoco di moschetteria verso Sant’Angelo, villaggio poco distante dal Volturno. Circa cento bersaglieri avevano sforzata la posizione di Sant’Angelo occupata dal 3.° di linea e di uno squadrone di cavalleria, attaccandoli alla baionetta. I regii fuggirono a Capua senza colpo ferire perdendo dei loro un capitano e parecchi soldati.

Pescara si arrese ai 15 settembre. Duemila soldati abbassarono le armi senza combattimento e senza capitolazione. Si fece la consegna della piazza, ricca di ogni maniera di provvigioni alla guardia nazionale di Spoltore.

La guarnigione del forte Sant’Elmo era composta di quattro compagnie del 6.° di linea e di una compagnia di artiglieri. Essa erasi ammutinata ai 15 settembre sulla notizia che la si voleva mandare a Capua. Essendosi un colonnello d’artiglieria presentato al forte per domandarne lo sgombro, a nome del ministro della guerra, trovò i ponti alzati, i cannonieri sui loro pezzi e fu ricevuto a colpi di fucile. informato del fatto Garibaldi, mandò a dire, col telegrafo, agli uomini della guarnigione, ch’erano liberi di tornare alle case loro, se lo desiderassero. Gran festa si fece a questa notizia. Alcuni uffiziali andarono da Garibaldi a dirgli che il. forte era a sua disposizione. Intanto la guardia nazionale era già entrata, i soldati presentarono le armi, e il tenente colonnello Garzia fece consegnare le chiavi.

Garibaldi nella notte dal 16 al 17 si recò a Santa Maria, e chiamate quattro guardie nazionali, andò carponi sotto le mura di Capua, dove ha esplorato la città e poscia è ritornato a Santa Maria.

Ogni giorno avvenivano scaramucce tra le truppe di Garibaldi e gli avamposti regii. In una ricognizione che questi ultimi spingevano fuori di Capua furono fatti prigionieri 30 lancieri, tre cacciatori e parecchi soldati di linea.

Nella mattina del 15 settembre una frazione della sezione comandata da Tùrr, che faceva parte della brigata Eber, agli avamposti di Santa Maria, fu attaccata dai regii. Essa mantenendosi freddamente al posto, respinse vivamente un primo ed un secondo attacco di cavalleria, costringendola a ritirarsi in iscompiglio. Respinta la cavalleria, i regii avanzarono un grosso corpo di fanteria; bersaglieri della brigata Eber ed i cacciatori del battaglione Corrano si fecero tosto ad incontrarlo. Scambiate le prime fucilate, i bersaglieri volontari si spinsero arditamente coi compagni all’assalto ed incalzarono il nemico fin sotto le mura di Capua, entro le quali si riparò in rotta ed in fuga, protetto dal fuoco dei cannoni dei forti di quella città.

La mattina del giorno 16 anche gli avamposti dì San Leucio della brigata Poppi ebbero uno scontro di ricognizione a cui presero parte il terzo battaglione maggiore Terracini e la seconda compagnia dei genio, capitano Tessera, sotto gli ordini del colonnello Winckler. I regii che in grosso numero occupavano la riva destra del Volturno, si ritirarono cedendo all’impeto con cui i volontarii si slanciarono sulla riva sinistra quantunque non avessero ponti, né altro mezzo possibile per guadare.

Nel mattino del 18 settembre a Capua si appiccò il fuoco tra i regii ed i garibaldini. In due siti nel medesimo tempo avveniva combattimento.

I garibaldini investivano Capua dalla parte di Santa Maria, mentre un’altra colonna dell’esercito, varcando il Volturno, cercava impadronirsi di Caiazzo per circondare la fortezza. Grave e sanguinoso fu il combattimento I regii dalla parte di Santa Maria combattevano dalle mura; i soldati di Garibaldi cercavano di puntare cannoni di rincontro alla porta di Capua per aprirla. La mitraglia della fortezza tirava contro i soldati di Garibaldi, che, situati in una lunga via piana, resistevano al fuoco, poco micidiale e niente pericoloso pei regii, che. combattevano dal forte. I cannonieri de' garibaldini in breve furono uccisi. Si ordinò allora a' soldati di prenderei cannoni e portarli sulle braccia. Ma, nell’eseguire questa operazione, la mitraglia di Capua faceva fuoco inesorabilmente su’ garibaldini, che giunsero in fine a prendere i cannoni e riportarseli.

In questo la cavalleria de' dragoni fece una sortita da Capua e si cacciò audacemente sui soldati italiani, i quali, a vederli li respinsero a colpo di moschetto, onde i dragoni rientrarono nella fortezza avendo patito perdite gravissime.

Miglior ventura toccava intanto ai militi che varcarono il Volturno. Trovato in piedi un ponte, passarono, all’altra riva e dopo breve combattimento, occuparono Caiazzo. I regii, accortisi del fatto, accorsero e cercarono cacciarli, ma vennero respinti, onde i garibaldini tennero ottime posizioni.

Il generale dittatore arrivò quando la battaglia era cominciata. Stando sempre ne’ luoghi, ove maggior era ii pericolo, egli era segno alle bombe ed alla mitraglia de' regii, che accoglieva sorridendo.

Nel 22 verso mezzogiorno i garibaldini di vedetta segnalarono una colonna di regii, che sortiva da Capua e prendeva la via di Caiazzo, lungo il Volturno. Questa colonna contava circa 8,000 uomini, dei quali 3,000 svizzeri e bavaresi; cinque squadroni di cavalleria, una gran quantità di cannoni di tutt'i calibri, fra' i quali alcuni obici.

Il colonnello Vaccheri, per non compromettere la città, e per meglio difenderla, fece battere la generale e sorti di Caiazzo, andando incontro al nemico.

Il combattimento cominciò ad un’ora e si prolungò fino le due senza che i garibaldini cedessero un palmo di terreno, malgrado una tempesta di granate e di biscaini. Terminate le munizioni, il colonnello fece suonare la carica alla baionetta, ma i bavaresi e gli svizzeri non si mossero e ricevettero fermi la carica. La mischia divenne una carnificina.

Non potendo resistere a forze si straordinariamente superiori e ad un cosi terribil fuoco di artiglieria, il colonnello Vaccheri diede l’ordine di ritirarsi in città.

Egli credeva di trovarvi una difesa ed un asilo, ma trovò invece nemici. I contadini ed alcune persone influenti sul popolo, dietro le porte e le finestre, lo accolsero a colpi di fucile e si scagliarono sui suoi soldati colle falci e colle asce, e cosi i garibaldini si trovaron tra due fuochi.

Non iscoraggiati cominciarono ad erigere barricale, sperando di essere soccorsi da Medici, che sapevano a Caserta e che avevano fatto sollecitare. Ma l’artiglio ria de' regii non diede loro il tempo. Le barricate, appena alzate, vennero sfondate e la città si trovò subito inondata dai soldati del Re.

Allora non fu più un combattimento, ma un’altra carnificina. Si servirono del pugnale una parte e l’altra. Una quarantina di garibaldini si gittò nel Volturno e lo passò a nuoto per salvarsi. I napoletani li fulminarono colle granate. Bisognò alfine cedere e disperdersi, ed ognuno cercò salute, come meglio potè, a traverso le montagne e sfidando i gorghi del fiume.

Si calcolarono a 400 i garibaldini messi fuori di combattimento in questa terribile ripresa di Caiazzo. La compagnia bolognese fu distrutta.

Al principio dell’azione i regii avevano fatto quattro prigionieri. Essi li volevano costringere a gridare Viva il Re, ma i garibaldini risposero Viva l’Italia, e furono immediatamente fucilati.

Anche le perdite dei regii furono gravi, ma minori di quelle de' garibaldini, perché questi non avevano cannoni, anzi mancavano di tutto, persino di munizioni ed erano uno contro otto. Un cannone fu preso dai garibaldini e poi ripreso dai regii.

Dopoché i garibaldini perdettero l’importante posizione di Caiazzo, le truppe napoletane furono in istato di poter minacciare.

Il 24 settembre una colonna sarda era a tre ore dal confine napoletano a Grottamare. Il Tripoti, comandante della provincia, mandò a domandare a Garibaldi come la riceverebbe se avesse voluto entrare; Garibaldi rispose: Come i nostri migliori fratelli. Cialdini in seguito scrisse per dispaccio: Passo le frontiere; che cosa ne dite? Garibaldi rispose: Vi aspetto subito. Inoltre Garibaldi scrisse al Re Vittorio Emanuele: Venite, io rimetterò il potere nelle vostre mani. Nel 29 settembre un ordine del giorno di Garibaldi diceva: I valorosi piemontesi entrano nel territorio napoletano. Presto avremo la fortuna di stringere quelle destre vittoriose.

Agli ultimi di settembre fu positivamente spedito l’ordine al generale Cialdini di marciare a grandi giornate a Napoli col corpo d’armata.

Il fuoco della rivoluzione napoletana si estese a Benevento e a Pontecorvo appartenente allo Stato pontificio. Ai primi di settembre era ormai resa nulla l’azione del governo; tuttavia c’era ancora un avanzo di autorità. Ma coi moti del Principato ulteriore anche Benevento insorse e vi si stabili un governo provvisorio. Nel giorno 8 settembre nella provincia di Orvieto successe un movimento insurrezionale; i gendarmi e i presidii pontificii vennero disarmati; nelle città di Pieve e Monteleone si costituì un Governo, e i deputati partirono per Firenze a fine di recarsi a domandare soccorso e protezione a Vittorio Emanuele. Nello stesso giorno gli insorti si mossero per Fossombrone rinunziando cosi all’idea di tentare un colpo di mano sopra Fano, sostenuta da forti presidii di artiglieria. In questo frattempo erasi avvisato a Perugia qualche tentativo d’insorgimento. La gioventù di Città di Castello usci dalla città, ed agli 11 settembre occupava Santa Giustina e Cisterna ove riunivansi colonne d’insorti. In seguilo al movimento delle truppe. piemontesi verso la Cattolica e sulla frontiera toscana, si unirono truppe d’insorti in quelle località. In breve il molo insurrezionale nelle Marche e nell’Umbria, cominciando dalla Cattolica sull’Adriatico, fece il contorno delle Romagne e della Toscana e scese pel Trasimeno sino a Orvieto. Scoppiò a Pesaro, internandosi nel Montefeltro fino ad Urbino ed a Fossombrone.

Sulla frontiera toscano-umbrica, laddove Cortona guarda Perugia, il paese rimase quieto. L’insurrezione scavalcò il Trasimeno, lasciò Perugia al nord e si mostrò a Città di Pieve, a Città di Castello, a Monteleone, stendendosi a sinistra, al nord fino a Piagaro, a poca distanza da Perugia e innondò al sud fino ad Orvieto. Ai 9 settembre giunsero a Firenze dirigendosi a Torino, i deputati delle città insorte delle Marche e dell’Umbria per domandare protezione al Re Vittorio Emanuele.

Nel giorno 11 settembre Cavour consigliò il Re che ricevesse la deputazione delle Marche e dell’Umbria e pubblicasse un proclama in cui annunciando d’accettare la tutela, comandasse al suo esercito di valicare i confini onde restaurare l’ordine civile in quelle città e dare a' popoli la libertà di esprimere i propri voti. L’audacia era grande, e la Francia mostrò di riprovarla ritirando da Torino il suo ambasciatore; solo l’Inghilterra assenti. A quel punto non c’era prudenza che nell’essere audaci; Cavour previdde che nelle potenze o avverse o freddamente amiche lo sbalordimento sarebbe stato più grande che l’ira, e però non si sarebbe venuto, da nessuna parte, ai fatti d’impedire con altre armi il progresso delle armi italiane negli Stati del Papa.

Quindi approdò tosto a Civitavecchia il vapore da guerra piemontese il Tripoli con a bordo il conte della Minerva, che per qualche anno fu incaricalo d’affari a Roma. Il delegato di Civitavecchia non permise lo sbarco, ma il conte dimostrò il bisogno di sbarcare perché aveva importanti dispacci del suo Governo, che doveva consegnarli in persona al cardinale Antonelli Allora fu concesso lo sbarco, ma con ordine che il conte non potesse partire per Roma fino a che non ne fosse dal delegato reso consapevole il Governo. Da Roma fu risposto che non si lasciasse venire il conte della Minerva perché la Santa Sede non,poteva riconoscere in lui un inviato straordinario, giacché ogni relazione diplomatica era interrotta tra la Santa Sede e il Governo Sardo; che se aveva dei dispacci pel cardinale Antonelli, li consegnasse al console francese o li mandasse.

Il conte della Minerva, nel dichiarare che aveva un dispaccio del suo Governo, ne disse anche il contenuto. Il dispaccio era una Nota del conte di Cavour in data 7 settembre, del seguente tenore:

«Eminenza,

«Il Governo di S. M. il Re di Sardegna non potè vedere senza grave rammarico la formazione e resistenza dei corpi di truppe mercenarie straniere al servizio del Governo pontificio. L’ordinamento di siffatti corpi, non formati, ad esempio di tutt’i Governi civili, di cittadini del paese, ma d’ogni lingua, nazione e religione, offende profondamente la coscienza pubblica dell’Italia e dell’Europa. L’indisciplina inerente a tal genere di truppe, l’improvvida condotta dei loro capi, le minacce provocatrici di cui fanno pompa nei loro proclami, suscitano e mantengono un fermento molto pericoloso. Vive pur sempre negli abitanti delle Marche e dell’Umbria la memoria dolorosa delle stragi e del saccheggio di Perugia. Questa condizione di cose, già per sé stessa funesta, lo diviene di più dopo i fatti che accaddero nella Sicilia e nel Reame di Napoli. La presenza di corpi stranieri, che ingiuria il sentimento nazionale ed impedisce la manifestazione de' voti dei popoli, produrrà immancabilmente la estensione dei rivolgimenti alle Provincie vicine.

«Gl’intimi rapporti, che uniscono gli abitanti delle Marche e dell’Umbria con quelli delle Provincie annesse agli Stati del Re, e le ragioni dell’ordine e della sicurezza dei propri Stati, impongono al Governo di S. M. di porre, per quanto sta in lui, immediato riparo a questi mali. La coscienza del Re Vittorio Emanuele non gli permette rimanersi testimonio impassibile delle sanguinose repressioni con cui le armi dei mercenarii stranieri soffocherebbero nel sangue italiano ogni manifestazione di sentimento nazionale. Niun Governo ha il diritto di abbandonare all’arbitrio di soldati di ventura gli averi, l’onore, la vita degli abitanti di un paese civile.

«Per questi motivi, dopo aver chiesto gli ordini di S. M. il Re, mio augusto Sovrano, ho l’onore di significare a Vostra Eminenza, che le truppe del Re hanno incarico d’impedire, in nome dei diritti dell’umanità, che i corpi mercenarii pontificii reprimano colla violenza l’espressione del sentimento delle popolazioni delle Marche e dell’Umbria.

«Ho inoltre l’onore d’invitare Vostra Eminenza, per i motivi sovra espressi, a dar l’ordine immediato onde disarmare e disciogliere quei corpi, la cui esistenza è una minaccia continua alla tranquillità dell’Italia.

«Nella fiducia che Vostra Eminenza vorrà comunicarmi tosto le disposizioni date dal Governo di S. Santità in proposito, ho l’onore di rinnovarle gli atti della mia considerazione.

«Di Vostra Eminenza,

«C. CAVOUR.»

Il Re Vittorio Emanuele avverti per telegrafo l'imperatore dei Francesi della necessità d’intervenire negli Stati romani, che le più imperiose congiunture gl’imposero. Dopo aver ripetuto all’imperatore gli argomenti esposti nell’indirizzo al Governo della Santa Sede per giustificare tale intervenzione, il Re altri ne adduce, che dice fargli una legge assoluta di far entrare un esercito nelle Marche e nell’Umbria.

Vittorio Emanuele dice ch'ei fece ogni poter suo per ristringere alla Sicilia le imprese di Garibaldi. Questi passò oltre, malgrado de' consigli del Re; per conseguenza il Governo di S. M., e S. M. personalmente, non hanno di far assegnamento sopra un’obbedienza da parte di Garibaldi. Il prestigio di questo generale ed il suo ascendente crebbero fuor di misura; non è sicuro che, nell'ebbrezza de' suoi trionfi, ei conservi molto religiosamente i principii monarchici, e si potrebbe temere che, in tal momento di sconsigliatezza, e’ patteggiasse con Mazzini.

Di più, Garibaldi ha formalmente dichiarato di voler andare a Roma, ad onta dell’esercito francese, che vi si trova. Il Re Vittorio Emanuele misura tutta l’ampiezza delle sventure che deriverebbero all’Italia da un conflitto fra Garibaldi e l’esercito francese d’occupazione a Roma. Ei vuol quindi risparmiare all’Italia, al Piemonte, alla sua corona stessa, i tremendi ed incommensurabili pericoli di una lotta, nella quale il repubblicanismo sarebbe alle prese ad un tempo co’ principii monarchici, col Piemonte medesimo e con un esercito francese.

Un esercito piemontese dee dunque varcar il confine ed impossessarsi delle Marche e dell'Umbria. Per tal maniera, la bandiera piemontese si troverà posta, per separarle, fra la bandiera francese a Roma e quella di Garibaldi, attualmente nelle due Sicilie.

Il Re Vittorio Emanuele scongiura l’imperatore di prendere in seria considerazione lo stato delle cose della penisola e la situazione, oltremodo difficile e penosa, del Re. Egli spera, anzi è convinto che, in qualsivoglia caso, l’aiuto dell’Imperatore non sarà per mancargli.

Intanto arrivò da Marsiglia a Roma un dispaccio telegrafico dell’imperatore Napoleone al suo ambasciatore, il duca di Grammont. Napoleone dichiarava che egli andava ad aumentare l’armata di occupazione a Roma a fine di proteggere la Santa Sede. Grammont, che soleva abitare Frascati, corse immediatamente a Roma, scrisse al segretario di Stato e per telegrafo rispose al suo sovrano. Cosi Sua Santità seppe le intenzioni dell’Imperatore prima di avere la Nola del conte Cavour, mentre questa nota arrivò la sera.

Il Papa ordinò che fosse risposto alla nota del primo ministro di Vittorio Emanuele, e nella sera del 40 riuniva presso di sé i cardinali Mattei, Patrizi, Alfieri, Della Genga, Di Pietro, Marini e Antonelli, e fece leggere alla loro presenza il progetto della risposta, che venne approvato. In tale occasione fu letta anche la lettera che a nome del suo sovrano aveva scritto l’ambasciatore di Francia, e quella che il generale Fanti scrisse al generale Lamoriciére.

La risposta al conte Cavour in data 14 settembre e sottoscritta dal cardinale Antonelli, segretario di Stato pontificio, era del seguente tenore:

«Eccellenza,

«Astraendo dal mezzo, di cui V. E. stimò valersi per farmi giungere il suo foglio del 7 corrente, ho voluto con tutta calma portare la mia attenzione a quanto ella mi esponeva, in nome del suo Sovrano, e non posso dissimularle ch’ebbi in ciò a farmi una ben forte violenza. I nuovi principii di diritto pubblico, ch’ella pone in campo nella sua rappresentanza, mi dispenserebbero per verità da qualsivoglia risposta, essendo essi troppo in opposizione con quelli, sempre riconosciuti dall’universalità dei Governi e delle nazioni.

«Nondimeno, tocco al vivo dalle incolpazioni che si fanno al Governo di Sua Santità, non posso ritenermi dal rilevare dapprima essere, quanto odiosa, altrettanto priva d’ogni fondamento ed affatto ingiusta la taccia, che si porta contro la truppa recentemente formatasi dal Governo pontificio, ed essere poi inqualificabile l'affronto che ad esso vien fatto, nel disconoscere in lui un diritto a tutti gli altri comune, ignorandosi fino ad oggi che sia impedito ad alcun Governo di avere al suo servizio truppe estere, siccome in fatto molti le hanno in Europa sotto i loro stipendii. Ed a questo proposito sembra qui opportuno il notare che, stante il carattere, che riveste il Sommo Pontefice, di comun padre di tutti i fedeli, molto meno potrebbe a lui impedirsi di accogliere nelle sue milizie quanto gli si offrono dalle varie parti dell’orbe cattolico in sostegno della Santa Sede e degli Stati della Chiesa.

«Niente poi potrebbe essere più falso e più ingiurioso che l’attribuirsi alle truppe pontificie i disordini deplorabilmente avvenuti negli Stati della Santa Sede; né qui occorre il dimostrarlo. Dappoiché la storia ha già registrato quali e donde provenienti siano state le truppe, che violentemente imposero alla volontà delle popolazioni e quali arti, messe in opera, per gettare nello scompiglio la più gran parte dell’Italia e manomettere quanto vi ha di più inviolabile e di più sacro per diritto e per giustizia.

«E rispetto alle conseguenze, di cui si vorrebbe accagionare la legittima azione delle truppe della Santa Sede per reprimere la ribellione di Perugia, sarebbe in vero stato più logico l'attribuirle a chi promosse la rivolta dall’esterno: ed ella, signor conte, troppo ben conosce donde venne quella suscitata, donde furono somministrati denaro, armi e mezzi di ogni genere, e donde partirono le istruzioni e gli ordini d’insorgere.

«Tutto pertanto dà luogo a conchiudere non avere che il carattere della calunnia quanto declamasi da un partilo ostile al Governo della Santa Sede a carico delle sue milizie, ed essere non meno calunniose le imputazioni che si fanno ai loro capi, dando a crederli come autori di minaccie provocatrici e di proclami proprii a suscitare un pericoloso fermento.

«Dava poi termine alla sua disgustosa comunicazione l’E. V. coll'invitarmi, in nome del suo Sovrano, ad ordinare immediatamente il disarmo e lo scioglimento delle suddette milizie, e tale invito non andava disgiunto da una specie di minaccia di volersi altrimenti dal Piemonte impedire l’azione di esse per mezzo delle regie truppe. In ciò si manifesta una quasi intimazione che io ben volentieri mi astengo qui di qualificare. La Santa Sede non potrebbe che respingerla con indignazione, conoscendosi forte del suo legittimo diritto ed appellando al gius delle genti, sotto la cui egida ba fin qui vissuto l’Europa: qualunque siano, del resto le violenze, alle quali potesse trovarsi esposta senza averle punto provocate, e contro le quali fin da ora mi corre il debito di protestare altamente in nome di Sua Santità.

«Con sensi ecc.

«G. Card. ANTONELLI.»

In seguito a questa risposta il Re ordinò alle sue truppe di entrare nelle Provincie pontificie col seguente proclama in data dell’11 settembre:

«Soldati,

«Voi entrate nelle Marche e nell’Umbria per ristaurare l’ordine civile delle desolate città e dare ai popoli la libertà di esprimere i proprii voti.

«Non avete a combattere potenti eserciti, ma a liberare infelici Provincie italiane da straniere compagnie di ventura.

«Non andate a vendicare le ingiurie fatte a me ed all’Italia, ma ad impedire che gli odii popolari rompano a vendetta della mala signoria. Voi insegnerete coll’esempio il perdono delle offese e la tolleranza cristiana a chi stoltamente paragonò all’islamismo l’amore della patria italiana.

«In pace con tutte le grandi potenze ed alieno da ogni provocazione, io intendo a togliere dal centro della Italia una cagione perenne di turbamento e di discordia. Io voglio rispettare la sede del capo della Chiesa, al quale sono sempre pronto a dare, in accordo colle Potenze alleate ed amiche, tutte quelle guarentigie d’indipendenza e di sicurezza che i suoi ciechi consiglieri si sono indarno ripromessi dal fanatismo della setta malvagia, cospirante contro la mia autorità e la libertà della nazione.

«Soldati!

«Mi accusano di ambizione. Si, ho un’ambizione, ed è quella di restaurarci principii dell’ordine morale io Italia e di preservare l'Europa dai continui pericoli della rivoluzione e della guerra.»

«Il Gabinetto piemontese diresse alle potenze il seguente memorandum in data del 12 settembre:

«La pace di Villafranca, mentre assicurava agl'Italiani il diritto di disporre di sé medesimi, collocava le popolazioni di parecchie Provincie del nord e del centro della Penisola in grado di surrogare ai loro Governi, sottomessi all’influenza straniera, il Governo nazionale del re Vittorio Emanuele.

«Questa grande trasformazione si è operata con un ordine mirabile, e senza che alcuno dei principii, su cui riposa l’ordine sociale, ne fosse scosso. Gli eventi, che si compierono nell’Emilia e nella Toscana, hanno. provato all’Europa che gl’Italiani, ben lungi dall’essere travagliati da passioni anarchiche, non domandano che di essere retti da istituzioni libere e nazionali. Se questa trasformazione avesse potuto estendersi a tutta la Penisola, la quistione italiana sarebbe ormai pienamente risolta. Lungi dall’essere per l’Europa una causa. di apprensione e di pericoli, l’Italia sarebbe d’ora innanzi un elemento di pace e di conservazione. Sventuratamente la pace di Villafranca non ha potuto abbracciare che una parte dell’Italia. Essa ha lascialo la Venezia sotto il dominio dell’Austria, e non ha prodotto alcun cambiamento nell’Italia meridionale e nelle Provincie rimaste sotto il dominio temporale della Santa Sede.

«Non è nostra intenzione di trattare-adesso la quistione della Venezia. Ci basterà di rammentare che, Ano a tanto che questa quistione non sia risolta, l’Europa non potrà godere d’una pace duratura, sincera. Rimarrà sempre in Italia una potente cagione di torbidi e di rivoluzione, che, a dispetto degli sforzi de' Governi, minaccerà incessantemente uno scoppio d’insurrezione e di guerra nel centro del continente. Ma questa soluzione bisogna saperla attendere dal tempo. Qualunque sia la simpatia che ispira a buon diritto la sorte ognor più infelice de' Veneti, l’Europa è talmente preoccupata delle conseguenze incalcolabili di una guerra, essa ha tale un vivo desiderio, un sì irresistibile bisogno di pace, che sarebbe poco savia cosa il non rispettarne la volontà. Cosi non è delle quistioni relative al centro ed al mezzogiorno della Penisola.

«Legato a un sistema tradizionale di politica, il quale non è stato meno fatale alla sua famiglia che al suo popolo, il giovine Re di Napoli si è messo, tosto che sali al trono, in opposizione flagrante col sentimento nazionale degl’italiani, come pure coi principii che governano i popoli inciviliti. Sordo ai consigli della Francia e dell’Inghilterra, ricusando persino di seguire gli avvertimenti che gli dava un Governo, di cui non poteva mettere in dubbio né la costante e sincera amicizia, ne l’attaccamento al principio d’autorità, egli ha respinto per un anno intero tutti gli sforzi del Re di Sardegna per indurlo a un sistema di politica più conforme ai sentimenti che dominano il popolo italiano.

«Quel che la giustizia e la ragione non hanno potuto ottenere, l’ha testé compiuto la rivoluzione. Rivoluzione prodigiosa, che riempì l’Europa di stupore pel modo quasi provvidenziale in cui ebbe luogo, e le ha incusso ammirazione per un guerriero illustre, le cui gloriose gesta richiamano alla memoria quanto di più sorprendente racconti la poesia e la storia.

«La trasformazione, ch’è avvenuta nel Reame di Napoli, benché siasi operata con mezzi meno pacifici e regolari, che non quella dell’Italia centrale, non è punto meno legittima: le conseguenze non ne son punto meno favorevoli ai veri interessi dell’ordine ed al consolida mento dell'equilibrio europeo.

«Tosto che la Sicilia e Napoli faranno parte integrante della grande famiglia italiana, i nemici dei troni, non avranno più alcun valido argomento da accampare contro i principii monarchici; le passioni rivoluzionarie non troveranno più un teatro dove le più insensate imprese avevano possibilità di riuscire, o almeno di eccitare la simpatia di tutti gli uomini generosi.

«Si avrebbe dunque ogni motivo di credere che l’Italia possa alfine rientrare in una fase pacifica, tale da dissipare le preoccupazioni europee,se le due grandi regioni del nord e del mezzodì della Penisola non fossero separate da Provincie che si trovano in uno stato deplorabile.

«Il Governo romano, avendo rifiutato di associarsi menomamente al grande movimento nazionale, avendo anzi continuato a combatterlo col più lamentevole accanimento, si è posto da lungo tempo in lotta formale colle popolazioni, che non erano riuscite a sottrarsi al suo dominio.

«Per contenerle, per impedir loro di manifestare i sentimenti nazionali, da cui sono animate, esso ha fatto uso del potere spirituale che la Provvidenza gli ha confidato ad uno scopo ben più elevato che non sia quello assegnato al governo politico.

«Presentando alle popolazioni cattoliche la situazione dell’Italia sotto colori cupi e falsi, facendo un passionato appello al sentimento, o, per meglio dire, al fanatismo, che tanto può ancora su certe classi poco istrutte della società, esso ha potuto raccogliere danaro ed uomini da tutti gli angoli dell’Europa e formare un’armata composta pressoché esclusivamente di gente straniera, non solo agli Stati romani, ma a tutta l’Italia.

«Era riserbato agli Stati romani di presentare nel nostro secolo lo strano e doloroso spettacolo di un Governo ridotto a mantenere la sua autorità sopra i propri sudditi per mezzo di mercenarii stranieri, accecati dal fanatismo o animati dall’esca di promesse, che non potrebbero effettuarsi, eccetto che gettando nella desolazione intere popolazioni.

«Tali fatti provocano al più alto grado l’indignazione degl’italiani che hanno conseguita la libertà e la indipendenza. Pieni di simpatia pei loro fratelli dell’Umbria e delle Marche, essi manifestano da ogni parte il desiderio di concorrere a far cessare uno stato di cose ch'è un oltraggio a principii di giustizia e di umanità, e che vivamente irrita il sentimento nazionale.

«Il Governo del Re, benché partecipasse a questa dolorosa emozione, ha creduto di dovere sino adesso impedire e prevenire ogni tentativo disordinato per liberare i popoli dell’Umbria e delle Marche dal giogo che gli opprime. Ma esso non potrebbe dissimularsi che l’irritazione ognor crescente delle popolazioni non potrebb’essere più a lungo contenuta senza aver ricorso alla forza ed a misure violenti. D’altronde, la rivoluzione avendo trionfato a Napoli, chi potrebbe arrestarla alla frontiera degli Stati romani, dove la invocano abusi non meno gravi di quelli che spinsero irresistibilmente in Sicilia i volontari dell’alta Italia?

«Alle grida degl’insorti delle Marche e dell’Umbria l’Italia intera si è commossa. Non è forza che possa impedire che dal mezzodì e dal nord della penisola migliaia d’italiani accorrano in aiuto de' loro fratelli, minacciati da disastri simili a quelli di Perugia.

«Se esso rimanesse impassibile in mezzo a questo universale rapimento, il Governo del Re si metterebbe in opposizione diretta colla nazione. L’effervescenza generosa che gli eventi di Napoli e della Sicilia hanno prodotto nelle moltitudini, degenererebbe tantosto nell’anarchia e nel disordine.

«Allora sarebbe possibile, e persino probabile, che il movimento regolare, che si è sinora operato, assumesse tutt'a un tratto i caratteri della violenza e delle passioni. Per quanto le idee d’ordine possono sugl’italiani, vi hanno tali provocazioni, a cui i popoli più inciviliti non resisterebbero. Certamente, eglino sarebbero più a compiangere che a biasimare, se, per la prima volta, si lasciassero trascinare a reazioni violenti, le quali si trarrebbero dietro le più funeste conseguenze. La storia ci insegna che popoli, i quali sono oggigiorno alla testa dell’incivilimento, hanno commessi, sotto l’impero di cause meno gravi, i più deplorabili eccessi.

«Se esso esponesse la penisola a cosiffatti pericoli, il Governo del Re si sentirebbe colpevole verso l’Italia e non sarebbe meno grave la sua colpa rimpetto all’Europa.

«Esso verrebbe meno a' suoi doveri verso gl’italiani, che hanno sempre prestato orecchio ai consigli di moderazione, ch'esso ha a loro dati, e che gli affidarono l’alta missione di dirigere il movimento nazionale. Mancherebbe a' suoi doveri verso l’Europa, perch’esso ha contratto verso di lei l’impegno morale di non permettere che il movimento italiano si perda nell’anarchia e nel disordine.

«Egli è per adempiere a questo doppio dovere che il Governo del Re, dal momento che le popolazioni insorte dell’Umbria e delle Marche gli hanno inviate deputazioni per invocare la sua protezione, si è fatto sollecito di loro accordarla. Contemporaneamente egli spediva a Roma un agente diplomatico per domandare al Governo pontificio l’allontanamento delle legioni straniere, di cui esso non potrebbe servirsi per comprimere le manifestazioni delle Provincie contermini alle nostre frontiere, senza forzarci ad intervenire in loro favore.

«Dietro il rifiuto della corte di Roma di ottemperare a tale domanda, il Re ba dato ordine alle sue truppe di entrare nell'Umbria e nelle Marche, colla missione di ristabilirvi l’ordine e di lasciare libero campo alle popolazioni di manifestare i loro sentimenti.

«Le truppe regie debbono rispettare scrupolosamente Roma ed il territorio che la circonda. Esse concorrerebbero, se mai ne fosse d’uopo, a preservare la. residenza del Santo Padre da ogni attacco e da ogni minaccia; perché il Governo dei Re saprà sempre conciliare i grandi interessi dell’Italia col rispetto dovuto al Capo augusto della religione, a cui il paese è sinceramente attaccato.

«Così operando, esso ha convinzione di non urtare i sentimenti de' cattolici istrutti, i quali non confondono il potere temporale, di cui la Corte di Roma è stata investita durante un periodo nella sua storia, col potere spirituale, ch'è la base interna ed incrollabile della sua autorità religiosa.

«Ma le nostre speranze vanno ancora più lungi. Noi abbiamo fiducia che lo spettacolo dell’unanimità dei sentimenti patriottici, che oggi scoppiano in tutta l’Italia, rammenterà al Pontefice Sovrano ch'esso è stato, alcuni anni sono, il sublime ispiratore di questo movimento nazionale. Il velo che gli avevano messo sugli occhi consiglieri animati da interessi mondani, cadrà; ed allora riconoscendo che la rigenerazione dell’Italia è nei disegni della Provvidenza, egli ridiverrà il padre degli Italiani, come non cessò mai d’essere il padre augusto e venerabile di tutt’i fedeli.»—

Alcuni insorti, la mattina del 40 settembre, conducevansi a Cisterna e S. Giuliano, piccoli paesi nel con fine di Toscana, ed ivi, aiutati dalla guardia nazionale di Borgo Santo Sepolcro, atterravano gli stemmi pontificii, inalberando lo stendardo tricolore.

Avvisati di ciò il Governo e la forza di Città di Castello, si posero a guardia, sia per prevenire ogni tentativo d’insurrezione, sia per respingere gl’insorti se movessero contro la città.

Nelle prime ore del mattino dell’44 settembre un dispaccio del generale pontificio Schmid rassicurava il governatore locale ed il comando della forza, avvertendoli che non era a temere da quella parte invasione di bande rivoluzionarie e meno poi doversi temere di invasione per parte delle truppe piemontesi. Stimolava a resistere energicamente contro i ribelli, ove avessero tentato un colpo di mano sulla città. I gendarmi, che formavano il presidio, si tennero bastanti all'uopo, tanto più che alle 10 del mattino venne avviso che i rivoltosi del di fuori, invece di avanzare per Castello, si erano tutti ritirati per Santo Sepolcro in Toscana.

Al mezzodì per altro venne l’annunzio che una moltitudine di gente, con una bandiera innanzi, avanzava sopra la città, e si tenne per fermo che fosse un ritorno dei rivoltosi, tanto più che un turbinio di polvere, nascondendo il loro numero, neppur dava a riconoscerli.

I gendarmi erano già sulle difese, quando quella massa avanzava verso porta S. Giacomo, e senza neppur sospettare di truppe regolari, principiarono una fucilala, che durò breve tempo, giacché fu subito occupata e violentemente aperta la porta, ed ebbero da quella ingresso le truppe piemontesi.

I gendarmi ripiegarono sai centro e giunti in piazza furono raggiunti ed attorniati dai soldati regolari, che allora soltanto vennero riconosciute per truppe sarde. Fu subito innalzata la bandiera di tregua e fini ogni conflitto.

Dal generale di brigata, che comandava quel corpo, fu intimata al governatore locale l’occupazione militare della città, e si firmò un atto col quale si rispettava la sovranità del pontefice, il suo stemma ed il suo Governo.

Alle ore 11 pomeridiane però giunse il generale piemontese de Sonnaz, il quale fece altra intimazione allo stesso governatore dicendogli ch’egli s’impadroniva del Governo a nome del Re Vittorio Emanuele ed intendeva sostituire il suo stemma a quello del S. Padre.

L’attacco di Pesaro per parte delle truppe piemontesi in numero di 6000 cominciò con quattro batterie alle 3 pomeridiane e durò sino alle 8 del 12. Ripigliò alle 4 antimeridiane sino alle 9 del 13. I pontifici! si arresero al nemico infuriato che non voleva venire a patti, ed aveva ordinato l'avvicinamento di altre quattro batterie.

Le bombe, i razzi, le palle grandinavano orribilmente. Il forte andò tutto in isfascio.

Il lenente maresciallo Zappi, dello stato maggiore generale, fu ivi fatto prigioniero; la stessa sorte toccò al capitano conte Zichv seniore e al suo fratello più giovane, che prese parte alla battaglia come volontario senz’essere militare.

Il capitano conte Zichy rimase ferito e quattro compagnie di truppe pontificie, indigene, furono fatte prigioniere.

Lamoriciére allora diede l’ordine di ritirarsi in fretta verso Ancona, dacché le truppe sparse non potè vano assolutamente resistere al nemico.

Fano fu pure attaccata da' piemontesi e cannoneggiata da 14 cannoni per 6 ore. La ritirata fu fatta da tutte le divisioni di truppe pontificie straniere col maggior ordine.

Nel fatto di Fano restarono prigionieri il primo tenente conte Wurbrand e il primo tenente Dallyig, entrambi feriti. La perdita, fra morti e prigionieri delle truppe pontificie, fu insignificante. I bagagli degli uffiziali caddero quasi tutti in potere de' piemontesi.

Nel giorno 13 settembre il colonnello Kanzler voleva marciare sopra Sinigaglia per prendere la via verso il mare, ma, avendo sentito che la città era occupata da una divisione piemontese, si fermò sulle colline e andò a guadare la Misa, otto chilometri al di sopra della sua foce.

La divisione piemontese informata della presenza di quella colonna, tentò di sbaragliarla; la sua cavalleria ed artiglieria, seguita dalla fanteria, la raggiunsero verso Sant’Angelo.

La battaglia cominciò ad un’ora pomeridiana e durò fino alle cinque della sera. I pontificii respinsero con successo molte cariche di cavalleria piemontese, ma finalmente questa penetrò nelle fila dei pontificii, gli sciabolò e li disperse.

Siccome l’artiglieria pontificia recò assai gravi danni ai lancieri piemontesi, questi cessarono d’inseguirla a monte Marciano.

In questo combattimento i pontificii perdettero 150 uomini tra morti, feriti e prigionieri.

Per altro il colonnello pontificio Kanzler seppe resistere aprendosi la strada per mezzo al nemico, e percorrendo 15 miglia, giunse ad Ancona a notte fitta.

Il generale pontificio Schmid, giunto il 12 a Città della Pieve e non avendo più trovato, come più sopra vedemmo, il colonnello Masi, che l’aveva occupata, venne a sapere, da una parte, che Orvieto aveva capitolato, e, dall’altra, che un corpo di 6000 piemontesi aveva occupato città di Castello e minacciava Perugia. Si mise in via per quest’ultima città, alla quale pervenne la mattina del 14.

La città di Perugia, posta in buono stato di difesa era occupata da 400 uomini è provveduta di viveri e di munizioni di ogni qualità. Il generale Schmid, entrandovi, aumentava quella guarnigione di due altri battaglioni di circa 1000 uomini, diede alcuni ordini e fece occupare i posti.

I piemontesi, condotti dal generale Sonnaz, attaccarono il fuoco, e si combatté di contrada in contrada. Dopo tre ore di pugna i piemontesi stessi innalzarono, bandiera bianca, ed un capitano di stato maggiore si avanzò per intimare la resa al generale Schmid, dicendo che ogni resistenza era inutile, poiché il generale Fanti era per giungere in quello stesso giorno con tutte le sue forze.

Il generale Schmid si accordò col generale in una sospensione d’armi di cinque ore per aspettare il generale Fanti, col quale, avrebbe stipulato le condizioni della resa. Nel frattempo i piemontesi dovevano rimettere alle truppe pontificie la guardia delle porte della città, condizione che non fu eseguita.

Giunse il generale Fanti. Il generale pontificio Schmid, alle ore due, si recò presso quel generale, accompagnato dal colonnello Lazzari e dal tenente colonnello Courten, ma non avendo potuto rimanere d’accordo sulle basi d’una capitolazione, domandò che si prolungasse il termine della tregua per prender consiglio. Il generale pontificio fece a tal effetto adunare il corpo degli uffiziali, i quali, veduta la gravità delle circostanze, non si mostrarono alieni a che la proposta del generale piemontese fosse accettata, cioè che la truppa dimettesse le armi, che si concedesse a ciascuno il libero rimpatrio e che gli uffiziali conservassero il loro bagaglio. Allora il generale Schmid incaricò i due ufficiali superiori Lazzarini e Courten a conchiudere la capitolazione sulle basi proposte dal generale piemontese, aggiungendovi per altro che gli ufficiali potessero cingere la spada, il che fu accordato, e gli vennero consegnati gli articoli della capitolazione.

In quest’azione i piemontesi ebbero a sopportare la perdita del capitano Meana del 1.° granatieri, del tamburo maggiore del 1.° granatieri e di alcuni soldati.

I feriti furono Bassecour, maggiore di artiglieria; Nascimbene, capitano del 1.° granatieri; Pollini sottotenente dei bersaglieri; Gambino, luogotenente di artiglieria. Di soldati ebbero 39 feriti.

Il generale Schmid fu condotto a Torino dai piemontesi. Giunto colà, fu condotto al conte Cavour, il quale gli fece rilasciare un passaporto per "ritornare io patria.

Il generale Fanti dopo il fatto di Perugia, proseguì rapidamente la sua marcia su Foligno, ove giungeva ai 15 settembre di sera e riusciva cosi a tagliare la ritirata di Lamoriciére a Roma.

Pergola, essendo stata abbandonata dagl’insorti, che erano corsi in aiuto dei prossimi paesi, fu invasa da numerosa truppa pontificia. Appena la truppa parti, i cittadini abbassarono di nuovo le armi del Papa.

Lo stesso accade a S. Lorenzo in Campo, paese prossimo a Pergola, dove i pontificii arrestarono il conte Luigi Amateri e il sig. Francesco Monti e li condussero nel forte di Ancona.

Foligno ai 16 settembre innalzò la bandiera tricolore. La città di Todi insorta, ba battuto e cacciato i gendarmi pontificii. Venne abbassato lo stemma papale ed innalzato lo stemma regio. Si è costituito un Governo provvisorio a nome del Re Vittorio Emanuele.

Giunto l’esercito piemontese nel 49 settembre a Foligno, ove stabilì il quartier generale, le truppe proseguirono la marcia per Colfiorito e quindi per Camerino, Macerata, ecc. I delegati apostolici di quelle città caddero in potere de' piemontesi.

Frattanto il generale Brignone, con una divisione e poca artiglieria, si conduceva a Spoleto.

La sera del 17 quella città si pronunciò, ed il delegato pontificio si ridusse in fortezza ove comandava 0’ Reilly.

Il comandante pontificio di quella città, 0’Reilly, era giunto in Spoleto nel li settembre a due ore del mattino, sendo partito il 13 da Foligno. La sua prima cura fu quella di approvvigionare la rocca, al qual fine i suoi soldati lavorarono giorno e notte, e fece rinchiudere tutte le munizioni nella nuova polveriera. La guarnigione della città ascendeva a 000 uomini di truppe estere ed indigene, tra i quali 300 irlandesi ed un centinaio di turcos.

Nella notte del 46 0’Reilly si avvide che i piemontesi si avvicinavano e prendevano posizione sulle alture circostanti alla città. Egli non potò impedir loro di prendere, quelle posizioni per mancanza di artiglieria.

Alle quattro del successivo mattino la guarnigione era sotto le armi ai varii posti che le vennero assegnati dal comandante. Gl’irlandesi furono posti alla porta e sul muro di fianco, ritenendo che questo sarebbe stato il punto principale d’attacco da parte dei piemontesi. Il comandante dispose le reclute svizzere e tedesche del 2.° reggimento estero in numero di 160 sulla banchetta del muro dirimpetto alla montagna, col rinforzo di una sezione d’irlandesi alla gran breccia che trovavasi in quel muro e che aveva in fretta fatto riparare con balle di coperte di letti. Il sergente Schafler con carabinieri e bersaglieri fu posto ad un’altra piccola breccia. I tiragliatori (franco-belgi) furono posti sopra una galleria che metteva sugli approcci della porta. I gendarmi, sotto gli ordini del maggior Calandrili e del capitano Volta, ed alcuni soldati italiani, furono lasciati in riserva.

A sei ore il forte fu circondato, ed un capitano di stato maggiore venne ad intimare al comandante O’Reilly la resa per parte del generale Brignone. O’Reilly rifiutò di arrendersi, ed il generale piemontese propose di prendere sotto la sua protezione tutte le donne che si trovavano nella rocca e di accordar loro un salvocondotto. Il comandante fece uscire sua moglie e quella del capitano Boschan.

A quattr’ore i piemontesi aprivano il fuoco contro i pontificii, che nello stesso tempo erano molestati dal fuoco dei bersaglieri sulle montagne vicine.

A undici ore, monsignor arcivescovo andò come parlamentario a proporre al comandante pontificio di arrendersi, ma quel comandante rifiutò la proposta e ricominciò il fuoco.

A tre ore dopo mezzodì, l'artiglieria piemontese, che aveva tirato continuamente sulla porta, avendo prodotto gran danni ai muri laterali, e diverso palle avendo traforato la porta stessa, il generale piemontese Brignone stimò ch’era tempo di dare l’assalto, e una colonna composta di 2 compagnie di bersaglieri, e di 2 battaglioni di granatieri, sotto gli occhi del generale Brignone, il quale era a cavallo al basso della rocca, protetta da un vivo fuoco per parte dei suoi, corse all’assalto.

Quantunque ricevessero due colpi ili mitraglia per parte del nemico, si avanzarono coraggiosamente fino alla porta, che tentarono di atterrare a colpi di accetta; ma si era usata la cura di barricarla all’interno, ed i pontificii risposero con colpi di fuoco e di baionetta attraverso i fori che si trovavano nella porta.

Il tenente pontificio Grean ricevette un colpo di fuoco sul braccio nel difendere la porta. Durante questa lotta un capitano dei bersaglieri piemontesi ebbe la sciabola spezzata da una palla e si salvò con difficoltà da un colpo di baionetta; un tenente fu mortalmente ferito. I piemontesi si ritirarono lasciando parecchi morti presso la porta e su tutta la strada che vi conduceva.

I piemontesi non rinnovarono l’assalto, ma continuarono senza posa il fuoco di moschetteria e degli obici. Ai pontificii fu forza far portare sotto una grandine di palle, cariche, gaiette ed acqua ai soldati, sondo impossibile di farli rientrare nel fabbricato centrale.

Gli obici diedero fuoco due volte al tetto ed alle camere al di sopra della polveriera, ma i pontificii pervennero ad estinguerlo, però con grave fatica.

Questo stato di cose continuava fino al cadere della notte. I soldati pontificii erano stanchi per le fatiche dei giorni precedenti e per una lotta che aveva durato 12 ore senza interruzione. Là parte ed i lati della rocca erano stati crivellati e la fabbrica centrale aveva assai sofferto dagli obici. Il comandante O’Reilly risolse quindi di cedere qualora il generale piemontese offrisse patti onorevoli.

Monsignor delegato essendosi presentato come parlamentario alle ore 8 di sera, il comandante rese la rocca con una onorata capitolazione.

La rocca fu subito occupatale tutt’i pontificii uscirono dalla medesima.

Le perdite dei piemontesi furono molto più rilevanti che quelle dei pontificii, i quali combattevano al coperto.

Nel giorno 17 il colonnello Luigi Masi partì da Orvieto per Montefiascone, tenendo la via di Cellino, per girare il nemico e tagliarlo fuori della sua base di operazione ch'era a Viterbo.

La guarnigione di Montefiascone consisteva in 110 bersaglieri della compagnia del capitano pontificio Du Nord e due uffiziali, non che 73 gendarmi, 10 sedentarii, comandati da un uffiziale e tre finanzieri, parimente con un uffiziale.

Nei 18 di sera, una pattuglia pontificia formata da due gendarmi a cavallo e sei a piedi doveva portarsi a Cellino dietro ordini pervenuti al capitano da Viterbo. Era partita da dieci minuti, quando i gendarmi a piedi tornarono a Montefiascone correndo ed annunziarono al capitano Du Nord che avevano dato in un’imboscata. I due gendarmi a cavallo erano stati fatti prigionieri dai piemontesi.

Il capitano mandò una pattuglia a riconoscere il nemico e poscia vide egli stesso dalle vigne sbuccare tre colonne di piemontesi di 800 uomini circa ognuna. Fece subito richiamare la pattuglia, già uscita dalla città, che sosteneva un vivissimo fuoco contro gli assalitori, dai quali era inseguita fin dentro la città, che aggredivano in tre punti.

Il colonnello Masi fece occupare i casini e i conventi avanzati a passo di corsa: altra colonna di attacco rintuzzava i sortiti sotto viva fucilata. La lotta durò per due ore.

I pontificii stretti vigorosamente di fronte ed ai fianchi, parte fuggirono per la porta Borgariglia sottostante al forte, e parte rimasero nel forte, che si arrese a discrezione.

Il capitano Du Nord, dopo aver dato l’ordine della ritirata, usci dal giardino in cui trovavasi dal solo lato libero ancora, aprendosi la strada alla baionetta e rovesciando varii drappelli appostati al suo passaggio. Arrivato fuori di città, prese la strada di Viterbo, ma incontrò truppe nemiche che gli attraversavano il cammino, e non fu che col favor della notte che potè guadagnare la strada di Marta, e quindi, dirigendosi verso Toscanella senza mai fermarsi, giunse nella mattina appresso a Corneto.

I piemontesi ebbero quattro morti ed altrettanti feriti. I pontificii lasciarono in potere dei piemontesi 50 prigionieri austriaci, svizzeri e gendarmi; un tenente dei gendarmi, uno dei finanzieri, quattro carri con fucili e un centinaio di stulzen, munizioni, effetti di abbigliamento, tutt'i zaini e dieci cavalli.

Ai 18 settembre le truppe pontificie rioccuparono Pontecorvo, che aveva abbassato gli stemmi pontificii.

La città di Terni insorse al grido di Viva Vittorio Emanuele, e s’instituì un Governo provvisorio.

La guarnigione pontificia abbandonò Viterbo e la città si pronuncio per Vittorio Emanuele. Una deputazione di signori e signore andò ad invitare il colonnello Masi ad entrare in Viterbo, ed i deputati di questa città implorarono la protezione del Re.

La colonna Masi entrò coi cacciatori del Tevere in Civitacastellana ed occupò la fortezza facendo 60 prigionieri. I piemontesi entrarono pure a Corneto nel 24 settembre, avendo saputo che i francesi l'avevano abbandonata ritirandosi a Civitavecchia.

Dopo poche ore di fuoco la guarnigione del forte San Leo si è resa a discrezione ed i regii occuparono il forte a mezzodì del 24 settembre.

Tutti i Castelli che circondano il lago di Vico insorsero in nome di Vittorio Emanuele.

Ai 26 settembre la bandiera tricolore sventolava su tutt’i dintorni di Roma, a Castel Nuovo di Porto, che dista da Roma sole 42 miglia, al Castel del Duca di Rignano e a Castel di Bracciano, ch'è una proprietà del principe Odescalchi.

Nella notte del 16 al 17 settembre il generale Lamoricière occupò Loreto abbandonata dai piemontesi. Al levar del sole quel generale riconobbe che gli avamposti dei piemontesi non erano che 4,800 metri lontani da lui.

Al nord della collina, su cui s’innalza la città di Loreto, scorre il fiumicello chiamato il Musone, che si gitta in mare ad una lega e mezza incirca sotto della città. La valle di quel fiume ha una larghezza, che varia da 200 a 300 metri, piena di alberi e tagliata da fossi d’irrigazione. Circa una lega sotto Loreto ed a 200 metri circa (lena sua foce, il Musone riceve dalla sua riva sinistra un grande affluente chiamato l’Aspio. Tra questi due fiumi, e nell’angolo che formano prima di unirsi, si stende la catena delle colline, sulle quali è posto Castelfidardo, e, due leghe più lungi, il comignolo sul quale è costrutto Osimo. All’est dell’Aspio, e sulla sua riva s'innalzano gradatamente le colline, che sono unite al monte d’Ancona, e che separano quel grosso ruscello dal mare. La valle d’Aspio è meno larga di quella del Musone, ma vicino al confluente dei due fiumi, le due pianure si riuniscono e la hanno l’estensione di una lega in ogni senso.

In questa parte il terreno è generalmente umido, non v’hanno alberi, e la terra è tutta scoperta. Per andare da Loreto ad Ancona si scende nella valle del Musone, si passa questo fiume sopra un ponte di legno a circa 1500 metri dalla città, e 500 metri più lungi si trova un affluente del Musone (riva sinistra), detto Vallato. Quest’affluente, che si passa sopra un ponte di legno vicino al suo sbocco nel Musone, presenta un grave ostacolo. Le sue rive sono erte, il letto è pieno d’acqua e di fango profondo, che lo rende difficile a guadarsi dalla fanteria e impraticabile alla cavalleria ed ai carri.

Fra questi due ponti i piemontesi avevano tagliala la strada e posto due cannoni, che la sera innanzi avevano fatto fuoco contro gli esploratori pontificii.

Vicino a quest’ultimo ponte, la strada si biforca e si hanno due strade, quasi del pari buone, che mettono ad Ancona. La prima, quella che segue la strada di Osimo, risale per la valle del Musone, lascia a destra Castelfidardo e s’innalza con pendio dolce sulle colline. La seconda, detta il Camerano, monta le prime salite del comignolo, su cui è posto Castelfidardo, lascia questo villaggio a 200 metri sulla sinistra, passa pel cascinale delle Crocette, discende nella valle d’Aspio, varcandolo sopra un ponte di pietra, sale sull’alta collina di Camerano, per dove passa, e continua direttamente sopra Ancona.

Il piccolo affluente del Musone, su cui i piemontesi avevano collocato le grandi guardie con due cannoni, era occupato da bersaglieri. Di dietro, circa un chilometro, otto cannoni, sostenuti da due reggimenti di cavalleria, appoggiavano questa avanguardia. I pendìi delle colline di Castelfidardo erano occupati dalla fanteria, nascosta dietro gli alberi e nelle strade affondate; il villaggio stesso era occupato da soldati.

Dopo il mezzodì una colonna piemontese di fanteria di tre battaglioni discese da Castelfidardo. I pontifici! credettero ad un assalto. Una divisione piemontese, veduta il giorno innanzi ad Osimo, discendeva nella pianura del Musone, s’avviava verso Recanati e si riteneva che fosse per assalire i pontifica dai lato della strada che da quella città si dirige a Loreto. La cavalleria aveva lasciato il suo posto, che occupava il mattino, e camminava da questo lato. Tra breve si vide nella valle circa una lega e mezza ad di sopra dei pontifico, una forte linea di battaglia, dietro il ponte della strada d’Osimo a Recanati, e quasi nello stesso tempo, i pontificii, scopersero la testa di colonna del generale pontificio Pimodan a tre leghe dietro di loro sulla strada da essi fatta nel giorno innanzi. Il movimento notato dei piemontesi non continuava.

Dalle relazioni il generale Lamoricière sapeva che una forza considerevole d’artiglieria e di fanteria piemontese occupava Camerario, e come quasi tutt'i villaggi tra Castelfidardo, Osimo e Camerario avevano ricevuto truppe, quel generale giudicò di aver a fronte tre divisioni di fanteria. Il generale pontificio Pimodan giunse poco prima di sera, e Lamoricière approfittò del rimanente del giorno per indicargli le posizioni del nemico, dargli gli ordini per le distribuzioni e gli fece parte delle disposizioni da lui prese pel giorno dopo, perché egli voleva attaccare senza badare a ciò che aveva di fronte.

Il suddetto generalo pontificio Lamoricière venne a sapere da una lettera del colonnello Gaddy, comandante superiore d’Ancona, che una flotta composta di undici navi da guerra era passata, nel mattino, innanzi ad Ancona per andare a collocarsi innanzi a Sinigaglia e che il bombardamento d’Ancona seguirebbe nel giorno seguente.

I pontificii, per recarsi ad Ancona, non potevano tentar di passare per la. strada d’Osimo o per quella di Camerano perché sarebbe loro stato uopo di passar prima di tutto i due punti del Musone e del Vallato, operazione che avrebbe costato troppa gente. Passando per la strada di Osimo si avrebbero avvicinato al centro del nemico, che circondava Ancona dalla foce dell'Esino fin presso a quella del Musone. Passando per quella di Camerano essi avrebbero dovuto, come per giungere ad Osimo, cacciar il nemico da Castelfidardo per arrivare alle Crocette, operazione difficilissima, varcare due volte l’Aspio, i cui punti dovevano essere tagliati e certamente difesi, e finalmente impadronirsi di Camerano, città cinta di mura e posta sur un comignolo molto erto.

AI generale Lamoricière sembrò dunque che la sola probabilità, che; gli rimanesse, di giungere ad Ancona, era di dirigersi versò quella città per la strada detta del monte d’Ancona. Seguendo questa direzione Lamoricière assaliva l’estrema sinistra, si appoggiava al. mare o a terreni impraticabili della montagna, e se alcune difficoltà del cammino lo avessero costretto ad abbandonare una parte de' suoi bagagli, era per Fui minimo inconveniente nella situazione in cui si trovava. Egli decise dunque d’impegnarvisi e determinò il suo piano pel combattimento e per la marcia.

I piemontesi occupavano, come abbiamo veduto, le colline, che discendono dal comignolo di Castelfidardo verso la pianura, estendendosi fino a 4 o 500 metri dal Musone. Nel mattino del 18 un grosso distaccamento era posto in una cascina, sita in mezzo alla costa, ed una forza, circa di due battaglioni, occupava un’altra cascina posta a 5 o 600 metri più indietro o sull’alte di un monticello, che forma la corona di questa prima posizione. Un bosco, situato vicino a questa cascina, era altresì occupato, e numerosa artiglieria batteva i pendìi di ogni Iato. A fronte della prima cascina si trova un guado del Musone, praticabile dall'artiglieria, a cui mette una strada, e dall’altro lato del quale v’ha una strada rurale, che va a Congiungersi colla strada delle Crocette ad Umana. Il generale Lamoricière doveva pigliare le due cascine, di cui si tratta.

Il generale Pimodan ebbe ordine di dirigersi sopra quelle posizioni, di guadar il fiume, di pigliare la prima cascina, di farvi montare l’artiglieria per battere la seconda nel bosco vicino, e dopo andare all’assalto.

Per questa operazione egli aveva 4 battaglioni e mezzo della sua brigata, 8 cannoni da sei e 4 obici sotto gli ordini del colonnello Blumensthil, 100 irlandesi condotti da Spoleto e finalmente 520 cavalleggieri, due squadroni di dragoni e di volontarii a cavallo, tutti sotto il comando del maggiore Odescalchi. La cavalleria, che, partendo, era dietro alla colonna, doveva portarsi sulla sua destra, ove il terreno era più scoperto. Lamoricière teneva in riserva i quattro battaglioni, che formavano il rimanente delle sue forze, ed una parte dello squadrone dei gendarmi a cavallo, di cui l'altra parte marciava col parco d’artiglieria ed i bagagli.

Questa colonna usciva da Loreto per una strada che metteva in quella tenuta dal generale Pimodan; doveva poscia pigliar più a destra verso il guado del confluente dell’Aspio, per servire nello stesso tempo di seconda linea e di scorta al convoglio, il quale, condotto da Terouanne, volontario a cavallo, doveva direttamente recarsi sul guado, di cui or ora si parlò, pigliando una strada rurale più lontana dai piemontesi.

La prima colonna pontificia cominciò a marciare alle 8 e mezzo e la seconda alle nove. La sponda destra del Musone non era occupata dai piemontesi: alcuni bersaglieri, appiattali in un boschetto ed in un campo di giunchi vicino al guado, fecero fuoco sopra i tiragliatori dei carabinieri svizzeri, che erano alla testa della colonna; questi guadarono rapidamente la riviera e si riordinarono dietro un argine, che giace sulla sponda sinistra.

Mentre i primi cannoni pontificii guadavano la riviera, il 1.° battaglione dei cacciatori e i tiragliatori franco-belgi seguirono i carabinieri, e questi tre battaglioni si formarono in tre colonne dietro l'argine sotto il comando del colonnello Corbucci.

Appena i primi cannoni pontificii passarono il guado, il generale Pimodan ordinò ai carabinieri d’impadronirsi della prima cascina occupata dai piemontesi, ed al 1.° dei cacciatori come ai tiragliatori di appoggiarli.

In questo assalto, avendo il comandante dei cacciatori pontificii dato prove di fiacchezza, il generale Pimodan ne affidò il comando all'aiutante maggiore Arranesi.

Mentre i carri delle artiglierie erano impigliali nel guado i due ultimi battaglioni della colonna del 2.° cacciatori e del 2.° bersaglieri, essendosi rinserrati nei giardini dietro un canneto, alcune palle dei piemontesi caddero sopra il 2.° cacciatori e il maggiore schierò una compagnia di tiragliatori tra le canne, la quale compagnia cominciò a sparare nella direzione, dalla quale venivano le palle, e cosi naturalmente sparava addosso i proprii battaglioni d’assalto. Il generale Pimodan fu quindi obbligato di mandare i suoi ufficiali per far cessare quel fuoco che aveva ucciso un soldato de' proprii.

Il primo alloggiamento de' piemontesi, benché da questi vigorosamente difeso, venne espugnato dai pontificii, i quali fecero un centinaio di prigionieri, tra quali un ufficiale.

I pontificii condussero subito due cannoni in fondo alla discesa per proteggere contro un nuovo assalto la posizione da loro conquistata, e due obici, sotto gli ordini del tenente Daudier, furono condotti, sotto un gagliardissimo fuoco, fino dinanzi alla Casa, coll’ajuto degli irlandesi. Quattro cannoni e due obici della batteria Richter erano arrivati all’altezza della posizione presa dai pontificii, e questa artiglieria recò gran danno ai piemontesi. Il capitano Kichter, benché avesse una coscia traversala da palla, restava, in mezzo al fuoco.

Si viene all’assalto del secondo alloggiamento o cascina de' piemontesi. Il generale Pimodan forma una colonna sotto gli ordini del comandante Bécdelievre composta di tiragliatori franco-belgi, di un distaccamento di carabinieri e del 1.° cacciatori. Questa colonna procede risolutamente malgrado il fuoco de' piemontesi che sparavano dall’alloggiamento e dal bosco, ma giunta a circa 150 metri dal comignolo della cascina, dopo la perdita di molti uomini, dovette ritirarsi.

I piemontesi inseguirono i pontificii, ma al punto in cui erano per agguantarli, questi si voltarono e li aspettarono a 15 passi di distanza, li ricevettero con un fuoco ben nudrito e corsero sopra di essi alla baionetta. I piemontesi indietreggiarono 200 passi circa, la qual corsa permise ai pontificii di guadagnare la posizione dalla quale erano partiti. Il fuoco dell’artiglieria pontificia proteggeva questi movimenti.

Due battaglioni pontificii del 1° straniero, sotto il comando dei colonnello Alet, ebbero ordine di guadare la riviera ed avanzarsi fino all'altezza delle riviere della 4. colonna col secondo battaglione straniero e col battaglione del 2.° di linea, per attestarsi indietro.

Il generale Pimodan, benché ferito al volto, conservava il suo comando. Le perdite dei piemontesi erano molte, ma maggiori. quelle dei pontificii.

Il generale Lamoriciére, riconoscendo che i due battaglioni e mezzo, che aveva seco il grande Pimodan, erano insufficienti per impadronirsi della seconda posizione, inviò il capitano Lorgeril alla ricerca dei due battaglioni di riserva e li surrogò con due battaglioni del 1. straniero; finalmente spedì, per mezzo del capitano Palfiy, l’ordine alla cavalleria di guadare la riviera e di seguire sul fianco destro dei pontificii la marcia di quelle colonne.

Mentre il generai Lamoriciére prendeva queste disposizioni, i piemontesi tentarono d’investire la posizione da due lati, malgrado il fuoco dell’artiglieria pontificia, ed i loro tiragliatori cominciarono ad assalire di fianco le riserve pontificie schierate dietro i fabbricati.

Il maggiore Bécdelievre, radunando gli avanzi del suo mezzo battaglione ed alcuni distaccamenti degli altri due, si slanciò addosso a que’ tiragliatori e li costrinse a ripiegarsi nel bosco, donde erano usciti.

I movimenti prescritti alla fanteria pontificia si eseguirono, ma appena il 1. straniero fu schierato, si sbigottì, e dopo alcuni minuti i due battaglioni fecero un mezzo cerchio, fuggirono e si dispersero. Il secondo ordine di riserva fece lo stesso.

Il 2. bersaglieri ed il 2. cacciatori pontificii raggiunsero la prima stazione od alloggiamento, ove era rimasto il solo generale Pimodan. Il 2. cacciatori, vedendo che gli svizzeri erano spariti, prese la fuga e discese a passo di corsa la salita che aveva allora asceso.

In mezzo a quell’immenso disordine il 2. battaglione dei bersaglieri pontificii, comandato dal maggiore Fuchman, rimase fermo al suo posto e difese colla maggiore fermezza la posizione assegnatagli.

L’artiglieria pontificia restava avviluppata nella strada sulla quale veniva tratta con difficoltà tra i parapetti che la circondavano.

Il terrore si comunica ad una parte dei cannonieri pontificii; gli uni volevano fuggire facendo un mezzo cerchio coi loro cannoni, ma ciò era impossibile a cagione della strettezza dell’argine; gli altri tagliarono le corde dei carri e coi toro cavalli fuggirono in mezzo ai campi.

Il generale Lamoriciére prescrisse allora al colonnello Cropt ed al colonnello Alci di avviare i fuggiaschi verso la ripa, o gli argini del Musone, ove sarebbero riparati contro i colpi dei piemontesi, e di condurli così fino al confluente dell’Aspio, di guadarlo e di dirigerli sulla strada d’Ancona.

Alla Casa continuava il combattimento più feroce che mai. Il generale Pimodan, mortalmente ferito, veniva trasportalo all'ambulanza presso la riviera.

Il generale Lamoriciére ordinò al colonnello de Coudenhoye di entrare nella Casa e di ordinare alle truppe, che si battevano, la ritirata verso la riviera, perché non potevano resistere più oltre; per altro di tentare gli estremi sforzi per salvare la loro artiglieria.

«Fortunatamente per noi, dice il generale Lamoriciére, il nemico al quale il fumo del combattimento ed alcune spalliere d’alberi non lasciava veder bene le nostre linee, non conobbe il disordine immenso delle nostre schiere, e per ciò restavano immobili le masse che occupavano le posizioni rimpetto a noi: e soddisfatto della vittoria, supponendo certamente che nelle ville e nei giardini, i quali separano il Musone da Loreto, esistesse una riserva di truppe, si arrestò dietro il fiume e cessò di seguitarci.»

Si può ritenere che in questa battaglia le due parti contrarie fossero in forze eguali, perché il generale piemontese, nella marcia forzala che lo condusse da Fano ad Osimo, lasciò dietro a sé un’immensa quantità di trainards, a cui la fatica improvvisa e continuata non permise di assecondare la rapidità di quel movimento.

Del resto, tutto l’interesse, da parte dei piemontesi nella campagna dell’Umbria e delle Marche, consisteva nel separare Lamoriciére dalla sua base d’Ancona, interesse non solo militare, ma altamente politico, perché Lamoricière, seguitandole istruzioni della Corte di Roma, non poteva aver altro scopo che quello di tirare a lungo le cose, per lo stesso motivo che ai piemontesi importava di finir presto. A fine di ottenere l’intento, Lamoricière, non possedendo forze sufficienti per campeggiare contro le due colonne piemontesi di invasione, doveva per necessità gettarsi nella piazza fortificata d’Ancona, ed obbligare i piemontesi ad intraprendere un assedio, che, sostenuto da un presidio di oltre 15,000 uomini, avrebbe potuto durare parecchie settimane. ,

Perciò la prima cura dei piemontesi, entrando nella Cattolica, fu di gittarsi colla massima celerità sopra Ancona, e la marcia forzata del generale Cialdini raggiunse quella meta, occupando forti posizioni al sud di quella piazza e padroneggiando la strada per cui si può andarvi da Macerata a Loreto: e ciò precisamente mentre Lamoricière, col nerbo delle sue truppe, scendeva egli pure a marce forzate, ma troppo tardi, da Spoleto, Foligno, a Macerata e Loreto per soccorrere Ancona e farvi centro di resistenza.

Per ciò la battaglia di Castelfidardo e vicinanze si deve riguardare come il fatto decisivo della campagna.

Il generale Lamoricière era deciso di marciare sopra Ancona con tutte le truppe che poteva raggranellare. Gli uffiziali, che aveva inviato per trattenere i fuggiaschi, erano riusciti a formare una colonna di 350 a 400 uomini, i quali, avendo guadato la riviera al di sopra dell’Aspio, erano sulla strada di Umana. La cavalleria però non comparve e Lamoricière rimase solo con 45 cavalli.

I battaglioni di Pimodan. come abbiamo veduto, dopo essersi trattenuti per lungo tempo nella cascina, di cui si erano impadroniti in principio, si erano ripiegati sulla riviera. De’dodici cannoni che avevano guadato la riviera ne avevano perduti tre colle loro casse e con 4aO prigionieri. La massa di cinque battaglioni, che si erano dispersi un’ora prima, si era ripiegata sopra Loreto. L’artiglieria, che si era ritirata per la prima, aveva preso la stessa direzione.

I pontifici indigeni e stranieri ridotti a Loreto ammontavano a poco più di 4000 uomini, giacché, come vedemmo, gli altri furono dispersi, o rimasero prigionieri. Privi del loro capo, circondali da una cerchia di ferro, si arresero alla prima intimazione che ad essi fece Cialdini. il quale volle ancora accordare loro gli onori della guerra.

Il generale Lamoricière, coi pochi che potè raccogliere, tentava di giungere in Ancona, ma questi pochi dovevano ancora essere minorati.

Il generale, continuando la sua marcia verso Umana, scorse sulla sua sinistra 50 bersaglieri piemontesi, che, a guisa di tiragliatori, si avanzavano verso il mare. Questi cominciarono subito a sparare sul fianco e sulla coda del piccolo corpo pontificio di fanteria, e la metà di esso, compresi due ufficiali superiori, cercarono scampo a settentrione del mare e deposero le armi. Quasi 80 nomini, col capitano Delpèche, serrali intorno alla bandiera, continuarono a marciare per la strada dal generale indicata. I bersaglieri piemontesi si contentarono di condurre seco i prigionieri e cessarono d’inquietare il resto della colonna, che continuò la sua marcia sopra Ancona.

Attraversarono Umana e Sirolo; cammin facendo le persone che incontravano dicevano che la strada era sgombra fino ad Ancona, ma che Camerano era occupata con molta forza. Ora, cominciando da Sirolo, la strada piega a sinistra, serpeggiando alle radici del monte d’Ancona, dal lato opposto al mare, e per quasi 8 chilometri, resta in vista di Camerano, dal quale è separata per mezzo di un profondo burrone; da Camerano un eccellente strada di comunicazione va a raggiungere la strada di Poggio, inchinando verso Ancona.

Era credibile che le truppe di Camerano, se avessero veduto i pontificii, sarebbero venute ad impedir loro il passo, come facilmente lo potevano. Questa considerazione persuase il generale Lamoricière a lasciare la strada cd entrare in un sentiero attraverso i macchioni, che, con discese assai erte, conduce al convento dei camaldolesi. Da là, dopo un breve riposo di un quarto d’ora, per radunare la piccola colonna, si rimisero in v, seguendo, a traverso dei boschi, la strada che conduce alla sommità, sopra la quale è il telegrafo. Di la scesero un po’ avanti di Poggio. Durante questa corsa fortunata essi scoprirono la squadra che bombardava Ancona ed udivano il cannone da qualche tempo. Alle 5 e mezzo entrarono in città.

Sulla punta di una penisola sporgente verso il nord giace Ancona. la città è fabbricata a semi-cerchio intorno al porto aperto ad occidente, intercluso fra due argini convergenti, uno al nord ed uno al sud. L’ingresso del porto è chiuso dà una catena. L’argine meridionale è dal lazzaretto o castello d’acqua, unito alla città mediante un ponte levatoio, il settentrionale dalla batteria del faro ivi costrutta e dalle batterie del Molo.

La principale opera per la difesa dalla parte di terra è costrutta sopra un’altura dal lato meridionale della città; essa è intitolala campo trincerato, e la cittadella o fortezza vi serve di ridotto. Ad oriente della città giace il forte di monte Gardetto, che serve a difendere tanto la parte di terra, quanto la parte di mare, e subito dopo monte Gardetto al nord-est di Ancona, il forte di monte Cappuccini, appoggiato pur esso al mare; ivi. sono costrutte anche batterie più basse verso la spiaggia del mare.

Sul dinanzi della lunga fronte contermine al monte Gardetto ed al campo trincerato, erano situate la lunetta Santo Stefano, e poi innanzi le due lunette di monte Pulito e monte Pelago, costrutte nel 1859 dagli Austriaci, ma non terminate e dai pontificii non ancora provvedute di palizzate; altra opera avanzata, costrutta dagli Austriaci, era la Scrima sulla strada di Sinigaglia.

Dopo l’arrivo di Lamoriciére il presidio era composto del primo reggimento di linea, del battaglione Castellaz (costituito di due compagnie del primo reggimento estero, del deposito del medesimo e del piccolo distaccamento raccogliticcio condotto seco da Lamoriciére), del primo, terzo, quarto e quinto battaglione incompiuto dei bersaglieri (austriaci), del mezzo battaglione irlandese, di una compagnia di gendarmeria mobile a piedi, di un distaccamento di gendarmi a cavallo, dei cavalleggieri procedenti da Castelfidardo, di 450 artiglieri e di una compagnia di operai del genio.

La fanteria contava 4200 uomini, l’intero presidio appena 5000.

Le opere di difesa dalla parte di terra erano munite di 110 pezzi pesanti e 14 leggieri, ai quali in seguitosi aggiunsero altri due pezzi di campagna ch'erano stati salvati dal campo di battaglia di Castelfidardo presso Porto Recanati ed ivi imbarcali mercé il valore di un ufficiale. Le opere dal lato di mare erano munite con 25 pezzi di svariatissime qualità e calibri; il calibro maggiore era quello da 36.

Le difese principalmente dalla parte di terra, erano in condizione alquanto buona; ad eccezione per altro di pochi ponti, mancava del tutto una via coperta.

L’amministrazione era tenuta nel massimo disordine; la farina destinata agli approvvigionamenti venne lasciata fino agli ultimi istanti nei mulini dei dintorni ed ivi cade nelle mani dei piemontesi. Fino dal 13 settembre il presidio mancava di vettovaglie, ed a fatica si riuscì di provvedere in Trieste altro grano e di far approdare il 19 in città la nave che lo recava. Ancona non aveva alcuna specie di mulini; si deliberò quindi di allestirne uno a vapore, ma al momento dell’arrivo di Lamoricière non era ancora costrutto; laonde egli fece tosto dar mano al lavoro, e lo si condusse con tanta alacrità, che il giorno 20 il mulino a vapore era già attuato.

Anche la carne fresca, cioè d’animali vivi, scarseggiava; Lamoricière potè ancor requisire bestiame nei dintorni, poiché per buona sorte i piemontesi non pensavano tuttavia di stringerlo davvicino.

Le truppe di guarnigione erano disanimate: le notizie sconfortanti che successivamente giungevano in città e dagli abitanti erano comunicate ai soldati, contribuivano ad avvilirli. Gli ufficiali e la truppa veggendosi in una posizione perduta, ritenevano inutile ogni resistenza e riputavano che il miglior partito sarebbe stato quello di ottenere dai piemontesi, mercé di una pronta resa, i patti di una capitolazione più vantaggiosa. Lamoricière aveva troppe cose da fare per potere almeno frenare questa pericolosa opinione.

L’avanguardia della flotta piemontese, recentemente rinforzata colle navi napoletane, comandate dall'ammiraglio Persano, erasi mostrata il 16 settembre dinanzi Ancona.

Nel 18 l'intera flotta era raccolta; essa consisteva di quattro fregate e sette navigli minori; le fregate recavano mortai da bomba da 80 e cannoni rigali per proiettili cavi da 158 libbre di peso; le navi minori cannoni rigali da quaranta.

Verso il mezzogiorno del 18 la flotta incominciò un bombardamento che durò quattro ore; ma servendosi de' suoi pezzi di grosso calibro, si teneva a grande distanza e perciò non era danneggiata dai cannoni di minor portata della fortezza. E poco danno del pari recava la flotta alle opere fortificatorie di Ancona, mentre non lievemente ebbe a soffrire la città.

Abbiamo sopra avvertito che il de Courten per agevolare la marcia di Lamoriciére da Loreto doveva il 18 fare una grande sortita da Ancona. Egli aspettava il generale supremo fino dal 17, ed in quel giorno erasi recato effettivamente verso Camerano, ma alla sera, non avendo incontrato il nemico, era di ritorno in città. Il 18, essendo comparsa la flotta e seguito il bombardamento, non ebbe agio di ripetere la sortita.

Il 22 Persano annunziò a Lamoriciére il blocco di Ancona; il bombardamento dalla parte di mare prosegui ciascun giorno dal 48 settembre in avanti, ancorché non sempre coll’eguale energia; Osso costava giornalmente al presidio da venti a venticinque uomini tra morti e feriti.

Il 23 Fanti fece una ricognizione dei forti e statuì con Persano il piano d’assalto; in pari tempo diede ordine, che si sbarcasse il parco d’assedio nel porto di Umana e di qua lo si trasportasse per terra sino ad Ancona.

Fanti aveva scelto il monte Gardetto a punto principale dell’assalto; a tal fine doveva anzi tutto impadronirsi delle opere avanzate di monte Pulito e di monte Pelago, per potervi costruire le batterie ad espugnazione del monte Gardetto e della lunetta di Santo Stefano. La flotta sorta alla stessa altezza di Fanti, doveva appoggiare queste operazioni collocandosi ad oriente del monte Pelago, e dirigendo il fuoco contro il monte Gardetto, il monte Cappucini e le annesse opere inferiori alla spiaggia.

Un assalto di fianco immaginato per istornare l’attenzione del nemico, doveva essere diretto contro la lunetta Scrima, il lazzaretto ed il campo trinceralo.

L’assalto principale venne affidato da Fanti al generale Della Rocca ed al 5.° corpo, l’assalto di fianco al generale Cialdini col 4.° corpo.

La flotta mantenne il 23 settembre un fuoco assai vivo che riusciva di danno alla città; una delle navi piemontesi si spinse in quel giorno si presso alle batterie di Ancona ch'esse poterono colpirla. e danneggiarla gravemente. Altre navi piemontesi che stavano per accorrere in aiuto della nave danneggiala, furono impedite ne’ loro movimenti da due obici di campagna.

Lamoricière nei 22 e 23 aveva preso tutte le precauzioni necessarie per la difesa ed indicalo alle truppe ed agli ufficiali che comandavano i rispettivi lor posti.

Fanti il 24 trasferì il suo quartier generale da Loreto alla Favorita, inferiormente al villaggio di Castro, e diede principio alle operazioni per istringere più davvicino l’assedio della piazza.

Della Rocca si appostò sulle alture del monte Acuto fino al monte Ago; a lui si uni sulla sinistra la settima divisione del 4-.° corpo, che si stendeva da monte Ago sopra Pedoccio, e la tredicesima divisione la quale occupava la lunetta Scrima sgomberala spontaneamente dai pontificii; da queste posizioni l'artiglieria piemontese con pezzi rigati da otto, con pezzi rigati da sedici lisci e con obici, incominciò un vivo fuoco sopra monte Pelago, monte Pulito e la città stessa, fuoco che, a motivo della grande distanza, non riusciva di gran effetto.

Della Rocca il 25 si spinse fino a Pietra della Croco e santa Madonna delle Grazie; una parte del villaggio di Pietra della Croce restò in quell’occasione nelle mani di un posto del presidio d’Ancona. Il capitano Castellaz erasi offerto a Lamoricière il 26 settembre di conquistare col suo battaglione anche la parte perduta del villaggio. Le sue schiere si scontrarono appunto con un forte nerbo di piemontesi al quale era stato dato ordine dallo stesso Fanti di assalire.

Tale assalto era eseguito dal generale Pinelli, colla brigata Bologna e coi battaglioni di bersaglieri 23.° e 52.° In un attimo, per cosi esprimerci, Castellaz fu sbaragliato. I suoi soldati, che vilmente fuggirono a precipizio, trassero seco anche la compagnia del terzo battaglione di bersaglieri (austriaci) il quale aveva Ano allora occupata una parte di Pietra della Croce. Questa compagnia per altro si fermò ai forti di monte Pelago, mentre le compagnie di Castellaz, fuggendo, si cacciarono fino in città.

I pontificii furono inseguiti da alcune compagnie della brigata Bologna fino sul monte Pelago; il generale Savoiroux, comandante della divisione di riserva, ordinò di assalire con tutte le truppe le opere di monte Pelago le quali fino dalla mattina erano state vivamente battute dalla flotta. La fanteria di linea della brigata Bologna alle nove e mezza di mattina si spinse direttamente verso il forte; a destra di essa marciavano i battaglioni dei bersaglieri 23.° e 25.° per girare il monte Pelago; alla sinistra coperta dalle alture boscose di monte Ago, avanzavasi l'11.° battaglione di bersaglieri, distaccato dalla brigata Como collocata sul monte Ago.

Quando stavasi ordinando questo assalto, il monte Pelago era occupato da quattro deboli compagnie. Allorché l’uffiziale comandante si vide assalito da forze di gran lunga superiori, fece attaccare i cavalli ai pezzi per ritirarsi nella città. Nel frattempo però l'11.° battaglione di bersaglieri era penetrato nella gola del monte Pelago per cui i pontificii dovettero abbandonare i loro pezzi.

L’ufficiale pontificio che comandava a monte Pulito, veduto che il monte Pelago era stato abbandonato dalle truppe pontificie, si pose anch’esso in ritirata colle sue tre compagnie e con tutt'i pezzi senza far alcuna resistenza né opposizione. Il monte Pulito venne per tanto occupato dai battaglioni di bersaglieri sopra indicati.

Mentre sull'ala destra dei Piemontesi accadevano questi fatti, Cialdini nella notte dal 24 al 25 aveva fatto appostare una batteria nella lunetta Scrima e condurre artiglieria pesante sulle alture di Montagnolo; coi suoi pezzi batteva, il 25 ed il 26, il campo trincerato e il suo ridotto.

I piemontesi nel mezzodì del 26 diedero un assalto contro la lunetta di Santo Stefano; ma ancorché si siano avanzati con grande ardimento, ne furono respinti, essendoché la lunetta di Santo Stefano fosse non solo più forte di monte Pelago e monte Pulito, ma eziandio ben difesa dal campo trincerato e dal monte Gardetto.

Cialdini nella notte del 26 al 27 ordinava, che il 6.°, 7.° e 12.° battaglione di bersaglieri ed il 19.° reggimento di linea assalissero il sobborgo di porta Pia, che è compreso fra il lazzaretto ed il campo trincerato. Dopo breve combattimento le truppe pontificie che tuttavia colasi trovavano furono respinte, ed i piemontesi fermamente si stanziarono nel sobborgo.

Le truppe di presidio d Ancona furono sommamente scoraggiate quando udirono che il monte Pelago era perduto, poiché attribuivasi a quella posizione maggiore importanza di quella che in fatti meritava: lo si diceva la chiave della fortezza, e si narrava, che nel 1849 appena gli austriaci eransi impadroniti di monte Pelago la fortezza d’Ancona s’era dovuta tosto consegnare ad essi. Arroge il difetto di esterni aiuti sui quali si era posta tanta speranza; non esercito francese che muovesse contro i Piemontesi, non flotta austriaca che comparisse da Trieste; da ultimo mancavano le navi da guerra che di regola le grandi potenze sogliono mandare davanti di una fortezza marittima, bloccata o bombardata, al fine di proteggere i loro sudditi.

I piemontesi intanto avevano trasportalo da Umana i pezzi d’assedio sulle alture di monte Acuto e cominciavano a costruire batterle sui monti Pelago e Pulito.

Verso il mezzo di del 27 una bomba cadde nel Lazzaretto, ov’era opportunamente custodita la maggior parte degli oggetti d’abbigliamento della guarnigione, ed appiccò il fuoco, li presidio sgombrò il Lazzaretto in tutta furia, lasciandosi addietro tre pezzi, e si ritirò nella città. Laonde Cialdini, nella notte dal 27 al 28, fece occupare il forte dal 6.° battaglione di bersaglieri il quale passò a guado il braccio di mare poco profondo che lo separa dalla città e dal sobborgo di porta Pia.

In quella stessa notte Persano ordinò che alcune scialuppe facessero il tentativo di tagliare la catena del porto; ma inutilmente, poiché il fuoco della fortezza e delle barche cannoniere le costrinse a ritirarsi.

Meda notte medesima si è armata nel sobborgo di porta Pia una batteria di sei pezzi, mentre venivano quasi ultimate le batterie sul monte Pelago, sul monte Pulito e presso la Madonna delle Grazie.

Lamoricière nella mattina del 28, ordinò, che le attigue batterie concentrassero il fuoco contro la batteria nel sobborgo di porta Pia é contro il Lazzaretto, tal che i bersaglieri piemontesi, appostali in quest’ultimo, ne soffersero assai. Fanti per altro credeva importante quel posto in guisa da non sapersi risolvere ad abbandonarlo. La batteria del Faro sull’argine settentrionale e quella del Molo alla radice del medesimo argine, la quale era munita in parte di casematte, danneggiavano più specialmente il Lazzaretto.

Dietro invito del generale Fanti, l’ammiraglio Versano spedi quattro vapori bene armati per attaccare le mentovate batterie, ed apersero il loro fuoco verso un’ora pomeridiana. Il fuoco delle grosse fregate smontò in breve la batteria della Lanterna e la batteria del Molo in quella parte che non era coperta dalle casematte. Il Vittorio Emanuele sì spinse dappoi fino a 300 passi dalla batteria inferiore del Molo munita di casamatta, ed uno dei suoi grossi proiettili cavi entrò nel deposito della polvere, il quale saltò in aria con una spaventevole esplosione, riducendo la batteria ad un mucchio di macerie; si aperse quindi un'ampia breccia; le mura del porto, alle quali era assicurala la catena che lo chiudeva, precipitarono, talché io brevissimo tempo le opere che s’erano costruite a difenderlo furono quasi distrutte.

Lamoricière ordinò quindi che s’inalberasse bandiera bianca e spedì a Fanti il maggiore d'artiglieria Mauri per trattare una tregua od anche una capitolazione definitiva.

Erano le ore 5 pomeridiane. — Mauri per altro dopo lunghe indagini non potè abboccarsi coi generale Fanti che a mezzanotte.

Benché fosse da lungo tempo innalzata la bandiera bianca, il generale Fanti non vedendo comparire alcun parlamentario, aveva dato le sue disposizioni perché fosse ripresa e proseguita la lolla: non giungendo contrordine fino alle dieci della sera, le batterie dei monti Pelago e Pulito, di Madonna delle Grazie e di porta Pia, dovevano aprire il fuoco e la mattina seguente il Della Rocca doveva assalire il Gardetto, Cialdini porta Pia.

Le mentovate batterie in conseguenza degli ordini suddetti verso le dieci ripigliarono il fuoco.

Dopo oltre un’ora di cannoneggiamento, fu possibile al maggior Mauri di rinvenire Fanti, e gli chiese tosto un armistizio di sei giorni, indi di due, e poiché anche questa domanda gli era rifiutala, Lamoricière dichiarò di essere disposto ad entrare in trattative sulle basi della capitolazione di Loreto. Fanti ci diede in massima la sua adesione.

Quindi il mattino del 29 verso le ore otto comparvero al quartier generale dei piemontesi il maggiore Mauri ed il capitano dei dragoni Lepri, investiti di pieni poteri per trattare a nome del generale in capo pontificio. Fanti nominò suoi plenipotenziarii i maggiori Sonnaz e Bertolè-Viale. Le batterie piemontesi sospesero il fuoco, ma alcuni distaccamenti di truppa piemontese erano già entrali fin dal mattino nella città, e s erano appostati a porta Pia e presso il Gardetto.

Venne finalmente conclusa la capitolazione verso le tre pomeridiane del giorno 29. In conseguenza di essa la guarnigione doveva uscire cogli onori di guerra, indi deporre le armi, ed essere tratta prigioniera in Piemonte. Tutte le proprietà dello Stato ch'erano in Ancona, armi, provincie ed anche denaro, dovevano essere consegnati ai piemontesi.

Nella sera stessa del giorno 29 conchiusi i palli della capitolazione, i piemontesi occuparono militarmente le opere della fortezza, ed il mattino del. 30 le truppe pontificie si avviarono alla stabilita prigione di guerra.

Vinta Ancona la campagna di diciasette giorni dei piemontesi contro l’Umbria e le Marche poteva considerarsi compiuta.

Il giorno 30 ottobre il Re Vittorio Emanuele parli per le Marche e pel Napoletano.


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CAPITOLO XI

Ottobre

Il t.° ottobre i regii sortirono da Capua ad attaccare i garibaldini nelle posizioni trincerale di Maddaloni e di Caserta ottennero dapprima di respingere i nemici, ma sopraggiunti rinforzi ai garibaldini, questi presero la offensiva, e dopo lungo cd accanito combattimento i napoletani dovettero ritirarsi sopra Capua e Gaeta fortificando la strada verso Roma. Grandi furono le perdite da ambe le parli. In questa battaglia presero parte truppe piemontesi sbarcate a Napoli da Genova: vi concorsero pure i marinai inglesi del Henown ancorato a Napoli, i quali ministrarono i cannoni ai garibaldini.

Per dare una fedele ed esatta relazione di questa grande battaglia chiamata la battaglia del Volturno, cercheremo prima di dare una rivista della posizione dell’esercito meridionale ai 30 settembre.

Sulla estrema ala dritta stava Bixio colla sua propria divisione, la 18, la brigata Eberhard della divisione Medici, la colonna Luigi Fabrizi. La brigata Dezza della 18. divisione contava 1828 uomini; la brigata Spinazzi 670; la brigata Eberhard 1502, la colonna Fabrizi 1560 uomini. Vi si aggiungono 6 piccoli obizzi da montagna e 20 guide a cavallo. In tutto 5653 uomini.

Bixio stava colla sua forza principale innanzi Maddaloni, occupando il monte Caro e il monte Longano, ed aveva i suoi estremi avamposti sulla strada da Maddaloni a Ducenta presso Valle.

A Castel Marrone, al passo di Caserta verso Limatola stava il battaglione dei bersaglieri Bronzetti della 16.(a) divisione, cioè 227 uomini.

A s. Leucio e al Gradillo verso il nord era situata la brigata Sacchi, recentemente rinforzala dall’ex brigata Puppi. Sacchi disponeva in tutto di oltre 1500 uomini.

Medici teneva occupate le alture di s. Angelo fino verso s. Maria. Egli aveva in due brigate della sua propria divisione, della 17. 2500 uomini, 200 carabinieri genovesi, il reggimento del genio Brocchi, 500 uomini, e la brigata Spangaro della 15. divisione, 1000 uomini. Medici disponeva quindi in complesso di oltre 4000 uomini.

Trovavasi con lui il vecchio generale Avezzana, ritornato recentemente dall’America; Garibaldi gli aveva affidata l’ispezione su tutta la linea verso Capua, finché fosse stata formata la divisione calabrese. Medici aveva 9 cannoni tutti in batteria, fra i quali 6 da quattro rigati.

All’ala sinistra di Medici univasi sulla linea di s. Maria Milbitz, che comandava la 16. divisione in assenza del ministro della guerra Cosenz. Egli aveva truppe in parte della 16. ed in parte della 15. divisione, in tutto 4000 uomini circa con 4 cannoni. Sull’estrema sinistra stava ad Aversa la brigata Basilicata sotto il colonnello Corte, cioè 1500 uomini.

Il quarter principale trovatasi a Caserta; ivi era. pure concentrata la riserva generale, il cui comando, fu dato a Turr ritornato da Napoli, cui Rustow fu addetto come capo dello stato maggiore. Stando alla notizia che Rustow aveva ricevuto nel pomeriggio dei 30 settembre dal generai Sirtori sulla forza e composizione della riserva, consisteva la medesima in quel tempo della brigata Eber, 1600 uomini; della brigata di Giorgis, 850 uomini; amendue appartenenti alla 15. divisione; della brigata Assanti della 16. divisione, 4 100 uomini; del battaglione Paternili, 250 uomini; della brigata calabrese Pace, 2100 uomini; totale quindi 5900 uomini. Della brigata Pace non erano bene armali che soli 200 uomini, 500 altri lo erano in qualche modo, il resto di 4400 uomini era per allora affatto inservibile, cosi che lo stato dei combattenti nella riserva riducevasi a 4500 uomini. Vi si aggiungano ancora 43 cannoni, nove dei quali avevano già avuto ordine alle 9 pomeridiane del giorno 30 di marciare verso santa Maria.

A quanto vedesi erano state staccate le singole parti delle divisioni nel modo più micidiale.

Contiamo ora dunque:

Bixio

5600

uomini

Bronzetti

227

»

Sacchi

1500

»

Medici

4000

»

Milbitz

4000

»

Corte

1500

»

Riserva

4500

»

per cui risulta ai 30 settembre un totale di 21,000 uomini delle truppe di Garibaldi. Osserviamo espressamente che questo calcolo è molto alto; avendo, prima preso il dato più elevalo quando non potevasi precisare esattamente lo stato delle truppe; in secondo luogo, perché alcuni la diedero a gambe prima della battaglia del 1° ottobre, per cui si può calcolare tutt’al più 18,000 uomini presenti nelle file e pronti a combattere.

Avendo imparato a conoscere le forze e le posizioni dell’esercito meridionale, che cominciò il combattimento del 1. ottobre come una lotta difensiva, vediamo quali fossero il piano e la forza dei napoletani.

Costoro vedendo l’armala di Garibaldi ostinarsi nella difensiva, né fare verun altro tentativo per fortificarsi sulla riva destra del Volturno, avevano deciso di prendere loro stessi l’offensiva. Vennero doppiamente confermati in questa loro risoluzione dagli avvenimenti nello Stato pontificio e dalla vittoria dei piemontesi sopra Lamoricière. Non aveva Cavour già annunziato di voler entrare nel napoletano unicamente per combattere l'anarchia?

Se fosse quindi riuscito al re Francesco di battere Garibaldi in modo decisivo, e forse di distruggerlo, rialzando ed animando per tal modo il partito borbonico, la pretesa anarchia di Cavour era già vinta, né egli avrebbe potuto più approfittare d’un tale pretesto per portare il suo caro ajuto al popolo di Napoli.

Per tale motivo e sotto questo punto di vista faceva il partito borbonico i massimi sforzi per vincere, se era possibile, in una battaglia decisiva, l’esercito meridionale italiano; raccolse quindi tutte le sue forze, tenendosi tanto sicuro della vittoria, che prese perfino le misure necessarie di approfittare del loro ipotetico trionfo a completa distruzione del garibaldini.

Ai 4 ottobre era il giorno onomastico del re Francesco; quella festa onomastica doveva essere solennizzata a Napoli; Francesco II stesso venne a Capua coi conti di Trapani, e di Caserta per prender parte a quella lotta decisiva; ed in caso di trionfo, si promise ai soldati, per spronare doppiamente il loro ardore, di saccheggiare tutt'i paesi, che avrebbero incontrato nel loro cammino da Capua a Napoli.

Il generale Ritucci assunse il comando in capo. Sull’estrema sinistra doveva il brigadiere Medici con una colonna di 8000 uomini, fra i quali 5 battaglioni stranieri, avanzare pel Volturno superiore, poscia per Ducenta verso Maddaloni, per rigettare quanto avesse trovato davanti a sé.

Un distaccamento sotto il colonnello Perrone di 1200 uomini doveva marciare da Cajazzo per Castel Morrone verso Caserta; restando però provvisoriamente come riserva a Cajazzo il brigadiere Ruiz con 5000 uomini.

Da Capua stessa dovevano irrompere due colonne principali; una sotto il generale Afan de Rivera, consistente in due brigate del brigadiere Barbalonga e del colonnello Pelizzi, in tutto 10,000 uomini, doveva attaccare il villaggio s. Angelo in Formis e l’eminenza del Monte Tifata, e dopo essersi impadronito di quelle posizioni, penetrare pel Gradillo fino a s. Leucio, unirsi col distaccamento di Perrone, prender Caserta, far colà la sua congiunzione con Mechel, che, a quanto supponevasi, avrebbe intanto preso Maddaloni.

La seconda colonna, uscita da Capua, sotto il generale Tabacchi, presso cui sarebbesi trovata tutta l’infanteria della guardia, era forte di 7000 uomini; essa doveva frattanto attaccare S.ta Maria, quivi trattenere od attirare quanto più potevasi delle forze dei garibaldini, facilitando così, alle colonne Mechel ed Afan de Rivera le loro operazioni sulle spalle dell’esercito italiano meridionale. Colla colonna di Tabacchi volevano marciare anche i conti di Caserta e di Trapani, mentre Francesco Il voleva unirsi a quella di Afan de Rivera, cui toccava l’azione principale.

Un distaccamento di fianco di 1500 uomini sotto il brigadiere Sergardi doveva attaccare s. Tammaro.

La cavalleria, compresi anche i pochi squadroni che erano stati distribuiti alle varie colonne, in lutto 2500 cavalli, doveva pel momento stabilirsi sulla spianata di Capua, per accorrere qua e la secondo il bisogno.

Il generale Colonna con 5000 uomini prese posizione sulla riva destra del Volturno alla Scafa di Triflisco al di sopra di Capua, per seguire come riserva la colonna di Rivera; egli aveva a sua disposizione un treno di pontoni sul Volturno, con cui poieva in breve costruire un ponte per operare il passaggio.,

Restavano finalmente a Capua stessa circa 7000 uomini, parte come presidio, parte come riserva.

Abbracciando quindi tutto insieme, abbiamo:

Colonna Mechel

8000

uomini

Distaccamento Perrone

1200

»

Distaccamento Ruiz.

3000

»

Colonna Afan de Riera.

10,000

»

Colonna Tabacchi

7000

»

Distaccamento Sergardi.

1500

»

Brigata Colonna

5000

»

Guarnigione di Capua e riserva di cavalleria

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I garibaldini avevano quindi a fare in complesso con circa 35,000 uomini, senza contare la riserva di Capua, cioè con un numero doppio; l’artiglieria di campo dei regii consisteva di 8 batterie, ovvero 64 cannoni; vi si aggiungono per varii momenti di combattimento le batterie di posizione delle alture di Gerusalemme e l’artiglieria di fortezza delle fronti di Capua rivolte verso terra.

Osserviamo espressamente, che nell’esercito meridionale abbiamo preso i dati più alti, abbiamo seguito il principio opposto riguardo all’armata napoletana. Ufficiali fatti prigionieri dai regii facevano ascendere le loro forze complessive pel 4. ottobre a 45,000 uomini, il quale numero ci risulta evidentemente, comprendendo il presidio di Capua. Abbiamo saputo procurarci le cifre suindicate da ufficiali prigionieri; in ogni caso sono le più basse.

Essendo stati respinti vituperosamente i regii a Capua, convertirono naturalmente il loro attacco decisivo in una semplice ricognizione, e si ingegnarono nelle loro relazioni ufficiali di ridurre quasi a nulla il numero della gente da essi impiegata, servendosi cioè dell'artificio di non esporre giammai le forze delle loro colonne e nominando alcune parti di truppe, che erano in questa od in quella colonna, facevano credere che quelle soltanto avessero formato l’intera colonna. Avveniva quindi, che una tal colonna, che doveva essere impiegata sopra un villaggio trincerato non poteva constare che di cavalleria. Cavour, che aveva manifestamente sparse per l’Europa le maggiori bugie sugli avvenimenti del1. ottobre, prestò a Francesco II il massimo ajuto, a falsificare il vero stato delle cose. Non si può ripeterlo abbastanza, e lo faremo risultare sempre ad ogni singola occasione, senza timore di annoiare per questo il lettore amico della verità.

L’estrema destra di Medici stava sul finire di settembre a Bosco s. Vito, in congiunzione con Sacchi per mezzo d’una guardia avanzata. Il centro di Medici trovava a s. Angelo in Formis; l’ala sinistra estendevasi lungo la strada verso s. Maria fino alle case Sassano e di Napoli. I cannoni erano in batteria sulle alture del monte Tifata; le truppe avanzale al coperto delle case e dal folto degli alberi stavano a 2000 passi verso Capua spinte innanzi a destra sulla riva del Volturno.

Ai 30 avendo Mechel cominciato il suo movimento verso Ducenta, Colonna cominciò nelle prime ore pomeridiane un fuoco vivissimo di artiglierie e di fucili dalla riva destra del Volturno a Scafa di Triflisco e Scafa di Formicola contro i posti di Medici. Questi rispose un fuoco d’infanteria e d’artiglieria, che durò fino a sera. Ne costò ad ambedue le parti circa 40 morti e feriti; della parte di Medici entrarono al fuoco il reggimento Vacchieri, un battaglione di zuavi di quella divisione, ed una compagnia di carabinieri genovesi, in tutto 700 uomini circa.

Dalla parte dell'esercito meridionale cominciò il fuoco vivo in seguito ad un tentativo di passaggio sul Volturno fatto dai napoletani: dovettero prender l’armi tutte le riserve a Caserta. Verso sera cessò il fuoco, e Garibaldi, che riteneva quell'affare una semplice dimostrazione che volesse deviare la sua attenzione dalle ali sui centro, fece ritornare le riserve a Caserta, finché avesse riconosciuto il vero punto d’attacco del nemico.

Nella mattina del 1. ottobre verso le 2 si avanzarono le colonne di Sergardi, Tabacchi ed Afan de Rivera dalla parte napoletana di Capua sulla spianata; ivi si misero in ordine e precedettero all’attacco sull'albeggiare. Si svilupparono allora contemporaneamente due combattimenti, l’uno davanti santa Maria, l’altro a s. Angelo. Li racconteremo fino nelle prime ore pomeridiane separatamente cominciando da quello di santa Maria.

Le truppe di Milbitz erano distribuite come segue:

Sull’estrema sinistra il reggimento Fardella a s. Tammaro, 500 uomini; il reggimento Malenchini su eguale altezza nella strada ferrata e verso santa Maria, 500 uomini;

nel centro sulla strada consolare i reggimenti Lange e Sprovieri e il battaglione di volontarii napoletani; 1200 uomini;

dietro in riserva il reggimento Palizzolo, una compagnia del genio, 110 soldati di cavalleria non a cavallo una compagnia della guardia di sicurezza di s. Maria e 70 ussari; 720 uomini;

sull’ala destra presso l’anfiteatro e verso la strada di s. Angelo, la brigata La Masa (reggimento Corrao e la Porta) e la cosi detta compagnia francese de Flotte; 1100 uomini.

dei cannoni, due ne stavano in una svolta della ferrovia avanti la stazione; i due altri sotto le arcate dell’antica porta di Capua a s. Maria.

Tutta la linea di difesa di Milbitz da s. Tammaro fino alla strada di s. Angelo era lunga circa 1000 passi.

Poco dopo le 5 della mattina le truppe avanzale di Tabacchi attaccarono quelle di Milbitz presso la tegolata ed il convento dei cappuccini.

Gli avamposti di Milbitz si ritirarono mentre le truppe tutte prendevano già le armi.

Tabacchi aveva già avanzate le due ali, specialmente la sinistra verso la strada di s. Angelo, però amendue quelle ali erano deboli e piuttosto valevoli a mantenere la comunicazione ed a rischiarare i fianchi, che destinate ad un attacco decisivo.

E’ ala sinistra di Tabacchi venne alle mani con La Masa, ebbe da prima qualche vantaggio, ma Tu ben presto respinta dalla riserva di quest’ultimo.

Malenchini ritirò i suoi avamposti dietro la piccola batteria sulla strada ferrata, onde la sua fronte si facesse libera; il fuoco di quella batteria trattenne infatti felicemente l’infanteria nemica che avanzava lungo la ferrovia. Fardella avendo osservato l’avvicinarsi di Sergardi che procedeva sulla strada di Capua a s. Tammaro, ed avendo Sergardi manovrato, come se avesse voluto insinuarsi fra s. Tammaro e la strada ferrata, Fardella sgombrò col grosso delle sue truppe s. Tammaro e ritirossi verso la strada ferrata, per sostenervi più efficacemente Malenchini. Egli non lasciò a s. Tammaro che un piccolo corpo di osservazione, che in caso di bisogno poteva ritirarsi senza pericolo e dove meglio gli fosse gradito in quelle vicinanze Tabacchi aveva tenuto insieme il nervo delle sue truppe vicinissimo alla strada di Capua.

Tosto che gli avamposti del centro,di Milbitz eransi ritirati a s. Maria, Tabacchi fece avanzare sulla strada di Capua una batteria di 8 cannoni, che agiva principalmente contro la piccola batteria sotto la porta di Capua. Questa piccola batteria da sei non rispondeva senza successo e senza produrre anch'essa un danno sensibile. Avendo il fuoco dell’artiglieria durato quasi un’ora Tabacchi fece marciare ai due lati della strada le sue infanterie. Milbitz gli slanciò contro i due reggimenti Lange e Sprovieri sotto il colonnello Porcelli. I napoletani furono respinti dietro la loro artiglieria e sulle loro riserve, al quale effetto contribuì anche Malenchini e Fardella con un attacco sul fianco destro.

Tabacchi aveva frattanto formato nella sua ala sinistra nella strada di s. Angelo una forte colonna, che slanciossi contro la brigata La Masa respingendola.

Garibaldi era insieme con Milbitz nella stazione della strada ferrata, quando la mattina erasi sviluppato il combattimento; non potendosi più dubitare, che oggi bisogna battersi seriamente, e che l’affare avrebbe preso maggiori dimensioni, Garibaldi richiese a Sirtori una parte della riserva. Sirtori prese prima la brigata Assanti della 16. divisione e poco dopo la parte servibile della brigata Pace, mandandole a s. Maria.

La brigata Assanti, forte di 1100 uomini, senza il battaglione Bronzetti, che pure le apparteneva, ma che combatteva a Castel Morrone, arrivò alle 8 antimeridiane a s. Maria nel momento in cui La Masa era impegnato nella mischia, e dovette subito procedere all'attacco sulla strada di s. Angelo.

Assanti mandò un battaglione del reggimento Albuzzi per la porta di Capua, onde rinforzare quella riserva; con un battaglione di bersaglieri si avanzò per la strada di s. Angelo, avendo il reggimento. Fazioli a destra, il reggimento Borghesi a sinistra, mentre un battaglione del reggimento Albuzzi restava in riserva alla porta di s. Angelo Quell’attacco rincacciò indietro i regii.

Frattanto aveva Milbitz fatto eseguire un nuovo attacco dinanzi la porta di Capua; ma Tabacchi lo respinse e penetrò fin quasi alle trincee di s. Maria; però non appena i garibaldini si furono riavuti, irruppero nuovamente da tutte le parti e Tabacchi fu costretto di ritirarsi colla perdita di parecchi cannoni.

Vi sottentrò una tregua di quasi un’ora, avendo Tabacchi sentito ii bisogno di riannodare la sua gente, né potendo Milbitz dall'altra parte colla meschinità dei suoi mezzi uscire dalla difensiva, ch'egli convertiva in offensiva solo in caso della necessaria difesa. Tabacchi avendo verso le 44 riordinato il suo corpo procedette a nuovo attacco contro la porta di Capua tanto a destra che a sinistra della medesima. Malenchini, Fardella. e Sprovieri trattennero l'attacco alla strada ferrata, sostenuto da due nuovi cannoni, pervenuti appunto dalla riserva di Caserta; s’impiegarono pure in appoggio di La Masa e di Assenti alla porta di Capua due altri cannoni ritirati parimenti da Caserta.

Alla Porta Capitana Milbitz rinforzò il reggimento Lange col reggimento Palizzolo e colla compagnia del genio della riserva. Un servizio importante prestò in questo incontro la compagnia de Flotte, che appostata in una casa fortificata, manteneva le comunicazioni fra il centro e l’ala destra di Milbitz, cioè fra la strada di Capua e quella di s. Angelo.

Stando agli articoli nei giornali francesi, quella compagnia forte di 60 uomini, sopportò tutto il peso della battaglia; nelle descrizioni di questa battaglia fatte d’alcuni bravi giornalisti le sono dedicate forse due colonne, mentre tutto il restante combattimento sulla fronte lunga 4 2 miglia da Valle per Castel Morrone e s. Angelo a s. Maria e s. Tammaro viene spicciato in poche righe. È qui appunto che salta agli occhi di tutti la sciocchezza d’un tale contegno; ma ci sono altre descrizioni di battaglie che non valgono nulla di più. Stiasi quindi in guardia contro tutti coloro, in cui certi nomi rappresentano una. parte che assorbe tutto, mentre coloro cl)e portano quei nomi non hanno forse fatto nulla.

L’assurdità di tali notizie era un boccone troppo buono anche pei giornali di Cavour, perché non facessero quanto stasse in loro per divulgarlo con predilezione, mentre si sforzavano d’altronde d’impedire ogni diffusione alle notizie ragionevoli che pervenivano d'altra fronte.

Anche l'attacco delle ore 11 venne in tutt'i punti respinto da Milbitz.

Frattanto Tabacchi raccolse nuove forze e procedette alle 1 e mezzo pomeridiane ad un nuovo attacco, ch'egli sosteneva contemporaneamente colla cavalleria fatta avanzare contro la ferrovia e sulla strada maestra. Ma essa fu rigettata sulla strada ferrata dal fuoco delle batterie ivi collocate; alla porta di Capua la cavalleria napoletana penetrò fino addosso alle fortificazioni; Milbitz stesso dovette mettersi alla testa dei volontarii napoletani comandati dal maggior Monteforte per opporsi ai cacciatori napoletani che si avanzavano su quella strada; egli ricevette in quella occasione una contusione ad una gamba.

Tabacchi non aveva intrapreso quell'attacco di cavalleria e di cacciatori che per proteggere in tal guisa una nuova batteria, che avevano fatto avanzare sulla strada nel sito della tegolaja, la quale apri ben presto il fuoco, però poco nutrito, contro il sito della porta di Capua; dietro quella batteria vennero di nuovo ordinate le colonne dell'infanteria napoletana.

Quivi abbandoneremo il combattimento di santa Maria, essendo quasi le 2 pomeridiane; esso fu fino allora condotto felicemente, però in via difensiva; ma le forze di cui disponeva Milbitz erano quasi consumate, e gli mancavano affatto truppe fresche.

Alle 5 e mezza antimeridiane Afan de Rivera attaccò su tutt'i punti gli avamposti di Medici. Prima che cominciasse quell'attacco di fronte sulla linea della masseria Antinolfi per Santoro fino a Gianfrotti, un distaccamento della brigata Colonna avea passato il fiume alla Scafa di Triflisco, prese subito parte, al combattimento e tagliò sul principio fuori, una parte delle truppe avanzale di Medici, senza che questi nemmeno se ne accorgesse, si rivolse quindi per vie coperte contro le alture di s. Nicola, passando per Bosco di s. Vito.

Medici raccolse in quell'allarme e conseguente confusione ciò che potè momentaneamente raccogliere della gente. Gli avamposti tennero fermo qua e la e ritardarono il progredire dei napoletani; per tal modo Medici guadagnò tempo, per poter mandare il secondo reggimento della brigata Simonetta sull'ala destra al nord di s. Angelo; il primo reggimento della medesima brigata avendo alla testa il vecchio generale Avezzana ed il colonnello Simonetta si collocò al sud di s. Angelo per tener aperte le comunicazioni con s. Maria; Medici raccolse nel centro ciò che potè metter insieme della seconda brigata della 17. divisione, che in parte trovavasi negli avamposti, e della brigata Spangaro, prendendo posizione con quelle truppe vicino ad una batteria eretta sul declivio a ponente di s. Angelo.

Le. colonne di Afan de Rivera avanzavano intanto, per cui si venne ad un ostinato combattimento, che ebbe vicendevole fortuna; ora cedevano i regii, ora i garibaldini, e specialmente i primi facevano avanzare sempre nuove forze sulla loro ala destra onde ristabilire ed assicurare la comunicazione con Tabacchi, per cui malgrado tutti gli sforzi di Avezzana è di Simonetta non potè loro riuscire di restar padroni della strada maestra da s. Angelo a s. Maria.

Garibaldi, che come vidimo, trovavasi di prima mattina nel 4. ottobre a Maria, avendo impartito gli ordini necessari perche avanzasse una parto della riserva, e date le opportune istruzioni a Milbitz, recossi verso le 7 antimeridiane in, vettura a s. Angelo per osservarti lo stato delle cose e condurre Medici nel fianco sinistro di Tabacchi, qualora egli non fosse seriamente alle prese col nemico; ma lo trovò ben presto avvolto nella lotta la più impetuosa. Lungo la strada Garibaldi ebbe do cavallo ed un cocchiere uccisi.

Simonetta aveva intanto respinto di nuovo i| nemico per un istante e Garibaldi arrivò sulla strada, maestra appunto nel sito, in cui si dirama da essa il sentiero laterale che mette a s. Angelo in Formis. Essendosi convinto dello stato delle cose, impartì l'ordine a Medici di sostenere le sue posizioni a qualunque prezzo, mentre egli sarebbesi recato sull'altura sopra s. Angelo, per procurarsi un punto di vista che dominasse tutto lo stato del combattimento.

Medici continuò a combattere alle stesse circostanze di prima, solo che diminuiva sempre più. il numero delle sue truppe, pei molti morti e feriti e lo sbandarsi di altri, mentre il nemico poco accorgeva»del diminuir delle sue forze, stante la sua immensa superiorità numerica. Medici poteva disporrei alle 9 antimeridiane tutt’al più di 2000 uomini.

Intanto Garibaldi trova il nemico già in possesso delle eminenze al di sopra di s. Angelo in Formis: era la colonna dei cacciatori, che aveva Varcato il Volturno alla Scafa di Triflisco. Garibaldi oppose loro sui Monto s. Nicola una compagnia di carabinieri genovesi edite compagnie della brigata Sacrisi, che aveva trovata negli avamposti, raccoglie quanti gli capitano sotto mano e respinge i regii.

Il corpo principale comandato da Rivera, già da mezzanotte in piedi, cominciò verso mezzogiorno a fiaccarsi dinanzi la tenace resistenza di Medici, che non si avea aspettato. Il combattimento cominciò a rallentarsi, dia i napoletani restarono sempre in possesso delle altero a mezzodì di s. Angelo. .

Anche le truppe di Medici erano orribilmente stanche ed in piccolissimo numero atte a combattere ulteriormente. Si apparecchiava loro il mangiare a s. Angelo; quel piccolo pugno di bravi, che durante il combattimento della mattoni eransi trovati insieme, si strinsero ancor più fra loro, sperando ohe non fosse necessario di battersi ancora, ma però pronti a farlo se fosse stato duopo.

Ed in fatto Afan de Rivera aveva spinte in prima linea sempre nuove truppe e procedette alle 1 ad un nuovo attacco contro sant'Angelo in Formis; le truppe di Medici vennero respinte su tutt'i punti sulle alture; i regii s’impossessarono dei cibi preparati pei garibaldini, conquistano parecchi cannoni ed incendiano alcune case. Garibaldi vede, che se i napoletani hanno ancora nuove riserve per s. Angelo, beo presto riuscirebbe impossibile una nuova resistenza di Medici. Già egli aveva impartito l’ordine di fare marciare a santa Maria le ultime riserve di Caserta, prendendo poscia la risoluzione di recarsi egli stesso a s. Maria per andarvi a prendere quelle riserve. Ma sulla strada maestra gli è impossibile di farsi luogo, essendo fortemente occupata dai regii al sud di s. Angelo. Dovette quindi portarsi parte a piedi per sentieri laterali attraverso le montagne ad oriente della strada a s. Maria, dove arrivò dopo le due.

Per conoscere interamente le circostanze, in cui la riserva entrò nella lotta, dobbiamo eziandio raccontare il combattimento di Maddaloni fino alle prime ore pomeridiane, trattenendosi finalmente un istante a quello di Bronzetti a Castel Morrone.

Bixio aveva ricevuto ordine nel pomeriggio del $ 30 di tenersi pronto a respingere un attacco nemico.

Egli prese quindi le seguenti misure:

La brigata Eberhard collocasi sul l’ala destra sui declivi settentrionali del monte Longano presso l'acquedotto, la brigata Spinazzi a Villa Gualtieri nel centro; 2 battaglioni della brigata Dezza sull'ala sinistra sui declivi del monte Caro.

Il restante della brigata Dezza a s. Michele pia colonna Fabrizi a s. Salvatore presero un posizione di riserva fra Maddaloni e l'acquedotto.

Due cannoni protetti da un battaglione della brigata Eberhard furono disposti sulla strada che mette a Valle; un altro a sinistra della medesima, cosicché batteva il ponte dell’acquedotto; tre rimasero in riserva dietro la brigata Spinazzi. ,

Il battaglione, che era stato agli avamposti a Valle, ne fu ritirato.

Alle 5 antimeridiane del 1. ottobre una pattuglia a cavallo mandata da Bixio a Valle, vi trovò degli avamposti nemici, e facendo chiaro, Bixio osservò dalle alture una forte colonna nemica, che si avanzava sulla strada maestra di Ducenta. Era Mechel.

Questi, avendo raggiunto la val|e dell'Isclero, staccò allo-spuntare del giorno due distaccamenti, l’uno dei quali, quello dell'ala destra doveva guadagnare le alture di Caserta Vecchia e di Casola, per interrompere le comunicazioni di Bixio con Caserta, ed attaccare il fianco sinistro dei garibaldini, mentre un altro marciava a s. Agata de Goti per piombare di la sulle eminenze del monte Longano nel fianco destro di Bixio.

Abbiamo veduto, che Bixio affannoso particolarmente pel suo fianco sinistro, cioè per la sua comunicazione con Casetta, vi aveva disposto la massa principale delle riserve. .

Mechel si avanzò col nervo delle sue truppe sulla strada maestra ed arrivò alle 7 e mezza al di la di Valle. Quivi egli formò della sua gente di nuovo tre colonne, l’una doveva attaccare a destra il monte Caro, l’altra a sinistra il monte Longano, mentre la terza aveva ad intraprendere l’attacco principale sulla strada maestra.

Una batteria di 8 pezzi fu fatta avanzare sulla strada maestra; in tale posizione aspettò Mechel ancora qualche tempo, onde le colonne potessero farsi innanzi da s. Agata de' Goti per Cassola e quindi attaccare impetuosamente.

Alle 8 e mezza antimeridiane Cominciò l'attacco; mentre la batteria dei regii batteva la strada maestra con un vivo fuoco, penetravano innanzi le quattro colonne di fianco con l’ala sinistra e destra di Bixio.

Sull'ala sinistra Dezza venne respinto fino agli estremi declivi occidentali del monte Caro, però gli riuscì di raccogliere di nuovo i due battaglioni. Facendosi ivi il combattimento molto impetuoso, Bixio per sostenerlo vi spinse innanzi la brigata Spinazzi sui declivi meridionali del monte Caro, a destra di Dezza, e richiamò avanti da S. Michele a Villa Gualtieri 2 battaglioni della brigata Dezza, e la colonna Fabrizi da Maddaloni a s. Michele.

Mentre ciò succedeva sull'ala sinistra e nel centro di Bixio, l'attacco dei napoletani sull'ala destra dei garibaldini fu decisamente più felice; la brigata Eberhàrd, attaccata nello stesso tempo nella fronte, nel fianco ed alle spalle, dopo breve combattimento si ritirò da principio tranquillamente, ma quando il nemico l’incalzò con maggior veemenza retrocesse confusamente a Maddaloni. I due cannoni, collocati da Bixio sulla strada maestra abbandonati da chi doveva proteggerli, ed inoltre soperchiati dal fuoco preponderante dei napoletani, dovettero parimente ritirarsi a Maddaloni.

Se Mechel fosse stato in posizione di approfittare opportunamente di quel momento e penetrare tosto colla maggior parte delle sue truppe a Maddaloni, la sarebbe andata molto male per Bixio, ed era quasi certo, che i regii si sarebbero impossessati di Caserta.

Ma Mechel teneva il suo sguardo principalmente rivolto sulla sua ala destra, ivi era, a quanto sembra, il cammino più breve per poter interrompere le comunicazioni di Bixio con Caserta e colle forze restanti di Garibaldi. Ivi esisteva nello stesso tempo la comunicazione più breve colla colonna di Perrone, che doveva venir su da Limatola, ma che venne indarno attesa per lungo tempo senza mai comparire.

Ed appunto sull'ala destra di Mechel erasi allora di nuovo dichiarata la fortuna in favore dei garibaldini.

Infatti Dezza, avendo osservato il primo battaglione della brigata Spinazzi disposto sulla pendice meridionale del monte Caro, diede ordine ai suoi battaglioni di tener fermo nelle loro posizioni e di continuare il fuoco mentre egli accorreva al comandante di quel battaglione, Spinola, e lo incaricò di attaccare il nemico nel fianco sinistro. Con questo fuoco di fianco combinò egli nel vero momento un attacco di fronte dei suoi due battaglioni, ed i napoletani vi furono rincacciati nel modo il più brillante pel bosco fin verso Valle.

In seguito alla disfatta sofferta dalla brigata Eberhard e della perdita contemporanea della strada maestra al nord dell'acquedotto e delle alture del monte Longano, Bixio risolse prima di prendere una nuova posizione ben ordinata che gli permettesse di continuare regolarmente il combattimento. Richiamò quindi prima di tutto la brigata Spinazzi mandata sul monte Caro, e perfino il battaglione di cui Dezza aveva disposto, dirigendola a Villa Gualtieri; ed ivi pure dovevano essere ritirati i quattro cannoni tuttora occupati nell'acquedotto; ma non si riuscì che con tre soli, avendosi dovuto abbandonare il quarto, perché i napoletani che gli stavano d’intorno lo impedirono.

La nuova posizione assunta effettivamente dà Bixio nelle prime ore pomeridiane, era a ponente della strada da Maddaloni per Valle a Ducenta e faceva fronte contro quella strada; le loro linee di ritirata passavano parte per Centurano, parte per san Nicolò alla strada e lungo la ferrovia riuscendo a Caserta.

Sull'estrema destra a Maddaloni trovavasi ciò che restava della brigata Eberhard; a s. Michele stava Fabrizi, a Villa Gualtieri una parte delle brigate Dezza e Spinazzi; finalmente sull'estrema sinistra al di la (al nord) dell'acquedotto Dezza con tre battaglioni della propria brigata e di quella Spinazzi, di cui si è fatto già menzione. Bixio si assicurò della posizione delle sue truppe e della forza di quelle che esistevano ancora, per quanto era possibile, e, cosa maravigliosa, il nemico gliene lasciò tutto l'agio.

Bixio era in affanno particolarmente per la sua sinistra; ma egli doveva presto ricevere favorevoli schiarimenti sulla medesima.

Abbandoneremo qui il combattimento di Maddaloni, soggiungendo riguardo a quello di Castel Morrone, che la colonna di Perrone aveva attaccato Bronzetti nel corso della mattina; e sebbene egli avesse contro di sé un nemico cinque volte più forte, si difese valorosamente nella sua forte posizione, e quantunque soffrisse delle ingenti perdite e cominciassero anche a mancargli le munizioni, alle 2 pomeridiane egli combatteva ancora robustamente, né Terrone aveva potuto cagionargli un danno decisivo.

Gettando ora uno sguardo comprensivo sullo stato della battaglia intorno alle 2 pomeridiane, considerando la piazza del castello di Caserta come il centro, risulta quanto segue;

Sulla estrema destra a Maddaloni Bixio aveva perduto la sua posizione forestale verso Valle; però la sua ala sinistra si mantiene sulle alture del monte Caro al di la dell'acquedotto; i napoletani stanno ivi con forze soverchianti alla distanza di circa 12000 passi dalla piazza del castello di Caserta, potendo raggiungerlo in circa 4 ore, compresa la lotta, se avessero attaccato energicamente. Però si mantengono pel momento singolarmente tranquilli.

La colonna di Terrone è quasi altrettanto distante dalla piazza del castello di Caserta; però non ba ancora guadagnato nulla di decisivo; ma a quanto conosciamo la resistenza di Bronzetti può cessare ad ogni istante. Da quel momento in poi la colonna di Perrone ha in ogni caso stante il cattivo stato della strada ancora 4 ore per arrivare alla piazza del castello a Caserta.

Sacchi è a Gradillo quasi intatto; egli non ha alcun nemico contro di se, solo poche compagnie impiegate dal dittatore, presero parte al combattimento nella mattina sul monte s. Nicolò.

A s. Angelo, Afan de Rivera è ormai nel vantaggio il più decisivo; se egli ne sa trar profitto, se si dà la pena di guardare da sé la terribile debolezza del suo antagonista Medici non può restarsi nascosta; se dopo i successi già ottenuti sa attaccare colle sue forze preponderanti, se non lascia che la sua gente sciupi tempo e forza ad incendiare e saccheggiare la parte settentrionale del monte Tifata dovrebbe essere in un’ora. allatto in suo potere; in un' altra ora anche Sacchi può soggiacere alla forza preponderante, e due ore dopo al più tardi Afan de Rivera può stare sulla piazza del castello a Caserta ed ivi porger la mano a Mechel già penetrato fin là.

A santa Maria il combattimento ferveva in quell'istante, ma ivi pure sono prese le misure opportune di rinnovarlo quanto prima; le truppe di Milbitz sono per la massima parte al fuoco fino dalla mattina, e Dio solo sa, quanto a lungo resisteranno ad un attacco energico. Ma da s. Maria alla piazza del castello di Caserta si marcia sulla strada buona in un’ora e mezza; e se vi si aggiungono combattimenti di retroguardia, tutt'al più 3 ore.

S. Tammaro è in mano dei regii.

Della riserva generale di Caserta era stata richiamata fino dalla mattina tutta l'artiglieria a santa Maria e s. Angelo, inoltre la brigata Assanti, e battaglione Paterniti e ciò che in certo modo era utile di servire della brigata Pace. La riserva generale consisteva quindi ancora delle due brigate Eber e di Giorgis, che in complesso saranno forti di 2450 uomini.

Ma si aveva ancora dovuto mandare parecchi distaccamenti per esplorare lo stato del combattimento, l'uno verso Maddaloni, un altro verso Macerata, essendo voce, che il nemico avanzavasi colà da san Tammaro nel fianco sinistro di Milbitz, voce che si dimostrò erronea. La riserva generale era quindi effettivamente forte di circa 2300 uomini, senza nemmeno un cannone.

Essa ricevette il comando prima delle 2 pomeridiane di marciare dalla corte del castello di Caserta a s. Maria. Tùrr colla brigata di Giorgia (Milano) si collocò sulla strada ferrata; Rustow cogli ufficiali dello, stato maggiore ed un piccolo distaccamento di ossari corse dalla strada maestra a s. Maria. Lo seguiva sulla medesima strada la brigata Eber.

I varii distaccamenti arrivarono a s. Maria: Rustow col suo seguito alle 2 mezza; la brigata di Giorgis alle 3 e tre quarti; la brigata Eber poco dopo le 3 e un quarto.

Rustow dopo essersi alquanto orizzontato sullo «tato del combattimento dinanzi la porta di Capua, ed aver distribuito i suoi ufficiali per ricevere le truppe aspetta te, si recò di nuovo alla piazza rotonda a santa Maria, convegno generale. Ivi trovasi con Garibaldi allora ri tornato da s. Angelo. All'annunzio di Rustow che la riserva stava arrivando, Garibaldi voleva che riposasse prima di entrare nel combattimento. «Siamo vincitori diceva egli, non si tratta che d’un ultimo colpo decisivo, e quindi ci occorrono truppe fresche.»

In quel momento giunse la brigata Milano a passo di carica dalla strada ferrata Quelle truppe erano fresche, non avevano marcialo, e Garibaldi comandò che marciassero immediatamente sulla strada verso s. Angelo.

Rustow a fianco del dittatore si posse alla teste della brigata. Appena la sua fronte, consistente nei bersaglieri di Milano, era arrivata fuori della porta, che ricevette un fuoco vivissimo nel suo fianco sinistro. Tabacchi preparavasi appunto ad un nuovo attacco più impetuoso sulla porta Capuana di s. Maria. Garibaldi prese alcuni distaccamenti di calabresi, che trovò nelle macchie davanti la porta di s. Angelo, e li slanciò contro il nemico a sinistra della brigata Milano.

Frattanto sembrava a Rustow, che irrompendo diagonalmente alla strada di s. Angelo verso quella di Capua si affretterebbe nel modo più facile la decisione della lotta. Un tale movimento nella direzione quasi per la villa Parisi contro quella di Saullo prendeva di fianco ed alle spalle il corpo di Tabacchi come quello di Afan de Rivera e poteva tagliar loro la ritirata di Capua. Rustow trasse quindi fuori senza ritardo i bersaglieri, seguili subito dai battaglioni d’infanteria di quella brigata collocandosi a sinistra della strada e marciò avanti attraverso il folto degli alberi nei campi di Moricelle; l'infanteria nemica si ritirò verso la strada di Capua e Tabacchi ordinò una ritirata generale all'avanzarsi sempre più impetuoso della piccola brigata Milano. Per coprire quella ritirata slanciò quattro squadroni contro i bersaglieri milanesi; quella cavalleria in parte già impedita dal terreno dovette ritornare indietro quando fu a trenta passi dai bersaglieri, che già eransi formati in gruppi, e ricevette il loro fuoco.

La ritirata di Tabacchi si fece allora più frettolosa e lò divenne ancor più in vista di quanto erasi intrapreso dalla porta di Capua di s. Maria contro il nemico. L’attacco di fianco di Rustow aveva completamente troncata la continuazione dell'attacco di Tabacchi sulla porta di Capua e la sua linea. Appena Milbitz s’accorse che i regii si ritiravano, fece uscire dalla porta stessa 60 ussari per inseguirli, e Tabacchi dovette abbandonare toro parecchi cannoni.

Inoltre era giunta a s. Maria anche la brigata. Eber; una metà della medesima era stata diretta da Sirtori davanti la porta s. Angelo in sostegno della brigata Milano, la legione ungherese, la compagnia degli stranieri e il reggimento Cossovich; coll'altra metà, il battaglione di bersaglieri e il reggimento Bassini con Turr alla testa inseguiva il nemico sulla strada di Capua.

Il fallito attacco della regia cavalleria aveva nulla ostante resi un pp’ stupiti i bersaglieri milanesi, e ciò si diè ancor più a conoscere allorché per arrivare nella direzione, in cui Rustow voleva averli, dovettero uscire alquanto a destra in campo aperto. In quel momento era uscita la cosi detta legione ungherese insieme alla compagnia straniera. dinanzi la porta di s. Angelo, ponendosi a destra della brigata Milano appunto nella direzione, in cui Rustow voleva che succedesse l'attacco. Rustow che ebbe un cavallo ucciso sotto di se, ed era necessariamente montato di nuovo a cavallo, si mise subito alla testa dei bersaglieri della legione ungherese.

La legione ungherese e la compagnia straniera, in tutto 260 uomini, si avanzarono lungo la strada affossata dalla villa di Napoli verso la villa S. Ambrosio; alla loro sinistra la brigata Milano, 700 uomini, nella direzione di Parisi e della Taverna Virilasci.

L’avanzarsi dei bersaglieri della legione ungherese era veramente splendido, mentre la riserva serrata nella legione stessa e della compagnia straniera seguiva già con grande lentezza. La brigata Milano precedeva vivacemente come i bersaglieri della legione ungherese. L’ala sinistra della colonna Tabacchi fuggì direttamente davanti quelle poche truppe verso la spianata di Capua. Tabacchi temeva, che l'inseguire impetuoso dei garibaldini non solo gli chiudesse la strada maestra verso Capua, ma impedisse eziandio la ritirata ad Afan de Rivera.

In faccia a quest'ultimo erasi Medici valorosamente mantenuto, sebbene con forze sempre più deboli, finché la riserva prese parte al combattimento. L’avanzarsi di quest’ultima decise anche della ritirata di Afan de Rivera.

Per coprir quindi il loro ritirarsi ed assicurare la loro congiunzione a Capua, Afan de Rivera e Tabacchi fecero uscir fuori con veemenza tutta la cavalleria della riserva dalla spianata per la cappella di s. Lorenzo alla volta della villa Ambrosio e Saullo. Quella mossa di cavalleria s’incontrò nei soli 60 bersaglieri della legione ungherese, in gran parte tedeschi del nord, come il loro capo Rustow, che era alla loro testa. Si venne finalmente ad un attacco colla spada ed a ferirsi colla sciabola, cosa del resto assai rara in questa guerra. Rustow dovette farsi strada attraverso la cavalleria napoletana dalla villa Ambrosio. Però l'avvicinarsi della legione ungherese e della compagnia straniera da una parte, e della brigata Milano che passava per Virilasci mise non solo sollecitamente fine a quel combattimento, ma obbligò anche la cavalleria napoletana a ritirarsi sulla spianata.

Alle 5 della sera tacque interamente il fuoco sui campi di Capua è s. Angelo, l’impresa del nemico fu sventata, e malgrado la sua preponderanza fu obbligato a ritirarsi dietro le sue mura.

La riserva di Garibaldi stava sulla sera cosi disposta: Eber col reggimento Cossovich, che non avea più trovata alcuna opposizione, avendo l’attacco di Rustow già decisa la ritirata dei napoletani, stava sulla strada di s. Angelo sull’altura della villa Avallo;

Rustow colla legione ungherese e la compagnia straniera presso la casa de Angelis; colla brigata Milano presso la Taverna Virilasci verso Vitale;

La metà della brigata Eber guidata da Turr»che non aveva avuto davanti a se che delle catene di caccia»tori deboli e pronti a ritirarsi, era situata dietro il convento dei cappuccini.

Contemporaneamente al combattimento a s. Angelo e s. Maria era riuscito vittorioso per l’esercito meridionale italiano anche il combattimento di Maddaloni.

Abbiamo lasciato Bixio nella posizione, in cui lo avevano respinto i primi attacchi di Mechel. Egli era stato costretto di fare un movimento indietro; ma il bravo Dezza aveva tenuto fermo sul monte Caro, cardine dell’ala sinistra.

Appena Bixio ebbesi assicurato di quelle circostanze, ed ebbe inoltre riconosciuto che i regii non uscivano dalla loro vigliacca inazione in cui erano caduti dopo i primi successi, risolse di prendere egli stesso l’offensiva.

Egli formò due battaglioni della brigata Dezza ed un battaglione della brigata Spinazzi, in tutto quasi 800 uomini, in colonna d’attacco, e si avanzò con quella piccola forza da Villa Gualtieri verso il ponte dell’acquedotto ed il centro del nemico. Lo respinse impetuosamente, riprese il cannone da prima perduto e marciò per la strada maestra verso Ducenta, fino alla batteria napoletana. Questa dovette correr via lasciando due cannoni rigati.

Appena Dezza s’accorse del progredire di Bixio sulla strada maestra, prese anch'egli la più energica offensiva coi suoi tre battaglioni sul monte Caro, cercando di guadagnare per Valle la linea di ritirata dei nemico. Una splendida vittoria fu cosi riportata dall’ala sinistra e dal centro di Bixio sull'ala destra ed il centro dei napoletani, circa alle 4 pomeridiane. Anche l'ala sinistra dei regii ritirossi in seguito a ciò in fretta e confusione.

La giornata apparteneva ai garibaldini tanto su tutta la linea che davanti Maddaloni. Bixio aveva guadagnata alla sera del 1. ottobre tutte le sue posizioni occupate la mattina.

Ma al 2 ottobre doveva succedere una ripetizione di quella battaglia.

Abbiamo veduto che nelle prime ore pomeridiane del 4. ottobre Bronzetti sosteneva ancora valorosamente a Castel Morrone gli attacchi di Perrone, che gli era tanto superiore in numero.

Se non che mancavano alla fine ai suoi bravi le forze e le munizioni; quei pochi che restavano dovettero deporre le armi alle 4 pomeridiane, quando in tutti gli altri punti del campo di battaglia la vittoria si decideva o cominciava decidersi per le armi di Garibaldi.

Ma la tenace ed ardita resistenza di Bronzetti aveva molto stremate anche le forze di Perrone, il quale non osava di continuare, con ciò che gli restava, la marcia per Poccianello a Caserta. Richiese quindi rinforzi a Ruiz, il quale fece effettivamente avanzare altri 2000 uomini, cosi che Perrone potè ormai proseguire con 3000 uomini la sua marcia verso le alture di Caserta Vecchia.

Una parte di queste truppe vennero alle mani nella stessa sera del 4. ottobre coi posti di Sacchi al parco di s. Leucio.

Garibaldi istruito in quella stessa sera a s. Angelo dell'avanzarsi di Perrone, risolse subito di distruggere quella colonna. Egli diresse a Caserta i calabresi di Stocco e la brigata Assanti, e si mise egli stesso in cammino nella mattina del giorno 2 da s. Angelo pei monti verso Briano con circa 600 o 700 uomini (carabinieri genovesi, un distaccamento della brigata Spangaro ed una compagnia Montanari del Vesuvio), comandando a Sacchi di seguirlo nella riserva.

Perrone teneva occupate le alture di Poccianello a Caserta Vecchia e disponevasi all'attacco di Caserta Nuova, allorché le guide di Garibaldi, che dovevano fare una riconoscenza sotto il comando di Missori, furono i primi ad osservarlo.

Garibaldi mandò subito l’ordine a Bixio di marciare in fretta da Maddaloni verso le alture di Caserta Vecchia per quindi precipitarsi pel fianco sinistro del nemico, mentre le colonne del dittatore stesso e di Sacchi si slancierebbero contro il suo fianco destro.

Bixio, avendo lasciato la colonna Fabrizi alle guardie delle posizioni di Maddaloni sulla strada di Ducenta, fece che Dezza marciasse colla sua brigata dal monte Caro verso il monte Viro alle spalle del nemico e condusse egli stesso a sinistra di Dezza le brigate Spinazzi ed Eberhard verso Caserta Vecchia.

Sirtori aveva creduto di dover richiamare delle truppe piemontesi da Napoli. Arrivò in fatto a Caserta un battaglione di bersaglieri piemontesi, 400 uomini circa.

Quel battaglione unito ai calabresi di Stocco e ad una parte della brigata Assanti ricevette il primo attacco di Perrone, la cui avanguardia era già discesa nelle prime ore pomeridiane a Caserta Nuova e fino alla piazza Mercato, anzi in parte fino alla grande spianata dinanzi il castello reale.

Mentre i regii scambiavano dei colpi di fucile colle truppe slanciate contro loro a Caserta e saccheggiavano in modo estremamente puerile e comico quelle parti della città che era caduta in loro potere, vuotando fra le altre cose un magazzino di mode, Sacchi e Bixio attaccarono la coda della colonna Perrone sulle alture dell'antica Caserta e di s. Leucio. Quell'attacco decise quasi di tutto senza spargimento di sangue. Anche l’avanguardia di Perrone si ritirò allora da Caserta Nuova sulle alture nella massima confusione; ma non isfuggi quasi nulla ai garibaldini di tutta la colonna Perrone. Bixio fece molti prigionieri a Caserta Nuova, il resto si arrese a Sacchi, meno pochi sbandati che si salvarono isolatamente a Scafa di Limatola ed Amoroso. Stretti da tutte le parli non avevano i regii altra scelta che di arrendersi o sostenere una morte gloriosa colle armi in pugno. Essi scelsero il primo.

S. Tammaro, che era stato ceduto al 1. ottobre dall'esercito meridionale, fu rioccupato nella mattina dei due da un distaccamento senza colpo ferire.

Il 2 ottobre venne aperto il Parlamento sardo. Cavour dimostrò l’impossibilità di un’immediata azione sopra Roma e Venezia; domandò che venissero approvate le annessioni di quei paesi dell’Italia centrale e meridionale che votassero per suffragio universale l’unione al Piemonte, e conchiuse dicendo che l'era delle rivoluzioni era chiusa per sempre.

Il giorno 8 le truppe sarde entrarono per tre parti nel Napoletano. Winspeare, ambasciatore di Francesco II, abbandonò Torino dopo aver protestato. Vittorio Emanuele assunse il comando dell'esercito.

Il giorno 14 la camera dei deputati sarda approva con 290 voti contro 6 il progetto di legge relativo alle annessioni dell’Italia centrale e meridionale.

Garibaldi, prima del mezzogiorno del 12 ottobre, giungeva in Napoli e radunava il consiglio de' ministri dimissionar». Dopo una seduta, che fu animatissima, si sparse voce che la tanto biasimata Segreteria verrebbe ricostituita e che si tornava all’indirizzo politico del Bertani.

A questa nuova, l'agitazione aumentò, cosicché la guardia nazionale, per precauzione, fu chiamata sotto le armi e occupò con maggiore forza i soliti posti. A notte, la dimostrazione assunse un carattere grave e non mancavano i fischi e i morte ai repubblicani'. L’ordine però non venne menomamente turbalo, e quello che giovò molto a mantenerlo fu il seguente proclama del dittatore, il quale rese la fiducia nella commossa popolazione, annunziando l’entrata del Re nel territorio napoletano.

«Cittadini

«Domani, Vittorio Emanuele, il Re d’Italia, l’eletto dalla nazione, infrangerà quella frontiera, che ci divise per tanti secoli dal resto del nostro paese, ed ascoltando il voto unanime di queste brave popolazioni, comparirà qui fra noi.

«Accogliamo degnamente il mandato dalla. Provvidenza e spargiamo sul suo passaggio, come pegno del nostro riscatto e del nostro affetto, il fiore della concordia, a lui cosi grato ed all’Italia cosi necessario.

«Non più colori politici! non più partiti! non più discordie!

«L’Italia una, come la segnano saviamente i popoli di questa metropoli, ed il Re galantuomo, sieno i simboli perenni della nostra rigenerazione, della grandezza e della prosperità della patria.»

Il 13 il ministro prussiano Schleinitz con una Nota alla Sardegna disapprovò gli ultimi fatti dell'Italia. Lontano dal voler contrastare l’alto valore dell'idea nazionale ch'è la norma essenziale ed apertamente confessata dalla politica prussiana, dice non poter rinunziare al rispetto dovuto al principio del diritto.

Nel giorno 15 ottobre la posizione di Monte S. Angelo fu il punto preso di mira dai regii, che vi furono valorosamente respinti dai piemontesi, dei quali 36 vennero messi fuori di combattimento, e fra questi vi furono 6 morti. Il combattimento durò 8 ore circa.

Ecco il rapporto che ne fa il generale Milbitz al generale Turr a Napoli.

«Il nemico ha attaccato la sinistra di S. Angelo ed è staio respinto. Siamo pronti su tutta la linea per riceverlo, nel caso che nuovamente avanzasse.

«Nel giorno 15 vi è stato attacco per parte de' regii nella sinistra de' nostri. La posizione di Monte Sant’Angelo è stata il punto preso di mira. I piemontesi hanno respinto il nemico e l'hanno inseguito fin sotto le mura di Capua. Un centinaio di essi sono rimasti nostri prigionieri. Il combattimento è durato dalle 2 e mezzo alle 10 ant.»

Verso le prime ore del mattino del 17 ottobre incominciò una lunga fucilata rimpetto a S. Michele I regii, che tenevano l’offensiva, si avanzavano guadagnando terreno, quando la legione de' volontarii inglesi, che fra le altre eroicamente sostenne l’attacco, si spinse con incredibile slancio alla baionetta, ed i regii vennero messi in precipitosa fuga lasciando diversi prigionieri.

Ecco il rapporto del colonnello inglese Peard, diretto a Garibaldi su questo combattimento:

«Eccellenza

«Ho l'onore di riferire che, dopo aver preso le posizioni accennatemi, posi una compagnia in appoggio della batteria nel centro della posizione, ed inviai la 40. compagnia ad occupare una fattoria situata di fronte, mandando nello stesso tempo due compagnie a sinistra, e due a sostenere la compagnia avanzata del 1.° battaglione.

«Udendo un vivo fuoco di fronte, io andai in persona alla fattoria, ove era appostata la 10° compagnia ed ordinando a tre compagnie del 2° battaglione di salire, io avanzai due compagnie (la 10° e la 7°) in catena. Il fuoco continuando fortemente ed i bersaglieri sul colle sembrando pressati, ordinai alla 2° in catena di avanzare in loro soccorso, e nello stesso tempo avanzai due compagnie per occupare la linea che avevano tenuto la 10° e la 7°. Andai innanzi colle compagnie che si avanzavano, accompagnato dai seguenti ufficiali: capitano Hoskin, maggiore di brigata; capitano Sarsfield, segretario militare; capitano Hare, A. D. C.; luogotenente Gribell; luogotenente Campbell; luogotenente Knapmann.

«Gli uomini si avanzarono in ordine ammirabile ed aprirono il fuoco con gran precisione, lo ebbi allora da deplorare la perdita del sig. Tucker, interprete della brigata, che cadde, essendo in avanti della linea dei combattenti.

Il nemico essendo in gran forza, ordinai al mio aiutante di ritornare e condurre un rinforzo. Per ciò condusse i numeri 4 e 5 alla fronte.

«Il fuoco era eccessivamente grave, ma, uniti ai bersaglieri, noi potemmo, non solo resistere, ma respingere i nemici entro le loro linee, con gran perdita

«Dalla parte della brigata io ho da lamentare due uccisi, ed otto feriti, senza menzionare le contusioni, cioè: Uccisi: alfiere B. Tucker, interprete; comune Luigi Mitchell, compagnia n.° 7. Feriti: comuni, Giovanni Clark, Guglielmo Ritchie, G. Prosser, M. Cartby, Witson, caporale Bennet; comuni Matthew e Bats.

«Non posso parlare mai abbastanza bene della condotta dei miei soldati e ufficiali. Uomini, che per lo più non hanno mai veduto un nemico, e che, per la maggior parte, sono stati arrolati solo poche settimane fa, non solo si avanzarono sotto un vivo fuoco nel modo il più valoroso, ma si ritirarono, quando io stimai "necessario di farsi, colla regolarità e precisione de' veterani. Si condussero lutti cosi bene che sarebbe ozioso il particolareggiare, ma sarei ingiusto se trascurassi di recare a vostra notizia la valorosa condotta del capitano Styles, che, con tutta la sua compagnia, si offrì volontariamente di attaccare alla baionetta il nemico nell'ultima posizione che occupava, dopo essere stato impegnalo tutto il giorno. Mi rincrebbe che, pel bene di servizio, questa offerta non potesse essere accettala.

«Permettete che richiami particolarmente la vostra attenzione sui servigii resi dal comune Carlo Munday, della compagnia granatieri; i chirurghi della brigata non essendo presenti, egli, avendo studiato medicina, recò un importantissimo servigio coll’esercizio di quella professione ai feriti

«I seguenti soldati, cioè i comuni Wolke, Wilson e Prosser, mi sono pure rammentati come degni di ammirazione.

«Ho l’onore di essere, ecc.»

Nel giorno 19 ottobre moveva una colonna di appena 700 garibaldini per riprendere' Isernia ai regii. Questi l’attesero e s’impegnò tra loro accanita zuffa.

I garibaldini erano circondati dai regii e reazionarii in numero circa di 7000 con artiglieria. Si batterono disperatamente, ma furono soverchiati dal numero.

Parecchi garibaldini furono fatti prigionieri, alcuni morti e feriti, altri dispersi. Tra i prigionieri fu il cappellano, che venne tagliato a pezzi; due o tre ufficiali vennero feriti lungo la via e poi rinchiusi in una stanza senza cibo e assistenza.

Nel mattino del 19 ottobre, fra le 7 e 8, la più avanzala avanguardia del generale piemontese Cialdini fu attaccata sull’alto del Macerone da tre colonne napoletane, sommanti fra tutte e tre a 6000 uomini all’incirca, cioè 3000 gendarmi di fanteria, 1500 uomini del 1.° di linea, 1200 o 1500 urbani, due pezzi d’artiglieria.

Il generale Griffini si trovò per un’ora e mezzo solo con due battaglioni di bersaglieri ed una sezione d'artiglieria sull'alto del Macerone, la dove è scavalcalo dalla strada postale, osservando i movimenti delle tre colonna nemiche, una delle quali saliva direttamente per la strada ad attaccare il centro; le due altre, per due contrafforti laterali, tendevano a girare la posizione.

Il generale Cialdini arrivò più celeremente che potè, perla lunghissima salita, colla brigata Regina e spingendo subito qualche battaglione a destra e a sinistra, ed avanzando contemporaneamente al centro, in poco più di mezz’ora sbaragliò completamente il nemico.

Uno squadrone di lancieri Novara (capitano Montiglio), condotto dallo stesso generale Griffini e seguito alla corsa dal 7.° bersaglieri, si rovesciarono sui fuggiaschi ed arrivarono ad Isernia prima di loro.

Per altro i napoletani riuscirono a trarsi d’impaccio lasciando in potere dei piemontesi il generale Scotti-Douglas, SO ufficiali, 800 uomini e la bandiera del primo reggimento.

I napoletani in questo combattimento ebbero un rovescio, ma arrestarono per due giorni il cammino de' piemontesi e poterono ritirarsi a Venafro e di là a Teano.

Il regio commissario generale dell'Umbria pubblica il decreto che convoca il popolo nei comizi a suffragio universale pel 4 novembre prossimo. Identico decreto fu emanato per lo stesso giorno riguardo alle Marche. La formula era quella già stabilita per la Sicilia.

Nel mattino del 25 ottobre Garibaldi passò il Volturno con un corpo di 7 ad 8 mila uomini, e si spinse innanzi all'incontro delle truppe di Cialdini, dal quartier generale del Re, che, dopo averlo informato delle disposizioni dell'armata sotto i di cui ordini gli aveva detto di operare come meglio credeva.

Egli volle spingersi innanzi ed operare sul fianco dei borbonici, inquietandoli nelle loro marce e profittando, quando fossero impegnati di fronte, di agire sul loro fianco per assicurarne la disfatta.

Questo movimento però delle truppe garibaldine fu seguilo al suo principio da uno sgraziato accidente, cioè dalla rottura di una gamba del generale Nino Bixio. La divisione di questo generale operava di vanguardia ed aveva passato pure, per la prima al mattino, il Volturno, sovra un ponte gittato nella notte vicino a Sant’Angelo. Arrivato a Bellona, si presentavano varie strade; toccava sceglierne una. Bixio si slanciò col suo cavallo innanzi per riconoscere quale si doveva prendere. In una svolta di strada, il cavallo precipitò a terra, sfracellando nella caduta la gamba sinistra al generale. Bixio, appena caduto, perdette la conoscenza, che avendo battuto a terra nel capo, alcune ferite si era pur fatte nella testa e nella faccia. Accorse subito lo stesso Garibaldi a prestargli le prime cure; sopravvennero i chirurghi, e venne subito medicato. La rottura era alla tibia della gamba sinistra; le ferite della faccia erano senza importanza. Ma ogni speranza pel generale di poter continuare avanti era perduta, e lo si dovette riportare indietro a Sant'Angelo, poi a Santa Maria, e di li in Napoli. A Santa Maria e a Sant’Angelo rimase il resto dell’armata garibaldina, a guardare quelle importanti posizioni da ogni attacco dei 5 mila regii ch'erano ancora a Capua.

Alle 2 antimeridiane del 26 ottobre due battaglioni borbonici uscivano da Capua ed attaccavano gli avamposti garibaldini del centro, difesi dai calabresi comandati dal colonnello Pace. I borbonici dirigevano l’attacco verso quegli avamposti perché potessero dar agio ad un altro loro battaglione d’investire la casa de' Cappuccini, posta a sinistra, e vuotarla di viveri, che conteneva in fagiuoli, granoturco e formaggi. Gli assaliti resistettero alquanto, ma, sopraffatti dal numero, dovettero ripiegare e perdettero in tal modo la posizione che occupavano.

Alle 7 antimeridiane gli assaliti e respinti si fecero assalitori e laddove rioccupavano la posizione perduta, ricacciavano i borbonici fin dentro le loro trincee, a un tiro di fucile dalle artiglierie di Capua.

Le artiglierie di Capua aprivano in conseguenza il fuoco; quelle del Fortino e Porticello e quelle di sinistra risposero con qualche colpo. Verso le 9 antimeridiane il fuoco di artiglieria e di fucileria cessava.

Gli assaliti contarono pochi feriti. I borbonici lasciarono pochi morti sul campo.

Veniva regolarmente operalo un movimento generale di ritirata e di concentrazione dell’esercito napoletano. A proteggere codesto movimento fu inviato ad Isernia un corpo di 14,000 uomini, il quale ebbe il 17 ottobre un primo affronto, dopo il quale sì ripiego a Venafro, poi sul Teano, ove si congiunse ad esso il corpo di Caiazzo, che abbandonava quella posizione, troppo lontana dalla nuova base di operazione dell'esercito napoletano.

Codesti due corpi, che formavano insieme una forza di 15,000 uomini, sostennero il 26 un vivo combattimento contro l'esercito piemontese comandato dal Re ih persona.

La retroguardia napoletana, forte di circa 42,000 uomini, sostenne il maggior impeto dei piemontesi, e fu respinta dietro il Volturno. Pure riuscì ai napoletani di trarsi d’impaccio.

Le perdite de' piemontesi furono poche; quelle dei napoletani più rilevanti, i quali lasciarono 500 o 600 prigionieri in mano dei primi.

Nello stesso giorno le truppe del generale Cialdini sostennero, vicino a Sessa, un brillante combattimento colle truppe borboniche, le quali dopo due ore di vivissima fucilata, accompagnata da alcuni colpi di cannone, furono costrette a ritirarsi sul Garigliano. il numero dei prigionieri, caduti in potere di Cialdini, fu considerevole.

Nel 26 ottobre i napoletani cominciavano a lasciar Sessa, e, passato il Garigliano, piantavansi dietro quel fiume, avendo il centro a Traietto. Le posizioni ch’essi vanno ad occupare sono fortissime perché si appoggiano ad una catena di montagne di difficile approccio, e perché sono, protette dal Garigliano. Comunque sia, solo dopo di aver espugnato quelle posizioni l’esercito piemontese potrà incominciare l’assedio di Gaeta.

In somma, il corpo de' napoletani, inviato ad Isernia, operando contro l’esercito piemontese, permise alI’ esercito napoletano, malgrado i rovesci da lui sofferti, di fare. una marcia al fianco, pel tratto di quasi 75 chilometri e di operare un movimento generale di concentrazione.

Il Re Vittorio Emanuele, che col forte della sua armata recavasi verso Teano, e il dittatore Garibaldi s’incontrarono nel 27 ottobre a Sant’Agata, entrambi a cavallo.

L’incontro col Re fu cordiale ed espansivo da ambe le parti. Ma dicevasi che il torto degli uomini politici, che consigliavano il Re fu quello di essere venuti sino al punto di quel colloquio senz’aver nulla preveduto e senza esserci in certo modo preparati alle principali sue eventualità.

Il dittatore diede la mano al Re e gli disse che gli dava tutto il paese che aveva conquistato in suo nome. La folla di soldati e di paesani, fatta dappresso, acclamava gridando Viva Vittorio Emanuele! La magica voce di Garibaldi allora tuonò Viva il Re d'Italia! e questo grido fu ripetuto da mille bocche.

Sul fine del colloquio fra il Re e Garibaldi si venne a parlare delle operazioni militari. Ebbene, concluse il Re, e noi attaccheremo Capua; se voi, generale, volete cooperare all'attacco, intendetevi col generale Della Rocca che ha le mie istruzioni.

Garibaldi, come vedremo, di ritorno a Caserta, mise sotto gli ordini del generale Della Rocca il generale Medici colla sua divisione, e in quel fatto della presa di Capua si tenne affatto in disparte.

Nel giorno 29 i piemontesi ebbero a soffrire alcune perdite sul ponte del Garigliano.

Il Re aveva ordinato una ricognizione per vedere quali forze avesse il nemico sulla sponda destra del fiume.

Comandava la ricognizione un colonnello di cavalleria, il quale, vedendo come i bersaglieri manovrassero ora a destra, ora a sinistra, ordinò al maggiore di quelli di spingersi sui ponte di ferro che attraversa il torrente.

Ai bersaglieri del Re dire avanzatevi fu lo stesso che dire volate. Il ponte fu passato, ma le batterie coperte del nemico aprirono tale un fuoco su que’ militi, che un terzo di loro rimasero morti o feriti ed una quarantina caddero nelle mani de' regii.

A questo sagri tizio è stata dovuta la certezza che il campo trincerato del Garigliano era difeso da 100 pezzi di posizione. Con questa possente artiglieria l'esercito del Re Vittorio avrà da fare in appresso quando si gitterà il ponte per attraversare quel fiume.

Il ritardo nel Compiere questa operazione era da attribuirsi all'attitudine presa dall'ammiraglio francese, che colla sua squadra trovavasi allora a Gaeta. Egli si era sempre ricisamente opposto a che l’ammiraglio piemontese Albini avesse a sbarcare il materiale dell’annata presso la foce del Garigliano.

Nel 29 e nel 30 ottobre fu lanciata qualche bomba in Capua. Una delle bombe lanciate nel 29 produsse un incendio in una delle caserme militari di Capua, e dagli assediami si prese la risoluzione di non rispondere ai fuochi assai nutriti dei borbonici se prima non fossero tutte recate a compimento le opere di offesa.

Queste opere vengono disturbate a tutta possa dai regii ed è grandissima la quantità di bombe e di proietti che a tale oggetto lanciano i molti artiglieri chiusi in Capua. Non è a dire se gli assediatili ne soffrano. Il colonnello Fabrizi, essendosi di mollo avanzato alla piazza, fa gravemente ferito da un proietto.

Nel mattino del 30, alle 10, i regii tentarono una sortita per distruggere le opere d’assedio. I bastioni di Capua sostenevano questo movimento con una fitta grandine di mitraglia, di granate e di bombe. L’azione fu accanitissima. Di fronte al bastione che difende la strada di S. Maria, la brigata Spangaro fece prodigi di valore. Il coraggioso brigadiere ed i tre maggiori, tra i quali il Morici, che nel 1.° ottobre fe’ prova di alte qualità militari, respinsero gli assalitori. Un’altra mano di regii si lanciò furiosamente contro una colonna di piemontesi, che fronteggiava il Castelluccio, Dopo due ore di fuoco, la fanteria borbonica si è ripiegata parte verso il Volturno e parte nella via coperta, che era stata scavata per tutta la lunghezza dal campo delle manovre a Capua. Alcuni squadroni di cavalleria uscirono in colonne serrate; poscia si dispiegarono pel campo, accennando ad una carica contro gli avamposti degli assedianti alla strada ferrata. Epperò dopo aver manovrato timidamente, si ritirarono nel bastione del Castelluccio. Alle 2 pomeridiane si sentiva ancora qualche colpo di moschetto. I paesani di Caiazzo, eccitati dagli sbandati borbonici, presero le armi in nome di Francesco II. Il generale Medici inviò qualche compagnia ordinando di non dare quartiere a nessuno.

Il quartiere generale del re Vittorio Emanuele era sempre a Sessa. Ma avendo S. M. ordinato che il bombardamento di Capua avesse a incominciarsi nel 4 novembre alle ore 4 pomeridiane, egli si recò verso le 3 a vedere i primi colpi tirati verso la piazza.

Garibaldi, che nel mattino dello stesso giorno 4 novembre aveva visitato le linee di Sant’Angelo, ritornò a Caserta verso le 2, né potè quindi intrattenersi con S. M. Un dispaccio reale del 30 ottobre ordinava al generale di mettersi d’accordo col generale Della Rocca per regolare le operazioni di assedio contro Capua, ed egli nella sera di quel giorno aveva inviato il colonnello Nullo al Re notificandogli la sua intenzione di ritirarsi alla sua isola di Caprera. S. M., mediante il messo, persuase il generale a non ritirarsi.

Alle ore 5 antimeridiane del 30 ottobre la bandiera rossa, segnale convenuto perché si aprisse il fuoco contro Capua, fu innalzata sur una casa.

Le batterie degli assedianti potevano essere cosi enumerate:

Batteria di tre pezzi da 42 rigati, comandata dal conte Amiani; una seconda di tre mortai, dal tenente Pola. Le due comandate dal capitano Gusberti. Al centro, fra Santa Maria e Sant’Angelo, la batteria comandata dal generale Locascio, quella di Juvane e Laini, di Garibaldi una terza, con due mortai. Sulla strada consolare da Santa Maria a Capua, la batteria delta Bouvette, dal nome del capitano che l'ha eretta, coniava quattro obici da 80 e due mortai da 12 ed era questa servita da piemontesi. Al sito detto la Foresta di Carditello, una batteria da 46 rigata, con sei pezzi, anche questa servita da piemontesi e comandala dal capitano Orfengo. All’estrema sinistra sul Volturno, un’altra batteria piemontese di sei pezzi fulminava la città dalla parte occidentale.

La piazza rispondeva con un terribile e ben diretto fuoco mandando un diluvio di bombe, di palle infocate e di proietti di ogni sorte.

Al momento in cui si aprì il fuoco gli stati maggiori erano a cavallo, il generale Della Rocca giungeva ed accompagnava S. M. sull'altura di Sant'Angelo per assistere alle prime prove.

Alle ore 9 il fuoco si rallentò e solamente di quando in quando si auliva il rimbombo del, cannone degli assedianti che rispondeva a quello della piazza.

Nello spazio di queste cinque ore i batterie degli assedianti avevano gittato in Capua 500 proietti. La piazza ne aveva gittati circa 1500, ma senza cagionare gran danno alle batterie ed al campo dei garibaldini e de' piemontesi di Carditello.

I generali Della Rocca, Menabrea e Brignone furono per quelle cinque ore esposti al fuoco micidiale del nemico, ed un aiutante di campo di quest’ultimo, il(;) tenente Rolfo fu ferito leggermente al piede destro.

Re tornò verso le 7 al suo quarti. er generale.


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CAPITOLO XII

Novembre

Il fuoco degli assedianti continuò e, benché lento, prosegui tutta la notte dei i al 2 novembre, giorno in cui produsse il desiderato effetto. In quel giorno sventolò la bandiera bianca sul baluardo di Capua.

Venne al quartiere generale di Della Rocca il generale borbonico De Liguori con tre altri ufficiali dello stato maggiore.

Il parlamentario chiese una tregua di 24 ore per poter inviar messi a Francesco II. Della Rocca ricusò e gli rispose: Signor generale, io non posso darvi che un' ora, non un minuto di più; se non vi arrendete allo spirare di quel tempo le mie batterie ricomincieranno il fuoco.

Il generale De Liguori accettò le condizioni imposte. La guarnigione di circa 8000 uomini depose le armi ed è inviata a Napoli per essere imbarcata.

L’armata piemontese passa il Garigliano e i borbonici si ripiegano sopra Gaeta.

Il 7 novembre il re Vittorio Emanuele entrò in Napoli e pubblicò il seguente proclama:

«Ai popoli siciliani e napoletani

«Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili Provincie. Accetto quest’alto decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d’italiano.

«Crescono i miei, crescono i doveri di tutti gl'italiani. Sono più che mai necessarie la sincera concordia e la costante abnegazione. Tutt'i partiti devono inchinarsi devoti dinanzi alla Maestà dell’Italia, che Dio solleva. Qui dobbiamo instaurare un Governo che dia guarentigie di libero vivere ai popoli, di severa probità alla pubblica opinione. Io faccio assegnamento sul concorso efficace di tutta la gente onesta. Dove nella legge b(a )freno il potere e presidio la libertà, ivi il Governo tanto può pel pubblico bene quanto il popolo vale per la virtù.

All’Europa dobbiamo addimostrare che, se la irresistibile forza degli eventi superò le convenzioni fondate nelle secolari sventure d’Italia, noi sappiamo ristorare nella nazione unita l’impero di quegl’immutabili dommi, senza dei quali ogni società è inferma, ogni autorità combattuta ed incerta.

«VITTORIO EMANUELE.»

Vittorio Emanuele offriva a Garibaldi il titolò di principe di Calatafimi, di generalissimo dell'esercito d’Italia, nominava suo figlio Menotti primo aiutante di campo, dottava sua figlia della propria cassetta particolare e gli offriva un presente di un fondo di famiglia, antica proprietà della casa di Savoia, appunto per togliere al dono ciò che vi poteva essere di men decoroso. Tutto ciò Garibaldi ricusò.

Intanto, colle prime offerte, tutto un giorno passò in trattative, per la massima parte condotte dal marchese Pallavicino. Senza pronunciarsi ancora né per l’accettazione, né pel rifiuto, Garibaldi mostrò il desiderio che tutt’i gradi dell’esercito meridionale fossero riconosciuti senz’alcun sindacato, e ch'esso fosse in tutto e per ogni punto pareggiato all'esercito occidentale. Il Governo acconsentì.

Nel 10 ottobre si nutrivano le maggiori speranze che Garibaldi rimanesse alla testa dell’esercito. Ma esse andarono deluse.

Garibaldi fino dal 21 ottobre voleva trasmettere il comandò dell’esercito meridionale al generale G. Sirtori, e in quel giorno scrisse allo stesso generale che abbisognando egli di alcuni giorni di cura, lasciava a lui temporaneamente il comando dell'esercito; ma il generali Sirtori pregò Garibaldi di conservare il comando finché non andava a Caserta, come di fatto lo conservò. Nel 9 di novembre quindi comparve la seguente dichiarazione del generale Sirtori, la quale annunciava ch'egli assume il comando dell’esercito meridionale:

«Il generale Garibaldi mi trasmise il comando dell'esercito meridionale, colla seguente lettera in data di Caserta 21 ottobre p. p. (qui il generale riporta l’accennata lettera).

«Finché egli rimase fra noi, io pregai il generale Garibaldi di conservare il comando; ora egli, allontanandosi per alcun tempo, ordinò di pubblicare la succitata lettera.

«Ufficiali e soldati dell’esercito meridionale!

«È la terza volta che il generale. Garibaldi mi affida il comando dell'esercito, e per la terza volta io spero di restituirlo dopo breve tempo al grande uomo, che amiamo siccome padre, anzi padre della patria;

Caserta, 9 novembre 1860.

Il comandante dell’esercito meridionale

«G. S. SIRTORI»

Garibaldi prima dì partire per Caserta, mise sotto gli ordini del generale Della Rocca il generale De Medici colla sua divisione.

Il generale Della Rocca pubblicò il seguente, ordine del giorno, in cui esterna a Garibaldi l'alta soddisfazione del Re verso i volontari.

«Sono lietissimo, scrive il generale, di essere prescelto a portare a conoscenza dell’Eccellenza Vostra tali sovrani sentimenti, e sono tanto più lieto, in quanto che fui, in questi pochi giorni, testimonio dell'eccellente spirito militare che regna nell'esercito meridionale. Il pronto successo ottenuto si dee in gran parte alla coraggiosa e longanime operosità dì un esercito che, perseverando nel combattere giornalmente le forze nemiche, le prostrava in modo da farle cedere al primo urto. Debbo poi personalmente ringraziare l'Eccellenza Vostra per la efficacissima cooperazione prestatami in questa circostanza dai suoi generali e dalle sue truppe. Spero che le buone relazioni tra i due eserciti si faranno ogni giorno più intime, la concordia di tutti gli italiani è l’ara più sicura del trionfo della causa nazionale.»

Garibaldi sortì alle 4 e mezzo antimeridiane del 9 novembre dall'Albergo d’Inghilterra, dove abitava. Rimase a bordò del vapore il Washington sino a giorno fatto e poi si recò a prendere congedo dall’ammiraglio inglese Mundy al bordo dell’Annibale. Lo accompagnavano quattro ufficiali del suo stato maggiore, Missori, Caldesi, Trecco e Canzio.

Terminalo il colloquio coll'ammiraglio, ohe durò mezz’ora, strinse la mano agli ufficiali dell’Annibale e ritornò a bordo del Washington, che poco prima delle ore 9 lasciò la rada di Napoli per Caprera.

Partirono con lui soltanto il suo segretario privato Basso, gli ufficiali Gusmaroli, Froscianti e suo figlio Menotti

In quest'occasione Garibaldi pubblicò un ordine del giorno indirizzato all'esercito meridionale sui suoi futuri disegni. Esso è del seguente tenore;

«Ai miei compagni d’armi!

«Penultima tappa del risorgimento nostro, noi dobbiamo considerare il periodo che sta per finire, e prepararci ad ultimare splendidamente lo stupendo concetto degli eletti di venti generazioni, il di cui compimento assegnò la Provvidenza a questa generazione fortunata.

«Sì, giovani! L’Italia deve a voi un’impresa, che meritò il plauso del mondo.

«Voi vinceste; e voi vincerete, perché voi siete ormai fatti alla tattica che decide delle battaglie.

«Voi non siete degeneri da coloro che entravano nel fitto profondo delle falangi macedoniche, e squarciavano il petto ai superbi vincitori dell'Asia.

«A questa pagina stupenda della storia del nostro paese ne seguirà una di più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero fratello un ferro arruolato, che appartenne agli anelli delle sue catene.

«Allarmi tutti! tutti: egli oppressori, i prepotenti sfumeranno tome la polvere.

«Voi donne, rigettate lontani i codardi, essi non vi daranno che codardi; e voi, figlie della terra delle bellezze voi volete prole prode e generosa!

Che i paurosi dottrinari se ne vadano altrove a trascinare il loro servilismo, le loro miserie.

«Questo popolo è padrone di sé. Egli vuol essere fratello degli altri popoli, ma guardarci protervi cucci fronte alta: non rampicarsi, mendicando la sua libertà; egli non vuol essere a rimorchio d'uomini a cuore dì fango. No! no! No!

«La Provvidenza fece il dono all'Italia di Vittorio Emanuele. Ogni italiano deve rannodarsi a lui, serrarsi intorno a lui. Accanto al re galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore dissiparsi! Anche una volta io vi ripeto il mio grido, di’ armi tutti! tutti! Se il marza del 61 non trova un milione d’Italiani armati, povera libertà; povera vita italiana. Oh! no: lungi da me. un pensiero che mi ripugna come un veleno. Il marzo del 61, e so fa bisogno il febbraio, ci troverà tutti al nostro posto.

«Italiani di Catalafimi, di Palermo, del Volturno, di Ancona; di Castelfidardo, d'Isernia, e con noi ogni uomo di questa terra non codardo, non servile; lutti, tutti, serrati intorno al glorioso soldato di Palestro, daremo l’ultima scossa, l’ultimo colpo alla crollante tirannide!

«Accogliete, giovani, volontari), resto onorato di dieci battaglie, una parola d’addio! io ve la mando commosso d’affetto dal profondo della mia animai Oggi io devo ritirarmi, ma per pochi giorni. L’ora della pugna mi ritroverà con voi ancora — accanto ai soldati della libertà italiana.

«Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da doveri imperiosi di famiglia, e coloro che, gloriosamente mutilali, hanno meritalo,la gratitudine, della patria. Essi la serviranno nei loro focolari col consiglio e coll'aspetto delle nobili cicatrici, che decorano la loro maschia fronte di venti anni. All'infuori, di questi, gli altri restino a custodire le gloriose bandiere.

«Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al riscatto dei nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero: noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme a nuovi trionfi.

«GARIBALDI.»

Fino dal 16 di ottobre era «giunta nettai bada di Gaeta una squadra francese sotto gli ordini del viceammiraglio Barbier di Tinan, il quale, non appena ebbe dato fondo la Bretagne, vascello ch’egli montava, si partì a complimentare Francesco II. Nel 27 ottobre si presentò una squadra sarda alle foci del Garigliano con truppe di sbarco. L’ammiraglio francese intimò all'ammiraglio piemontese di non ulteriormente avanzarsi. L’ammiraglio sardo disse che egli aveva istruzioni per operarle uno sbarco alle foci del Garigliano e ch'era costretto ad eseguirlo. I sei vascelli francesi lo attaccassero, egli non si difenderebbe ma renderebbe l'ammiraglio responsabile delle conseguenze di quell’intervento armato. La flotta piemontese, dopo di messere stata respinta, andò bordeggiando all’ingresso del golfo di Gaeta, restò sempre in vista, e finalmente prese posizione alla sinistra foce del Garigliano, all’estremo punto di linea, che l’ammiraglio francese aveva sottratto alla sua anione. Ricevutane appena notizia fece questi salpare tutt'i bastimenti della sua squadra ed intimò per la seconda volta più energicamente d'astenersi da ogni operazione contro l’armata napoletana dal Garigliano sino a Sperlonga. I bastimenti piemontesi allora gettarono l’ancora e lo stesso fecero i francesi. In questa posizione sommamente minacciose le squadrerimasero misurandosi in certa guisa cogli occhi il dì 30 e 31 ottobre sino al meriggio del 1.° novembre, in cui un telegramma giunto da Parigi disapprovava il contegno tenuto dal vice ammiraglio francese ed in giungeva al medesimo di limitare la sua azione d'ora innanzi ad una cerchia più ristretta. Per altro Barbier di Tinan non si ritiro colla sua flotta dalle acque di Gaeta, non ricevette ordine di ritirarsi e si mantenne ancora in atto d'impedire alla flotta sarda d'investire la fortezza.

Il villaggio di Mola ha buone case, strette le contrade ed il mare a sinistra. I battaglioni esteri erano stati scelti a difesa delle numerose barricate innalzate all'entrata del villaggio. I soldati indigeni si erano posti nelle case, sui tetti e negli altri luoghi coperti che offriva il villaggio. La divisione de Sonnaz, che avevano ricevuto l'ordine di proseguire la sua marcia verso Mola, veniva dunque improvvisamente arrestata alle prime case di quella borgata. S'impegno la zuffa e i piemontesi furono i primi ad attaccarla. La fucilata era tanto viva dalla parte de' borbonici che dopo un quarto d'ora, divenne apparente la necessità di conquistare il villaggio di barricata in barricata, di casa in casa. Un potente ausiliario però era vicino. Il generale Persano, veduto qual aiuto egli poteva portare all'esercito, messe in non cale le supplicazioni, le rimostranze ed anche le minacce dell'ammiraglio francese, voltò la prora delle sue navi verso Mola, incominciò a far fuoco si micidiale contro il nemico, che in meno di un'ora la posizione fu presa, il villaggio abbandonato e l'esercito regio se ne correva disperso a Gaeta, Le navi francesi erano sempre al loro posto senza che la minaccia avesse avuto compimento.

Nella mattina del 9 novembre sulla collina dei Cappuccini, s'impegnò un combattimento e durò quasi tutto il giorno. I cacciatori napoletani furono sostenuti da colpi di granata lanciati dalle più alte batterie di Gaeta nel mezzo dei piemontesi, che si riparavano dietro gli olivi, ma che dovettero soffrir perdite.

Verso la fine della giornata i piemontesi, il numero de' quali cresceva incessantemente, guadagnarono terreno, lasciando pure 20 o 30 prigionieri nelle mani dei napoletani. I cacciatori napoletani si ritirarono fin sotto le batterie, e la sera tutte le truppe del campo rientrarono in città e vennero rimontate dalle guardie reali.

Nel giorno 12 novembre le truppe borboniche, accampate fuori di Gaeta, mossero ad assalire la linea piemontese. Il risultato fu che rimasero in potere dei piemontesi molti prigionieri, e che i restanti battaglioni napoletani furono costretti a ricoverarsi dentro la piazza, cosicché le truppe piemontesi acquistarono tutta la linea, e le posizioni conquistate vennero parte da essi abbandonate e parte munite di artiglieria di campagna. Esse restrinsero da linea del blocco, occupando le posizioni di Borgo Sant'Agata, Monte Sortono, Monte Erta, Monte Lombone ed i Cappuccini.

Le perdite dei piemontesi furono di circa 100 uomini. Si distinsero in questo combattimento da brigata Bergamo comandata dal generale Casanova e l’11.° bersaglieri comandato dal generale Buri. Ebbe una parte attiva e brillante anche il 24. reggimento brigata Como, il quale accampato lontano, fu condotto sul luogo dell’azione dallo stesso generale Leonardi, comandante le truppe combattenti, e contribui al risultato di obbligare dieci battaglioni accampati fuori di Gaeta a chiudersi nella piazza.

Il 24 gli assediati in Gaeta fecero una vigorosa sortita sulla sinistra degli attacchi allo scopo di inquietare i lavoratori e di distruggere le opere loro; ma furono ricevuti con grande energia dai piemontesi, e dopo una viva moschetteria e perdite eguali da una parte e dall'altra gli assediati tornarono nella piazza. Durante la giornata del 26 e 27 poi gli assediati apersero un vivissimo fuoco contro i lavoratori nemici ed obbligarono i piemontesi a sgombrare il loro deposito di trincea ed a riportarlo circa 500 metri indietro; costrinsero egualmente questi ultimi a cangiare la posizione del campo della prima divisione del corpo di assedio per metterlo fuor di tiro dal fuoco della piazza.

Nel 29 novembre la guarnigione di Gaeta fece una sortita per impadronirsi di alcune posizioni de' sobborghi e venne respinta. — Da un dispaccio telegrafico del generale Cialdini da Mola di Gaeta si ha che nel mattino del 29 sortirono da Gaeta 1500 uomini, che vennero respinti da due compagnie del 7.° bersaglieri e da una del 24.° Dai rapporti dei prigionieri si rilevò che le truppe sortite non fossero che la avanguardia di forze maggiori, che però non uscirono dalla piazza, e che il disegno della sortita fosse di riprendere tutte le posizioni fino a Mola di Gaeta. La piazza apri per la prima volta un fuoco formidabile per sostenere i suoi; con tutto ciò le perdite de' piemontesi furono insignificanti, contando in tutto 24 feriti, fra i quali il capitano Brunetta e il luogotenente Aros del 7.° bersaglieri.

Agli ultimi di novembre l’ammiraglio francese Le Barbier di Tinan fece cambiar l’ancoraggio alla sua squadra, la quale si trovò posta molto più al largo. Quest'ordino venne dato bella previsione di un bombardamento molto prossimo.


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CAPITOLO XIII

Dicembre

Il re Vittorio Emanuele parti da Napoli ad un'ora pomeridiana del 30 novembre e giunse in Palermo alle 9 antimeridiane del 1. dicembre. Egli fu ricevuto con incredibile entusiasmo. Il popolo volle staccare è tirare la carrozza reale, e si tentò invano d’impedirlo. Si calcola che oltre a 400,000 persone siano accorse da ogni parte dell’isola.

Prima di scendere al palazzo, S. M. recossi al duomo, ove fu solennemente ricevuto dal cardinale arcivescovo. S. M. ricevette quindi i corpi costituiti e le deputazioni dei municipi! dell’isola.

Il Re diresse al popolo il seguente proclama:

«Popoli della Sicilia!

«Coll'animo profondamente commosso io metto il piede in quest'isola illustre, che già, quasi augurio dei presenti destini d’Italia, ebbe per Principe uno degli avi miei; che a' giorni nostri elesse a suo Re il mio rimpiatto fratello, e che oggi mi chiama con unanime suffragio a stendere su di essa i benefizi! del viver libero e dell’unità nazionale.

«Grandi cose in breve volger di tempo si sono operate; grandi cose rimangono ad operarsi, ma ho fede che, coll’aiuto di Dio e della virtù dei popoli italiani, noi condurremo a compimento la magnanima impresa.

«Il Governo, che io vengo qui ad instaurare, sarà Governo di riparazione e di concordia. Esso, rispettando sinceramente la religione, manterrà salve le antichissime prerogative, che sono decoro della Chiesa siciliana e presidio della podestà civile; fonderà un’amministrazione, la quale ristauri i principii morali di una società bene ordinata, e, con incessante progresso economico, facendo rifiorire la fertilità, la sua marina, renda tutti proficui i doni, che la Provvidenza ha largamente profusi sopra questa terra privilegiata.

«Siciliani!

«La vostra storia è storia di gesta e di generosi ardimenti; ora è tempo per voi, come per tutti gli italiani, di mostrare all'Europa che, se sapemmo conquistare col valore l'indipendenza e la libertà, la sappiamo altresì conservare colla unione degli animi e colle civili virtù.

«Palermo, 1. dicembre 1860.

«VITTORIO EMANUELE»

Nel giorno 4 dicembre era stata disposta una sortita da Gaeta per far saltare le prime case del borgo, le quali nascondevano alla piazza le operazioni e gli assembramenti di truppe che i Piemontesi avrebbero potuto disporre nel villaggio. Dia avvedutosi, il generale Bosco che i piemontesi, accortisi dell’uscita decidati napoletani, si preparavano a respingerli, non volle senza utilità esporre i soldati che a' quell'opera si accingevano ed immediatamente li fece ritirare nella piazza. Nel giorno 5 fu ripetuta la stessa operazione con miglior successo; imperocché 420 uomini, prescelti dal 7., 8., e 9. cacciatori e guidati dall'aiutante maggiore Simonetti, eseguirono con risolutezza ed impeto l’impresa.

Uscita la truppa in tre piccole colonne, come si vide scoperta dalle sentinelle nemiche, non curando la fucilata degli avversarii, le aggredì alla baionetta.

Frattanto? il primo tenente Corrado di artiglieria, seguito da dodici inermi artiglieri, cui eransi affidali otto barili di polvere, garantito dalle posizioni del distaccamento, dava sollecitamente opera all’ideata, distruzione. A lui stesso lasciavasi la cura di comandar la ritirata quando fosse raggiunto lo scopo della missione, ed alle truppe si comandava di continuare a combattere sino a che non udissero il tocco convenzionale.

Alle 2 e 20 minuti dopo la mezzanotte, il distaccamento usciva dalla piazza, e dopo 20 minuti all'incirca, vi rientrava al grido di Viva il Re, ed al chiarore di due esplosioni, senza ricondurre alcun soldato ferito.

Nel giorno 7 gli assedianti smascherarono una nuova batteria di cannoni rigati. Il primo proietto scoppiò nel cannone stesso, rendendolo inetto al servizio. Il resto della batteria continuò il fuoco, ma la batteria Regina della piazza lo fece tacere. I cannoni piemontesi erano appostati alle rovine di Sant’Agata.

Per tutta la notte si lanciarono bombe sulla città, di tre in tre minuti. Alcune caddero intorno all'ospedale. Fu risoluto di togliere di là gli ammalati ma ciò non potè effettuarsi appunto pel motivo delle bombe.

Alcune case ebbero pure guasti Nella mattina dell'8 il fuoco della piazza era poco gagliardo.

L'imperatore Napoleone scrisse la seguente lettera a S. M. il Re di Napoli, e che venne a questi consegnata nell'11 dicembre dall'ammiraglio di Tinan:

«Non ho scritto da qualche tempo a Vostra Maestà, perché desiderava vedere se gli avvenimenti pigliassero un carattere sufficientemente chiaro e preciso, si dà permettermi di sporre, con cognizione di causa, la mia opinione a Vostra Maestà.

«Allorché l’ingiusta aggressione del Piemonte porse aiuto alla rivoluzione ne’ vostri Stati, e vi costrinse a ritirarvi a Gaeta, io deliberai d’impedirne il blocco, a fine di dare a Vostra Maestà una prova della mia simpatia, e di evitare all'Europa l’affliggente spettacolo d’una lotta a oltranza tra due Sovrani alleati, lotta nella quale il diritto e la giustizia stavano per colui, che doveva soccombere. Ma pur lasciando, mediante la mia flotta, il mar libero a Vostra Maestà, non poteva entrare nella mia politica d’intervenire nella contesa. Per la qual cosa, l’ammiraglio di Tinan ricevette l’ordine di osservare la più stretta neutralità tra' due avversarti.

«Gli emergenti della guerra complicano la situazione della mia flotta a Gaeta; spesse volte ella si trova al punto d’operare contro i piemontesi, i cui assalti minacciano la sua sicurezza; talvolta ella è obbligata, per mantenere la sua neutralità, d’impedire a' bastimenti di Vostra Maestà di esercitare giusta rappresaglia contro i bastimenti piemontesi. Tal situazione non può durare indefinitamente; miglior cosa sarebbe, io credo, nell'interesse ben inteso di Vostra Maestà, ch'ella si ritirasse cogli onori della guerra; imperciocché ella sarà costretta a farlo: la peripezia è inevitabile. Voi aveste fatto pruova di lodevole fermezza. Finché rimanevano per voi probabilità di risalire sul trono, era vostro dovere di sostenere il vostro diritto colle armi; ma oggidì, lo dico con rammarico, il sangue che scorre è inutilmente versato; il vostro dovere, com’uomo e come sovrano, è di arrestarne l’effusione. Non so che cosa l'avvenire possa riservare a Vostra Maestà; ma sono persuaso che l’Italia e l’Europa riguarderanno come perfette e la energia, che avete sfoggiato, e la risoluzione, che prenderete per evitare le grandi sventure, che opprimono oggidì il vostro popolo.

«Vi prego di credere che il linguaggio, che tengo a V. M., m'è suggerito dal più grande disinteresse fra le due parti, e dal rammarico che proverei, se facendosi le congiunture più gravi, più non mi permettessero di mantenere la mia: flotta io una situazione, in cui la stretta neutralità diverrebbe impossibile.

«Prego V. M., ecc. .

S. M. Francesco II rispose nel seguente modo alla lettera dell'imperatore Napoleone.

«La lettera che V. M. mi fece l’onore di scrivermi, e che l’ammiraglio di Tinan mi ha consegnato, mi pone, debbo confessarlo, nel più grave imbarazzo. Era mia ferma intenzione di resistere e di tutelare il mio onore a costo de' più grandi sacrifizii, se le congiunture m’impedivano di salvare i miei Stati contro un’ingiusta aggressione. Ma i consigli affettuosi, datimi da N. M., e la prospettiva della ritirata della vostra flotta, m’impongono e mi fanno esitare.

«In tal congiuntura, V. Al. non rimarrà né sorpresa, né offesa, s’io piglio tempo a riflettere, prima di prendere una risoluzione definitiva. Benché sapessi che la flotta francese non doveva indefinitamente soggiornare nel golfo, le mie informazioni uffiziali, e le assicurazioni particolari, che m’erano state date, mi facevano sperare la prolungazione del suo soggiorno, od almeno la presenza della bandiera francese sopra un bastimento della marina imperiale,

«Valutando i motivi, che guidano. V. M., e conoscendo la vostra efficace simpatia, non posso se non deplorare il richiamo d’una flotta, che lascia libero il mare a' miei nemici ed aggrava considerabilmente la mia situazione. Mi sarà necessario, per sapere se mi sarà possibile, senza codesto aiuto, di far lunga resistenza, di esaminare colla più grande attenzione quali siano i miei mezzi. Ciò ch’io desidero sinceramente è di evitare due scogli, a' quali la mia barca può naufragare o rimanere offuscato lo splendore: la temerità e la debolezza.

«Sapete, Sire, che i Re, i quali abbandonano il loro trono, difficilmente vi risalgono, a meno che i raggi della gloria non abbiano dorato i loro infortunii e la loro caduta. So che, dopo l’ebbrezza d’un trionfo, dovuto più alla pusillanimità od al tradimento de' miei generali, che alla potenza de' rapitori del mio Regno, costoro troveranno immense difficoltà per indurre i miei sudditi ad accettare idee, che ripugnano parimenti ai loro interessi ed alle loro tradizioni.

«Le difficoltà divenendo ognora più gravi in Europa, la vostra alla capacità e l’autorità, di cui gode Vostra Maestà, mi tanno sperare che il giorno non sia lontano, in cui i principii della legge, dei dovere e della giustizia cesseranno d’essere calpestate dal Piemonte. Se codeste speranze sono chimere, v'ha un punto almeno, che non soffre discussione, ed è, che, combattendo pel mio diritto, soccombendo con coraggio, cadendo con onore, sarò degno del nome, che porto, e sarò un esempio al principe, che mi succederà.

«Sono qui Re, in principio, ma generale in fatto. Non ho più Stati, posseggo soltanto una fortezza ed un esercito fedele. Debbo io abbandonare, in vista di pericoli personali, per timore dello spargimento dei sangue, che ho cercato di evitare a ogni costo, un esercito, che può mantenere l’onore della sua bandiera, e una fortezza per la cui difesa i miei avi fecero tanti sforzi, considerandola come l’ultimo baluardo della monarchia? V. M., ch’è un eccellente giudice in codesto argomento, può decidere meglio di chiunque, se, ritirandomi senza essermi assicurato dell’insufficienza de' miei mezzi, avrei adempiuto il mio dovere come soldato.

«Posso morire, posso esser fatto prigioniero. Ciò è vero. Ma i principi debbono saper morire come si conviene, e Francesco II fu prigioniero. Ei non difendeva, come io fo, un Regno ed un popolo, e ciò malgrado, j suoi contemporanei e la storia raccontarono com’egli espose la sua persona e come sopportò le amarezze della sua prigionia. Non è passeggierà esaltazione, che m’ispiri questo linguaggio; esso è il prodotto di lunga riflessione, e N. M, ch'è uomo di risoluzione, d’intelligenza e di coraggio, comprenderà meglio di chiunque i sentimenti che mi animano.: ;.

«Debbo dunque lottare contro la corrente delle mie idee e de' miei sentimenti, prima di cangiare risoluzione. Permettetemi di pigliare il tempo per riflettere, e se intanto, malgrado i miei desideri, le mie speranze, e, oso dire, le mie preghiere, gl’interessi e la politica di V. M. vi costringono a ritirare la vostra flotta, ne avrò rammarico senza dubbio, ma renderò sempre giustizia a' motivi, che vi guidano; e sopratutto conserverò profondamente scolpita nel mio cuore la pruova di simpatia, che mi avete data, e la memoria del servigio, che mi avete prestato, assicurandomi per si lungo tempo la libertà dei mari, in congiunture nelle quali nessuna potenza dell’Europa poteva darmi soccorso. E se debbo soccombere in conseguenza della partenza della vostra flotta, pregherò sinceramente Dio perché V. M. non ne provi rammarico, e perché, invece d’un alleato riconoscente e fedele, voi non incontriate una rivoluzione ostile ed un sovrano ingrato.

«Qualunque sia la mia decisione in congiunture si gravi, sarà mio desiderio di porne a conoscenza V. M., e colgo questa occasione di manifestare nna volta di più a V. M. la riconoscenza pel vostro sostegno, pei vostri consigli, e sopratutto per l’interesse, che vi piacque dimostrarmi.

«Prego V. M, ecc.»

Nella sera del 15 dicembre i piemontesi ripresero il fuoco, il quale durò tutta la notte e pei due giorni successivi con qualche interruzione. Il fuoco continuò dal 19 al 20 senza interruzione. Il tiro a bomba fece molto dannò alla città alta, ma non distrusse alcuna delle batterie napoletane, le quali continuarono a rispondere. Nel giorno 21 continuava il fuoco dall’una e dall’altra parte. Le due batterie rigate degli assedianti sparavano di continuo contro la polveriera centrale e il forte a stella.

Il bombardamento obbligò il re ad abbandonare il suo palazzo colpito da proietti. Egli ed i suoi fratelli piantarono il loro quartier generale alla batteria Philipstadt.

Tutte le alture, che dominano le batterie di terra e il forte Orlando sono in mano de' piemontesi ed in comunicazione col campo di Mola per mezzo di comodissime e numerose strade, nella maggior parte-al coperto del fuoco della fortezza. Verso il 26 dicembre, le batterie d’assedio non erano ancora tutte armale. Tra mortai e cannoni debbono essere poste in linea centotrentacinque bocche da fuoco, delle quali le prime novanta, a quell'epoca, erano già in posizione.

Ma i piemontesi dovevano giornalmente sopportare molti incomodi per mantenersi nelle posizioni conquistate. Le strade di comunicazione fra un posto e l’altro erano bene spesso coperte d’acqua, e tratto tratto i terrapieni si dovevano rifare per essersi sprofondali a cagione delle piogge, quasi continue, di que’ giorni.

Questa fu una delle cause per cui si dovette impiegare un tempo maggiore del preveduto nei terminare le parallele e nel porre i mortai ed i cannoni in batteria.

La sera del giorno di Natale fu una della più funeste pegli assediati di Gaeta. Essi ebbero, oltre una giovane ragazza morta, due uomini morti e una decina di feriti.

Nel 26 dicembre il fuoco fu assai vivo da ambe le parli. I piemontesi avevano quattro batterie che tiravano, ed un'altra preparala e prossima a far fuoco.

Il 27 le batterie piemontesi, e specialmente quella di Monte Tortola, funzionarono fragorosamente e la piazza rispose con vigore. Il conte di Caserta fu sul parapetto, e cinque palle di cannone rigato fecero esplosione sulla spianata senza ferir persona.

Il 28 la cannonata non fu forte.


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CAPITOLO XIV


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ANNO 1861

Gennaio

Rispetto all’assedio di Gaeta il primo giorno dell’anno 1861 fu pacifico, ma poscia i piemontesi riguadagnarono il tempo perduto. Nei giorni 2 e 3 gennaio il cannoneggiamento fu molto forte ed i piemontesi non tiravano che con cannoni rigati. Il giorno e la notte del & non furono, come i precedenti fragorosi. 41 tirare da ambo le parti si era fatto più raro, perché la pioggia, che cadeva fissa ed incessante, aveva reso quasi impossibile il lavorare.

Alla sera del 5 gennaio il fuoco de' piemontesi raddoppiò. Le strade io Gaeta erano divenute più pericolose, e ad ogni momento un fischio acuto annunciava una palla rigata. In tutt'i quartieri della città le case portavano i segni dei proietti cavi, i soli dai piemontesi impiegati. La piazza rispondeva vigorosamente.

Nel giorno 7 specialmente il fuoco fu terribile. Le batterie napoletane dell'Annunciata, che potevano battere da terra e da mare, risposero a quelle del Borgo, con un fuoco dei più sostenuti. I proietti s’incrociavano per l’aria; il combattimento era solenne e continuò interrottamente tutta la notte. L’arcivescovo ebbe il suo piano superiore sfondato.

Nel giorno 8 il numero dei proietti lanciati dai piemontesi fu di 6130, pressoché tutte bombe e palle rigate. Le batterie napoletane, che risposero con vigore v e precisione, tirarono circa 2000 colpi.

Le case di Gaeta soffersero molto, ma, non essendo esse costrutte di grosse pietre, i proietti le attraversavano facilmente, e precisamente a causa della loro poca resistenza le muraglie non crollarono.

Verso sera il fuoco dei piemontesi rallentò, e dei loro mortai, due soli continuarono il fuoco.

Sino dal giorno 8 l’ammiraglio francese ed il suo capo di stato maggiore andavano e venivano continuamente. Il Governo di Napoleone III, volendo conciliare la esigenza di una politica di neutralità col pensiero che lo aveva indotto a procacciare al Re Francesco li il mezzo di operare liberamente la sua partenza, si fece mediatore di una proposta d’armistizio, che fu accolla da ambe le parli belligeranti. Le Barbier di Tinan significò a Francesco il, che se questa proposizione non fosse accettata, la squadra francese si ritirerebbe otto giorni dopo, e se fosse accettata rimarrebbe sino al tramonto del sole del giorno 49, in cui quella tregua avrebbe dovuto cessare. Tale proposta del viceammiraglio fu accettata, e di fatto le ostilità vennero sospese sino a quel giorno. Ecco i documenti relativi a questa tregua:

Il generale Cialdini comandante l'esercito d'assedio dinanzi Gaeta, all'ammiraglio Le Barbier di Tinan.

Castellone l'1 gennaio.

«Signor ammiraglio,

«Ho l’onore di dichiararvi che, sino al cadere dal 19 corrente, non sarà fatto da mia parte nessun atto di ostilità verso la piazza, né alcun lavoro d’approccio, né alcun aumento delle bocche da fuoco in batteria, se però la piazza non mi provoca col suo fuoco e coi suoi lavori. In tal caso, mi considererò come libero da ogn’impegno, e la sospensione delle ostilità cesserà del pari da parte mia. Nondimeno, signor ammiraglio, non aprirò il mio fuoco senza prima avvertirvene. Voi sarete giudice allora, e potrete ridire a S. M. l’imperatore da qual parte sia il torto.

«Piacciavi aggradire, ecc.

Il generale comandante l'assedio dinanzi Gaeta

«CIALDINI.»

Il generale Ritucci, governatore della piazza di Gaeta, al sig. viceammiraglio Le Barbier de Tinan

Gaeta il 12 gennaio.

«Signor ammiraglio,

«Avendo preso gli ordini da S. M. il Re, mio augusto signore, ho l’onore di farvi sapere che, sino al cadere del giorno 19 corrente, non sarà proceduto in questa piazza a nessuna costruzione di nuove batterie, né a nessun aumento di quelle ora esistenti, e non verranno eseguiti se non i soli lavori di riparazione, richiesti dalle congiunture.

«Se però gli assedianti mi provocassero, od aumentando le batterie loro, o formandone di nuove, è chiaro che resteremmo liberi da ogni impegno.

«A fine di allontanare ogni falsa interpretazione, nel caso di ricominciamento del fuoco della piazza, vi pregherò, signor ammiraglio, d’inviarmi, quando il momento fosse venuto, uno de' vostri ufficiali, per giudicare da qual lato sia stato il torto.

Il lenente generale comandante la piazza di Gaeta,

«RITUCCI».

Due legni della flotta francese di stazione nelle acque di Gaeta, erano già partiti verso la metà di gennaio, ed il vice ammiraglio Le Barbier di Tinan, nel 19 giorno in cui spirava l’armistizio, di cui precedentemente parlammo, lasciò quelle acque col rimanente della flotta.

Il mattino del giorno 20 il generale piemontese Menabrea, per ordine del generale Cialdini, andò a denunziare l'armistizio, e ad offrire condizioni per la dedizione della piazza. Il generale piemontese, domandando la resa di Gaeta, offriva al re di porre a sua disposizione due fregate per trasportarlo, colla sua famiglia, nel punto ov'egli credesse di recarsi. Offriva inoltre sei mesi di paga a' soldati rinchiusi nella piazza la conservazione del grado agli ufficiali che fossero incorporali nell’esercito sardo, ed accordava tre mesi di tempo alle truppe nazionali per dichiarare se volessero incorporarsi in quell’esercito. Il Governo piemontese incaricavasi inoltre, a proprie spese, del trasporto nella propria patria delle truppe estere che trovavansi a Gaeta. Queste proposizioni vennero rigettate.

Nel giorno 20 il generale Persano intimò il blocco per parte della squadra di S. M. Vittorio Emanuele dinanzi a Gaeta.

Le linee d attacco dei piemontesi, prendendo per centro il monte di Tortona e l. i Colli, a sinistra si stendono dalla spianata di Monte Socco a mare largo, comprendendo da questo lato le posizioni di monte Conca, Sant’Agata, Cappuccini e Trallina. La destra è formata dalle posizioni meno alpestri di monte Cristo e del Lenitone. Presso la spiaggia del golfo, alla metà circa dal borgo, vennero egualmente compite altre opere al luogo detto il giardino Gonzales e la Torretta a Conca, ed a Vindice. Queste sono le linee piemontesi d’operazione.

Nel mattino del giorno 22 erano appena suonale le otto all'orologio di Mola, quando gli artiglieri borbonici vedendo i lavoratori piemontesi intenti alla costruzione di nuove batterie, improvvisamente aprirono il fuoco dei loro cannoni. Que’ lavoratori erano circa 2000 sparsi qua e la in gruppi, tutt'intenti all'opera incominciata in quel tratto di terreno, che dal monte Secco prende nome e che fa parte dell'istmo. Presi cosi all'improvvista, mentre lavoravano a fidanza, si ripiegarono in massa verso Borgo, ma la pioggia delle palle era si fitta ed incessante, che molli cadevano morti e feriti per via

Passate circa due ore, le batterie piemontesi s’accinsero a rintuzzare i colpi nemici e gli artiglieri si misero all'opera con tutta quella lena e con tutta quella precisione di tiro, per la quale vanno tanto famosi.

Si tirava da monte Tortona e da altri punti. I due pezzi colossali che dal generale Cavalli derivano il nome, e ell'erano piazzati sul rialzo di terra formato dallo scoscendimento a sinistra, che, uscendo da Castellone, è attraversato dal ponte di Realto, lanciavano i loro grossi proietti in città, e descrivendo una curva cadevano sui tetti delle case di Gaeta, e sugli spalti della fortezza.

I borbonici rispondevano intanto al fuoco de(:) piemontesi, il fuoco dei quali durava da un'ora, quando le antenne della nave ammiraglia si coprirono improvvisamente di piccole variopinte bandiere, le quali, scorrendo rapide per virtù d’innumerevoli fili tramandavano alle altre navi gli ordini dell'ammiraglio Persano di salpare e di prepararsi alla pugna.

A quei segnali, il Garibaldi che, a guisa degli altri legni a vapore, mostrava sin dal mattino la sua mobile spira di fumo grigiastro, fu visto spiccarsi dalla rada di Mola, drizzare l'antenna verso i bastioni, che fronteggiano il largo mare L’ormeggiavano sotto poppa due scialuppe cannoniere, e la piccola flottiglia, or piegando ad ostro, ora avanzando, lanciava le sue palle infocale e le sue bombe contro le batterie, che a Gaeta difendevano gli approcci del porto.

Quel primo movimento offensivo della flotta piemontese non era che il. foriero di una mossa più ardimentosa, perché, verso la mezz’ora dopo il mezzogiorno la Maria Adelaide, il Carlo Alberto, il Vittorio Emanuele, scortati da un altro legno, andavano a raggiungere il Garibaldi, e così uniti, dopo abile manovra, aprirono il fuoco contro i forti della città, che fronteggiano il villaggio di Mola. Le batterie nemiche, che da quel lato erano forti e numerose, risposero con un tirar di palla incessante, ma le artiglierie dei vascelli piemontesi essendo di pori ala maggiore, potevano lanciare con sicurezza, e senza temere offesa, i loro strumenti di distruzione. Perdurarono essi in questo assalto micidiale per più di un’ora, quando, alle due, desiosi del più avventalo cimento, si Spinsero risoluti sotto il tiro del cannone nemico, e, scaricate le loro formidabili bordale contro i bastioni del porto, alla fortezza grave danno in quel punto arrecavano.

Mentre questi avvenimenti si avvicendavano sulle tranquille acque del golfo, il fuoco delle batterie di terra era, da una parte e dall'altra incessante, terribile, assordante. Ad un colpo dei piemontesi, i borbonici rispondevano con dieci dei loro.

Gaeta e le sue montagne offrivano un colpo d’occhio che incuteva spavento. Sembrava che da quelle montagne l’inferno avesse aperto le sue voragini.

Il danno ch'ebbero i piemontesi non fu proporzionato allo spreco di proietti fatto dai borbonici. Tra i caduti fu il capitano di artiglieria Savio, figlio dell’avvocato Savio e della poetessa Olimpia Savio-Rossi, ch'ebbero un altro figlio morto sotto le mura di Ancona.

Dei legni piemontesi il Garibaldi ed una scialuppa cannoniera ebbero solo a soffrire. Pochi furono però i morti ed i feriti, e le avarie sofferte erano di facile riparo.

Comandanti, ufficiali, soldati e marinai rivaleggiarono di zelo, d'intelligenza e di coraggio. L’ammiraglio, cessato il fuoco, fece significare alla squadra intera la sua soddisfazione. Il generale Cialdini fece il giro di tutte le posizioni durante il fuoco; il suo coraggio animava i bravi artiglieri sottoposti al diluvio dei proietti nemici.

Ecco la relazione dei fatti di questa giornata che diede il ministero della marina:

«Alle ore 8 del mattino del 22 volgente, le batterie del nemico, avendo ricominciato il fuoco contro quelle del nostro esercito, la squadra composta in quel mentre delle piro-fregate Maria Adelaide, littorio Emanuele, Carlo Alberto, Garibaldi, Costituzione, della pirocorvetta Monzambano, e delle piro-caononiere Finzaglio, Confienza, Veloce, Ardita, salpò e si avvicinò, disposta in ordine di battaglia, alle fortificazioni nemiche poste a difesa di Gaeta, dal lato di mare.

La piro-fregata Garibaldi e le piro-cannoniere Vinzaglio, Confienza, e Veloce, furono destinate a combattere le batterie a ponente della città, rimanendo gli altri legni contro quelle a levante.

«Alle ore 11 antimeridiane, le batterie di terra, di ponente, principiarono il fuoco; i nostri bastimenti risposero senza ritardo. Verso mezzogiorno, il Carlo Alberto e la Costituzione, e poco dopo il Vittorio Emanuele presero a far fuoco contro le batterie a levante; ma siccome i loro colpi non producevano il desiderato effetto, il vice-ammiraglio comandante la squadra, che trovavasi a bordo della Maria Adelaide, sotto un vivo e nutrito fuoco, si portò sotto quelle batterie, battendo tutte le linee di difesa, manovra che venne eseguila dal Carlo Alberto e dal Vittorio Emanuele, rimanendo la Costituzione a far fuoco contro le batterie della Lanterna.

«Alle 12 e mezzo, le batterie di terra,H vigorosamente battute sopra tutt'i punti, rallentarono il fuoco. Verso le 2, il fuoco del nemico essendo ripreso vivamente, la squadra, defilando a mezzo tiro innanzi alle batterie da levante, apri il fuoco contro le medesime, che per più di mezz’ora continuarono un vivissimo fuoco lanciando una grandine di proietti.

«Trascorse di poco le 2 pomeridiane, il nemico cessò il fuoco da quella parte. La squadra, senza ritardo, si portò a ponente della città, a rinforzare i fuochi dei vari legni, stati sino dal mattino destinati a combattere in quella parte. Alle quattro e mezzo, il nemico avendo cessato il fuoco, la squadra cessò pure dal combattere, riprendendo l’ancoraggio del giorno precedente. Nella notte, la piro-corvetta Monzambano, le piro-cannoniere Veloce, Ardita e Vinzaglio, ritornarono sotto le batterie e molestarono il nemico.

«In questo combattimento, ammirabile per coraggio e sangue freddo spiegato dagl'intieri equipaggi di tutti i regii legni, composti di marinai delle antiche provincia e di napoletani, non si ebbe a lamentare che tre morti e cinque feriti e qualche avaria a bordo di alcuni bastimenti, non però tale da compromettere menomamente la sicurezza.

«A meglio dimostrare in qual modo la squadra abbia compiuto, verso il Re, verso la patria, il suo dovere, si riproduce la seguente lettera, che il generale d'armata comandante l’esercito, Cialdini, diresse il giorno seguente, al conte di Persano, vice ammiraglio, comandante la squadra:

Castellone, 23 gennaio 1864.

«Prego la S. V. illustr. di aggradire i miei ringraziamenti e di volerli partecipare alla flotta per l'abile ed energica sua cooperazione nella giornata di ieri.

«Dall’alto delle nostre posizioni, osservando le ardite manovre de' suoi legni da guerra, tutt’il quarto corpo d’armata riconobbe e salutò l’ammiraglio e la squadra che espugnarono la Lanterna d’Ancona.

Le rinnovo l’assicuranza della mia distinta considerazione».

Il generale d'armata

«CIALDINI.»

Il ministro della marina di Francesco II diresse il seguente ordine del giorno al comandante ed all'equipaggio di una fregata reale, ch'era sola rimasta nel porto della città assediata. Esso è del seguente tenore:

«È un alta soddisfazione di poter dire ne’ momenti del pericolo: Ho fatto il mio dovere. Questa soddisfazione voi tutti potete averla oggi, artiglieri, marinai e soldati di marina; poiché nella giornata d’ieri, ciascuno di voi stette fermo, e coraggiosamente al suo posto: tutti avete ben meritato della patria, che vi guarda con ammirazione; del nostro adorato Sovrano, che, per l’organo del suo ministro, vi comparte gli elogii meritati.

«Tutti vi ringrazio, e di tutti voi vado altero, o uffiziali superiori e subalterni, sotto uffiziali e soldati, che, con tanta intrepidezza, avete fulminato il nemico dall'alto delle batterie; e cosi dico di quegli uomini valorosi, che aventi alla loro testa il bravo capitano di vascello, Pasco, sul ponte della fregata, hanno sfidato tutt'i pericoli ed affrontata freddamente la morte.

«Di nuovo, marinai, cannonieri e soldati, io vi ringrazio, e ammiro la vostra eroica bravura, la quale, cingendo la vostra fronte di una gloria imperitura, aggrava ancor più il disprezzo dovuto a que’ tristi uomini, che, non è molto, non hanno voluto o saputo comandarvi.

«Il vice ammiraglio della marina reale

«LEOPOLDO DEL RE.»

Alla sera del 24 gennaio la piazza di Gaeta comin ciò di nuovo a far fuoco, ma le batterie piemontesi, che risposero immediatamente, la ridussero ben presto al silenzio, e proseguirono sempre il fuoco.

Nel 28 due polveriere de' piemontesi, accese dalle bombe degli assediali, scoppiarono con molta strage dei primi. Due legni della flotta colarono a fondo. Il re e la regina assistevano al combattimento.


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CAPITOLO XV

Febbraio

Gli ufficiali garibaldini, dimoranti in Napoli stabilirono di unirsi in una compagnia, ed eletto un capo, di chiedere al Governo il favore di essere lasciati montar primi all'assalto di Gaeta.

Il 2 febbraio la marina sarda smascherò una nuova batteria di sei pezzi rigati da 16 ch'essa aveva piantato a Casa Arzana, fra le ultime case del Borgo e il luogo chiamato S. Martino.

Il tiro di tutte le opere d’assedio era indirizzato contro l’opera a sega, che giaceva tra l’Annunziata e il porto.

Nella notte del 3 al 4 due bastimenti della flotta vi cooperarono.

Il fuoco continuò vivissimo nella giornata del 4. Verso le quattro della sera la polveriera napoletana Cappelletti saltò in aria producendo gravi guasti nel corpo principale della piazza. Questo accidente annientava detta batteria Cappelletti e due batterie di riserva, in caso d’assalto.

Immediatamente S. M. Francesco II diede ordine di racconciare la breccia. I lavori vennero lodevolmenteincalzati sotto la direzione del maresciallo Traversa, uffiziale del genio. Fu uno degli avvenimenti frequentissimi in un assedio.

Da quel punto fino al bastione Sant'Antonio v’era una lunga cortina: era facile accorgersi che gli assediati operavano con grandi lavori; vi si annoveravano ben quindici cannoni. Codest'opera poteva nuocere grandemente all’azione della flotta nel punto decisivo, allorché si avesse giudicalo necessario il suo aiuto. Tutti gli sforzi dovevano riuscire ad impedirne la costruzione. Nella notte, fu fatto contro di essa un fuoco terribile, al quale parteciparono il Garibaldi e il Vittorio Emanuele.

Il 5, il tiro fu gagliardissimo; la piazza rispondeva assai debolmente. Dalle alture, che cingono il golfo, scorgevansi facilmente, mediante un cannocchiale, gli assediati che lavoravano alle nuove costruzioni e che vi trasportavano polveri e proietti. Le bombe e le palle di tratto in tratto ponevano in disordine le loro file, senza però allontanarli definitivamente.

Erano quattro ore e mezzo della sera quando successe una grande esplosione. La polveriera. Cittadella e di Sant'Antonio saltò in aria e comunicò il fuoco al grande deposito dei proietti carichi, che parimente scoppiarono.

Lo scoppio fu sì terribile che l’eco delle valli le più lontane lo ripeterono con sordo e prolungato rumore. Un bastimento francese, che si trovava in quel punto rimpetto a Gaeta, ne risenti l'urto benché fosse alla distanza di sei miglia.

Quasi trenta metri di parapetto furono abbattuti; i 4 5 cannoni andarono rovesciati; gli affusti a pezzi; un gran numero d’uomini, che coprivano il parapetto, furono lanciati in aria, colle enormi travate e con volumi di pietre e terra; molti furono fatti a brani, stritolati, sepolti vivi, e tutta notte il lamento de' morenti e dei feriti si confuse col rumore del cannone. Densa nube di polvere coperse la piazza fino a sera, solcata soltanto dalla luce istantanea della bomba o della granata, che scoppiava. Il disordine fu spaventoso nella piazza e la costernazione immensa.

Vittima di questa esplosione fu anche il luogotenente generale Traversa, in età di 80 anni, e che si era trovato all'assedio sostenuto da Gaeta contro Massena nel 1806, come sottotenente. Questo vecchio, ad ogni ora del giorno e della notte, s'incontrava sui bastioni che stimolava i lavoranti da per tutto ove fossero urgenti lavori.

Cialdini, volendo approfittarne per ottenere una capitolazione immediata, trasmise, col telegrafo piantato a Caposele, l’ordine a tutte le batterie di cominciare il bombardamento. Trentadue n’erano, in quel momento, in assetto; circa 170 cannoni. I napoletani furono per un istante atterriti, silenziosi; poi risposero, ma debolmente; la proporzione del loro fuoco, rispetto a quello del nemico, essendo appena da l'a IO..

In tutta quella giornata il fuoco fu vivissimo e si cercò d’impedire qualunque racconciamento della cortina. La piazza continuò a rispondere debolmente. Verso le 10 essa cessò di sparare.

A mezzogiorno del 6, una scialuppa con bandieraparlamentaria uscì dal porto, e si. fece silenzio su tutta la linea degli assedianti. Un uffiziale si presentò al quartier generale di Cialdini per domandare un armistizio di 48 ore esponendone i motivi con voce commossa; trattavasi di seppellire i morti e di dissotterrare i viventi. Cialdini acconsentì a quanto gli si domandava; inviò anzi mignatte e ghiaccio pei primi soccorsi; aderì ad una prolungazione dell'armistizio di 12 ore, e si offerse a ricevere dalla fortezza 400 individui fra feriti e malati e farli trasportare a Napoli, locché venne accettato dal governo della fortezza.

Il 9 febbraio, alle dieci di mattina, spirato l’armistizio, i piemontesi rinnovarono il fuoco da tutte le batterie; i napoletani rispondevano debolmente. Il bombardamento fu continuato fino al 10. Quest’ultimo giorno, coll’assenso di Persano, uno scudiero dell'imperatrice Eugenia, che fino dal 25 gennaio trovavasi a bordo di una nave spagnuola, recò alla giovane regina di Napoli una lettera di conforto e di simpatia dell'imperatrice. L’arrivo di questa lettera era stato preceduto dall'invio di un parlamentario da Gaeta a Cialdini. Venne domandato al generale piemontese un armistizio di quattordici giorni onde trattare le condizioni della resa.

Cialdini non ricusò di trattare; però durante le trattative non voleva che il fuoco fosse sospeso. Il fuoco quindi fu continualo. Il giorno II febbraio la piazza ebbe una sessantina tra feriti e morti. Il 13 scoppiò il magazzino di polvere delle batterie Philipstadt e Sant'Andrea; verso le 4 un giovane uffiziale napoletano che comandava la batteria Transilvania, accortosi che le mura di quella polveriera, la quale conteneva 400 quintali di polvere, avevano sofferto guasti rilevanti, diresse un rapporto al comandante della batteria di sinistra della piazza, nel quale egli domandava di cessare il fuoco della sua batteria per non attirare il fuoco nemico sulla polveriera, che correva i più gravi pericoli. Prima ch'ei potesse ricevere una risposta la polveriera scoppiò. Cannoni da 80, mortai, cannonieri, tutto scomparve. Non fu ritrovato che un affusto d'un pezzo da 80, lanciato assai da lontano sopra un muro. '

Allora venne immediatamente firmata la capitolazione, che fu del seguente tenore:

«Capitolazione per la resa della piazza di Gaeta, conclusa fra il comandante generale di S. M. Sarda, ed il governatore della fortezza, rispettivamente rappresentati dai sottoscritti:

«Giovanni delli Franci; Roberto Pasca; Francesco Antonelli. Il comandante della piazza, tenente generale Francesco Milon.

«Conte Piola Caselli, tenente generale Menabrea; generale in capo delle truppe d’assedio, Cialdini.

«Caposele, in Castellone di Gaeta, il 13 febbraio 1861.

«Art. 4. La piazza di Gaeta, col suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini da polvere, oggetti d’abbigliamento, viveri, equipaggi, cavalli da truppa, navi, battelli, ed in genere lutti gli oggetti di spettanza del governo, militari e civili, saranno alla partenza della guarnigione consegnate alle truppe di S. M. Vittorio Emanuele.

«Art. 2. Domani, alle 7 di mattina, verranno consegnate alle menzionate truppe le porte e pusterle della città e delle opere forti delle fronti di terra, dalla Cittadella fino inclusivamente alla batteria Transilvania, non che la Torre d’Orlando.

«Art. 3. L’intera guarnigione della piazza, compresi gli impiegati militari, uscirà cogli onori di guerra.

«Art. 4. Le truppe formanti parte della guarnigione usciranno con bandiere, armi e bagagli. Dopo che avranno resi gli onori militari, deporranno armi e bandiere sull'istmo. Gli uffiziali conserveranno le loro armi, i cavalli proprii e tutto quanto loro appartiene; essi possono oltre di ciò trattenere con sé le loro ordinanze.

«Art. 5. Innanzi tutto usciranno le truppe estere, indi seguiranno le altre, secondo l’ordine in cui sono disposte colla sinistra in testa.

«Art. 6. L’uscita delle truppe avrà luogo per la porta di terra cominciando alle otto di mattina e deve essere finita per le quattro pomeridiane.

«Art. 7. Gli ammalati e feriti ed il personale del servizio sanitario addetto agli spedali rimangono nella piazza: tutti gli altri militari ed impiegati che senza legittimi motivi o competente autorizzazione avessero a fermarsi nella piazza dopo il tempo stabilito nel pre cedente articolo saranno trattati come disertori in campo.

«Art. 8. Tutte le truppe che costituiscono la guarnigione di Gaeta, resteranno prigioniere di guerra fino alla resa della cittadella di Messina e di Civitella del Tronto.

«Art. 9. Dopo la resa di questi due forti, le truppe che costituiscono la guarnigione saranno poste in libertà. Però i militari esteri, finita la prigionia di guerra, non possono trattenersi nel Regno (in Italia), e saranno rimandati alla loro patria. Inoltre si obbligheranno per la durata di un anno, computabile dalla conclusione della presente capitolazione, a non servire contro il governo (d’Italia).

«Art. 10. Tutti gli Italiani compresi nella capitolazione riceveranno due mesi della paga di pace. Agli uffiziali italiani verrà accordato un termine di due mesi per dichiarare se vogliano prendere servizio nell'armata nazionale od essere messi in disponibilità, ovvero esser liberi da ogni obbligo di servizio. A quelli che vogliono servire nell’armata nazionale od essere tenuti in disponibilità, saranno applicate, come agli altri uffiziali della già armata napoletana, le norme del regio decreto, in data Napoli 28 novembre 1860.

«Art. 11. Dei bassi uffiziali e soldati, quelli che avranno soddisfatti i loro obblighi di servizio o finita la loro capitolazione otterranno, alla fine della prigionia di guerra, il soldo di due mesi col viaggio gratuito per andare a casa.

«Art. 12. I bassi uffiziali e caporali italiani, che vogliono continuare a servire nell'armata nazionale, saranno ricevuti coi loro gradi qualora abbiano i requisiti voluti.

«Art. 13. Agli uffiziali, bassi uffiziali e soldati esteri provenienti dai vecchi reggimenti svizzeri vengono accordati i diritti loro competenti secondo le vecchie capitolazioni, ed a quelli entrati dopo l’agosto 1859 nei nuovi corpi che nulla hanno a fare coi vecchi, i diritti loro accordati dagli ulteriori decreti fino al 7 settembre 1860.

«Art. 14. Tutti i soldati vecchi, inabili, invalidi, qualsiasi, senza riguardo alla nazionalità, saranno ricevuti nel deposito degli invalidi se non preferiscono la sovvenzione proporzionata al tempo del servizio.

«Art. 15. A tutti gli impiegati civili, tanto napoletani che siciliani, che si trovano in Gaeta ed appartengono ai rami amministrativi e giudiziari, sarà conservato il diritto alla pensione di quiescenza, secondo i gradi che avevano il 7 settembre 1860.

«Art. 16. Ber le famiglie di tutti i militari che si trovavano in Gaeta e che vogliono abbandonare la piazza, si provvederà ai mezzi di trasporto.

«Art. 17. Agli uffiziali che si trovano nella piazza in istato di quiescenza verranno anche per l’avvenire

assicurate le pensioni, in quanto corrispondano ai regolamenti. .

«Art. 18. Alle vedove ed orfani dei militari in Gaeta rimarranno le pensioni loro accordate, e sarà riconosciuto il loro diritto di riscuotere tali pensioni a termini di legge.

Art. 19. Gli abitanti di Gaeta non verranno molestati né nelle persone né negli averi pei loro fatti antecedenti.

«Art. 20. 1. e famiglie dei militari di Gaeta, o che si trovano in Gaeta, sono poste sotto la protezione delle truppe del re Vittorio Emanuele.

«Art. 21. Pei militari italiani di Gaeta che dovessero abbandonare lo Stato troveranno nnlladimeno applicazione le disposizioni risultanti dagli articoli antecedenti.

«Art. 22. S’intende che dopo la sottoscrizione della presente capitolazione, qualora si trovassero mine nella piazza, nessuna deve rimanere carica. Altrimenti la capitolazione sarebbe irrita e nulla, e la guarnigione sarebbe considerata come se si fosse arresa a discrezione. Avrebbe le stesse conseguenze il fatto di trovare cannoni inchiodati, armi e munizioni rese inservibili quand'anche le autorità della piazza consegnassero i colpevoli i quali sarebbero senz’altro fucilati.

«Art. 23. Per la resa della piazza sarà istituita una commissione composta di un uffiziale d'artiglieria, un ufficiale dei genio, un commissario di guerra di ciascuna delle parli col personale necessario.»

La notte stessa dal 13 al 14 febbraio le truppe napoletane sgombrarono le fronti di terra, ed il 14, alle 7 della mattina, furono queste occupate dal vincitore.

Nello stesso tempo il re Francesco II abbandonò Gaeta e i suoi Stati. Lungo il tratto della regia casamatta alla porta di mare, ogni corpo del presidio aveva schierata una compagnia: queste truppe per l’ultima volta presentarono le armi al re che passava colla consorte e col seguita dello stato maggiore. Francesco II s'imbarcò sulla Monelle, vapore francese posto a sua disposizione, passò con quello a Terracina e di là, per terra, portossi a Roma, che scelse d’allora per sua residenza, sia per tener viva la reazione nei perduti suoi Stati, sia per aver campo di cogliere, senza indugio, qualsiasi propizio momento.

Alle ore otto antimeridiane cominciò ad uscire il presidio, avendo alla testa il battaglione estere, la batteria estera ed i veterani svizzeri. Presso il Borgo deposero tutti le armi; vennero poi, appena fu possibile, imbarcati per Genova, onde attendere quivi, nella prigionia di guerra, la caduta di Messina e di Civitella del Tronto. Il battaglione di veterani, dopo di aver deposte le armi, ritornò a Gaeta immediatamente.

Caduta Gaeta, oltre al combattere qua e la il brigantaggio, restava a(1) Piemontesi di aver in mano la cittadella di Messina, e Civitella del Tronto.

Era la prima occupata da 2400 uomini obbedienti al comando del. vecchio generale Fergola. Dopo l'accordo del 28 luglio 1860. la cittadella non era stata esposta a verun pericolo, ed il suo presidio veniva regolarmente vettovagliato dalla città. Molto s’era ‘parlato del valore e della costanza di Fergola; tuttavia chi senza prevenzione avesse considerato gli avvenimenti presso Gaeta, doveva tener per fermo che la resistenza della piccola ed angusta cittadella di Messina sarebbe finita, tostocché i Piemontesi avessero condotto cóntro di essa i loro poderosi cannoni rigati.

Fino dal 44 febbrajo 1864, al giungere in Messina la notizia della resa di Gaeta, il generale Chiabrera, che comandava le truppe italiane in quella provincia, intimò al generale Pergola, in nome del re Vittorio Emanuele e della nazione, di consegnargli la cittadella. Un colai modo d’intimazione al vecchio generale parve di nuovo stampo, né ad alcun altro sarebbe sembrato altrimenti; laonde fece rispondere a voce che riteneva la cittadella di Messina come al tutto indipendente dalla fortezza di Gaeta, e l’avrebbe difesa fino ali estremo. Ad una nuova intimazione del 17 febbraio, accompagnata da comunicazioni sopra varie particolarità da cui era provenuta la resa di Gaeta, Fergola rispose nuovamente il 19, che avrebbe difesa la cittadella con tutt'i suoi mezzi sin tanto che avesse esaurito le risorse di un’onorata difesa. Il 49, Persano arrivò nelle acque di Messina con una squadra. Fergola intimò alle diverse navi che si trovavano nel porto di sgomberarlo, e minacciò di mettere a fuoco e fiamme la città, quando fosse violata la convenzione del 28 luglio.

Ad onta di ciò, i Piemontesi sbarcarono pezzi d'assedio, sbarcarono truppe, e Cialdini, che pure s’era recato a Messina, incominciò dal 6 marzo la costruzione delle batterie sulle alture che dominano la cittadella dal lato occidentale. Anche il Fergola, il giorno 8 marzo, aperse il suo fuoco, senza però arrecare ai Piemontesi notevoli danni, attesa la distanza, e senza riuscire d’impedirne le mosse. Cialdini non si affrettò di por termine alla costruzione delle batterie, nella speranza che Francesco II avrebbe dato ordine a Fergola di cessare dalla resistenza. Ma siccome un tal ordine, sino alla sera dell'4 4 marzo non era ancora arrivato, cosi la mattina del 12 Cialdini fece aprire il fuoco delle sue batterie d’assedio, e contemporaneamente la squadra navale avanzossi, ed attaccò la cittadella ed il forte San Salvatore.

Dopo un bombardamento di quattro ore tutti gli edifizii della cittadella avvampavano, il presidio sera rifugiato nelle casematte, e l’artiglieria della piazza più non rispose. A tal passo, Fergola fu costretto di intavolare trattative: Cialdini chiese la resa a discrezione, e la sera del 12 marzo la cittadella di Messina venne resa agli assedianti senza alcun patto.

Dispose Cialdini, che gli uffiziali ed i generali fossero tutti inviati a Napoli con un mese di soldo; il governo italiano si riservò di tenere al proprio servigio quelli di loro che gli tornassero utili. Un consiglio di guerra doveva anzitutto esaminare se e quali degli uffiziali prigionieri fossero colpevoli di qualche delitto; i soldati che non avevano ancora compiuto i cinque anni d’ingaggiamento, dovevano essere incorporati tosto all’armata italiana, gli altri essere mandati a casa in concedo con un mese di soldo e con debito di tornarsi a, presentare qualora venissero chiamati.

Corse voce generalmente che Francesco II nella capitolazione di Gaeta si fosse obbligato d’imporre al generale Fergola la resa della cittadella di Messina, e che invece di adempiere l’obbligo assunto, lo abbia eccitato a perdurare pella resistenza. Checché ne sia di quest’ultimo asserto, non lo si potè mai stabilire sicuramente. É positivo al contrario, che nella capitolazione di Gaeta Francesco II non assunse l'obbligo che gli fu attribuito. La capitolazione venne conclusa fra i due comandanti, né il re Francesco ci entrò per nulla. Il solo articolo 8°, dal quale si sarebbe potuto inferire una simile obbligazione, non la contiene punto, dacché stabilisce puramente che le truppe della guarnigione di Gaeta abbiano a rimanere prigioniere di guerra fino alla resa di Messina e di Civitella del Tronto. Nullameno sussisto che Cialdini nella capitolazione di Gaeta aveva chiesto di stipulare contemporaneamente quelle di Messina e Civitella del Tronto; ma che la proposta non fu accettata, e non si avrebbe potuto accettarla perché appunto nella capitolazione si voleva escludere Francesco II, né il comandante di Gaeta poteva ingiungere la resa a quelli di Messina e di Civitella.

Il solo motivo per Francesco II, legato alla capitolazione del 4 3 febbraio, onde ordinare una tale resa, sarebbe stato quello di abbreviare la prigionia di guerra del presidio di Gaeta. Lo volesse egli o no, quest’era affar suo, infatti Francesco II, per quanto si assicura, si risolse il 10 marzo, dietro consiglio di Napoleone, di inviare una lettera a Fergola nella quale gli diceva che colla difesa di Gaeta era salvo l’onore delle armi napoletane, né egli voleva più a lungo versare il sangue dei suoi soldati ed esporre la piazza mercantile di Messina, ad un bombardamento; perciò ordinava al generale di trattare per la resa ed ottenere quelle condizioni che fossero possibilmente più proficue ed onorevoli.

Questa lettera non giunse a Messina se non dopo la resa a discrezione della cittadella.

Civitella del Tronto è un nido alpestre ai confini delle marche Romane. Si eleva, essa sopra una roccia scoscesa alla sponda destra del fiume Salinello, non lontana da Ascoli che otto miglia. La popolazione dei confini, sia sul territorio pontificio, che sul napoletano, è pronunciatamente inclinata alla reazione. Vuolsi ricordare come lo stesso Lamoricière nel territorio di Ascoli desse disposizioni per organizzarvi una leva in massa, nella quale fidava fuor di misura. Presidiavano ora Civitella 400 uomini, fra cui 100 gendarmi, ed il resto popolazione della campagna, ossia cosi detti briganti; era munita di 23 pezzi di vario calibro.

La presa di Civitella del Tronto (che non ebbe certa importanza, se non per essere punto d’appoggio dei diversi corpi di briganti che si aggiravano in quel circondario, e un punto intermedio per soccorrere dalla Romagna la reazione napoletana) venne affidata al generale Mezzacapo.

Pose questi, il 22 febbraio, il suo quartiere generale in Ponzano, ad oriente di Civitella, e, a mezzo di parlamentarii, intimò alla piazza di arrendersi. Sebbene il presidio difettasse della più necessaria disciplina e di unità, né avesse condottieri d’illimitato potere, tuttavolta l’intimazione non ottenne una risposta adesiva. Alla mancanza di capi sopperivano alcuni preti che si trovavano nella piazza e fanatizzavano le masse superstiziose. Laonde Mezzacapo fece trasportare 20 pezzi su quelle alture ed, il 24 febbraio 1861. prescrisse un violento fuoco, il quale non fece gravi danni per la soverchia distanza, e per non essere la posizione dei pezzi stata scelta molto acconciamente. Tuttavia Mezzacapo lo ritenne bastevole a fin di portare al più alto grado la disunione che regnava già nella piazza, ed, in tale speranza, il 25 febbraio, tentò un attacco con tre colonne. Allorché queste si furono arrampicate a grande stento per i dirupi, trovarono a brevissima distanza in faccia alle mura, e vennero salutate dal presidio con una violentissima mitragliata e fucilata. In conseguenza di ciò, senza neppur fare un serio tentativo, le colonne di Mezzacapo si dilungarono, ed a lui fu forza di prendere altre misure e risoluzioni.

Vennero erette solide batterie, ma non poterono aprire un vivo bombardamento che alla mattina del 17 marzo. Nel 20 dello stesso mese, la guarnigione, dopo parecchi interni dissidii, fè sventolare la bandiera bianca, si arrese a discrezione, e nel 24 fu tradotta ad Ascoli.


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CAPITOLO XVI

Marzo fino a Dicembre

Il Re Vittorio Emanuele, che pi cominciar del dicembre 1860, s’era recato nell’isola di Sicilia, onde visitarla e prendere possesso pur di quella provincia, il 28 dello stesso mese, ritornò da Napoli a Torino. Fu quivi che, col seguente discorso, aperse, il 48 febbraio 1861, il primo parlamento italiano:

«Signori Senatori, signori Deputati!

«Libera e quasi completamente unita per mirabile ajuto della divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore delle armate, l’Italia si affida nella vostra virtù e nella vostra saggezza.

«A voi spetta darle comuni istituzioni ed una solida base.

«Accordando ai popoli la maggior possibile libertà amministrativa, conforme alle consuetudini dei diversi sistemi, veglierete a che l’unità politica, lo sforzo di tanti secoli, non venga mai intaccata.

«La pubblica opinione dei popoli civili ci è favorevole, favorevoli ci sono i principii dell’equità e della libertà che hanno il sopravvento nei consigli dell’Europa. Per ciò l’Italia diverrà una malleveria di ordine e di pace, ed un’altra volta si rifarà efficace stromento dell’universale civilizzazione.

«L’imperatore dei francesi, mantenendo il principio del non intervento, che per noi è il più benefico, ritenne tuttavia opportuno richiamare il suo ambasciatore.

«Benché questo fatto ci riesca doloroso, non potrebbe però alterare né i sensi della nostra riconoscenza, né la fede nell’amore che l’imperatore porta alla causa italiana. Francia ed Italia, che hanno comune l’origine, le tradizioni ed i costumi, intrecciarono sui campi di Magenta e Solferino una alleanza che è indissolubile.

«Il governo e il popolo d’Inghilterra, la vera patria della libertà, proclamarono altamente innanzi a tutto il mondo il nostro diritto di essere gli artefici del nostro destino, ed ampiamente ci appoggiarono con utili servigi la cui memoria ci rimarrà eterna e ci terrà obbligati alla riconoscenza.

«Allorché un onesto e nobile principe sali al trono di Prussia, io gli spedii un ambasciatore per tributargli il debito omaggio, e dare al nobile popolo tedesco un segno della nostra simpatia. E la simpatia del popolo tedesco per noi, io spero, crescerà sempre, quando si convinca che l’Italia, ripristinata nella sua naturale unità, non potrà risultare avversa né ai diritti né agli interessi delle altre nazioni.

«Signori Senatori, signori Deputati!

«Sono certo che con zelo procurerete al mio governo i mezzi per completare gli armamenti di terra e di mare. Così il regno italiano sarà sufficientemente assicurato per non dover, temere attacchi, e nella coscienza delle proprie forze più facilmente troverà la misura di un’opportuna prudenza.

«Altra volta le mie parole furono più ardite. Ma è altrettanto prudente attendere a tempo, come a tempo arrischiare.

«Devoto all’Italia, non ho mai indugiato ad esporre per essa la vita e la corona, ma nessuno ha il diritto di mettere in gioco la vita e i destini di una nazione.

«Dopo molte gloriose vittorie l’armata italiana, giornalmente diventando più onorata, ha conquistato un nuovo alloro, vincendo una delle più terribili fortezze. Mi consola il pensiero che con questa vittoria è chiusa per sempre la dolorosa serie delle nostre civili discordie. La flotta nelle acque di Ancona e di Gaeta mostrò esser risorti in Italia i marinai di Pisa, Genova e Venezia. Una valorosa gioventù, guidata da un condottiero il cui nome risuona nelle terre più lontane, mostrò come né la servitù né la lunga sventura abbiano potuto snervare i popoli italiani. Questi fatti ispirarono alla nazione una grande fiducia nei suoi destini avvenire. Volentieri esprimo innanzi al primo parlamento italiano la gioia che ne provo come re e come soldato.»

I 300 Deputati, già raccolti dei 417 che dovevano formare il Parlamento italiano, ascoltarono tale discorso del Re con ogni manifestazione di entusiasmo. Cavour, correndo il marzo, propose alle Camere il progetto di legge, in forza di cui Vittorio Emanuele prenderebbe per sé e successori il titolo di Re d’Italia.

Proclamato il Regno d’Italia si rese necessaria la composizione di un nuovo ministero. S’incaricò Cavour della sua formazione, ed egli ne assunse la presidenza, associandosi Minghetti all’interno, Fanti alla guerra, Cassinis guardasigilli, Peruzzi ai lavori pubblici, Bastogi alle finanze, De-Sanctis all'istruzione, Natoli all’industria e commercio, Niutta senza portafoglio; gli ultimi quattro entravano nuovi.

Il regno d’Italia, com’era da attendersi, venne tosto riconosciuto dall’Inghilterra, dalla Svizzera e dall’America del nord; la Francia tenne loro dietro esitante colla ricognizione delle condizioni di fatto, ci protestarono contro energicamente i principi italiani spodestati e più che tutti il papa come vedremo in appresso.

Il 24 marzo bande di briganti e borbonici compariscono sempre più frequenti nel Napoletano: occupano i paesi, pongono a taglia ed uccidono i liberali: in qualche luogo costituiscono Governi provvisori in nome di Francesco II. La truppa e le guardie nazionali li respingono, li disperdono, ma rinascono subito dopo.

Nel 26 febbraio, venne emanata una Patente imperiale austriaca, che in relazione e modificazione al diploma 20 ottobre 1860, promulgava una nuova legge, sulla rappresentanza dell'Impero austriaco. Il Consiglio dell’impero veniva eretto in rappresentanza dell’impero, doveva comporsi di una Camera dei signori ed una Camera dei deputati. Rispetto ai Lombardo-veneto veniva dato l’incarico al ministero di presentare ad opportuno momento uno Statuto provinciale in base ad eguali principii demandando frattanto alle Congregazioni del Regno il diritto d’inviare al Consiglio dell'Impero 20 deputati. Di 844 Comuni soli 420 volarono e fra questi nessuna città regia e nessun capoluogo distrettuale. Nel 24 aprile la Congregazione centrale si dichiarò incompetente. Il Consiglio di Luogotenenza fece l’esame e spoglio degli atti consigliari eleggendo i candidati delle singole provincie assistiti dalla maggioranza assoluta o relativa dei voti dei Comuni. Nessuno però degli eletti accettò l’incarico.

Il 15 aprile il card. Antonelli emanò la seguente nota di protesta contro l’occupazione del territorio pontificio per parte del Regno d’Italia.

«Un re cattolico, spoglio d’ogni principio religioso, disprezzatore d’ogni diritto, calpestando ogni legge, e dopo avere spogliato l’eccelso Capo della Chiesa cattolica della parte maggiore e più fiorente dei possessi ad esso legittimamente spettanti, assume ora il titolo di Re d’Italia. Con ciò egli vuole suggellare le usurpazioni commesse a danno della Chiesa che ha già compiute, e colle quali ha dichiarato volere ultimare il suo regno a spese del patrimonio della Santa Sede.

«Benché il Santo Padre abbia sempre protestato ad ogni nuovo attacco della sua sovranità, deve però protestare un’altra volta contro l’usurpazione di un titolo che deve legittimare l’ingiustizia di tanti fatti precedenti.

«Sarebbe superfluo rilevare in questa circostanza la santità del possesso del patrimonio della Chiesa e dei diritti del sacerdote sovrano su quel patrimonio, diritto che in tutt’i tempi e da tutt’i governi è stato riconosciuto. Ne conseguita che il Santo Padre non potrà mai riconoscere il titolo di Re d'Italia che si è dato il re di Sardegna. Quel titolò è in contraddizione coi diritti dei sacri possedimenti della Chiesa. Egli non solo non può riconoscerlo, ma protesta altresì contro tale usurpazione nel modo più assoluto e formale.

«Il sottoscritto cardinale segretario di Stato prega V. E. di dare notizia al suo governo di questo atto steso a nome di Sua Santità, convinto ch'esso ammetterà l’assoluta opportunità del medesimo e coopererà colla sua influenza a che si ponga fine a quell’anormale stato di cose che già da tanto tempo' ha desolata l’infelice penisola italiana.»

Nel 21 maggio, essendosi monsignor Caccia, vicario generale della diocesi di Milano, rifiutato di concorrere alla festa nazionale stabilita per la prima domenica di giugno, il popolo invase il suo palazzo e lo costrinse alla foga.

Il 3 giugno mori in Milano, d’anni 74, l’avvocato Giovanni Francesco Avesani di Verona, ch’ebbe la principale e più attiva parte nella capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848.

Il 6 detto mori a Torino il conte Camillo Benso di Cavour, nato dal marchese don Michele Giuseppe e dalla ginevrina Adelaide Susanna Sellon il 10 agosto 1840. Mentre egli, rigoglioso di vita, nella prospera età di poco più che cinquanta anni, stava per veder posto il suggello all'opera sua col riconoscimento da parte di altra tra le grandi Potenze di Europa (che I Inghilterra vi aveva già data la sua adesione) del regno d’Italia, mentre stava per ricevere, in occasione della festa dello Statuto e della unità italiana, le ovazioni de' popoli richiamati alla vera vita nazionale, nella sera del 29 maggio veniva assalito da un quasi mortale deliquio; e, dopo tentati invano tutti gli spedienti suggeriti dall'arte per vincere il misterioso male che il colse, il ministro nel giorno 6 giugno non era più. Al funestissimo avvenimento tutta Europa si commosse, Torino per tre giorni fu in lutto. Solennissime esequie vennero celebrate in ogni parte d’Italia per pregar pace all'anima sua, e la nazione intera ne fu profondamente rattristata. La stampa periodica d’ogni partito si diffuse nelle lodi dell’esimio uomo di Stato; e nel lamentarne l’inaspettato trapasso.

Nel 15 giugno le Francia riconosce il Regno d’Italia. Notificando tale determinazione a Torino il Governo dell?;imperatore dichiara di declinare ogni responsabilità in imprese proprie a turbare la pace di Europa; aggiungendo che le truppe francesi rimarranno a Roma finché gl'interessi che ne le hanno condotte non saranno assicurati con garantie sufficienti.

Ingrossavano e aumentavansi le schiere dei briganti nel territorio napoletano. Uno dei capi principali, Chiavone, che s’intitolava il comandante in capo delle truppe di Francesco II, emanò un proclama datato 19 giugno dal suo quartier generale di Sora con cui invitava le popolazioni alla resistenza.

Il 9 luglio il generale Cialdini fu inviato a Napoli con pieni poteri onde reprimere il brigantaggio. S. Martino ritenendo scemato il suo potere per la venuta di Cialdini, dà le sue dimissioni, e Cialdini concentra in sé il potere civile e militare. Nel 26 venne scoperto in Napoli un Comitato centrale borbonico, alla cui testa era il principe Montemiletto. E nel 30 vennero arrestati alcuni uffiziali superiori francesi al servizio pontificio fra i quali il generale Quatrebarbes ed altri provenienti da Roma per fomentare l’insurrezione.

L’Olanda riconobbe il nuovo Regno d'Italia il 3 agosto.

Il 10 detto fu proposto un accomodamento dal governo italiano al Sommo Pontefice, il quale però non ebbe esito alcuno, sulla base della rinunzia al poter temporale da una parte, e sulla rinunzia ad ogni patronato ecclesiastico, della nomina de’( )vescovi, dell’ingerenza negli affari ecclesiastici dall’altra.

Il 31 venne soppressa la Luogotenenza di Napoli e Cialdini lascia quella città, di cui è nominato prefetto il generale Lamarmora.

Il Belgio riconosce l’Italia il 5 novembre.

Il 18 dicembre avvenne una eruzione del Vesuvio con gravi danni di Torre del Greco.


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CAPITOLO XVII

Anno 1862

Il 3 marzo 1862 avvenne un cangiamento di ministero in Italia, il quale andò sotto la presidenza dei commendatore Urbano Rattazzi. Mentre Ricasoli era più propenso per l’Inghilterra, volevasi che il nuovo Gabinetto fosse aderente alla Francia, Prima dì ottenere il portafoglio, Rattazzi era stato per qualche tempo a Parigi. Garibaldi, presiedeva la Società emancipatrice centrale in Genova; in essa vennero pronunciati violentissimi discorsi contro il ministero Rattazzi e formulale varie proposte,; fra cui il richiamo di Mazzini.

Il 21 marzo Garibaldi si diresse a Milano nella Italia settentrionale e centrale onde inaugurare la società del tiro nazionale della carabina. Esso venne dappertutto accolto con grande entusiasmo, e la sua presenza diede luogo a dimostrazioni principalmente in senso democratico ed ostile al ministero Rattazzi ed alla Francia.

Il 22 detto il re Vittorio Emanuele partì da Torino per intraprendere un viaggio nelle Due Sicilie, e venne accolto con un entusiasmo che superò qualunque aspettazione.

Il 14 maggio preparandosi una spedizione di volontari pel Tiralo venne arrestato e tradotto alle carceri di Brescia il colonnello Nullo garibaldino. Nella notte di questo giorno in Sarnico si arrestavano altri 35 individui che dovevano formar parte di una colonna di volontari, ed altri 44 erano arrestati ad Alzano maggiore. Il Governo spedì truppe ai confini ed a guardare i passi delle Alpi. Garibaldi da Trascorre, dove si trovava per l’inaugurazione del tiro nazionale, si recò a Bergamo per ottenere la liberazione degli arrestati, ma senza effetto; gli arrestati vennero tradotti in Alessandria. A Bergamo ebbe luogo una dimostrazione, senza però alcuna funesta conseguenza; ma in un’altra avvenuta per lo stesso motivo, si ebbero a deplorare quattro morti e una dozzina di feriti.

La celebrazione della festa per la promulgazione dello Statuto nella prima domenica di giugno,; e dell’anniversario della morte di Cavour, furono occasione di dimostrazioni e di arresti in varii paesi del Veneto. Ad arresti diede pure occasione in Traviso l'ingrasso solenne dei nuovo vescovo monsignor Federico Zinelli.

A Roma, nell'8 giugno, venne solennizzata la festa per la canonizzazione dei martiri giapponesi. Alla cerimonia assistevano 44 cardinali e 243 vescovi di varie nazioni. In questa occasione venne presentato al Papa un indirizzo dei vescovi che deplora le condizioni attuali d’Italia e dichiarava il poter temporale necessario per l’indipendenza del Papato.

Il 10 luglio la Russia e il 18 la Prussia riconobbero il nuovo Regno d’Italia.

Garibaldi giunto in Palermo, in un pranzo del 29 luglio, chiuse il suo brindisi colle seguenti parole: «Si, o Roma, o morte: ma a Roma con Vittorio Emanuele, con Vittorio Emanuele dinanzi; Queste parole fornirono occasione di gravi e ripetute dimostrazioni in moltissimi luoghi d’Italia e principalmente nella Lombardia e nelle Due Sicilie; Frattanto da tutte le parti accorrevano in Sicilia come ad un convegno già prestabilito gran numero di volontari: molti già garibaldini disertavano anche dalla armata regolare per unirsi ai corpi franchi ohe' stavano formandosi in Sicilia. Il punto centrale della riunione dei:garibaldini in Sicilia era il bosco di Ficuzza, distretto di Corleone.

Il governo italiano spedi il 4. agosto alcuni legni per sorvegliare la costa. In qualche città, per esempio, a Pesaro, si scoprirono comitati per arruolamenti clan destini. Garibaldi, giunto a Corleone, pubblicò un proclama.

Il 2 agosto i principi reali della casa di Savoia si recarono da Napoli a Gaeta fra l'entusiasmo delle popolazioni.

La Camera dei deputati di Torino diresse interpellanze al ministero circa alle voci di arruolamenti e di spedizioni di garibaldini; il ministero rispose che il Governo sorvegliava, ma che gli arruolamenti e le spedizioni erano fatte in modo da sfuggire le penalità. In varie città italiane avvenivano dimostrazioni in senso ga. ribaldino, ma senza serie conseguenze. Il Re, nel giorno 3 agosto, pubblicò un proclama in cui riprovava qualunque tentativo compromettente l'Italia. Si fecero però alcuni tentativi di ravvicinamento fra il Governo e Garibaldi a mezzo di alcuni amici di quest'ultimo. La Francia mandò rinforzi a Roma e incrociatori nel Mediterraneo.

Il 6 agosto la Russia riprese le relazioni diplomatiche colf Italia. '

Il 10 agosto Garibaldi si recò a Caltanissetta ove venne accolto dalla popolazione e dalla guardia nazionale schierata in armi; a poca distanza lo seguiva il suo esercito. Il 12 egli giunse a Castrogiovanni con 500 volontari; il numero complessivo del suo esercito ascendeva da 4 a 5 mila uomini. L’agitazione promossa dal partito d’azione principiò a propagarsi anche nel continente. Garibaldi chiede all'Inghilterra per Roma un prestito di 300,000 franchi. Primo a rispondere al suo appello è il suo amico G. Stuart, che gliene invia 25,000, e si fa centro delle offerte.

Il 14 giunse a Civitavecchia una fregata spedita dal Governo spagnuolo per raccogliere il Santo Padre nel caso che avesse voluto abbandonare i suoi Stati.

Il 15 Garibaldi giunse a Piazza coi: suoi volontari; il generale Ricotti coll’esercito regolare era a Caltanisetta. Il 18 Garibaldi entrava in Catania senza alcun conflitto colle truppe, ma le autorità civili protestarono. Egli si proclamò dittatore della Sicilia. Cialdini x dominato commissario plenipotenziario, prese nel 21, il comando di tutte le forze militari della Sicilia. Per quella volta parti il ministro Persano e nel 25 occupò Catania facendo prigionieri 800 volontari..

Il 24 Garibaldi sbarcò in Calabria sopra legno inglese avendo seco 10,000 uomini. Il 27 marciò sopra Reggio, dopo un conflitto tra garibaldini e truppe inviate da quella città, nel qual conflitto le truppe stesse ebbero la peggio. Molti garibaldini che disertarono l'esercito italiano per ischierarsì fra i volontari di Garibaldi, vennero fucilati.

Il 20 dopo accanito combattimento in Aspromonte nella Calabria ulteriore, Garibaldi non obbedendo all’intimazione di arrendersi, cadde ferito in un piede, nelle mani idei soldati piemontesi comandati dal colonnello Pallavicino e venne fatto prigioniero unitamente a 2000 volontari. La colonna regia era di 1800 soldati. Venne imbarcato per la Spezia sulla pirofregata il Duca. di Genova.: Garibaldi»in una lettera pubblicata nel Diritto, su questo. fatto diceva: «Io ho la coscienza di aver fatto, il mio dovere. Nella risicata impresa in cui io e i miei compagni ci eravamo gettati a testa china, io nulla sperava dal Governo di Rattazzi».

Il 3 settembre, Garibaldi venne trasportato al Varignano nella Spezia: Una commissione di medici e chirurghi a bordo del Duca di Genova, si pronunciò favorevolmente; sulla di lui ferita. L’Inghilterra, dietro pubblica colletta, che produsse lire sterline 794, gli mandò il famoso chirurgo Riccardo Partridge, che, ripatriato, gli inviò un apparecchio di sua invenzione da applicarsi alla gamba ferita. Il ministero di Torino era incerto sulla competenza dei tribunali che dovevano giudicar Garibaldi e se dovesse venir assolto o processato.

Il 13 settembre ebbe luogo un meeting a Newcastle-upon-Tyne in favore di Garibaldi e per lo sgombero delle truppe francesi da Roma. Altri numerosi meeting si successero a Birmingham, a Londra, ecc. In generale, oltreché di tutta Italia, erano rivolle tutte le simpatie in Inghilterra a Garibaldi; non cosi della Francia, che mostrava anzi di godere della sconfitta di lui.

Il 15 detto ebbe luogo un grande banchetto a Brusselles offerto dagli editori dei Miserabili, a Vittor Ugo, che vi pronunciò una magnifica allocuzione, nella quale accennando a Garibaldi ammalato: disse che «la gloria, il diritto sono con lui.»

Il 27 detto si celebrò in Torino il matrimonio della; principessa Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele, col re di Portogallo. Il Papa suo;padrino le mandò ricco presente, e così tutte le provincie d’Italia.

Il 4. ottobre Conforti-lascia il ministero-e il portafoglio-viene provvisoriamente assunto dal commenda toro Urbano Rattazzi. L’ex re di Napoli Francesco-li emanò una protesta contro le leggi 21 luglio e 24 agosto promulgate nel Regno italiano per l'alienazione dei beni dello Stato, del privato patrimonio del re e della famiglia borbonica.

Il luogotenente generale nelle provincie siciliane, Filippo Brignone, in un proclama del 2 ottobre ordinò il disarmo generale di quelle provincia. Una mano di pugnalatoci in Palermo fa parecchie vittime collo scopo d’intimorire il popolo.

Il 5 ottobre il Governo italiano concede l’amnistia a Garibaldi e a tutti gli avvolti nel fatto di Aspromonte, tranne i disertori dell'esercito. Nello stesso giorno si tenne un grande meeting, dagli operai a Londra nel parco d’Hyde in favore di Garibaldi, coll'intervento di 80 a 90,000 persone. Cinquemila irlandesi che vi fecero dimostrazioni in senso papistico si accoltellarono coi garibaldini, dai quali vengono posti in fuga.

Il 2 novembre parecchie inondazioni fecero grandi guasti in Pisa e Siena, e tutti i disastri che si successero erano stati predetti da Mathieu de la Drome.

Il 16 nelle provincie napoletane è tolto lo stato d assedio.

Dopo una vicenda di miglioramenti e recrudescenze, viene segnalata da uno specillo del dott. Nelaton la presenza della palla nella ferita del generale Garibaldi, già trasportato a Pisa, ed il professor Zanetti gliela estrae con felice successo nel 23 novembre. Per questa palla l’inglese duca di Devonshire offri 1000 lire di sterlini.

Nella Camera dei deputati di Torino venne nuovamente combattuto il ministero Rattazzi e qualificato una sventura dell’Italia. Rattazzi diede le sue dimissioni, che vennero accettate.

Il giorno 8 dicembre la polizia sequestra in Napoli un carteggio borbonico contenente gli statuti di organizzazione per un comitato reazionario, il quale mirava a costituirsi nelle provincie meridionali. Il 9 viene creato un nuovo gabinetto di cui Farini ha la presidenza.

Il 13 il Papa introdusse ne’ suoi Stati alcune riforme amministrative ed ottenne l’approvazione di alcune potenze.

Garibaldi tornò a Caprera nel 20 dicembre


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CAPITOLO XVIII

Anno 1863

Nel discorso di apertura della Sessione legislativa di Parigi del 12 gennaio 1863, l'imperatore, riguardo all'Italia disse: «Le nostre armi difesero l’indipendenza d’Italia senza patteggiare colla rivoluzione, senz’alterare al di la del campo di battaglia le nostre buone relazioni coi nostri avversari! di un giorno, senz’abbandonare il Santo Padre che il nostro onore e i nostri impegni ci obbligavano di sostenere.»

Il 3 febbraio si celebra in Torino il matrimonio dell’ex-ministro Urbano Rattazzi colla signora Solms, nata principessa Bonaparte-Wyse.

In questi giorni i briganti continuavano più che mai le loro scorrerie sul napoletano, fin presso la capitale, e facevano dei prigioni ed estorcevano enormi somme pel riscatto di essi. La banda del brigante Chiavone scorreva la provincia di Benevento e attaccava qualche distaccamento di truppe regie che la battevano.

Il 25 si scoprì in Napoli un comitato borbonico e si fecero arresti, fra cui quello dell'ex generale di Francesco II, Sergardi.

Il Governo italiano, nel 7 marzo, stipula un con tratto colla casa di Rothschild di Parigi e colla banca nazionale pel prestito di 700 milioni, dei quali ne mette soltanto 500, e di questi è aperta su 100 una soscrizione pubblica italiana, per tre giorni, che vie ne tosto coperta. In Francia la soscrizione sorpassa quattro volte la somma chiesta dalla casa Rothschild.

A capo del ministero italiano venne, nel 23 marzo, nominato il cav. Marco Minghetti, in luogo del cav. Luigi Carlo Farini aberrato, che fu rinchiuso in uno spedale de' pazzi. Il Governo italiano gli dona un capitale di franchi 20,000 e gli assegna pensione di franchi 25,000, riversibili, alla sua morte, per 4000 alla madre e per altrettanti alla moglie di lui.

Il 5 maggio muore in Olkusz il Valoroso colonnello Italiano Francesco Nullo, volontario dell'insurrezione polacca.

S. M. Vittorio Emanuele, aprendo il Parlamento italiano nel 25 maggio, per la prima volta come Re d’Italia disse: «Sulla base dello Statuto consolidare la libertà, acquistare la intera indipendenza ed unità della patria, tal è l'intento al quale abbiamo consacrato la nostra vita....; ed io sicuro ed impavido affretto con piena fiducia il complemento dei destini d’Italia.»

Il 3 settembre mori il commendatore la Farina, consigliere di Stato e vice presidente della Camera dei deputati italiana.

Il 7 il console generale pontificio a Napoli fu arrestato e tre giorni dopo gli venne intimata la partenza. Fu scortato sino alla frontiera pontificia. In conseguenza di ciò venne in Roma ritirato l’exequatur al regio console sardo e gli venne prefisso il termine di quattro giorni per la partenza da quella città. Il 26 fu revocato mediante sovrano decreto l’exequatur a tutti i consoli e viceconsoli ed agenti consolari della Santa Sede nel Regno d’Italia.

Il 26 ottobre scoppiarono tremendi uragani in Sicilia, e a Caltanisetta, che recarono moltissimi danni e perdite di persone. Rimasero vittime quaranta braccianti solfatai, anneriti nelle cave.

Nel 1.° novembre venne presentata a S. M. Vittorio Emanuele la lettera in data 12 agosto, con cui il presidente della Repubblica del Perù riconosceva:il nuovo Regno d’Italia.

Il 12 novembre venne emanato un decreto d’amnistia per le provincie meridionali di S. M. il re Vittorio Emanuele.

Il 1. dicembre l’isola Ferdinandea presso Palermo, venuta a galla alcuni anni addietro dal fondo del mare e sommersa nuovamente dopo poco tempo, ricomparve e gradatamente si rialzava.

Il capobanda Michele Caruso, la sua donna e un altro brigante vennero arrestati il 10 dicembre dalla guardia nazionale di Molinara. Ceruso fu fucilatoli 12 a Benevento.

Nella Camera dei deputati, a Torino il 12 dicembre, il ministro delle finanze fece l'esposizione dello stato del tesoro e riassunse gli esercizii del 1861, 1862, 1863. Quanto al deficit previsto pel 1864, ci vorranno i 200 milioni del prestito non ancora consunti e i prodotti delle nuove leggi d’imposte. Quanto al deficit del 1865, il ministro sperava nella Rendita dei beni demaniali.

Dal 15 agosto al 15 dicembre nel napoletano si presentarono 201 briganti; ne furono arrestati 179; uccisi in combattimento 88; rimessi ai tribunali ordinari 46; ai tribunali militari 146.

Il 17 dicembre a Torino si annunzia un’Esposizione affatto nuova per l’Italia, quella cioè del cotone, che deve aver luogo per cura d’una Commissione reale.

Il 19 detto si esperimentò a Bologna sulla testa recisa di un malfattore, se si manifestasse il fenomeno di cui parlava la stampa estera, cioè che nella pupilla dell’occhio di un ente recentemente estinta rimanga impressa l’immagine degli oggetti, che da ultimo l’hanno colpita; e se ne ottenne un esito soddisfacente.

Il 25 dicembre avvenne un conflitto tra soldati francesi e gendarmi pontifici, alcuni dei quali rimangono morti o feriti.


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CAPITOLO XIX

Anno 1864

Il Re Vittorio Emanuele, nel ricevimento del primo d’anno, esprime alla deputazione della Camera il suo rammarico perché l’anno 1863 non abbia offerto alcuna favorevole occasione di compiere la redenzione d’Italia. Nello stesso giorno il Papa riceve una deputazione di 300 cattolici di tutt’i paesi, che gli presentarono un indirizzo di fedeltà e di devozione, protestando contro i fatti avvenuti a danno del patrimonio di S. Pietro.

Il 14 gennaio viene pubblicata una lettera di Mazzini al Daily News, nella quale egli si dichiara di non aver nessuna partecipazione nell’impresa dei quattro cospiratori contro la vita dell’imperatore Napoleone, chiamati Scaglioni, Trabucco, Greco e Imperatori ed arrestati a Parigi il 7 dello stesso mese.

Il Governo italiano domandò alla Camera, dei deputati, il 23 gennaio, undici milioni e 800,000 franchi per armamenti straordinari.

Nel 2 e 3 marzo, avvennero risse tra soldati francesi e pontifici a Roma. In questi giorni i furti e le aggressioni a Roma erano frequenti.

Il 13 marzo il brigante Ninco Nanco suo fratello. Francesco venero uccisi dalla guardia nazionale di Avigliano.

Il 14 in Italia si celebrò l’anniversario della nascita del Re Vittorio Emanuele con solenni preghiere; e. pubbliche feste.

Nel napoletano, il 17 marzo, alcuni caprai arrestano il capobanda Mazzariello Nicola da Ruvo di Monte e gli mozzano la testa.

I| 30 marzo la Corte, d’Assise della Senna sedente senza. l'intervento del giuri, giudica in. contumacia Mazzini come complice della congiura contro la vita dell'imperatore dei Francesi e la condanna alla deportazione.

Garibaldi, il 3 aprile, giunge di sera Southampton e la popolazione, gli fa entusiastico accoglimento il giorno 11 egli fece il suo ingresso nella città 'di: Londra. Le società operaie sfilano, per molte ore con bandiere e musiche, innanzi alla sua carrozza, Tutte le case, della città sono, ornate di arazzi e di bandiere, e le campane suonano a festa. Il 16 Garibaldi fu ricevuto sontuosamente al palazzo di Cristallo. Indisposto, egli per le fatiche del suo viaggio in Inghilterra, è deciso di ritornare, quanto prima a Caprera, Lord Palmerston smenti con energia la voce che il Governo inglese abbia dato motivo alla subita partenza di Garibaldi; dall’Inghilterra, per assecondare il desiderio dell'imperatore, Napoleone. Garibaldi parti per Caprera il 26 aprile.

Il Consiglio comunale di Firenze, il 4 maggio, conferisce il patriziato fiorentino a tutt’i componenti la famiglia di Serego Alighieri di; Verona e loro discendenti in linea mascolina. Con altra deliberazione lo stesso Consiglio domanda alla città di Ravenna la restituzione delle ossa di Dante; questa domanda fu da principio respinta dal Municipio di Ravenna.

Alla Camera dei deputati di Torino, il 13 maggio, il ministro degli affari esterni afferma che il principio del non intervento è la base delle negoziazioni pella quistione romana. Ei non vuol destare speranze intempestive ed impazienze imprudenti, ma nulla giustifica lo scoraggiamento.

Il 4 giugno ebbe luogo la inaugurazione del monumento innalzato a Pietro Micca, soldato minatore che, col sagrifizio della propria vita, accese le mine della cittadella di Torino all’irrompere dei nemici. Il 5 si inaugurò a Bergamo un monumento a Torquato Tasso.

Alla Camera dei deputati in Torino, il 29 giugno, il ministro delle finanze disse che il Governo era tanto lontano dal programma dei partito d’azione quanto dal programma di disarmamento; che il suo programma era di 'star sempre pronto e di approfittare degli avvenimenti politici pel compimento dei destini d’Italia. Il Papa rinnovò le sue solenni proteste contro l’usurpazione,' fatta dal Piemonte, degli Stati della Santa Sede.

Il 24 agosto s’inaugurò a Pesaro un monumento a Rossini.

Il 15 settembre si stipulò la convenzione franco-italiana per lo sgombero dei francesi da Roma e si fece protocollo del trasferimento della capitale del Regno d’Italia a Firenze.

Luttuosi avvenimenti avvennero il 24 a Torino; gli allievi carabinieri fecero fuoco sul popolo e si ebbe uh numero considerevole di morti e feriti. Nel 22 si ripeterono gli stessi fatti.

Il 23 il ministero italiano si dimise, ed il generale La Marmora fa incaricato di formare un nuovo gabinetto. Il 28 era già costituito' il ministero La Marmora.

Il 3 ottobre intervenne una dichiarazione fra i Governi italiano e francese, che modificò gli accordi del 15 settembre facendo decorrere il termine pel trasferimento della capitale d’Italia e quello dei due anni per la partenza dei francesi da Roma, dal giorno della sanzione della legge relativa alla capitale del Regno d'Italia. Il 2 novembre Drouyn de Lhuys con dispaccio a Malaret rese conto delle spiegazioni avute in quel giorno col Nigra dinanzi l’imperatore Napoleone. Nigra con dispaccio telegrafico disse che l’accordo è ristabilito col governo francese intorno alla convenzione del 15 settembre.

Il 16 ottobre incominciarono nel Friuli i moti di alcune bande capitanate dal garibaldino Tolassi.

La Camera dei deputati, il 19, approvò con 317 voti contro 70, il progetto di legge pel trasferimento della capitale a Firenze. Questa legge venne approvata dal Senato nel 9 dicembre con voti 134 contro 47. Finalmente il Governo promulgò nell’11 dello stesso mese la convenzione colla Francia e la legge pel trasferimento della capitale.

Il Papa, nell’8 dicembre 1864, emise un’Enciclica che condanna i moderni errori nella religione e nella filosofia ed accordò un giubileo.

FINE DEL III ED ULTIMO VOLUME.

NOTE

(1) È quel giuboncello adorno di passamani o di cordoni che serve loro di tunica.

(1) Il barone Brenier aveva consigliato il Re Francesco a pronte ed energiche riforme.





















Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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