Eleaml


ATTI

PARLAMENTO ITALIANO

SESSIONE DEL 1861

Periodo - dal 20 novembre 1861 al 12 aprile 1862

(VIII Legislatura)

SECONDA EDIZIONE RIVEDUTA

______________

VOL. III

DISCUSSIONI DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

TORINO 1862

EREDI BOTTA, Tipografia della Camera dei Deputati

VIA TEATRO D'ANGENNES, PALAZZO CARIGNANO

Parte 02 - [pag. 99-204]

INDICE

[Aggiunto da eleaml.org per facilitare la consultazione. NdR]

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TORNATA DEL 3 DICEMBRE 1861

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE TECCHIO, VICEPRESIDENTE.

SOMMARIO. Omaggi. = Congedo. - Giuramento di alcuni deputati. - Presentazione d'una proposta di legge del deputato MINERVINI. = Istanza del deputato Gallenga sulla distribuzione dei rendiconti, e risposta del questore Chiavarina. = Presentazione di tre disegni di legge del ministro dei lavori pubblici: Classificazione di strade nazionali in Sicilia; Servizi postali marittimi; Costruzione di nuove linee telegrafiche nelle provincie meridionali. = Annullamento dell'elezione del collegio di Acquaviva. - Seguito della discussione generale intorno alla questione di Roma, e sulla condizione delle provincie di Napoli e di Sicilia - II deputato Musolino continua il suo discorso contro l'operato ministeriale - Discorso del deputato Brofferio nello stesso senso - Discorso del deputato Pisanelli sopra i medesimi argomenti. = Il presidente del Consiglio fa presentazione alla Camera di documenti relativi alla vertenza colla Spagna.

La seduta è aperta all'una e mezzo pomeridiane.

Massari, segretario, dà lettura del processo verbale della tornata precedente.

[... ]

99 - TORNATA DEL 3 DICEMBRE 1861

SEGUITO DELLA DISCUSSIONE INTORNO ALLA QUESTIONE ROMANA ED ALLA CONDIZIONE DELLE PROVINCIE MERIDIONALI.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la continuazione della discussione per le interpellanze al Ministero relative alla questione romana ed alle condizioni delle provincie napolitane.

La parola spetta al deputato Musolino per il proseguimento del suo discorso.

MUSOLINO. Signor presidente, io osservo che al banco dei ministri non c'è alcuno.

PRESIDENTE. Era presente un momento fa il ministro pei lavori pubblici.

MUSOLINO. Lo so, ma è il meno interessato nella questione. Del resto io parlerò alla Camera, che è quella che debbe giudicare.

(Il ministro dei lavori pubblici prende il suo posto)

PRESIDENTE. È presente il signor ministro dei lavori pubblici, dunque ella può continuare senza alcuna difficoltà.

MUSOLINO. Nella tornata di ieri io ebbi l'onore di passare a rassegna tutti gli avvenimenti consumali dalla pace di Villafranca sino al giorno d'oggi, e credo di aver dimostralo colla maggiore evidenza che in tutti i passi progressivi fatti dalla nostra rivoluzione noi non solo non abbiamo avuto l'approvazione, né l'incoraggiamento della Francia, ma che in ogni occasione essa ci ha fatte tutte le opposizioni e ci ba sollevati tutti gli ostacoli morali e diplomatici che era in suo potere di sollevare.

Da questa premessa io ho tratto due conseguenze: 1 che il Governo di Francia non ha per noi quella simpatia che generalmente si crede; che il nostro Gabinetto, ostinandosi ad insinuarci che noi dobbiamo aver sempre piena fiducia in quello, manca completamente al suo dovere, perché, o non ha l'elevatezza d'ingegno necessaria per reggere i destini del paese, o si mette volontariamente alla discrezione ed alla dipendenza di un Governo che non è il nostro.

Ciò non pertanto vi sono taluni, i quali credono di farsi scudo di alcuni argomenti in difesa e della necessaria esitazione, come dicono essi, della Francia e della necessaria deferenza del nostro Governo.

Trattandosi di una questione importante, io sono costretto a discendere a tanti minuti particolari onde pervenire a risolvere tutte le obbiezioni. Epperò prego la Camera di compatire la noia del mio dire poco forbito, avendo solo riguardo alle ragioni che adduco.

100 - CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

Se io arriverò a provare che gli accennati pretesi validissimi argomenti sono assolutamente sforniti di qualunque validità, avrò acquistata una prova di più in appoggio del mio assunto, che è di dimostrare la poca amicizia della Francia per noi e la poca attitudine del nostro Gabinetto.

Gli argomenti prodotti si riducono a cinque: 1° difficoltà di assicurare l'indipendenza del potere spirituale senza il temporale; 2° necessità di non turbare la coscienza dei cattolici, specialmente in Francia; 5° necessità di maneggiare destramente le suscettività delle grandi potenze d'Europa avverse alla nostra unità nazionale; W convenienza od opportunità nell'augusta persona dell'Imperatore di rispettare gli impegni contratti colla santa sede;!" finalmente, politica apparente e politica occulta della Francia.

Io passerò ora a rassegna tutti questi cinque argomenti e comincierò dalla necessità del potere temporale del papa per il mantenimento della libertà nell'esercizio dello spirituale.

lo confesso francamente, o signori, che mi fa una gran meraviglia il vedere, in questo secolo, come si possa imbrogliare talmente una questione che, secondo me, si risolve da sé stessa appena proposta; che fu risoluta altre volte senza tutti quegli inconvenienti che si potrebbero temere ai nostri tempi. Senza parlare della rivoluzione politico-religiosa del Giappone, dove il potere spirituale separato dal temporale non alterò menomamente le credenze popolari; in tempi a nei vicinissimi, i vescovi di Colonia e di Treviri, spossessati del regno, non furono causa di alcun turbamento nell'ordine religioso; il vescovo di Montenero, delegandole sue attribuzioni spirituali ad un concistoro e ritenendo solo la qualità di principe, conservò intatta e tranquilla la fede del suo popolo; mentre l'io VII, incarcerato da Napoleone, non interruppe l'esercizio del culto in Italia.

E perché dunque adesso dovrebbe temersi il finimondo se altrove ed in altri tempi più superstiziosi siffatti mutamenti non produssero alcun male nell'ordine politico né nel morale?

Se noi riandiamo i tempi primitivi della Chiesa, vediamo che i papi non furono sempre principi; essi erano nominati dall'imperatore o dal popolo, ma confermali sempre dagli imperatori. Ebbene, allora la religione si propagò grandemente. È vero che i papi qualche volta erano sottoposti a dei soprusi per parte dell'autorità politica, ma essi hanno sofferto tali soprusi anche quando furono principi. Sventuratamente abbiamo veduto deporre, imprigionare e persino avvelenare dei papi.

Nei primi tempi della Chiesa la religione progrediva in tutta la purità propria del cristianesimo, perché i pontefici, animati solo dallo spirito della loro divina missione, erano Io specchio delle più sante virtù. Le persecuzioni sofferte a varie riprese non furono tanto provocate dall'interesse dei Governi, quanto da quello del clero pagano; il quale, prevedendo molto bene che la religione cristiana, più accettabile di qualunque altra per la santità dei suoi principii, avrebbe fatto chiudere ben presto le altre botteghe, si fece a calunniar i nuovi credenti con ogni maniera di accuse, da renderli sospetti ed odiosi ai regnanti.

Ma non sì tosto però i papi diventarono sovrani, che tratti a prevaricare dagli interessi terreni, ed obliando quelli del cielo, s'ingolfarono in sozzure, patteggiarono vergognosamente con tutti, si resero colpevoli di simonie e di ogni più brutta nefandezza, onde il credito e l'autorità della Chiesa perderono ogni prestigio e nacquero dappertutto gravissimi scismi.

Nello stato attuale che cosa vediamo? Vediamo che la religione prospera meravigliosamente nei paesi in cui non si conosce l'autorità temporale del papa.

Non vi parlo dell'Irlanda e della Polonia; vi porto in regioni più lontane, nella China, nel Giappone, nell'Australia; colà la religione cresce ognora più, non perché si creda al papa principe, ma per la santità dei principii della religione cristiana e per la virtù evangelica dei missionarii. In Italia, all'opposto, attualmente e nei tempi passati, mentre da un lato abbiamo fatto sempre guerra aperta all'autorità temporale del papa, non abbiamo mai intaccate le basi sante della credenza.

Questi due fatti, o signori, che la religione propagasi meravigliosamente nelle parti dove il papa non è riconosciuto come sovrano, e che nei paesi ove si combatte l'autorità temporale, la spirituale non perde del. suo prestigio, sono, secondo me, gli argomenti più validi per dimostrare l'inutilità del potere temporale pel' l'esercizio dello spirituale Ma v'ha un argomento più stringente.

Voi mi parlate della necessità del potere temporale del papa per assicurarne il potere spirituale; ma io vi dico che neppure il potere spirituale è affatto indipendente.

I papi hanno ceduto una parte del loro potere spirituale all'autorità civile; tutti quasi i Governi hanno fatto dei concordali, dappertutto la collazione dei beneficii ecclesiastici e la nomina dei vescovi e di altri dignitari dipendono dai Governi locali.

II papa può regalarci dogmi quanti vuole a somiglianza di quello dell'Immacolata Concezione, ma nessun breve, nessuna bolla, nessuna enciclica, nessuna dispensa di qualunque genere può avere attuazione se non è munita di un exequatur.

Allora dov'è più la necessità del potere temporale per conservare la spirituale, se lo stesso spirituale è già di lunga mano vincolato e sottoposto all'autorità secolare per cessione degli stessi pontefici?

Gli antichi re di Sicilia, per esempio, le cui prerogative adesso sono devolute al Re d'Italia, avevano delle attribuzioni che li costituivano quasi semipapi; poiché, per mezzo del tribunale, detto della Monarchia, nominato dal Governo del re, eglino erano giudici competenti non solo in molte questioni di disciplina, ma in molti casi di coscienza. Se dunque l'autorità spirituale anche oggidì è sottomessa al controllo dell'autorità temporale, a che prò fare una questione che manca assolutamente di base? Nello stato attuale delle cose quel che il papa potrebbe e dovrebbe pretendere da noi è la libertà dell'esercizio del culto. Ora domando: qual è il Governo che vorrebbe opporsi ad una tal libertà?

Il cristianesimo è una religione che si raccomanda talmente alle coscienze, che non vi ha alcun Governo, né barbaro, né civile, né libero, né dispotico, che possa farvi opposizione; anzi il cristianesimo è la sola religione che si accomoda con tutti i Governi; perché, che cosa dice il Vangelo? Date a Cesare ciò che è di Cesare, perché il mio regno non è di questo mondo; ciò che in altri termini vuol dire: non vi occupate di politica. Questo solo basta per riconoscere che le verità evangeliche non possono «nere mai in uggia a nessun Governo. Dimodoché, quando il clero cattolico volesse semplicemente limitarsi all'esercizio delle sue attribuzioni,

101 - TORNATA DEL 3 DICEMBRE

nello spirito della sua missione divina, esso sarebbe liberissimo in tutti i suoi alti; che se poi all'incontro volesse trasmodare, allora, naturalmente, nessun Governo potrebbe lasciarlo nell'assoluta indipendenza.

Noi siamo in grandissimo errore, o signori, quando diciamo che il potere spirituale deve essere indipendente. Questa è una bestemmia politica. La religione ha diritto alla piena libertà, ma non alla indipendenza.

In un Governo ben costituito tutte le manifestazioni della vita sociale debbono esser libere.

La religione essendo una di queste manifestazioni, cioè la espressione di un bisogno morale, ha diritto a tutta la libertà, come vi hanno diritto la stampa, le riunioni, lo insegnamento, le industrie, i commerci e l'agricoltura, ecc.

La indipendenza suppone una libertà assoluta, illimitata. Ora la libertà assoluta è impossibile. Lo stato di società implica sempre dei vincoli più o meno larghi, più o men gravi; mentre la libertà illimitata dando ad ognuno il diritto di fare ciò che vuole, questo provocherebbe l'arbitrio, le continue collisioni, e presto o tardi la guerra civile.

Il papa quindi, come capo della religione, non potrebbe pretendere né avere altro diritto che quello di godere tutte le più larghe libertà di azione concesse dalla Costituzione, ma quanto al resto egli dovrebbe essere sottomesso come gli altri cittadini alle leggi comuni. Chiamatelo pure primate, patriarca, pontefice massimo; dotatelo pure di un ricco appannaggio in proporzione dell'alto suo grado; ma nulla dovrebbe e potrebbe sottrarlo all'obbedienza della Costituzione fondamentale e delle leggi generali dello Stato.

che se poi voi credete che questi sarebbero limiti troppo ristretti, e vorreste realizzare l'idea dell'illustre conte Di Cavour, libera Chiesa in libero stato, io allora ammetto che si potrebbe avere un poco di libertà di più, ma indipendenza giammai. Che cosa suppone la libera Chiesa in libero Stato? Senza dubbio l'abolizione dell'articolo i° dello Statuto, cioè la soppressione di ogni religione detta di Stato, e la proclamazione del gran principio della libertà della coscienza e del culto, in virtù del quale principio ogni cittadino potrebbe adottare quelle credenze che più credesse convenienti. Allora ognuno potrebbe scegliere certamente i dignitari ecclesiastici più simpatici; ma ogni confessione dovrebbe del pari provvedere alle spese del proprio culto; cosa per altro che non andrebbe a sangue al clero Lo Stato non avrebbe alcun diritto d'ingerenza nelle pratiche delle varie confessioni, ma cesserebbe al pari di avere l'obbligo di provvedere al mantenimento della Chiesa.

Però, con tutta la libertà possibile, lo Stato ha sempre il diritto di supremo sindacato sopra tutte le operazioni del clericato.

Io vorrei, o signori, che queste idee si proclamassero altamente dal Parlamento, affinché l'Europa sapesse quello che noi vogliamo, ed affinché le pretese esorbitanti dei nostri avversari si riducessero alle modeste proporzioni reclamate dalla ragione, dalla libertà, dall'eguaglianza. Questo capitolato, mi si permetta di dirlo, ci avrebbe ridotti alla condizione di veri vassalli della Chiesa. Con tutto il rispetto dovuto ai signori ministri, io dichiaro che questo documento, non solo non dà prova di abilità diplomatica, ma nemmanco di sapienza politica.

E qui cade a proposito l'esaminare il famoso capitolato che avrebbe dovuto essere presentato al papa come base della convenzione che avrebbe dovuto aprirei le porte di Roma.

Didatti l'articolo 1 dice:

«Il sommo pontefice conserva la dignità, la inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità, ed inoltre quelle preminenze rispetto al Re ed agli altri sovrani che sono stabilite dalle consuetudini.

I cardinali di santa madre Chiesa conservano il titolo di principi e le onorificenze relative.»

Questo a che cosa avrebbe condotto? che in ogni capo d'anno il nostro Sovrano, accompagnato dai principi e dalle principesse della sua real casa e seguilo dai grandi della Corte, ministri, generali e grandi uffiziali di ogni ramo, avrebbe dovuto andare a baciare la sacra pianella. (Si ride) Che in tutte le solennità e cerimonie pubbliche il Re, con un corteggio ad un di presso simile, avrebbe dovuto montare a cavallo e trottare allo sportello o dietro la carrozza pontificia. (Oh!)

Ma certamente, o signori; dacché, volendo dare al papa la preminenza in tutte le solennità pubbliche, il Re e tutt'i grandi dello Stato dovrebbero rappresentare la figura di modesti scudieri del pontefice! E, arrivali in San Pietro od in qualunque altra basilica, il Santo Padre sulla sua sedia gestatoria ci darebbe la santa benedizione, e noi, come degli allocchi, dovremmo inchinarci dinanzi all'idolo chinese. (Risa e susurro)

Io domando, o signori, se questo sia conservare la dignità ed il prestigio della Corona!

Signori, il Re è grande, è imponente, è un'immensa personalità non per sé stesso, come esecutore materiale dei poteri dello Stato, giacché questi poteri si esercitano da' suoi ministri; il Re è grande come idea; egli domina sugli spiriti e non sui corpi; è grande per l'apparato e la pompa che lo circonda. Togliete quest'apparato, questa pompa, questo prestigio morale, ed il Re diventa un nulla. Ora, quando voi concediate al papa la preminenza, ossia quando trasferiate a lui quei segni esteriori di supremazia, che sono proprii del vero capo dello Stato, nelle menti delle moltitudini il vero sovrano in Italia sarebbe Pio IX e non Vittorio Emanuele.

Io non so come un ministro possa aver consacrato in un articolo queste parole di inviolabilità e di preminenza sovrana. E che cosa dirà mai di noi lo straniero? Ma dove sono i grandi uomini di Stato e gli abili diplomatici d'Italia? Sono questi i discendenti di Machiavelli, di Pietro Delle Vigne, di Mazzarino, di San Marzano e dello stesso Cavour?

In verità, un Governo che vien rappresentato in questa maniera è assolutamente destinato a diventare la favola del mondo.

Ne questo è tutto. Non si dà al papa solamente prestigio morale, gli si dà pure potere effettivo, si costituisce uno Stato nello Stato, gli si dà la facoltà di nominare i vescovi indipendentemente dal potere civile, di nominare tutti gl'impiegati ecclesiastici senza controllo del Governo; gli si dà non solo un assegnamento sulle finanze pubbliche, ma tutti i beneficii ecclesiastici; ciò che porterebbe necessariamente l'abolizione di tutte le leggi relative ai beni delle manimorte; dacché le proprietà dal clero e dei corpi religiosi, provenendo da donazioni od eredità ricevute da privati, università o principi, dovrebbero essere considerate tutte come benefizi ecclesiastici. Allora il clero sarebbe più forte del Governo, senza dividerne la responsabilità, poiché, non essendo chiamalo all'esecuzione delle leggi, non farebbe che profittare dei nostri sbagli; e Roma allora divenendo naturalmente il centro di tutti i reazionari e fanatici del mondo, il clero papale potrebbe ad ogni occasione tentare un colpo di sovvertimento e di usurpazione.

102 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

E per compimento dell'opera tutte queste concessioni e privilegi sarebbero messe sotto la salvaguardia della garanzia di tutte le potenze di Europa (Bravo!); dimodoché in ogni piccola vertenza che noi potremmo avere col papa vedremmo tutti i piccoli potentati venire a ficcar il naso nei nostri affari. Ma allora saremmo noi più popolo indipendente? o non saremmo invece una vera congregazione di studenti, che tutti avrebbero diritto di trattare a bacchetta?

Signori, voi, spero, converrete tutti che quando un Governo ci presenta un simile capitolato, si raccomanda assai poco al rispetto ed alla fiducia del paese. Mettiamoci pure al di fuori dei partiti, ma senza dubbio dobbiamo sempre conchiudere che il Gabinetto ci dà tanta prova d'incapacità e di storditezza, da non comprendere neppure che questo disgraziato capitolato basterebbe per sé solo a metterlo in istato di accusa... (Ilarità e susurro) Imperocché è una violazione manifesta dello Statuto, è una infrazione flagrante delle prerogative della Corona.

Il Re è la prima personificazione dello Stato; dal momento che al di sopra di lui si colloca un altro, si attenta alla sua persona. Io dichiaro che questo è tal documento che non avrebbe mai dovuto comparire per l'onore del paese.

Fortunatamente che il documento fu arrestato per via; perché, se fosse pervenuto a Roma, io scommetto novantanove contro uno che il papa l'avrebbe accettato... (Ilarità prolungata) Lo avrebbe accettato, e per una buona ragione; e spero che voi dividerete la mia opinione.

Salvo che si voglia conservare il papa tal quale è, il che è impossibile, perché sarebbe un non volere l'Italia, io domando qual potenza potrebbe dargli l'inviolabilità e tutti gli altri grandissimi vantaggi che gli danno questi articoli. Non potrebbe egli stesso domandare di più se fosse chiamato a presentarci un progetto.

perché dunque, mi si dirà, la Francia non lo ha mandalo al suo indirizzo? lo risponderò: perché non le tornava conto di mandarlo; perché, accettandolo il papa, la commedia finiva, la Francia terminava la sua missione di essere il nostro angelo tutelare e di entrare per fas et nefas nei nostri affari, e perché svaniva l'occasione di avere quandochessia un qualche altro briccioletto per compenso. Ecco perché l'Imperatore dei Francesi non lo propose al papa. La quistione romana allora sarebbe finita per la Francia, non già per noi, e quando dico finita, intendo dire finita in questo senso, che la Francia avrebbe cessato d'influire sui nostri destini, mentre, quanto al resto, io sono sicuro che, quand'anche il papa avesse accettato, egli ci avrebbe dato in seguito tali motivi di dissidi, che non lasciandoci imporre dalla tutela dell'Europa, saremmo stati costretti a rinchiuderlo nel chiostro di Moatecassino. (Si ride)

Per tutte le quali cose la pretesa difficoltà od impossibilità di conciliare il potere temporale del papa col potere spirituale non esiste. Che se per poco si volesse ammettere assolutamente l'ipotesi contraria, la conseguenza logica sarebbe che bisognerebbe proclamarlo imperatore di tutta la cattolicità. La qual cosa essendo inammessibile, ne consegue per inevitabile necessità ch'egli debba ritornare alla modestia primitiva della sua missione apostolica, debba contentarsi di star capo della Chiesa, e nient'altro. In tale condizione egli non potrebbe sottrarsi alla legge ed all'autorità secolare, giusta i termini del concordato, mentre noi non potremmo dare al papa, spogliato del potere temporale, più di quello che comporta il suo potere spirituale. Se oggigiorno che egli è sovrano non si trova libero nell'esercizio del potere spirituale, come mai si potrebbe pretendere che divenisse indipendente

cessando di essere sovrano? Sarebbe questa una vera contraddizione di termini.

Seconda obbiezione. Si è parlato della necessità di rispettare la coscienza di tutta la cattolicità, specialmente in Francia. Io non so come si possa elevare questo ad ostacolo serio, dacché in Francia il partito cattolico, propriamente detto ultramontano, è una piccola minoranza a fronte della grande maggioranza, la quale, se non è affatto indifferente in materia di cattolicità, non è nemmanco fanatica. La maggioranza guarda con grande simpatia la nostra questione romana, appunto perché essa vorrebbe la umiliazione definitiva dell'ultramontanismo; e per conseguenza io non so quanta importanza si possa dare a quest'obbiezione.

È vero che il clero di Francia tempesta sordamente il Governo, ma non Io tempesta per vero spirito di religione. Il clero di Francia è composto, o signori, o di legittimisti o di orleanisti. Fa una guerra sempre sorda, ma impotente, perché le masse non Io ascoltano. Fa sempre guerra al potere imperiale, perché vorrebbe una restaurazione dei Borboni, sia nella persona del conte di Chambord, sia in quella del conte di Parigi.

Né il clero in Francia è solamente in opposizione col Governo, lo è del pari col papa.

Nessuno di voi deve ignorare che negli ultimi tempi, quando si trattava d'introdurre il rituale romano nella Chiesa gallicana, si destò gran rumore per parte dei vescovi. Alcuni accettarono per ingraziarsi Roma ed aprirsi la strada al cappello cardinalizio; ma la generalità respinse la pretesa. Né mi si dica ch'era questa un'opposizione legittima, perché si trattava di conservare dei diritti e dei privilegi di già acquisiti. Imperocché la stessa opposizione si manifestò anche in occasione della proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione, che da alcuni vescovi fu accettato, da altri respinto. Per le quali cose, se questo clero non è animato da vero sentimento religioso, se questo clero agisce per ispirito d'opposizione del momento, che riguardo possiamo noi avere alla sua influenza sulle masse, quand'esso è ribelle all'autorità spirituale, non solamente in materia di disciplina, ma bea anche in materia di dogma?

Del resto l'Imperatore conosce profondamente il vero valore del clero francese. Lo tollera adesso, perché è nella sua politica di tollerarlo, come mezzo di giustificazione e pretesto per non risolvere tanto presto la questione romana. Ma se il clero francese attentasse seriamente al potere temporale dell'Imperatore, si conosce molto bene che in questo caso l'autorità politica non andrebbe di man morta. E prova ne sia la società di San Vincenzo di Paoli (ultimo fatto, senza contare tanti altri precedenti), la quale società, sebbene non avesse nessuna idea politica, pure, perché aveva destato dei lontani sospetti, fu immediatamente sottoposta a serie restrizioni.

Signori, la cessazione del potere temporale non potrebbe far altro in Francia che suscitare un leggiero rumore fra poche vecchie dame del quartiere di San Germano; né più, né meno. Ma la è poi una ironia veramente esagerata e compassionevole il voler far credere che potrebbero nascerne dei gravi imbarazzi al Governo, come insurrezioni e rivoluzioni. La Francia è volteriana, ed i discepoli di Voltaire, quando debbono insorgere e battersi, lo fanno per un principio politico od economico, ma non mai religioso. L'epoca delle guerre di religione è finita dappertutto, e per sempre.

Terza obbiezione: necessità di blandire le predisposizioni «favorevoli delle potenze di Europa avverse all'unità nazionale.

103 - TORNATA DEL 3 DICEMBRE

Signori, questo poteva essere un motivo molto valido al principio della rivoluzione italiana, quando non si conosceva ancora l'indole vera dei nostri movimenti. Ha dacché si sa che noi abbiamo inalberato la bandiera monarchica, l'Europa si è tranquillizzata, e dallo stato di diffidenza passò, direi quasi, allo stato di simpatia.

Si parla dei trattati del 1815; ma, o signori, questi trattati sono stati violati dappertutto. Essi sono stati aboliti colla soppressione della repubblica di Cracovia, collo stabilimento dei regni del Belgio e di Grecia, coll'abolizione della legge salica in Ispagna ed in Portogallo. E come volete allora che l'Europa, la quale ha già accettato quelle modificazioni, possa adesso opporci che i trattati di Vienna esistono solamente contro di noi? Se l'Europa avesse realmente avversato la rivoluzione italiana, avrebbe protestato, si sarebbe unita in un Congresso, si sarebbe mossa. Non avendo fatto nulla di tutto questo, al più al più possiamo dire ch'essa è indifferente, ma non mai ostile.

Abbiamo pure un altro argomento per provare l'evidente indifferenza dell'Europa; e questo argomento, o signori, io lo attingo dal discorso della regina di Spagna nella ultima apertura delle Cortes. La regina di Spagna dice ch'ella deplora di non essere riuscita nelle pratiche fatte per la riunione di un Congresso onde assicurare la potenza temporale del papa.

Noi sapevamo già che l'Austria da lungo tempo lavorava in questo senso, e che, essendosi diretta a tutte le grandi potenze d'Europa, aveva dappertutto trovato delle ripulse. Si fu allora che i reggitori della Spagna s'indirizzarono alla Francia, sperando d'indurre quel Governo alla riunione di questo Congresso, da tenersi soltanto tra le potenze cattoliche. Ebbene, tutti conoscono la nota del signor Thouvenel, il quale ha detto che il potere temporale del papa è un potere come gli altri, e per conseguenza, se si ha da prendere un qualche provvedimento a suo riguardo, bisognava convocare tutte le potenze che firmarono il trattato del 1818 a Vienna. Ciò non essendo alcuna disposta a fare, la Francia si asteneva. E questo ci mostra due grandissime verità: 1° che l'Europa è indifferente; 2° che la Francia stessa ha declinato, non per simpatia né per noi, né per il papa, ma perché ha creduto che non le conveniva per nulla alterare la sua posizione di unico protettore di Roma.

Quando si esamina Io stato attuale dell'Europa e la posizione politica di ogni paese, risulta ad evidenza che tutte le potenze sono invece interessate alla nostra unità.

I trattati del 1815, che da alcuni si producono come prova io contrario, secondo me sono assolutamente favorevoli all'Italia. Sembra cosa strana, eppure è verità irrefragabile.

I trattati del 1815, signori, ebbero tre scopi: l'impedimento della propagazione delle idee liberali; il mantenimento dello statu quo territoriale e la conservazione dei troni delle varie dinastie esistenti in Europa; l'equilibrio fra le potenze. Ora le due prime parti furono distrutte dalla forza degli avvenimenti; le idee liberali hanno progredito miracolosamente, e, tranne la Russia, la quale presto o tardi seguirà l'esempio delle altre nazioni, tutti gli altri Stati hanno una Costituzione. La circoscrizione territoriale fu anche violata, come diceva, e colla formazione dei nuovi regni della Grecia e del Belgio, e colla distruzione della repubblica di Cracovia, e col cambiamento delle dinastie in Ispagna ed in Portogallo e nella stessa Francia.

Che cosa rimane adunque? Rimane la terza parte, la quale riguarda il mantenimento dell'equilibrio europeo. Or bene, signori, sotto questo punto di vista, l'unità italiana non le è contraria;

perché, quando noi saremo costituiti in grande nazione, tranquilla, compatta, forte, saremo uno dei più grandi elementi del mantenimento dell'equilibrio europeo, come barriera egualmente salda contro gli straripamenti dell'Austria e della stessa Francia.

In conseguenza le grandi potenze d'Europa non veggono per nulla con trepidazione il rovesciamento di due o tre troni; a questo l'Europa si è avvezzata da molto tempo. Prima della rivoluzione francese, la Germania contava incirca trecento case regnanti; oggigiorno queste sono ridotte a trentasei. Nel tempo delle guerre napoleoniche il trono di Svezia fu occupato da un privato, non per conquista, ma per elezione; e questo privato tuttavia regna in Isvezia e fa parte delle case sovrane.

Lo stesso Gioachino Murat a Napoli fu riconosciuto da tutte le potenze, sebbene Napoleonide, e se egli si fosse staccato per sempre dalla causa del cognato, sarebbe stato conservato sul suo trono.

Il rovesciamento dunque di due o tre troni non imbarazza per nulla l'Europa. Al giorno d'oggi si sorge e si cade secondo i tempi, i luoghi e le circostanze. Quello che in Europa importa massimamente è il mantenimento dell'equilibrio tra le grandi potenze, perché nessuna divenga tanto forte da schiacciare le altre. Ora l'unità italiana magnificamente favorisce quest'equilibrio.

Ma havvi ancora un'altra ragione che rende simpatica la causa italiana a tutte le nazioni, e questa è ch'essa combatte l'Austria.

Per questo motivo piace all'Inghilterra, la quale non ama l'Austria; piace alla Russia, che vuol vedere nell'Austria punita un'ingrata; piace alla Prussia, perché nell'abbattimento di questa grande rivale trova più facilmente aperta la strada ad avere il primato d'Allemagna; piace alla stessa Allemagna in cui noi abbiamo amici più di quello che generalmente si creda; non parlo degli Stati della Germania meridionale che fanno causa comune coll'Austria; ma nell'Allemagna settentrionale, dove la stampa liberale favorisce grandemente la nostra causa, e dove ebbero luogo due fatti che ci debbono essere di grande conforto per l'avvenire: 1° gli sforzi fatti finora inutilmente dall'Austria per indurre la Confederazione a garantirle le sue possessioni italiane, al che la Confederazione si è sempre rifiutata; 3° cosa più esplicita e precisa, la mozione del deputato Winke nella Dieta germanica, stata approvata a grande maggioranza nel Parlamento, in forza della quale si stabiliva che la Confederazione dovesse attenersi ad uno stato di assoluta neutralità nelle vertenze fra l'Austria e l'Italia; di modo che io ritengo che, quando noi dovremo un giorno impegnarci nella guerra contro l'Austria, la restante Germania rimarrà spettatrice indifferente; purché però c'impegniamo soli; mentre, se saremo uniti alla Francia, non solo saremmo obbligati a nuove ricompense, ma probabilmente potremmo attrirarci addosso la guerra generale.

Né vale il dire che per la questione economica di Trieste, di Ragusa e di Fiume, la Confederazione germanica non può astenersi dal prendere parte alla lotta. Questo è un grandissimo errore, è un disconoscere la condizione politica, commerciale industriale dell'Allemagna. Lo Zollverein tedesco, alla cui testa sta la Prussia, è composto di Stati manifatturieri; le sue grandi relazioni sono coll'America e coll'Oriente, contrade per le quali gli sbocchi naturali sono le città Anseatiche ed il Danubio.

Trieste tutto al più può interessare per le relazioni che l'Allemagna può avere col Mediterraneo. Ma, in tutti i casi, quand'anche si possa ritenere che all'Allemagna convenga conservare tale piazza, io dico che il vero interesse dell'Allemagna è più di vedere Trieste nelle nostre mani,

104 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

dacché abbiamo adottato il principio del libero scambio, anziché nelle mani dell'Austria, ch'è nazione protettrice, dalla quale perciò potrebbe ricevere delle abilitazioni assai minori di quelle che potremmo fare noi.

Dall'esposizione di questi fatti voi vedete, o signori, che in generale noi non troviamo opposizione nell'Europa; troviamo indifferenza; dirò meglio, correggendomi, troviamola simpatia, perché molli Governi ci hanno riconosciuto, e a poco a poco verranno anche gli altri. Fra le grandi potenze non ve ne sono che due, le quali abbiano ancora a riconoscerci, la Russia e la Prussia, e ciò per rispetto a certe convenienze di Corte; per mero rispetto ad abitudini tradizionali.

Questi Governi sono fondati sul principio del diritto divino, quindi non vogliono aver l'aria di far di cappello troppo presto ad un principio rivoluzionario qual è l'unità italiana. Del resto, siamo in buoni rapporti con quei Governi; i nostri ambasciatori sono alle loro Corti, gli ambasciatori loro sono presso di noi. È quistione di forma piucchè di altro; ma in fatto possiam dire di essere riconosciuti.

Considerando adunque in complesso la quistione italiana, vediamo che l'Europa in parte ci è indifferente, in parte simpatica. Che cosa adunque rimane a decidere? La sola quistione romana.

Se l'Europa ci è o indifferente o simpatica, come mai ci potrebbe dare addosso per riguardo al solo papa? Signori, permettetemi l'espressione; il creder cioè contrario al senso comune. (Si ride) Chi volete che s'interessi pel papa? (Nuove risa )

Voi dite che il potere temporale serve di sostegno allo spirituale. Ora la massima parte delle potenze non sono cattoliche. L'Inghilterra e la Russia, i cui principi sono papi anch'essi, non debbono desiderar di meglio che di vedere la caduta del loro rivale spirituale. La Svezia, la Danimarca, la Olanda, la Prussia ed altri paesi protestanti si curano poco che il papa sia libero nel potere spirituale, se a questo potere non credono. Le sole potenze che potrebbero ora esserci contrarie, sono la Spagna e l'Austria.

Quanto alla Spagna, possiamo lasciarla brontolare colla sua suor Patrocinio senza molto inquietarci. Riguardo all'Austria, essa ci è sempre nemica; e quando verrà il giorno in cui dovremo con essa assestare i conti, è indifferente che le partite da liquidare siano due o tre. Credo che tutte le altre potenze d'Europa affrettino con tutti i loro voti la soluzione della quistione italiana; poiché voi dovete convenire, o signori, che più questa soluzione si differisce, e più è sorgente d'imbarazzi. Non c'è dubbio che, se essa si fosse già decisa, l'agitazione d'Ungheria e di Polonia forse non esisterebbero.

Se l'Europa è un poco favorevole e in generale indifferente nella questione italiana, non vi ha che una sola potenza che ci faccia veramente opposizione nell'andare a Roma; e questa potenza, mettiamolo una volta in mente, è il solo Governo francese.

E se il nostro Gabinetto sostiene che noi dobbiamo assolutamente avere sempre fiducia nel Governo francese, io vi dico che esso o mostra di avere una credulità, una bonomia dell'impero francese (xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx)

Quarto ostacolo. Convenienza nella persona dell'augusto Imperatore di Francia di rispettare gli impegni contratti colla santa sede.

Ma che cosa sono questi impegni? Sono essi impegni risultanti dai trattati o impegni personali? Nell'uno e nell'altro caso non dovrebbero costituire essi un elemento da prodursi come solida base di discussione.

Che se noi rimontiamo ai trattati, l'Imperatore li ha gii aboliti salendo al trono, dappoiché quei trattati escludono dal regno espressamente la famiglia di Bonaparte.

Impegni personali, tanto meno. Egli è figlio della rivoluzione ed eletto dal voto popolare. Non può dunque star a Roma per sostenere il papa contro questo principio.

Una discussione portata su questo terreno non può essere seria, ed io mostrerei ben poca riverenza per l'alta sapienza del Parlamento, se volessi scendere a tutte le strane conseguenze che potrebbero derivare da questo principio.

Ci è poi la politica apparente e la politica occulta della Francia.

Signori, voi vedete lucciole per lanterne, dicono i produttori di questo argomento; il nostro amico ed alleato serba una condotta che in apparenza sembra ostile, ma che in realtà poi non lo è. È questa una sua profonda arte di simulare e fingere per salvare certe convenienze.

In verità io non veggo nel nostro caso la necessità di questa dissimulazione o finzione. Io credo anzi che non vi sia argomento che manchi tanto di spirito quanto questo: è un argomento veramente stupido. (Ilarità) Ed in effetto, se noi abbiamo veduto che la causa italiana è popolare in Francia, che tutta l'Europa è di accordo nella indifferenza o nella simpatia, e qual bisogno allora di fingere se non vi è necessità d'ingannare nessuno?

Passando a rassegna tutti gli anzidetti argomenti, e chiaritili completamente nulli, io ritorno sempre a ripetere la mia delenda Carlhago: la Francia, signori, non ci è amica, e se noi ci ostiniamo ad aver fiducia in questa nazione, noi, o mostriamo poco ingegno, oppure vogliamo decisamente essere vassalli dello straniero. (Ohi ohi) Ma questa, secondo me, è conseguenza matematica; che se poi abberro, io mi rimetto alla vostra sapienza.

Ma vi è anche qualche cosa di più grave da osservare nelle nostre relazioni internazionali.

La condotta del Governo francese rispetto a noi è la negazione delle vecchie tradizioni, di cui la Francia va superba, e comprende alcuni fatti che certo la storia non metterà fra i più lodevoli.

Si è detto che la Francia fa la guerra per un'idea, eppure Nizza e Savoia sono qualche cosa di materiale.

Si è detto che la Francia è ricca abbastanza per pagare la sua gloria; e in verità in molte guerre, anche contro nazioni barbare, non volle mai alcuna indennità; e noi pagammo 60 milioni.

Si è detto che dovunque sventola la bandiera francese qnivi è una causa nobile, giusta, santa, umanitaria da difendere. Io domando, o signori, se la bandiera francese che sventola a Roma è veramente intesa a proteggere la sacra persona del papa che tutti venerano, a tutelare la religione che nessuno minaccia, o se non è invece destinata a proteggere la causa più barbara e selvaggia, che è la vergogna anche dei DOjBoli meno civili, la causa del brigantaggio, dell'assassinio, ' nSo! felfó'rWtftóBeWWfflHAft

105 - TORNATA DEL 3 DICEMBRE

MUSOLINO. Oh! oh! Si, domando al Governo: siamo noi in pace o in guerra colla Francia? (Rumori)

Ma se non è guerra il brigantaggio che ci si fa da Roma all'ombra della bandiera francese, quale sarà mai Io stato di guerra?

Io vi dirò una cosa, signori, che Ti farà certo meraviglia, e sembra una bestemmia, ma tale non è.

Il brigantaggio a Roma non è sostenuto da Pio IX, perché, secondo me, e, spero, fra breve secondo voi, colui che ha meno interesse a sostenere il brigantaggio a Roma è Pio IX. È cosi chiara questa verità che non ha d'uopo di dimostrazione.

Certo Pio IX è amico di Francesco II, la causa è comune, e dovrebbero sostenersi a vicenda; ma nello stato attuale delle cose il papa non ha interesse immediato, assoluto, necessario di mantenere il brigantaggio, perché egli ne raccoglie anzitutto lo svantaggio.

I briganti che si uniscono a Roma non sono gente onesta per certo, ed è facile che gli abitanti di Roma siano soggetti a molestie, a risse, a truffe, ad aggressioni; ed un Governo, per scellerato che sia, desidera sempre l'ordine; quindi questi briganti il Governo non può favorirli, essi gli costano sempre qualche cosa; ed è la più gran vergogna pel padre dei fedeli, per un vicario di Cristo mettere il pugnale nelle loro mani.

Ci si dirà che i papi in altri tempi hanno fatto altro che questo; si, lo fecero, perché c'era ragione e motivo di farlo, ed oggigiorno Pio IX non ha motivo personale assoluto di farlo. Supponiamo che la causa di Francesco II fosse per un istante per trionfare; supponiamo che i Francesi se ne vadano da Roma; ma lo stabilimento della dinastia borbonica a Napoli sarebbe forse una garanzia pel papa? Ma, Dio buono! Pio IX e Francesco II sarebbero ricacciati due giorni dopo.

II papa adunque non ha bisogno del brigantaggio, e perciò non ha interesse personale a mantenerlo. Chi potrebbe aver quest'interesse? È Francesco II. Senza dubbio questi non può neppure avervi molta fede, non potendo credersi che un uomo che aveva cento mila uomini di buone truppe, una finanza ricca, una burocrazia fedele, e della sua fedeltà vediamo ora le conseguenze; che quest'uomo, dico, abbia adesso il coraggio, la virtù di riacquistare il trono per mezzo del brigantaggio. Per conseguenza ritengo che comunque Pio IX e Francesco II siano interessati in certo grado, non siano però od i principali, od i soli interessati nel brigantaggio.

Perché dunque questo brigantaggio?

Esso esiste a vantaggio di chi ha interesse d'impedire che il nostro Stato si consolidi: questa è una ispirazione superiore a Pio IX.

E come volete pensare che la Francia non abbia la mano in questa disgraziata faccenda, quando vedete che a Marsiglia, a Nizza (Rumori a destra e interruzione)

Presumeste. Prego l'oratore di non fare di tali insinuazioni contro un Governo che ci è alleato ed amico.

MUSOLINO. Io non lo credo tale.

PRESIDENTE. L'oratore è padrone di apprezzare come vuole le relazioni nostre con qualsivoglia Governo; ma credo ch'egli non possa fare le insinuazioni che l'ho avvertito a toglier di mezzo. Egli ha spiegato le sue idee politiche, e la Camera può oramai formarsene giusto criterio, senza ch'egli venga a formolare accuse della specie di quelle che ho dovuto interrompere. Quindi lo invito a proseguire oltre, senza più tornare ad accuse che la Camera reputa inammissibili.

MUSOLINO. Lascio per deferenza e per rispetto alla Camera; ma io credo che era nel mio diritto di parlare; dal momento che io attacco un'alleanza, che non credo sincera, devo dirne le ragioni. Spero tuttavia che il Parlamento nella sua sapienza saprà vederle ed apprezzarle. Esse sono tante, che potrei parlare per dieci ore su questo argomento (Rumori, e voci ironiche: Grazie!) Ciascuno ha le sue idee, le sue prevenzioni, e se non si lasciano esprimere, allora il Parlamento è inutile, faccia il Governo ciò che vuole; ma, se vogliamo illuminarci vicendevolmente e secondo coscienza, dobbiamo sentire tutte le parole, sagaci od insipienti che siano, di tutti i rappresentanti. Dal momento che mi si impedisce di sviluppare completamente la mia idea, vengo alla conclusione, e lascio il resto.

GALLENGA. Ha ragione!

MUSOLINO. Che volete fare! Non si può parlare. (Rumori)

Ricapitolando adunque, o signori, dirò che l'oggetto del mio discorso era ed è di dimostrare che la Francia non ci è amica: non ci illudiamo. (Rumori e riclamazioni) Che voi dividiate o non dividiate con me questa idea, voi siete liberi; pensate come volete; quanto a me, tutte le volte che interrogo la mia coscienza essa mi dà questa convinzione.

Il Governo che persiste in questa funesta illusione versa in gravissimo errore; esso none all'altezza della sua missione; è un Governo che si mette volontariamente a disposizione dello straniero, ed una nazione sottoposta al beneplacito, al capriccio dello straniero, non può più pensare, né fare i suoi interessi; fa quelli dello straniero; e, ciò facendo, cessa in essa ogni dignità di nazione per diventare debole ed ancella; e questo, o signori, è il peggiore stato in cui possa mai cadere un popolo. (Bene! a sinistra; rumori)

Io non dico già: muoviamo la guerra alla Francia; niente affatto; anzi, io voglio, io desidero di essere amico della Francia; io soltanto mi rifiuto ad obbedire ad un padrone, sia esso un papa, sia austriaco, sia francese; io non domando altro che di non essere noi molestati in casa nostra, dove vogliamo e pretendiamo di essere padroni. Non travisiamo il vero senso delle parole. Mail Governo, si dice, non può avere la sua indipendenza di azione, perché non ha le forze necessarie onde alzare alta la voce a fronte dello straniero! E perché esso non diede mai retta a coloro che in questo Parlamento gli hanno suggerito la via della dignità, chiedendo incessantemente armamento, armamento, armamento? Non già che una volta armati si sarebbe andati a Roma a dispetto della Francia, ma perché, essendo armati, le nostre ragioni sarebbero state per bene valutate. Fin qui sono state respinte e quasi derise, perché deboli. Se vi è occasione in cui si possa riconoscere per vero l'adagio: Si vis pacem para bellum, questa occasione è precisamente la nostra.

É evidente che una volta che noi fossimo armati convenientemente, noi, in ragione della nostra popolazione, potremmo contare dai 500 ai 600 mila uomini, senza pur fare un grande sforzo. Non sarebbe questo che un armamento, straordinario certamente, cioè alla ragione del 9 per 0|0; tale quale per altro si fa da tutte le nazioni in casi simili. Ed una volta in grado di disporre di tali forze, noi, senza fare la guerra, inspireremmo rispetto, perché porremmo la Francia in quest'alternativa: o di darci Roma, o di farci la guerra.

La guerra! Perdonale che faccia anche qui una digressione.

Alcuni credono di giustificare la Francia, dicendo: se la Francia ci fosse tanto nemica, o ci farebbe la guerra essa stessa, o ce la farebbe fare dall'Austria. Niente affatto! Non può farla né essa, né l'Austria. E ve lo provo.


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106 -

Dopo i precedenti della Francia verso di noi, dopo aver combattuto contro l'Austria, dopo aver proclamalo il principio del nonintervento e della sovranità popolare, dopo aver assistito coll'arme al braccio agli ultimi rivolgimenti italiani, venire ad ostilità per la quistione romana sarebbe tale una enormità in faccia all'opinione europea, che comprende una impossibilità morale. Ma supponete anche che ci volesse fare la guerra. Convengo che la Francia è una grande nazione, ha un'armata imponente, eccellenti generali, eccellenti uffiziali, un popolo capace di farsi rispettare e temere.

Nello stato quindi di debolezza in cui siamo, ed in cui il Governo ci vuol lasciare, naturalmente saremmo schiacciati. Su questo non cade dubbio.

Dall'Alpi a Scilla la Francia potrebbe correre in lungo e largo il nostro territorio, e noi saremmo sottomessi.

Io vi metto l'ipotesi sotto il punto più favorevole, escludendo anche ogni probabilità che lo straniero non la lasciasse fare, che nessuna nazione ci soccorresse, che noi, da codardi, non ci battessimo punto cosa per altro che non sarà, poiché gl'Italiani faranno sempre il loro dovere).

lo vi ammetto dunque che la Francia arrivi fino a Scilla ed occupi tutto. Ebbene, e poi) È il gran poi cui bisogna por mente!

Ma che cosa avrebbe fatto con ciò la Francia?

Si sarebbe messo sulle spalle tale un peso, che quello del favoloso Atlante sarebbe un nonnulla al paragone. E credete voi, o signori, che questo popolo italiano, il quale ha tanto fatto per la sua libertà, indipendenza ed unità monarchica, una volta che fosse violentato nei sentimenti più cari dell'anima sua, schiacciato dallo straniero, resterebbe tranquillo? Ma Dio ci liberi! o signori. Il popolo italiano, una volta che fosse a questo punto, farebbe tale una guerra disperata da far impallidire i suoi invasori; farebbe la guerra con tutte le armi, in tutte le ore del giorno e della notte.

Un'occupazione francese potrebbe per un momento trionfare, ma non durerebbe a lungo: ogni anno bisognerebbe che si rinnovasse il corpo d'occupazione. La Francia è molto savia, signori; conosce molto bene che questa sarebbe un'impresa da ciclopi; che l'edificio, appena sollevato di qualche tesa, ricadrebbe sulla lesta dei giganti che avessero osato di sollevarlo. La Francia non può far ciò: vi si oppongono tutte le ragioni morali, politiche e sociali. La Francia non ci può fare la guerra aperta; un'opposizione diplomatica, sì, ma guerra aperta, non mai.

La farà fare dall'Austria.

È peggio ancora. L'Austria si trova in condizioni meno favorevoli della Francia. Se non altro i Francesi hanno quell'abilità di saper ammaliare nei primi momenti; sono socievoli, gentili, scherzosi, spiritosi; si accattivano le popolazioni per qualche istante; ma l'Austria non avrebbe nessuna simpatia. Essa non è un paese unitario come la Francia, è divisa in tanti popoli diversi; è vulnerabilissima in tutti i sensi. L'Austria avrebbe meno probabilità della Francia di assicurare la sua dominazione in Italia.

E vi dico di più ancora, che, se l'Austria avesse potuto avere probabilità di vittoria, ci avrebbe già attaccali, perché noi, secondo i principii di diritto internazionale riconosciuti da tutti i Governi, le ne abbiamo già dato motivo. Noi non abbiamo rispettato il principio di nonintervento. In faccia all'Austria noi siamo stati provocatori. Abbiamo fatto bene a pigliarci le Marche e l'Umbria, perché è roba nostra; ma in faccia a lei noi abbiamo violato il principio.

Essa potrebbe dirci: voi siete intervenuti dove non dovevate intervenire, ed ora intervengo anch'io; ed in quel momento la Francia non avrebbe potuto farri opposizione, perché essa stessa disapprovava l'occupazione delle Marche e dell'Umbria. perché dunque l'Austria non è intervenuta? perché non poteva intervenire. L'Austria si difenderà finché potrà, ma non prenderà mai essa l'offensiva. Noi non saremo attaccati da nessuno; giacché, se nel 1881 la rivoluzione europea era nelle mani di Napoleone, oggigiorno è in quelle dell'Italia.

Come diceva dianzi, l'armamento ci metterebbe nella posizione di fare soltanto una pressione morale sulla Francia, non di farle la guerra. Quindi l'armamento è per noi il vero rimedio per evitare qualunque guerra non solamente colla Francia, ma con molta probabilità anche colla stessa Austria. Imperocché, quando l'Austria ci vedrà rassicurata la nostra capitale, ordinate le nostre provincie, ed in forze imponenti, allora non avrà interesse a far la guerra con noi; qualunque fossero le sue precauzioni, essa non potrebbe impedirci di sbarcare un corpo di truppe nella Dalmazia, di penetrare nella valle del Danubio, e di far causa comune con tutti i popoli eterogenei, che abborriscono il di lei dominio. In una guerra contro noi, l'Austria, mentre si esporrebbe alla perdila sicura della sua posizione in Italia, si esporrebbe anche al rischio di sconvolgere il suo impero. Ora in questa alternativa io credo che essa probabilmente potrebbe venire ad accomodamenti pacifici con noi, cedendo la Venezia ed il resto delle Provincie italiane.

L'armamento adunque è il solo rimedio che ci possa far uscire da questo labirinto.

Il Governo ci dirà: io ho procurato di fare questo armamento, ma non ci sono riuscito per tanti ostacoli interni per ora invincibili.

Ed io risponderò ch'esso non ha fatto nulla per armarsi. Noi abbiamo votate diverse leggi di leve forzose e di mobilizzazione della guardia nazionale; alcune di queste leggi furono pubblicate, ma con molta lentezza.

In Sicilia la leva ebbe un esito felice per la cooperazione di quel partito che il Governo crede gli sia nemico irreconciliabile, del partilo liberale, il quale è andato in tutte le campagne a predicare in favore della leva, e, grazie a queste predicazioni, la leva si esegui felicemente.

Nelle Marche e nell'Umbria, invece, gl'individui furono in gran parte refrattari; il Governo non si occupò per niente di richiamare questi giovani; ed io so da persona dello stesso Governo che si dovettero fare i più vivi e prolungati dibattimenti per indurre il Governo stesso ad uscire dal suo stato d'inerzia. Dopo molto discutere, finalmente si adottarono certe misure di rigore, ma neppure completamente, e cosi si è comincialo ad avere un certo numero d'individui eoe erano designati per la leva. Nelle Provincie antiche avvenne lo stesso errore: gl'individui che erano stati tratti a sorte non furono immediatamente chiamati ai corpi, ma si lasciarono per più di un mese alle loro case; e di questo tempo molto bene approfittarono i reazionari colle loro arti ed insinuazioni; quindi molti si resero anche refrattari, e bisognai che i carabinieri li vadano adesso cacciando, e molli anche sono passati nel territorio sottoposto all'Austria, grazie alle suggestioni ed ai mezzi somministrati dei vescovi e dei parrochi.

Voi vedete dunque quanta sia stata la solerzia del Governo in argomento di tanta importanza.

Pel Napoletano fu decretata la leva di 56 mila uomini; ma come si operò? Quale risultato se ne ottenne? Io convengo che il brigantaggio costituisce una situazione critica; ma il brigantaggio, signori, è anche uno dei vostri errori:

103 - TORNATA DEL O DICEMBRE

il brigantaggio non esisterebbe, ove voi vi foste attenuti ai suggerimenti che vi faceva l'illustre generale Cialdini.

Egli vi disse: la leva, signori cari, non può adesso avere luogo, perché il popolo è malcontento; io vi propongo di fare dei battaglioni di volontari con uffiziali scelti dal Governo, sottoposti alla disciplina militare, colla dichiarazione di tenere una ferma di tre anni, i quali non avranno di volontario che la qualità spontanea del loro servizio; ma una volta che sono sotto l'armi, sono soldati come il resto della truppa stanziale. E il generale Cialdini era stato indotto a questo provvedimento in quanto che, appena arrivato nell'ex-regno di Napoli, comprese molto bene che, sebbene la nostra armata fosse piena di bravura e di buona volontà, pure pel genere di guerra a cui era destinata non poteva avere grande effetto; e non sarebbe riescita a spegnere totalmente il brigantaggio. Capi che per riescire a tale scopo era d'uopo fossero persone pratiche dei luoghi, dei nascondigli e delle attinenze che i briganti possono avere con quelli del paese; consigliò però di formare delle compagnie di guardia mobile, due per ogni circondario.

In effetto egli si pose all'opera; ed essendosi servito di persone molto influenti, vide che la sua idea era felicissima, perché nella sola città di Napoli, nello spazio di 48 ore, si inscrissero nientemeno che 8000 volontari. In tutto il resto delle provincie non vi fu distretto che non abbia dato, invece di due compagnie, quattro, cinque ed anche persino dieci compagnie d'iscritti.

Il Governo avendo visto questo slancio militare, immediatamente per dispaccio ordinò a Cialdini di disciogliere queste compagnie, e si lasciarono le cose in una proporzione meschinissima.

Ora io dico: che male avete voi temuto potessero fare questi volontari? Non erano dessi comandati da uffiziali vostri, sotto la vostra disciplina? perché una simile diffidenza verso un povero popolo che ha tanta fiducia in voi? Quest'atto invero io non so come qualificare. Se avessero lasciato proseguire Cialdini nell'opera sua, a quest'ora avremmo, senza esagerazione, 100 battaglioni di guardie mobilizzate nelle Provincie napoletane. Invece ne abbiamo da 15 a 20 mila in tutto, credo; il generale Cosenz che è qui presente potrebbe dirci la cifra precisa; ma credo non oltrepassino il numero da me accennato.

Inoltre si è votata la legge sulla mobilizzazione della guardia nazionale si o no? Si è scritta una linea per realizzare, per mettere in pratica questa legge? Niente affatto.

E che Parlamento siamo noi, o signori? Noi facciamo leggi ed il Governo poco si cura di farle eseguire.

Sarebbe assai meglio allora che si desse, la dittatura al Gabinetto, ritornando noi a casa. Poiché a nulla valgono le leggi del Parlamento, è inutile sfiatarci a discutere.

Conchiudo.

Una voce. Bravo!

MUSOLINO. Meno male che contento chi mi ascolta.

Nelle questioni estere, come nelle questioni interne, il Governo ha mostrato la più grande mancanza d'abilità politica e diplomatica, come di buona volontà. Credo quindi che, esaminando spassionatamente la condizione delle cose, il Parlamento non possa fare a meno d'emettere un voto di biasimo verso l'attuale Gabinetto.

PRESIDENTE. È sospesa la tornata per cinque minuti.

La facoltà di parlare spetta al deputato Brofferio. (Segni d'attenzione)

BROFFERIO. Io invio un saluto di fraternità alla Francia.

Non alla Francia che regna e governa per opprimere e per calpestare, ma alla nazione generosa, nobile, forte, intelligente, che colla sua rivoluzione chiamò tutti gli altri popoli sulla via della giustizia, del progresso, della civiltà, della risurrezione. Essa ha diritto alla pubblica riconoscenza. (Bene!)

Scusate questo preludio che le parole del mio amico Musolino resero necessarie, e permettetemi di accingermi senz'altro a ragionare delle cose nostre.

In Italia io non veggo terre da cedere, ma terre da ricuperare.»

Quando questa nobile protesta suonava sul labbro del signor Ricasoli, io non poteva trattenere l'applauso; e quando con lettere, con note e con circolari il signor ministro ci confermava il virile proposito di avviarsi alla città eterna, io mi disponeva a dargli, comecbè debole, il mio pieno ed intero sostenimento. (Movimento)

Ma le parole sono un vuoto suono, se non vengono accompagnate da corrispondenti fatti. Quindi, cercando come egli si apprestasse a dare esecuzione al nobilissimo divisamento, mi stava col guardo intento sopra i mezzi, sopra i compagni e sopra i sentieri per cui volesse avviarsi al Campidoglio.

Il conte Di Cavour ci diceva voler egli andare a Roma quando piacesse all'Imperatore e piacesse al papa; le quali cose, a mio avviso, volevano dire che a Roma non si sarebbe andato mai. (Bene! da sinistra) Il signor barone Ricasoli, erede della politica del conte Di Cavour, dichiarando alla sua volta di voler andare a Roma, d'uopo era che egli o fosse certo d'aver l'assentimento della Francia, o di avere l'assentimento del pontefice, o di averli entrambi; e nel caso che questa certezza non l'avesse avuta, d'uopo era che egli tenesse in serbo uno di quegli eroici mezzi per cui le nazioni si svegliano e corrono a gloriosa meta.

Come si potesse andare a Roma senza questo duplice assentimento, insegnava Garibaldi quando di battaglia in battaglia, di vittoria in vittoria, giunto a Napoli dichiarava che farebbe l'annessione in Campidoglio; e quando, preclusa ai suoi passi la via dalla spedizione di Ancona, doveva ritirarsi a Caprera, persistendo nell'onorato proposito, gridava all'Italia: se nella prossima primavera gli Italiani non hanno mezzo milione d'uomini in armi, guai all'Italia, guai alla libertà italiana!

Io credeva pertanto che, venendo meno al signor Ricasoli l'assenso del pontefice e dell'Imperatore, egli avrebbe accolto l'invito dell'eroe di Caprera.

Vana lusinga! Garibaldi non poteva essere compreso da Ricasoli!

Ma giacché il signor ministro non comprendeva il nobile insorgere, poteva egli comprendere almeno il segreto delle nobili aspettazioni?

Non giudicando opportuno lo slancio delle pronte opere, rimaneva tuttavolta il sapiente e valoroso indugiare: un indugiare sagace, forte, concorde; quello delle preparale armi, delle necessarie conciliazioni, dei virili propositi, dei saggi ordinamenti interni, delle esterne fratellanze dei popoli, ben più sicure di quelle dei Governi, d'onde sarebbesi nell'attendimento presente preparato l'avvenire.

Volsi intorno lo sguardo, e non vidi che delusione. In ordine alle armi si faceva qualche languido apprestamento nelle milizie stanziali, e null'altro. La milizia volontaria si continuava a respingere. La stessa legge di Garibaldi, accettata dal Parlamento, si poneva in disparte; i militari e civili antagonismi si favorivano; gli ufficiali dell'esercito meridionale, condannali a imbelli ozi in città di provincie, eran fatti zimbello di durissimi provvedimenti; nessuno di quegli slanci

108 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

che comuovono i popoli e fanno gli eserciti; sempre calma penosa, sempre consigli di rassegnazione, di fiducia nello straniero, di soggezione alla diplomazia, sempre i medesimi sdegni contro gli uomini che hanno sempre gridato e gridano sempre all'Italia, che, per essere libera e indipendente, ha d'uopo di essere unita e forte.

Nell'ordine delle civili magistrature, stessa pertinacia come nei militari provedimenti; sempre gli stessi sistemi, sempre gli stessi uomini, sempre le stesse altalene, come se Roma non ci fosse, l'Italia non ci fosse, l'avvenire non ci attendesse e non fossimo minacciati da gravi tempi e da gravissimi pericoli. Sì, ogni volta che vuolsi fare o stabilire qualche nuovo officio, o affidare qualche alto incarico, sono sempre gli stessi accoliti, come disse il signor Massari, di una consorteria come se non avesse l'Italia altri Italiani di cuore, di braccio e di mente, che questi troppo noti e sempre impotenti uomini. (Applausi dalla sinistra e dalle gallerie)

Se io domandassi al signor Ricasoli qual concetto abbia di amministrazione, sarebbe imbarazzato a rispondere; io credo che non ne abbia alcuno, poiché non solo egli ha lasciato e lascia nei superiori dicasteri uomini che non sono in troppo gran fama di italianità, ma va facendo nomine ogni giorno, dalle quali è sgomentata l'opinione pubblica. Nessuno infatti sa comprendere come egli abbia potuto chiamare ad altissima magistratura uomini che, per le loro opinioni passate e per i turo passati atti, hanno diritto a tutt'altro che alla confidenza della nazione. (Benissimo! a sinistra)

Nelle Romagne e nelle provincie meridionali si lasciarono e si destinarono alle più alte cariche notissimi servitori del re bombardatore e del cardinale Antonelli; invano i conflitti di Napoli, invano i tumulti di Romagna avvertirono ed avvertono continuamente il Governo a riformare il personale delle principali amministrazioni. Il Governo volle persistere nei medesimi errori, tanto che in alcune provincie, mancando l'esistenza del Governo, si dovette provvedere dai cittadini a disperata difesa.

E quando a Napoli, dopo molte dolorose prove, mostravasi un glorioso soldato che, chiamando a sé gli uomini di più risoluti propositi, riusciva a snidare il brigantaggio ed a meritare la confidenza del popolo, tanto che pareva cominciasse a rasserenarsi quel cielo pur sempre sereno, quell'uomo fu osteggiato, fu disdetto, fu richiamato. (Bene! a sinistra)

Uno dei rami principali della civile amministrazione è quello della pubblica sicurezza; ed anche in questa parte, in questa parte specialmente:

Nuovi tormenti e nuovi tormentati.

La pubblica sicurezza ha sempre gli stessi antichi agenti della polizia; infidi, nemici dell'ordine italiano, affezionati al despotismo, cospiratori contro lo Statuto, di null'altro curanti che degli arbitrii e delle violenze.

La maggior parte dei disordini che succedono in Italia si devono attribuire a costoro e al Governo che non seppe ordinare con animo italiano una italiana vigilanza.

0 Bologna, grande e nobile città, tu che alla libertà associavi la scienza, grande nella disciplina degli studi, grande nella palestra delle armi; tu che nel 1848 col solo petto dei tuoi cittadini sapevi scacciare gli Austriaci irrompenti colle loro artiglierie, che sei tu divenuta? I ladri, i malfattori, i truffatori, gli omicidi ti stanno sul collo? E perché? perché la tua pubblica sicurezza è in mano di gente inetta o ribalda; perché i tuoi principali impiegati si chiamano italiani e sono invece parte austriaci, parte papalini; perché il Governo mal ti è scorto nelle vie dell'equità, della giustizia, del patriottismo che pur porti sempre nel tuo cuore e nell'istoria tua! (Bene! Bravo'. )

Quello che accade a Bologna, o signori, accade parimenti ed a Ferrara, ed a Cesena, ed a Forlì, ed a Rimini, e dovunque. Intanto di che si occupa la polizia? Di perseguitare al solito quelli che si chiamano sentinelle perdute della libertà italiana; si caccia in bando, si confina in Sardegna un giovine studente di Pavia chiamato Pederzoli perché ha recitato una orazione funebre sulla tomba di un compagno. Perfino la riverenza verso gli estinti per costoro è delitto! S'interdice con odiose violenze la soscrizione dei cittadini per andare a Roma, e mentre si commettono queste ingiustizie contro di noi, il danaro di San Pietro si raccoglie sotto gli occhi della polizia e fluisce in gran copia a Roma, dove si impiega ad alimentare il brigantaggio, il quale non è, come diceva l'onorevole Musolino, tutta opera straniera, ma è anche opera italiana che si fabbrica sotto la cupola di San Pietro. (Bene! bene!)

Vi è noto, e a chi non è noto? come il Piemonte formicoli di una malnata genìa di giuntatori, i quali si adoprano a trarre a diserzione i nostri soldati, mentre si travagliano a far reclute per mandare a Malta o a Marsiglia. Ciò a tutti è notissimo; a tutti, meno alla polizia, che non si accorge di nulla. Si è per altro arrestato un individuo, si è fatto un processo ed è seguita una condanna.

Questa condanna ebbe luogo nel 99 dello scorso novembre. Il condannato venne dichiarato convinto di procurata diserzione e di reclutazione per Roma.

Volete sapere come si chiama questo odioso reclutatore, quest'uomo che intendeva a sgominare le nostre schiere?

[BROFFERIO. Amministrazione della giustizia]

Si chiama padre Isidoro dell'ordine dei cappuccini; vedete, o signori! i nostri nemici vivono a nostre spese e abitano nei nostri conventi. (Sensazione) E il Governo non se ne accorge! Havvi di più. Il Governo non si accorge che la sua polizia è composta d'uomini, i quali non hanno rossore di trattare coi ladri, cogli assassini, coi malfattori di ogni specie. (Oh! oh!) Sì, signori, coi ladri e cogli assassini, i quali, come si rivelò nei criminali dibattimenti, comprano l'impunità dividendo colla polizia l'infame bottino. (Sensazione) Questo, o signori, in ordine alla polizia. Ora che dirò dell'amministrazione della giustizia? Sempre la stessa Babilonia, sempre la stessa contraddizione di giudicati, di codici, di leggi, di consuetudini, di tribunali, di procedimenti.

Chi ornai vede ancora la luce in questa intricata selva dove tutto è confusione e tenebre?

E fino a quando durerà questa miserabile condizione di cose?

Signori, una delle più grandi cause per cui le cose a Napoli e nelle Romagne vanno così alla peggio è, dopo il disordine delle leggi, la nessuna confidenza che ispirano i tribunali!

Come volete che questi tribunali siano rispettati, quando vi stanno in seggio quei magistrati stessi che furono vili strumenti di tirannide, quelli che condannarono tanti di noi, colpevoli di amor di patria, alle prigioni, alle ritorte, ai lavori forzati? E, quello che è peggio, questi satelliti officiali, dei quali molti di noi hanno le impronte delle catene sui polsi, sono sostenuti, sono accarezzati dal Governo, mentre molte dello loro vittime giacciono incompiante, o sono lasciate in mezzo alla via argomento di pietà alla moltitudine.

Perché questi ladri, questi omicidi, questi malfattori?... perché i tribunali vengon meno al dover loro.

Da qualche tempo, per esercizio del mio ministero di patrocinatore, ebbi ad esaminare alcuni processi delle Romagne.

109 - TORNATA DEL 3 DICEMBRE

Sono cose che fanno fremere. Udite.

Un malvagio cittadino ha una vendetta da compiere; sapete come fa? Non tende agguati, non aspetta oggi o domani; incontra il suo nemico nella strada, dove sono altre persone; egli non si turba per questo; impugna una pistola, la scatta, ed uccide il nemico. Poi si volge placidamente agli atterrili spettatori, e dice: Signori, siamo intesi; essi non hanno veduto nulla. E nessuno ha veduto!! Quindi nei giudizi nessun querelante, nessun testimonio, nessun accusatore, nessun giudice. (Movimenti in senso diverso)

La forza pubblica non ha più cura di arrestare i malfattori, perché sa che sono sempre rilasciati. I testimoni hanno paura della vendetta de' rei. I giudici hanno più paura di tutti, perché sanno che quando i condannati escono di carcere, portano la mano sui giudici; o se pure non escono, havvi chi fa per essi. Oh! come mai non si trovano magistrati di illibata coscienza e di animo forte che dicano come i senatori di Roma: vergogna a colui che non sa morire sul suo seggio?... Ohimè! ohimè! i magistrati vogliono morire colla loro carica e colla loro pensione, (Ilarità)

Come volete che a Napoli non regni il brigantaggio, non vi siano ogni giorno ladri sulle piazze, non vi siano dei nostri amici pugnalati, se la polizia non sa mai nulla, se quando si traduce qualche colpevole dinanzi ai tribunali, questi non ne sanno di più di quel che ne sa la polizia? Io bramerei di sapere qua! fine abbiano fatto dinanzi ai tribunali tutti questi arrestati, di cui vedemmo piene le colonne dei nostri fogli. Tutti i giorni si arresta gran quantità di persone a Napoli, a Palermo, a Bologna, a Ferrara, a Modena, e non abbiamo mai notizia alcuna dei processi, né delle sentenze. La sola cosa che sappiamo è il rilascio a Napoli del duca di Caianello dopo sei mesi di detenzione. Ora, se quest'uomo era innocente, come si è potuto custodire sei mesi in carcere sotto i dolori di una lunga istruzione processuale?

Se era colpevole, perché venne rilasciato senza giudizio e per semplice forma di procedimento?

Come adoperi il Ministero Pubblico in simili casi presso di noi può chiederlo il signor Ricasoli a quel benemerito magistrato che era procuratore del Re presso il tribunale di Torino, e che egli prepose a gravissimo uffizio; gli dirà il cavaliere Fontana come in ventiquattr'ore il duca di Caianello, se era innocente, sarebbe stato rilasciato.

Da queste parole nessuno argomenti ch'io voglia biasimare le leggi penali di Napoli. No, i Codici napoletani non sono secondi a nessun altro in Italia; io vorrei soltanto che vi fossero onorati applicatori. (Benissimo! a sinistra)

Ho udito che a Napoli l'avvocato Pironti, il quale ebbe anch'egli il battesimo delle prigioni, uomo dottissimo, che gode della confidenza dei giureconsulti, aveva presentato un progetto per riformare i tribunali, e particolarmente il personale dei giudici. perché questo progetto non lo vedemmo accettato? perché il signor guardasigilli Io tiene ancora sepolto? perché insomma non si fa mai nulla?

Si dice: date tempo al tempo; non possiamo fare miracoli. Signori, il tempo è sempre un prezioso tesoro; ma nei momenti in cui versiamo, il tempo, prontamente o lentamente impiegato, vuol dire vittoria o sconfitta. Quanto ai miracoli, lasciate ch'io vi dica che in vicende come queste, quando le circostanze sono cosi urgenti, quando i casi sono così tempestosi, quando l'Italia sta per farsi, ed è minacciata di non potersi fare, oh! lasciate ch'io ve lo dica, o signori, o non bisogna essere ministri, o bisogna saper fare de' miracoli. (Segni di approvazione a sinistra)

Due parole sul Ministero dell'istruzione pubblici.

Ci diceva il signor ministro, quando giungeva novello al Ministero, come fosse adirato per aver veduto, entrando in ufficio, tanta mole di ordini, decreti e regolamenti; tanta mole, diceva egli, che basterebbe per il carico di molti cammelli, e conchiudeva dichiarando che avrebbe dato fuoco a tutta quella colluvie di carta stampata perondare l'istruzione pubblica sopra nuovi principii, sopra nuove basi. E, per verità, questa volta si aveva un ministro che ci annunziava che voleva fare dei miracoli. Ma il miracolo, ohimè! lo attendiamo ancora (Si ride); i decreti, i regolamenti esistono sempre, e se, come diceva il signor ministro, fossero stati caricati sulla schiena di molti cammelli, affé che le povere bestie sarebbero molto stanche di portarli. (Risa)

Grande iattura vi è stata e vi è pur sempre in quel Ministero. Noi abbiamo vedute di recenti nomine che fecero trasecolare; abbiamo veduti stravaganti provvedimenti di collegi, di cattedre, che non sappiamo in qual modo spiegare: quello che si è fatto di più sublime e di più bello fu il solenne invito ai professori di teologia delle Università d'Italia a discutere sul potere temporale del papa. (Ilarità generale) Ed intanto noi vediamo sommosse di studenti da Torino a Palermo, dove vennero sedate dal mio amico Crispi, uno di quei promovitori di disordine che accorre sempre in Sicilia quando si ha d' uopo di comporre gli animi alla concordia. Intanto i nostri studenti scemano tutti i giorni e disertano le Università piemontesi per recarsi dove non infierisce la obbrobriosa tassa che pesa sull'ingegno, sull'intelligenza e sull'avvenire della gioventù. Il signor ministro ha egli dato ascolto ad un solo di questi riclami? Né punto, né poco. Siamo sempre alle petizioni, alle diserzioni, alle proteste, ai tumulti. Il signor ministro non si accorge di nulla e sta guardando beatamente a passare i suoi cammelli. (Ilarità)

Nulla dirò delle finanze. Sono troppo buon cittadino per questo. So che havvi tal piaga che non bisogna svelare. Ella lo è già troppo, e la migliore eloquenza è quella del silenzio. Non posso a meno per altro di rappresentare come un voto antico siasi sempre ripetuto in questa Camera senza che mai abbia trovato accoglienza; si è detto e ridetto mille volte, e l'anno scorso si tornava a dire come per riparare alle finanze fosse necessario di mettere in commercio i beni delle manimorte, come si dovesse finalmente procedere all'incameramento di quei beni che il clero dice ecclesiastici, e che l'Italia sa essere beni nazionali. Con questo mezzo si sarebbe potuto sopperire alle urgenze del tesoro e risparmiare le odierne tasse che pur troppo dovremo approvare. perché non si pensa ad effettuare una volta quest'invocato provvedimento? Almeno qui in Piemonte ne abbiamo una larva, abbiamo una cassa ecclesiastica, un'abolizione di conventi, fatta incompiutamente, è vero, ma pur fatta; mentre nelle altre Provincie, invece di aiutare la nazione colle grosse rendite dei conventi, si lasciano sempre in mano di quelli che hanno per combatterci le scomuniche, le provocazioni alla diserzione, le reclute per lo straniero, i denari di San Pietro, e gli ordinamenti del brigantaggio.

Tutte queste cose chi non le ha vedute, chi non le vede tuttavia? E che fa, si diceva, il signor Ricasoli? Zitto, si rispondeva.

Il signor Ricasoli si incammina per Roma; ed io tornava a mettermi sulla via per vedere com'egli procedesse per arrivare al Campidoglio. Chi aveva con se? Eserciti? No davvero. Uomini risoluti? Neppure Aveva popolo che lo seguisse? Il popolo non lo vuole; egli lo caccia indietro, lo non ho udito che qualche discussione teologica, non ho veduto che qualche cianciatore di diritto canonico, non ho trovato che qualche

110 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

questuante del danaro di San Pietro, e di tratto in tratto qualche avvocato d'Italia con paradossi di sagrestia. Con tutte queste cose si può bensì andare in concistoro, si può andare nella cappella Sistina, ma non si va in Campidoglio.

Ho udito ieri un oratore del Ministero, il quale menava gran vanto che si avesse in Italia un frate che combatte il potere temporale e vi fosse in Francia un calvinista che lo sostiene.

Io parlo schietto, o signori: io non amo né il calvinista che recita da frate, né il prete che recita da calvinista. (Ilarità e segni di adesione a sinistra)

Non ostante tutto questo, gli amici del Ministero ci andavano dicendo: aspettate, confidate, vedrete che all'aprirsi della Camera ci saranno documenti che parlano chiaro e vi faranno vedere come sia stata efficace e grande l'opera de) Governo.

La Camera si è aperta; i documenti furono depositati; ma, Dio mio! che vacuità, che miseria!

Il signor Ricasoli per far prova del valor suo ci presenta un abbozzo burocratico di qualche lettera e di un capitolato col papa, le quali cose non ebbero nemmeno l'onore di pervenire al loro indirizzo.

Si ricorse al Governo francese per il ricapito a sua santità; l'ambasciatore di Francia, considerando che il papa era di cattivo umore, tenne le sue lettere in tasca e non se ne fece più altro.

Quindi, mentre il signor Ricasoli dovea condurre l'Italia a Roma, non seppe farvi pervenire neppure una lettera.

Ed è questa la prima volta che un ministro per far prova della propria capacità si presenta al Parlamento con titoli che attestano una grande sconfitta.

Ma supponiamo che queste lettere fossero pervenute a sua santità. Che cosa se ne sperava? Vediamo.

111 signor Ricasoli scrive al papa con unzione di sacrestia e con frasi tolte a non so quale padre Tosti, per invitarlo a seguire la via del progresso ed a promulgare il grande principio della nazionalità. Progresso? Eh via I papa e progresso furono e saranno sempre impossibile cosa. Quanto a nazionalità, il papa non ne conosce che di una specie; la nazionalità cattolica; il resto è tutto paganesimo e peccato mortale.

Voler convertire il papa parlandogli da teologo e volerlo persuadere a spogliarsi del potere sovrano è una pretesa smisuratamente assurda.

Ma lasciamo la lettera e veniamo al concreto: voglio dire al capitolato.

Pongo per base che noi vogliamo andare a Roma non solo per andarvi, ma anche per rimanervi. Vediamo ora se colle condizioni proposte dal signor Ricasoli, in caso che vi si andasse, vi si potesse rimanere.

Ho per fermo che in Roma i maggiori e più nobili voti sono per il Governo italiano; ma so pure che una gran parte di uomini che traggono sostentamento dalle papali istituzioni ci sono avversi; e tali pure sono tutti coloro che per falsa devozione amano il prete più che il vangelo; e tali pur sono finalmente quelli che, schiavi dell'antica usanza, abborrono per ignavia gli ordini nuovi.

Dopo di ciò io non voglio prendere sul serio il capitolato, che forse non presero nò anche sul serio quelli che lo hanno dettato; ma qui mi acconcio all'avviso del mio amico Musolino, il quale è di parere che, se il papa lo avesse letto, Io avrebbe, per nostro mal costo, accettato.

Il signor ministro accorda al papa tutti i diritti e privilegi della sovranità: ma la sovranità vuol dire comandare, regnare, far leggi, amministrare la giustizia, avere diritto di grazia; questo sovrano voi circondate di principi, che sono cardinali, con immensa autorità, con prestigio immenso; questo sovrano comanda a cento ottanta milioni di sudditi cattolici, ed ha molte migliaia di vescovi, di parroci, di preti, di frati, che formano per lui un esercito immenso; questo sovrano, oltre al grasso bilancio che voi gli stabilirete, ha tutti i benefizi clericali a sua disposizione, ha tutti i beni del clero mobili ed immobili, che sono sterminati; ha le alleanze ed i sussidi e gli eserciti dei re e degli imperatori, che per suo mezzo vogliono tenere in freno i popoli e comandare da despoti; ha le preminenze del suo grado, che sono quelle di vedere i monarchi a baciargli i piedi ed a tenere la staffa delle sue puledre. E voi volete andare a Roma per collocare accanto a voi una potenza tanto superiore alla vostra? e sperate di rimanervi? Oh sciagurate speranze! Il ministro dichiara superiore ad ogni divieto il pontefice nell'esercizio spirituale. Ma egli non ha considerato che nell'esercizio spirituale entra la scomunica contro i re della terra; che il papa potrebbe un giorno chiudere loro in. faccia i tempii ed in nome di Dio bandire, dagli altari l'insurrezione contro di noi, e chiamare ai nostri danni il fanatismo, l'ipocrisia, la superstizione, che sono anch'esse uno scellerato gio. Oh non venga mai per l'Italia un tal giorno!

Io non posso poi perdonare al signor guardasigilli di aver consentito che il barone Ricasoli rinunciasse ai diritti del sovrano, ai patronati della nazione nelle nomine episcopali; diritti così essenziali, cosi importanti, che i nostri principi vollero sempre a qualunque rischio conservare e difendere.

Sa il signor commendatore Miglietti cerne la nostra magistratura, la nostra Corte, la nostra Università abbiano sempre lottato coi romani pontefici per conservare la nazionale indipendenza in queste ecclesiastiche elezioni. Fin qui non avemmo molto a lodarci dei nostri vescovi che noi stessi abbiamo proposti; che fia quando il papa potrà mandarcene tanti dei peggiori che tiene in deposito sotto la cupola di San Pietro?

Per verità io non mi aspettava questo sciagurato abbandono dal signor Miglietti. In ultimo, per corrispettivo di tutto questo, che cosa dovrebbe fare il papa per noi?

In virtù di un contratto bilaterale, dopo tanti sacrifizi che offre l'Italia, qual sacrifizio dovrà farci il papa? Voi direte: dovrà deporre la corona di re ed accogliere l'Italia, che vuole innalzata la sua bandiera in Campidoglio.

Nulla di tutto questo. I ministri non osarono in faccia al papa, non osarono dichiarare la sovranità nazionale; appena osarono dire che si nominassero commissari per veder quello che si dovesse fare. (Bene! bene! a sinistra)

Nello scorso giorno un oratore del Ministero, per difendere i suoi ministri, diceva essere pur egli persuaso che il Governo avesse fatti molti errori; anzi si affrettava a soggiungere: io prevedo che ne dovrà fare molti altri; e conchiudeva doversi assolvere tutti quanti i ministri, perché errarono in buona fede.

Ah! se noi dovessimo perdere la libertà e l'indipendenza per la buona fede degli errori ministeriali, non so come l'Italia assolverebbe noi stessi.

Io auguro al Ministero avvocati migliori, (Viva ilarità)

Signori, io ho udito molte volte proclamare da quella ri hiera e dalla stampa e dalla voce pubblica che l'Italia er: fatta.

Errore! No, l'Italia non è fatta, anzi non fu mai tanto disfatta come in questi giorni.

Non è falla, perché a lei mancano due nobilissime città e Provincie; non è fatta,

111 - TORNATA DEL 3 DICEMBRE

perché non è da capo a piedi armata; non è fatta, perché ardono nel suo seno fatali conflitti; non è fatta, perché Nemesi funesta sta la discordia nel campo nostro; non è fatta, perché alcuni dei suoi più illustri figli son messi in disparte e da prescrizione percossi; non è fatta, perché nessuno seppe svegliarla dal letargo con una di quelle parole che scuotono i popoli e creano le nazioni.

Questa sbattuta Italia chi saprà finalmente comporta!

Vengano altri uomini al Governo; vengano dalla destra, dal centro, dalla sinistra, da qualunque parte, o da tutte insieme queste parti, io son pronto a far loro lieta accoglienza, purché armino, riconcilino, attutino, rinvigoriscano, e senza rompere le alleanze ci tolgano a servitù dell'uno e dell'altro straniero, e senza impeti forsennati ci preparino a deliberale riscosse.

Con tali uomini e con tali propositi dirò allora anch'io: l'Italia è fatta! (Applausi nella Camera e dalle gallerie)

PRESIDENTE. Il deputato Pisanelli ha facoltà di parlare.

PISANELLI. Dal giorno in cui fu dalla Camera deciso di doversi discutere ad un tempo e le cose di Roma e quelle di Napoli, io mi proposi di trattare solamente delle seconde, come quelle in cui la mia povera voce avrebbe potuto forse portare qualche luce; nondimeno non posso intralasciare di esprimere il mio concetto sulla politica estera del Ministero.

Io l'ho sentito accusato da alcuni come troppo ardito, da altri come troppo rimesso; questa discrepanza di giudizi io credo che sia una garanzia del Ministero. In quanto a me io non entrerò nello esame dei documenti presentati, ma rilevo da essi, rilevo dalla condotta generale del Ministero, in quanto alle questioni estere, che la politica del Governo italiano verso l'estero è stata dignitosa senza iattanza, è stata conciliatrice senza umiliazione: questo è il mio concetto, ed in quanto alla politica estera io non dubito di approvarla.

Noi, o signori, dobbiamo guardare a Roma come alla nostra capitale, noi dobbiamo guardare a Venezia, che è carissima parte d'Italia; ma mentre i nostri sguardi si rivolgono sui tutti di Roma, sui dolori di Venezia, noi dobbiamo ordinarci, dobbiamo agguerrirci; si, o signori, la politica in quanto alle questioni estere è quella che fin da principio additava l'eloquente voce che testé ha parlato, quella dell'onorevole deputato Brofferio, una politica di aspettazione sapiente, ma, al tempo stesso, forte e coraggiosa. In conseguenza su questa parte la mia voce non può differire dalla sua: egli chiede armi, io le invoco di tutto cuore, perché sono certo che, quando l'Italia potrà far pesare sulla bilancia delle questioni straniere anche una spada potente, la sua voce sarà più sentila, e sarà anche più rispettata. (Bene! Bravo!)

Signori, delle cose di Napoli si è discorso da tanti ed in si varie guise, che io non mi maraviglio se alcuni se ne mostrano stanchi ed infastiditi. Ma l'irrequieta impazienza con cui i rappresentanti di quelle provincie cercano di far udire la loro voce in questo recinto, vi può provare ch'essi almeno pensano, e lo penso anch'io, che né il Governo, né la Camera siano ancora pienamente informati delle condizioni di quelle Provincie. Né è da maravigliare. Chi vive in queste contrade, chi vive in questa città, ove avvenimenti maravigliosi e felicissimi potettero operarsi senza scosse e perturbazioni, anzi in mezzo a quella serena calma, che è dote privilegiata di questi luoghi, assai difficilmente, o signori, può intendere a primo sguardo le condizioni d'un popolo vivacissimo, mobile, pieno di fantasia e d'affetto,

e pur lungamente contristato da una bieca tirannide. C'è bisogno di molto tempo, c'è bisogno di molti studi per intrinsecarsi veramente nell'animo degli abitanti delle Due Sicilie, per esplorarne gli affetti e raggiungerne il pensiero.

Ciascuno dei deputati ha certo fatto quant'era in lui per adempire al debito santissimo di rappresentare in quest'aula le vere condizioni del suo paese.

Permettetemi, o signori, che io adempia anche una volta a questo dovere, e che io ripeta qui alla Camera, innanzi al paese, se la mia voce vi giungerà, quelle cose medesime che in parecchie congiunture ebbi l'occasione di dire negli uffizi della Camera, e talvolta anche ai ministri, quando essi vollero udire la mia voce.

Signori, chi guarda al Napoletano vi osserva un malcontento diffuso. I più ne sono attristati, pochi ne gioiscono.

Se fosse vero che in Napoli abbondassero i borbonici, in quel paese vi sarebbe una letizia infinita; invece il paese è tristo. (Bene!) Può finalmente ingannarsi chi capita in Napoli, rapito da quel moto e da quel brio; ma quel moto e quel brio vi sono improntati dalla natura, e non vi è tutto e dolore che basti a cancellarli. Io credo che a quel malcontento corrisponda un malessere reale. Forse concederò, e concedo, che l'espressione sia, come accade presso tutti i popoli nei quali abbonda la fantasia, abbondante, ma ciò non toglie che veramente, nella condizione reale dalle cose, abbia quel malcontento la sua origine.

Io credo, o signori, che se un uomo di Stato s'inchinasse verso le popolazioni napoletane, come un medico sul letto dell'infermo, per esplorarne i dolori, egli udirebbe queste voci: noi ci sentiamo feriti, noi ci sentiamo umiliati. (Bene!)

Ecco i due fatti principali, nei quali si riassumono le dolorose condizioni del Napoletano.

Quali sono le cagioni di questi fatti.

Rammentiamoci, o signori, quali erano le condizioni del Napoletano. Era soggetto ad una cieca e brutale tirannide, la quale, percossa dall'opinione pubblica di tutti gl'Italiani, anzi dall'opinione pubblica di tutto il mondo civile, non aveva altro schermo che quello delle baionette, anch'esse logore ed affralite. E quelle baionette si dileguarono quando la potente voce di Giuseppe Garibaldi chiamò a riscossa gli abitanti delle Due Sicilie ed intimò ai Borboni che il loro regno era finito.

La rivoluzione camminò veloce sui passi del generale Garibaldi, e giunta in Napoli vi mutò gli ordini politici, scacciò la dinastia, disfece L'autonomia del paese. Ora, o signori, è impossibile che ciascuno di questi fatti non portasse per sé stesso spostamenti e ferite di interessi materiali. Come mai è possibile immaginare che si mutino in un paese gli ordini politici, che una dinastia antica ne sia scacciata, che sia disfatta l'autonomia del paese, senza un grande incitamento delle passioni, un gran conflitto nelle opinioni, un grande turbamento di tutti gli interessi materiali nel paese stesso!

Signori, una parte dei lamenti che si odono procedono da queste ferite. Il far eco a quei lamenti sarebbe lo stesso che imprecare alla rivoluzione, maledire alle sorti d'Italia. (Bravo!)

Ma altri spostamenti ed altri dolori si avvertono ancora nel Napoletano. Quando la monarchia cadeva, quale era, o signori, l'indirizzo politico che dovevano assumere i nuovi reggitori dello Stato? La rivoluzione stessa, a cui essi succedevano, lo aveva prefisso: era l'Italia; non potevano averne uno diverso.

112 - CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

Ma per incarnare negli ordini del paese la grande idea dell'unità italiana erano possibili tre sistemi: o effettuare l'unificazione sgominando e sconvolgendo tutto io un punto; o conservare tutti gli antichi ordini del paese;

Signori, io dico, e senza esitazione, che il migliore era il terzo partito: affermo con piena coscienza che nel primo periodo dell'amministrazione del re in quel regno non si ebbe in mira altro sistema. Conservare gli antichi ordini, ritenerli inviolati ed intatti, era lo stesso che rinnegare lo scopo che la rivoluzione si era prefisso, era lo stesso che riedificare quelle mura che separavano il Napoletano dalle altre parli d'Italia, e che la rivoluzione aveva abbattute.

Io so bene che coloro i quali non seguirono questo sistema si ebbero il titolo di piemontesizzatori, e se io allora meritai quel titolo, ne sono altamente glorioso, perché piemontesizzare in quel tempo significava volere l'Italia, volerla senza sottintesi e transazioni, volerla come doveva volerla ogni onesto Italiano, volerla decisamente e risolutamente. (Bravo! Bene!)

Il secondo partilo, quello di sconvolgere tutto in un punto, lacerare le leggi e gli ordini tutti che esistevano, era moralmente assurdo ed impossibile. Le unificazioni non possono farsi con sistema meccanico, mercé di una macchina che appiani ogni disuguaglianza, che disloghi le membra e rompa la vita parziale delle minori aggregazioni.

Però vi erano alcune necessità; la rivoluzione aveva infranti tutti i freni della stampa.

Era possibile, o signori, io lo chiedo francamente a tutti i miei avversari politici, era possibile, o signori, non provvedere con una legge sulla stampa? E provvedendovi, era possibile introdurre in quelle parti dello Stato una legge diversa da quella che già imperava in tutte le altre parti d'Italia? Era possibile non provvedere al compiuto armamento ed organizzamento della guardia nazionale? E si poteva pubblicare in quelle provincie una legge diversa da quella che era in vigore in tutte le altre parli dello Stato? Era possibile rispettare le rappresentanze comunali, emanazione del Governo dispotico dei Borboni, e ruote di un accentramento amministrativo anche più dispotico che la Francia aveva imposto alle popolazioni del Napoletano, violando ed abbattendo quelle franchigie che i comuni di quella parte d'Italia godevano ab antiquo? E si poteva introdurre una legge comunale nel Napoletano diversa da quella che già vigeva in tutte le altre parti dello Stato, e che era una delle leggi più liberali dell'Europa?

Io so, o signori, che alcuni dicono che colle elezioni popolari i municipi sono venuti nelle mani dei retrogradi: aggiungono che le rappresentanze municipali, inesperte, non sapranno amministrar bene le loro faccende. Sono le stesse voci che io udiva qui da parecchi nel 1849; sono le eterne voci, colle quali si combattono le franchigie della libertà. Le elezioni hanno portato nei municipi i retrogradi? Non dubitate che le nuove elezioni li ricacceranno. Le rappresentanze municipali sono inesperte? Diverranno, e in breve tempo, capaci. Ma potreste voi sotto questo pretesto perpetuare una tutela abusiva ed esiziale, per perpetuare ad un tempo la loro incapacità?

Signori, queste sono le tre leggi organiche che, nel brevissimo periodo in cui io presi parte all'amministrazione delle cose napoletane, furono pubblicate in quel paese. Sono certo che la Camera non potrebbe fare appunto intorno a ciò, perché credo che nel mese d'aprile si fece appunto al Governo d'avere indugiato l'esecuzione di queste leggi.

Ma queste nuove leggi portavano anch'esse ferite a molti interessi, spostamento di attribuzioni e di abitudini; ma queste ferite e questi spostamenti erano della natura di quelli che aveano portato la rivoluzione, l'abbattimento della monarchia, il disfacimento dell'autonomia, cioè una crisi salutare, e chiunque non fosse stato nemico acerbo d'Italia, dovea applaudire.

Ma il Governo dal suo canto aveva il debito di creare in quelle provincie la nuova vita, cioè guarentire la sicurezza pubblica di quelle popolazioni, promuovere in ogni verso la loro prosperità morale e materiale. Fu a questo debito adempiuto?

Signori, vi prego anzi tutto di por mente alle condizioni ardue e difficilissime in cui si trovò il Governo del Re nei primi mesi della sua amministrazione in quelle provincie. Esso succedeva ad una rivoluzione che aveva assunto la sua stessa bandiera, esso doveva riordinare le forze del paese, ricostituire il Governo. Esso adunque aveva innanzi a sé il più difficile dei problemi che si possano proporre in politica, quello cioè di riorganizzare il paese, di ricostituire un Governo in mezzo alle agitazioni della rinata libertà. Credo che la leva più potente per riuscire a questo scopo sarebbe stato un indirizzo politico fermo, sicuro, chiaro per le popolazioni a cui si rivolgeva. Ma sventuratamente il principale errore del Governo è stato appunto quello di non essersi fatto intendere da quelle popolazioni. La sua voce non è stata né chiara, né aperta; e anche oggi forse le popolazioni del Napoletano non conoscono appieno ciò che dal Governo si voglia. Il Governo ha ondeggiato sempre nel suo indirizzo politico.

Signori, io qui non mi fo a discutere quale avrebbe dovuto essere l'indirizzo politico, e quale il merito dei vari indirizzi politici; ma affermo un fatto che nessuno potrà contraddire; non tutti però potranno apprezzare al giusto le sinistre conseguenze di questo fatto. In un paese scosso dalla rivoluzione e nuovo alla vita politica, se il Governo dubita ed ondeggia, necessariamente si rendono vacillanti e dubbiosi tutti gli spiriti, e tutta la macchina governativa vacilla anch'essa ed ondeggia.

Signori, i prefetti non vanno; lo so: voi li mutate, e non vanno; li mutate ancora, e non vanno. Non vanno le Corti criminali; voi mandate via alcuni magistrati. Udirete due voci; una che vi dice: ne avete mutati troppi; un'altra vi dice: non ne avete mutati abbastanza.

Signori, quando in un paese vacilla la cima del Governo e l'autorità stessa che deve dar vita e forza a tutta fa macchina governativa, necessariamente l'oscillazione si spande sopra tutte le diramazioni della pubblica amministrazione.

Se io cerco la cagione per la quale l'indirizzo del Governo è stato ondeggiante, mi si appresenta un concetto nel quale potrei errare, ma è nell'animo mio, ed io lo rivelo e lo sommetto alle considerazioni de' miei colleghi con tutta franchezza.

Mi pare che il Governo abbia ondeggiato per la persuasione di doversi poggiare sopra un partito politico. Ora, o signori, al di fuori ed al disopra dei partiti politici ci era il paese, ed io credo che non sarà mai né serio, né durevole il Governo, se non quando si fonderà su! paese. Io intendo che sia desiderabile che tutti i cittadini prendano una posizione politica, che, in conseguenza, tutta la cittadinanza si risolva in partili politici; ma questo fatto in un paese, come Napoli, nuovo alla vita politica, deve aspettarsi; non deve sforzarsi né colla violenza, né colle blandizie governative.

Ora segnalerò alcuni errori speciali, i quali però ebbero un'importanza sull'andamento generale dell'amministrazione, ossia sopra tutti gli spiriti.

Il primo e più grave di questi errori fu lo scioglimento dell'esercito meridionale. Il risorgimento d'Italia, o signori,


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113 - TORNATA DEL 3 DICEMBRE

esso è stato l'effetto del senno e del volere di tutti gl'Italiani; ma noi non dobbiamo disconoscere i segnalati servigi che taluno ebbe e poté avere la fortuna di compiere a prò della patria comune; non dobbiamo, né possiamo disconoscere la prepondoranti influenza di alcuni partili politici. Certo l'annessione della Lombardia, dell'Emilia, della Toscana, si era promossa ed operata segnatamente col concorso di quegli uomini che avevano piena confidenza nel Governo del Re, ma non possiamo disconoscere che nelle Due Sicilie l'iniziativa era stata presa dal partito rivoluzionario.

Avventurosamente questo partito era capitanato da Giuseppe Garibaldi, il quale aveva scritto sulla sua bandiera: Italia e littorio Emanuele. Ciò importava che il partito rivoluzionario si era accostato al Governo, e aveva scelto il suo programma medesimo.

Dopo questo fatto, sciogliere l'esercito meridionale era lo stesso che disconoscere l'importante servizio che il partito rivoluzionario aveva reso alla causa d'Italia, imperocché questo partito si era composto ed ordinato nelle fila dell'esercito meridionale; era lo stesso che respingere uomini che in prima avevano combattuto il Governo del Re, e poscia al Re si accostavano; era lo stesso che costringerli alla ribellione.

Un'epurazione era necessaria; un'armata che si raccoglie sui passi della rivoluzione dee contenere inevitabilmente elementi impuri.

Gl'illustri capi di quell'esercito, essi stessi invocavano quella epurazione, e, se ad essi fosse stata affidata, l'avrebbero compiuta con mano ferma e sapiente. La tarda riparazione poté suffragare il principio di giustizia, ma non ispegnere l'irritazione che l'improvvido scioglimento avea prodotto.

Quest'errore fu più grave pel modo, onde venne sciolto l'esercito meridionale. Esso fu sciolto in Napoli, e cosi nelle vie di quella popolosa città si trovarono meglio che 20000 Garibaldini, i quali, credendosi oltraggiati dal Governo, stimavano essere loro diritto di osteggiarlo. Così furono create al Governo del Re, ne' suoi inizi in quelle provincie, ostacoli gravissimi e, dirò pure, quasi insuperabili.

Il secondo e grave errore del Governo fu lo scioglimento completo dell'armata borbonica. Se, come si è più tardi fatto, i soldati borbonici si fossero mandati ai depositi, forse noi non avremmo a lamentare molti danni; essi invece tornarono alle loro case umiliati, scherniti. Eppure, chiamati una prima volta, accorsero nei capoluoghi delle provincie; ma, rimandati di nuovo, si videro esposti a nuovi oltraggi, a nuovi insulti. Ingrossò il fiele nel loro animo, e si trovò sul territorio del Napolitano una moltitudine d'uomini devoti all'antico regime, ostili al nuovo, pronti a pigliare qualunque occasione per rovesciarlo.

Così, o signori, il Governo del Re nel suo nascimento si trovò a fronte di due eserciti disciolti, entrambi ostili. E qual forza ebbe il Governo del Re nel suo inizio in quelle provincie? Pochi nella capitale dell'antico reame e la guardia cittadina.

Indarno si chiesero, e più volte, soldati ed armi; si diceva, ed era vero, che non si poteva disporre di altri soldati fuori quelli occupati presso Gaeta.

Indarno richiesi io stesso con voce commossa e supplicante il ministro Cassinis, nel punto in cui egli partiva da Napoli, perché si mandassero in quelle provincie almeno dei binieri.

Certo fu in allora impossibile al Governo centrale di esaudire questi voti; ma è certo pure, o signori, che se il Governo in quelle provincie non cadde né si sfasciò, non ne ebbero merito coloro a cui era affidata l'amministrazione,

ma ne ebbe merito la patriottica e non mai abbastanza lodata guardia nazionale di quelle provincie, ne ebbero merito le popolazioni di quei paesi che, sorde agli eccitamenti di rivolta che partivano da Roma e da Gaeta, mai non si mossero.

La forza, o signori, non serve già per usarne contro i petti degli inoffensivi cittadini, non è solo destinata a reprimere, a costringere i ricalcitranti, essa ha pure un più alto e più nobile ufficio, essa serve ad ispirare nelle moltitudini, a rinforzare il sentimento dell'ordine e del rispetto alla legge, serve ad incoraggiare l'onesta maggioranza, a intimidire i tristi e a spaventarli. Ora la mancanza di forza nel Napoletano, cioè in un paese in cui il Governo non si era mostrato mai altrimenti che con atti di forza, ingenerava nell'animo de' più l'opinione della debolezza e della fiacchezza del Governo e dava baldanza al partito borbonico. Signori, se i borbonici in ristretto numero pur hanno osato tanto, di questo ardimento fu sola «ansa l'opinione della debolezza del Governo.

E questa debolezza si manifestò anche colla lentezza dell'azione governativa; altro errore gravissimo. Un Governo il quale succeda ad una rivoluzione, non può salvarsi che con un sol mezzo, facendo succedere alla mobilità degli impeti rivoluzionari la rapida azione amministrativa.

Signori, volete che vi enumeri i casi nei quali l'azione del Governo fu in quel paese lentissima? Una lunga serie avrei dà citarne; mi limiterò tre soli.

Dal mese di dicembre si parlava di organizzare e di agguerrire la guardia nazionale: venuto qui in gennaio, anch'io ripetetti più volte in quel mese e nel successivo caldissime istanze su questo proposito. Appena nel mese di giugno si spedirono alcuni organizzatori; forse a quest'ora non sono ancora pienamente armate le guardie nazionali di quel paese.

Nel 17 febbraio si pubblicavano le leggi colle quali erano soppresse le comunità religiose; rimasero inconseguenza una quantità di frati e di monache incerti del loro avvenire, e i loro creditori, i loro aderenti, le loro famiglie, i loro coloni, e tutto insomma quel mondo, che in Napoli non è piccolo, che aveva rapporti e aderenze con questa estesissima famiglia, rimase in sospeso, e la sospensione ha duralo otto mesi, causa d'infinite querele, causa di gravi dolori! (Sensazione)

Ci erano molli creditori dell'amministrazione della casa reale; i beni della casa reale si sono spartiti tra il demanio pubblico e la casa reale; ma i creditori di piccole somme avevano bisogno di essere pagati; la somma totale credo che fosse di ducati 400, 000. Ebbene, i creditori si rivolgevano alla casa reale, e la casa reale li rimandava al demanio; si rivolgevano al demanio, e il demanio alla casa reale. (Si ride) Non si era sciolta, non si scioglieva mai una questione, dalla quale dipendeva l'irrequietezza, l'ansia di una innumerevole quantità di famiglie defraudale dei loro diritti, e forse anche del loro paese.

Questi errori, o signori, indebolivano il Governo in quella provincia; vi erano altri errori che irritavano il paese.

lo ho detto sin da principio che la stella polare dei nuovi reggitori doveva essere l'unità d'Italia.

Vi sono alcune idee che possono rimanere sepolte nella coscienza degli uomini per secoli; ma, una volta che appaiano sull'orizzonte, attirano a sé con incessante forza gli sguardi e gli affetti di tutti.

Tale è l'idea dell'unità italiana.

Essa sfolgorava la prima volta nei fatti del 188, quando gl'Italiani di tutte le provincie confondevano il loro sangue per la causa della indipendenza d'Italia.

114 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Essa ritornò ad apparire come sole splendidissimo nel 1860; ed ora, o signori, non v'è forza umana che possa annebbiarla. Innanzi a questo sole si sfatano tutte le armi della diplomazia; vengono meno tutti i sogni dei separatisti, degli autonomisti, dei federalisti; svanisce e si dilegua persino l'ingegno eminente dell'illustre deputato Ferrari.

Sì, o signori, coloro che riguardano l'unità d'Italia come una pena, sei sappiano, sono tutti condannati a subirla. (Segni d'approvazione)

Ma, o signori, quando si viene nel campo dei fatti, quando si cerca d'incarnare quest'idea, sono possibili e, dirò, legittime le dubbiezze e le contraddizioni nelle opinioni.

Anche qui due sistemi opposti si presentavano: quello di conservare tutto l'antico, ovvero quello di distruggere ciò che esisteva nelle provincie che si univano alle altre provincie italiane.

Conservare quelle istituzioni e quegli ordini che erano puntello di antiche abborrite dominazioni sarebbe stato assurdo. Egualmente sarebbe stato assurdo conservare quelle istituzioni e quegli ordini i quali erano una negazione assoluta dell'unità d'Italia.

Ma per tutto ciò che non dipendeva dalle necessità politiche in cui si trovava e si era messo il paese, ci bisognava di molli studi ed un concetto assennato per giudicare se conveniva distruggere quelle istituzioni, o se conveniva invece rispettarle. Dislogando e rompendo le istituzioni d'un paese senza beneficio dello Stato, si affralisce, non si accresce la forza dello Stato medesimo. Quel dislocamento rompe una vita, la quale, fino al punto in cui non è pregiudicievole alla vita generale, deve rispettarsi e mantenersi.

Ora io domando: con qual vantaggio per l'Italia, con qual benefizio per la patria comune, si è mutata la condizione della scuola militare di Napoli? Essasi è ridotta ad una scuola secondaria. Signori, il solo frutto che ne ha raccolto il Governo è stato la mala soddisfazione di quelle popolazioni. Con quale vantaggio, con quale benefizio si ordinava che uscissero dal collegio di marina parecchi alunni per l'osservanza di non so quali antichi ordinamenti? Il fatto fu riparalo dal Governo con aita lode dell'illustre generale La Marmora che ne provocava la riparazione. (L'oratore si riposa. )

Sono informato in questo punto che le lodi che io ho fatte al generale La Marmora spettano per una parte al luogotenente Cialdini per aver egli iniziata quella riparazione, ed io volentieri rendo a lui le lodi medesime che ho tributate al generale La Marmora.

Signori, vengo ora ad un altro errore, ed io ne parlo con grande rincrescimento.

Taluni forse potrebbero reputare le mie parole ispirale da' gretti sensi municipali, ma chi profondasse il suo sguardo nelle intime parti del mio animo, vedrebbe quanto esse mi costano, e come sono ispirate soltanto da amore d'Italia.

[PISANELLI. Ho detto che Napoli si sentiva umiliata]

Ho detto che Napoli si sentiva umiliata. È questa, o signori (ed io ne sono pienamente convinto), la cagione precipua del malcontento dei Napoletani.

Ciascuna borgata, ciascun paese ha le sue aspirazioni, i suoi orgogli. Si poteva credere che Napoli, la quale vanta pure tante tradizioni di nobili ingegni e di costanti martiri per la libertà, mancasse di questi sentimenti?

lo so, o signori, che i borbonici esaltano l'umiliazione di Napoli, rammentando la gloria di una menzognera autonomia, che è stato beneficio supremo mutare in quella più ampia e più splendida della nazione italiana.

Io so che tra le aspirazioni e tra gli orgogli d'ogni paese, epperciò anche del Napoletano, vi può essere qualche cosa d'irreconciliabile colle aspirazioni più alle e più nobili dell'intera nazione; ma io vi parlo solo di quelle aspirazioni, di quegli orgogli che sono legittimi, e che nessun Governo può calpestare senza danno dell'intero paese, dell'intera nazione, dello stato. Esaminiamo ora con franchezza i fatti.

Io mi sento in questo punto, o debbo immaginare di sentirmi, come nella mia propria famiglia: io parlo con pena, ma siate confidenti nelle mie parole, perché esse mi partono dal profondo del cuore.

Signori, i Napoletani pensano che di essi non siasi tenuto quel conto che credono di meritare. Io non entrerò qui a dire quale suscettività abbiano i Napoletani, quale era il conto che dovesse tenersi di loro; ma certamente, se i Napoletani costituiscono la terza parte dello Stato, se essi sono chiamati a corrispondere ai carici pubblici, come tutti gli altri Italiani, è giusto, o signori (e certamente la vostra coscienza non può sentire altrimenti), che essi concorrano anche in una parte proporzionata negli uffizi dello Stato, in quelli della pubblica amministrazione. E questo desiderio e quello voto non Io guardate come vile e spregevole. È vero, il Governo ha pagato e dà il soldo a coloro che sono stati messi fuori delle segreterie; ma non è il solo soldo che consola l'uomo; ciascuno sente anch'esso il desiderio di spendere la sua mente, l'opera sua per l'amministrazione della cosa comune. C'è dunque in questo sentimento d'umiliazione che provano i Napoletani qualche cosa, o signori, siatene pur certi, di nobile, di generoso, che il Governo dovrebbe rispettare.

Ho parlato io stesso con molti i quali fruiscono dello stesso stipendio che avevano altra volta. Ebbene, essi sono tristissimi, più tristi forse che se fossero stati destituiti. È un nobile sentimento, un nobile orgoglio che non bisogna calpestare. Fra gl'impiegati del Napoletano, quelli dell'amministrazione della marina si sono fusi con quelli delle antiche provincie; una parte di questi impiegati ha perduto il grado, ha perduto l'anzianità. È avvenuto lo stesso pei macchinisti, i quali hanno reso utili ed importanti servigi alla causa nazionale, i quali in un giorno furono costretti tutti a dare con una sola voce la loro demissione. È avvenuto altrettanto nel corpo sanitario dell'armata; è avvenuto lo stesso in tutte le amministrazioni. Vi citerò un solo esempio.

Il Ministero di grazia e giustizia si è riordinato prima che si sciogliesse la luogotenenza, e quando certo si aveva il disegno di far cessare la luogotenenza, poiché questa per intendimento del Governo dovea finire. Ebbene, si sono nominati sei capi di divisione nel Ministero di grazia e giustizia. Avete voi un Napoletano tra questi? No, signori. Avete voi nel Ministero di grazia e giustizia impiegati abili che possano informare il Ministero delle tradizioni, degli usi, dei regolamenti, degli antecedenti di quel paese intorno a ciascun affare? No.

Molti diranno che questi non sono che spregevoli particolari.

Sappiatelo, signori, non ne avrei parlato, se avessero potuto così considerarsi. In questi particolari è riposta una gran parte del segreto dell'amministrazione delle provincie napoletane. Come volete che si persuadano quelle provincie che i loro interessi saranno studiali, che le loro ragioni saranno valutale, quando i loro affari sono commessi a persone che non hanno intima e diretta conoscenza delle cose loro?

Potrei rinforzare questo mio argomento con fatti, con gravi fatti. Mi dispenserò dal farlo; ma, s'io fossi provocato su questo punto, potrei mostrare di quanto pericolo,

115 - TORNATA DEL 3 DICEMBRE

di quanto danno è tornato all'amministrazione del Napoletano il non essersi circondate le persone che sono al potere di abili ufficiali di quelle provincie.

lo so le difficoltà che questo desiderio crea, e lo so, perché, avendo avuto una volta l'onore di parlare col presidente del Consiglio dei ministri, prima che io muovessi per Napoli, vidi e mi consolai che era nella sua mente quel concetto medesimo che era nella mia, e che egli espresse con una forma, se non erro, corrispondente alla seguente, cioè che le regioni che l'onorevole Minghetti aveva proposto nelle Provincie, avrebbero dovuto trasferirsi nel Governo centrale. Quindi io sono rimasto meravigliato, quando ho visto questo desiderio non ancora adempiuto. Comprendo che in un paese, il quale è stato solcato da una profonda rivoluzione, s'incontrano mille difficoltà per attuare un concetto giusto, sapiente, sopratutto quando si tratta di questioni personali. Ma io rispondo a tutto ciò con un solo fatto. Io veggo un Ministero, nel quale le popolazioni napoletane sono rappresentate, e aggiungerò che da quel Ministero sono già spediti gli affari di Napoli con tanta sollecitudine, come non lo sono stati mai sino al presente.

Signori, noi siamo qui raccolti, Piemontesi, Toscani, Lombardi, Emiliani, Napoletani, Siciliani, tutti uniti in un solo pensiero ed in un solo affetto, quello d'Italia; però siamo tutti decisi a sacrificare le aspirazioni municipali innanzi all'augusto altare della patria comune; ma noi non potremmo sopportare, né volere che un Governo prediligesse una provincia a discapito di un'altra. Noi Io combatteremmo, non in nome della provincia oltraggiata, ma in nome dell'Italia (Bene!), perché con questo procedere non si farebbe che creare antipatie ed antagonismi, che noi abbiamo debito di soffocare e di spegnere. (Bravo!) E nell'adempimento di questo nostro doloroso dovere concorrerebbero primi i rappresentanti di quella provincia che si credesse privilegiala, massimamente se quella provincia fosse l'antico e generoso Piemonte; perché i nobili e costanti sacrifizi da esso durati, il sangue da esso sparso sui campi di San Martino e di Palestro, il senno civile con cui sfatò tutte le antipatie dell'Europa e seppe acquistarsi l'ammirazione del mondo civile, non ebbero altro scopo che quello di riunire tutti gli animi degl'Italiani, di far risorgere questa caduta fra le nazioni, l'Italia. (Bravo. Benissimo!)

Però io con fiducia, e come ad antichi e fidi amici, mi rivolgo segnatamente ai rappresentanti del generoso popolo subalpino, e dico ad essi: pensate alle «ose napoletane, pensateci con affetto!

Signori, i fatti da me finora esposti spiegano i mali che si avvertono nel Napoletano, perché essi contengono la cagione di quei mali. Certo una gran parte di quei mali era inevitabile, era necessaria; ma un'altra parte dipese dagli errori del Governo; e questa parte è pure per lo più a carico delle precedenti amministrazioni.

Non sarà inutile ora, né per la Camera, né per quelle popolazioni, il discorrere di alcune altre spiegazioni che si danno di questi mali da alcuni e che da parecchi Napolitani sono accolte.

Un paese soggetto per lunghi anni ad un feroce dispotismo si persuade di leggieri che ogni bene ed ogni male deriva dal Governo, e come si trova disposto e pronto ad osteggiarlo e maledirlo, cosi recalcitrante ad appoggiarlo e sostenerlo.

Quando un Governo si segrega dal paese, la sola forma sotto cui si concepisce la virtù politica è quella della guerra al potere, e le tradizioni gloriose di quelle provincie sono precipuamente quelle del martirio politico.

Però non è da meravigliarsi, se in quel paese si attribuisce tutto il male che fin qui è avvenuto al Governo, ed in conseguenza che di ogni questione se ne forma una questione personale, ed ogni rimedio si trova nel mutamento del Governo e delle persone che amministrano la cosa pubblica.

Ho detto una volta, lo ripeterò ancora: le Corti criminali non vanno; vi sono alcune Corti criminali, la cui maggioranza è composta di nuovi magistrati; ve ne sono alcune, la cui maggioranza è composta di antichi magistrati; non vanno né le une, né le altre; ve ne sono alcune in cui i magistrati sono tutti nuovi, non vanno neppur esse.

L'ansia del mutamento del personale non scema per questo, ma i mutamenti che si seguono non risanano i mali che si lamentano.

Io dico, o signori, che se c'entrano per alcuna parte le persone in quei mali, e c'entreranno pure per una parte, nondimeno è certo che quei mali procedono dalle cause che ho dianzi esposte, le quali occupano tutti gli spiriti, inviluppano, inceppano tutta l'amministrazione. Per me non conosco alcuna amministrazione che vada; ciò che osservo nell'amministrazione della giustizia, lo osservo nell'amministrazione civile, lo osservo nell'amministrazione dei dazi indiretti e in tutte le altre amministrazioni, e sono costretto a persuadermi che il male discende da un principio più alto, più generale, il quale non può esser vinto in un tratto dagli accorgimenti delle persone e dal loro buon volere. Quel principio è il contenuto fatale di tutti i fatti che ho innanzi esposti.

La seconda spiegazione dei mali del Napoletano è quella data da una parte politica, la quale ha solamente fede nella rivoluzione. Questa parte politica volge i suoi occhi sopra tutta Italia, ed abbraccia col medesimo sguardo i lamenti di Napoli, il tutto di Roma, le miserie di Venezia.

Unico rimedio a tutti questi mali, per essa, è la rivoluzione.

Signori, anch'io ho fede, tutti noi abbiamo fede nella rivoluzione, tutti noi portiamo improntato nell'animo il suggello della rivoluzione francese, il cui concetto ci accompagna sempre e dovunque; ma non dobbiamo dimenticare che l'Italia ha dato al mondo lo spettacolo nuovo di una rivoluzione capitanata da un principe magnanimo, aiutata dal Governo, fatta e compiuta con tutte le forze della nazione; e che per ciò solo questa rivoluzione non è fallita, per ciò solo non si è perduta.

Noi abbiamo bisogno d'ordine, abbiamo bisogno di forza; la rivoluzione non calma, eccita le passioni; noi abbiamo bisogno di soddisfare e di comporre interessi materiali già. troppo scossi, già troppo laceri, già troppo insanguinati; la rivoluzione produce effetti diversi. La rivoluzione permanente aliena da noi le simpatie della parte conservatrice degl'Italiani, che è pur estesa e potente; aliena da noi le simpatie di una gran parte di tutta l'Europa. Verrà il giorno in cui la rivoluzione dovrà anch'essa concorrere in aiuto della causa comune, e quando il Principe snuderà la suaspada, sortirà dal suo nido il leone di Caprera, e la sua potente voce risuonerà sopra tutti i lidi della Penisola, e l'aquila bicipite si troverà percossa da un doppio flagello. Ma, per affrettare questo tempo, noi abbiamo bisogno di forza e d'ordine; non di quell'ordine che è forma vana ed abusiva, ma di quell'ordine che è animato da tutte le menti, da tutti i voleri, da tutti gli affetti del paese. (Applausi)

[PISANELLI. La terza spiegazione è metafisica.]

La terza spiegazione è metafisica.

116 - CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1801

Le menti napoletane, o signori, per dote privilegiata, non. si contentano facilmente della osservazione dei fatti; esse, visto un fatto e studiatolo, si abitano, si sforzano a raggiungerne l'ideale, a ricercarne il principio. Ora vi dirò come parecchi ingegni di quel paese spiegano, ed in piena buona fede, tutti i mali che vi sono avvenuti. Essi dicono: il Governo piemontese aveva pronunziata la formola delle annessioni; il popolo delle Due Sicilie pronunziò la formola dell'unità italiana; sapete da che derivano tutti i nostri mali? Invece di attenersi alla seconda formola, il Governo si attiene e seguita la prima.

Evidentemente la spiegazione è fallace; la Lombardia, la Toscana, l'Emilia non potevano nel momento iniziale del regno italiano accogliere e pronunziare altra formola che quella delle annessioni; toccò alle popolazioni napoletane la felice ventura, entrando anch'esse nella famiglia italiana, di dire: l'Italia è fatta. Ma questa differenza di formola può essa portare differenza di obblighi e di diritti tra le popolazioni di un medesimo Stato? La Lombardia, la Toscana, l'Emilia, votandosi colla formola dell'annessione, pensavano di votarsi all'Italia, certe e presaghe anch'esse che l'Italia si sarebbe in breve tempo formata. Quando la popolazione del Napoletano diceva: l'Italia è fatta, non pensava al certo che questa formola potesse dar loro maggiori diritti di quelli che avevano In Lombardia, la Toscana e l'Emilia, e se i mali che ora si lamentano nelle provincie napolitane avvenissero in alcuna di queste altre provincie, potremmo noi dir loro: voi dovete sopportare, voi avete pronunciato l'annessione? (Noi no!)

Noi siamo, o signori, tutti stretti ad un patto, siamo tutti membri di una medesima famiglia, siamo entrati in questa famiglia cogli obblighi stessi, coi medesimi diritti! (Approvazione)

La spiegazione è adunque fallace, ma non sono perciò meno esistenti i mali che si cercano spiegare nel modo che ho indicato; quei mali derivano dalle cagioni che ho dianzi discorso.

E da quelle cagioni medesime deriva pure il fatto più doloroso e lamentabile che ora si osserva nelle provincie napolitane, e del quale mi sono prefisso di parlare in ultimo luogo, il (Nuovi segni di attenzione)

Quale, o signori, l'origine del Nei primi tempi della rivoluzione, parecchi, come avviene sempre in simiglianti congiunture, evasero dalle prigioni, e, temendo la persecuzione della giustizia, si rifuggiarono nelle campagne; a questi, spinti dalla medesima necessità, si aggiunsero coloro che, cedendo alle tristi istigazioni di Roma e di Gaeta, avevano tentato in alcuni comuni del regno la reazione con successo infelice.

Gli evasi dalle prigioni, i fuggitivi dalle prime reazioni, costituirono il primo nucleo del (Bene! Bellissimo!)

A questo si aggiunsero i soldati sbandati, quando, richiamati dal Governo, tenendosi fedeli ai patti già presi a Gaeta, invece di venire tra le armi italiane, accorsero sotto le bandiere di Chiavone, di Cipriano, di Crocco.

Ma, ravvisando i briganti, voi avrete ad un tempo stesso riconosciuta l'origine e la causa del

Datemi un paese scosso da una rivoluzione, a cui sia seguito lo scioglimento di un'armata, ed io vi dirò che inevitabilmente, che necessariamente voi avrete in quel paese il

Senonchè il si perpetua, il dura.

Ma non dobbiamo dimenticare, o signori, che il gio è mantenuto, è fomentato da Roma; che Francesco II manda i suoi satelliti in Malta, in Marsiglia, in altri luoghi, dappertutto in Europa, per accaparrare dei briganti, i quali piombano su quelle infelici popolazioni.

Certamente perché il si mantenga deve supporsi una certa intelligenza, una certa rassegnazione per parte de' contadini dei luoghi stessi che travaglia.

Ma questa rassegnazione dipende in parte dalle condizioni generali in cui si trova il paese. Quando gli spiriti sono turbali, è naturale che i pusillanimi si spaventino, che i tristi ardiscano ed osino.

Volete ora, o signori, rimediare al L'esposizione della sua storia mi pare che accenni ai mezzi di rimediarvi. Certamente è necessario di combattere i briganti, ma le sole fucilazioni non bastano. È necessario che la pubblica sicurezza sia organizzata, sia agguerrita in modo da prestare i suoi servizi con vigore e con attività. È necessario che la pubblica amministrazione si rinfranchi e si ristori. È necessario in ultimo che Francesco II si allontani da Roma. Ma io non posso torcere lo sguardo da questi fatti tanto dolorosi, senza tirarne pel mio paese, almeno come refrigerio a tanto dolore, quegli augurii che le stragi e le rapine non possono contaminare.

Signori, in più luoghi i briganti hanno innalzato, come a tutela delle loro nefandezze, la bandiera borbonica; chi sono stati coloro che vi sono accorsi? Quali le popolazioni che l'hanno acclamata? I loro capi si chiamano sempre Chiavone, Cipriano, Donatello; i gregari sono sempre gli evasi dalle prigioni, i fuggitivi della reazione, i soldati sbandati: essi non hanno nome, o ne hanno uno infame. Se altri nomi si contano, essi sono prezzolali stranieri che hanno venduto il loro braccio alle rapine ed alle uccisioni. (Bene!) Rifuggiti nelle campagne, essi non hanno potuto mai trovar posa. Se sono riusciti a sopraffare ed insanguinare qualche piccoli borgata, non hanno mai osato appressarsi ad una popolosa città. La guardia nazionale di quel paese, non risparmiando né disagi, né fatiche, né pericoli, li ha dappertutto perseguiti, dappertutto battuti; ed io veggo tutto il mio paese, quando mi metto innanzi agli occhi tutte le guardie nazionali di quelle provincie.

Ora questi fatti non bastano a persuadere i più schifi, che le popolazioni del Napoletano sono assolutamente, decisamente avverse alla causa del Borboni?

Se taluno ha potuto compiangere la caduta d'una dinastia, con qual animo d'ora innanzi, con qual pudore potrebbe mostrare questo compianto per una dinastia che cerca riconquistare il paese per mezzo del Per una dinastia che anche da lontano non ispira che consigli di rapina e di stragi? (Applausi) Io dico che i Napolitani tutti vorranno divenire ciechi, innanzi di veder sventolare sul loro capo quella bandiera che fu contaminata ed insanguinata da Chiavone e da Cipriani! (Bravo! Bene!).

Signori, io ho esposti i mali; l'esposizione dei mali accenna direttamente ai rimedi, che, secondo me, dovrebbe il Governo apportare. Il Governo dovrebbe dar soddisfazione alle legittime istanze di quelle popolazioni; dovrebbe stabilire con mano provvida un servizio compiuto di guardie di pubblica sicurezza; dovrebbe promuovere con sollecitudine la prosperità morale e materiale di quelle provincie, promovendo l'istruzione pubblica e i lavori pubblici. Per estinguere il dovrebbe inoltre mandare in quelle provincie una mano considerevole di dovrebbe gridare costantemente e' ad alta voce: Roma! Roma! Roma!

117 - TORNATA DEL 3 DICEMBRE

Si, o signori, noi aneliamo a Roma, non solo perché lì ci richiamano le grandi memorie del passato, ma ancora perché

Armi, dunque, armi: è questo un voto che parte da tutti i banchi della Camera, ed a cui certo il Ministero non fallirà.

Ma, o signori, noi non dobbiamo obbliare che abbiamo bisogno di una forza più potente di quella delle armi, e che non dobbiamo domandare che a noi stessi quella dei nostri voleri.

SI, o signori, al risorgimento d'Italia concorsero le nobili prove di Palestro e di San Martino, di Castelfidardo e di Calatafimi; ma ciò che ci acquistò le simpatie dell'Europa, ciò che ci valse l'aiuto del mondo civile, fu veramente il senno che mostrarono gl'Italiani, la costanza nel loro volere. Continuiamo nella medesima via; se noi avremo un volere costante e deciso, se noi mostreremo che siamo risoluti a qualunque costo; non ostante qualunque sacrificio, non ostante qualunque pericolo a voler compiere l'Italia, non tarderà il giorno in cui noi vedremo sventolare sul Campidoglio la bandiera italiana, risorgere l'afflitta Venezia, e tutta l'Italia degna de' suoi alti destini. (Benissimo! Bravo! Applausi)

COMUNICAZIONE DE' DOCUMENTI RELATIVI

ALLA VERTENZA COLE A SPAGNA.

PRESIDENTE. II presidente del Consiglio ha facoltà di parlare per fare una presentazione.

RICASOLI B, presidente del Consiglio e ministro per gli affari esteri. Ho l'onore di deporre sul banco della Presidenza i documenti relativi alla vertenza tra il Governo italiano e quello di Spagna intorno agli archivi.

PRESIDENTE. La Camera dà atto al signor ministro della presentazione di questi documenti, che saranno stampati e distribuiti.

La seduta è levata alle ore 5 ½.

Ordine del giorno per la tornata di domani:

Seguilo delle interpellanze al Ministero intorno alla questione romana ed alle condizioni delle Provincie napolitane.

118 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

TORNATA DEL 4 DICEMBRE 1861

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE TECCHIO, VICEPRESIDENTE.

SOMMARIO. Omaggi. = Lettera del ministro per le finanze per la nomina della Commissione di vigilanza sul debito pubblico. - Proseguimento della discussione intorno alla quistione romana, ed alla condizione delle provincie napoletane - Discorso del deputato Ricciardi contro gli atti del Ministero, e sua proposta di trasporto della capitale a Napoli - Spiegazioni personali del deputato Massari - Discorso in merito, del deputato Rattazzi - Spiegazioni personali dei deputati Pisanelli, Ricciardi e Rattazzi - Si rinvia a domani il discorso del deputato BonCompagni.

La seduta è aperta alle ore una e mezzo pomeridiane.

MASSARI. segretario, legge il processo verbale della precedente tornata.

NEGROTTO, segretario, dà lettura del seguente sunto di petizioni (1):

7620. Capozzi Francesco, da Mordano, provincia di Bologna, assessore municipale e capitano comandante la guardia nazionale, rappresenta la convenienza che per legge si determini la misura della sopratassa municipale rustica ed urbana, in guisa che risulti sempre minore della dativa del quinto o del sesto.

7621. Il Consiglio municipale e il Capitolo di Monteroduni, circondario d'Isernia, provincia di Molise, fanno istanza perché quel comune sia ripristinato in capoluogo di mandamento.

7622. Giovanitti Marcellino, da Reggio di Calabria, destituito dall'impiego che aveva presso quella segreteria di governo, ora di prefettura, chiede di essere riammesso.

7625. Arlia Costantino e altri 13 cittadini autori, editori e librai napoletani, reclamano contro alcuni provvedimenti emanati dalle luogotenenze di Napoli sulla proprietà letteraria.

7624. Il Consiglio municipale di San Nazzaro e Calvi, provincia di Benevento, chiede venga costrutta la strada rotabile della Serra,

(1) Petizioni sprovviste, dei necessari requisiti per essere riferite, giunte alla Camera dal U novembre al dicembre.

Andrizzi Gaetano, da Catanzaro, già guardia doganale.

Altamura (Sei abitanti di).

Astarita Pietro Paolo, da Napoli, già pratico di pianta In chirurgia.

Buonoconto Michele, da Castellamare.

Boivin Giovanni, da Milano, pensionato.

Brilli Ottavio, da Rimiri.

Ciampi abate Pasquale, curato di Montefusco.

Crociferi (I padri), di Napoli.

Cornetti dottore Ferdinando, da Bologna, già cancelliere sostituito a Poggio Mirteto, già potestà giusdicente in Molinella, ecc.

Donadio Michele, da Manfredonia, ufficiale telegrafico.

De Francesco Leucio, da Atessa.

Eaperti Filippo, da Barletta, già capitano in ritiro.

Falcone Vincenzo, da Teramo, guardia di riserva nel dasl indiretti.

Grimaldi Antonio, da Porghellce.

deliberata dal Consiglio provinciale di Avellino nel 1845; e da questa provincia, alla quale il comune ricorrente prima apparteneva, sia restituita la somma a tal effetto riscossa.

ATTI DIVERSI.

PRESIDENTE. Il signor deputato Scarabelli fa omaggio di un esemplare della Storia del cardinale Giulio Alberoni, scritta dall'abate Stefano Bersani, e di alcune parole sullo stesso oggetto dell'offerente.

Molinari Enrico, capitano marittimo, fa omaggio di dodici esemplari di un suo opuscolo: Considerazioni del professore Boccardo intorno alla traversata ferroviaria della città di Genova.

De Stefani Nicolosi avvocato Giovanni, da Catania, fa omaggio di cinque esemplari di un suo scritto sullo stato economico della Sicilia.

CHIAVES. Domando di parlare.

PRESIDENTE. Il deputato Chiaves ha la parola sul sunto delle petizioni.

CHIAVES. La direzione generale della società d'assicurazione mutua contro i danni della grandine, istituita a Milano, ha presentato una petizione al u°7618, colla quale

Kalotta Giuseppe, ungherese, già commesso doganale in Paola.

Marzatico Luigi, da Napoli, scrivano.

Macinato (Gl'impiegati del soppresso dasio sul), dell'Umbria.

Mercuri Giovanni, da Osimo, ispettore sedentario del soppresso dazio sul macinato.

Mannarino padre Gaetano, da Milazzo.

Marini sacerdote Lorenzo, da Corigliano (Rossano).

Piccini avvocato Arcangelo, da Reggio.

Rongio Masserano (I proprietari di).

Russo Francesco, da Mongiuffi Helia (Taormina).

Scanni Eugenio, da Bari, già cancelliere sanitario,

Sorbille Giuseppe, da Brazxano, dottore in medicina e chirurgia.

Servi di pena (i), delle vicarie di Palermo.

Scherlni Gennaro, da Napoli, già sottotenente nel ISSO.

Schiraldì Michele, da Foggia.

Scheopflein Giorgio, da Borringen (G. D. di Baden).

Scozzatane sacerdote Antonio, da Napoli.

Volpe Giuseppe, da Villa Ili! (Castiglione della Valle), sottotenente nella guardia nazionale.

Zlrilli Marullo Giuseppe, da Milazzo.

119 - TORNATA DEL 4 DICEMBRE

domanda alla Camera che la società predetta non sia compresa tra quelle che sono tassale nel progetto di legge presentato dal ministro delle finanze solle società commerciali, industriali e d'associazione, e salta tassa del bollo.

Siccome gli uffizi hanno già nominato una Commissione, la quale è incaricata dell'esame di questo progetto di legge, cosi io pregherei la Camera, perché, decretata l'urgenza di questa petizione, sia la medesima trasmessa alla Commissione che ha incarico di esaminare quella proposta di legge.

PRESIDENTE. Se non v'è opposizione all'istanza del deputato Chiaves, la petizione 7618 sarà inviata alla Commissione incaricata dell'esame di questo progetto di legge.

GUERRIERI. Prego la Camera di dichiarare d'urgenza la petizione 7615. Essa è sottoscritta da 500 cittadini dell'isola d'Elba, che domandano sia parificata quell'isola alle altre parti della Toscana rispetto al regime delle miniere. (È decretata d'urgenza. ) Il ministro delle finanze scrive:

Ad oggetto che possa essere ricostituita la Commissione che, giusta la legge 10 luglio 1861, è destinata alla vigilanza dell'amministrazione del debito pubblico, il sottoscritto porge preghiera alla S. V. onorevolissima, acciocché favorisca promuovere dalla Camera dei deputati la nomina dei tre membri che, a senso dell'articolo 6 della presentata legge, devono far pa»te della Commissione medesima; ed a voler indi compiacersi di partecipare a questo Ministero, per gli ulteriori provvedimenti, i nomi degli eletti.

PRESIDENTE. La nomina di questa Commissione sarà posta all'ordine del giorno, e domani, all'aprirsi della seduta, i signori deputati deporranno nell'urna la loro scheda contenente i nomi dei membri che dovranno farne parte.

PRESIDENTE. L'istanza fatta ieri dall'onorevole deputato Gallenga è esaudita. Vengono in questo punto distribuiti i rendiconti dei dibattimenti seguiti ieri in questa Camera.

PISANELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

PISANELLI. Prego la Camera di dichiarare d'urgenza la petizione 7610, colla quale Zunino Stefano, da Pontinvrea, chiede che suo figlio Giuseppe, chiamato a far parte della leva del 1860, venga, secondo la legge, esentato dal servizio militare. (È decretata d'urgenza. )

SEGUITO DELLA DISCUSSIONE INTORNO ALLA QUISTIONE ROMANA

ED ALLE CONDIZIONI DELLE PROVINCIE MERIDIONALI.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno chiama la continuazione delle interpellanze al Ministero intorno alla questione romana ed alle condizioni delle Provincie napolitane.

La parola spetta al deputato RICCIARDI.

RICCIARDI. Io credo anzi tratto necessaria una dichiarazione.

I miei discorsi, dicono alcuni fra i miei avversari politici, piacciono all'armonia (Si ride); ma e' non riflettono che io siedo nell'opposizione, e che nell'opposizione milita altresì L'Armonia; il perché talora le armi adoperate da me servono all'armonia, e viceversa; con questo grandissimo divario, o signori, che L'Armonia ha uno scopo parricida, quello di disfare l'Italia e di ricondurla sotto le antiche tirannidi; dov'io, se il Ministero combatto, lo combatto perché mi sembra correre una falsa strada, una strada contraria affatto agl'interessi d'Italia.

I miei detti suoneranno forse un po' acerbi; ma bisognerà tollerarli, siccome si tollera la mano terribile del chirurgo, il quale, chiamato a sanare una piaga di malvagia natura, vi adopera il ferro ed il fuoco.

Onorevoli colleghi, io sento fin da questo momento il bisogno di una gran libertà di parola (Rumori); ed aggiungerò che sarebbe tempo oramai di dar bando alle misere reticenze, alle piccole ipocrisie, indegne di un Parlamento italiano. (Oh ohi rumori)

PRESIDENTE. (Interrompendo) Qui non vi ebbero mai né reticenze, né ipocrisie.

Prego l'oratore di continuare la sua discussione, senza credere che in questo recinto ci siano mai stati impedimenti alla libertà della discussione. Fu sempre ed appieno libera la parola. Tutti gli uomini che ebbero l'onore di salire su questo seggio hanno sempre mantenuta ai singoli deputati, qualunque fosse la parte della Camera a cui fossero ascritti, amplissima la facoltà di esprimere le loro opinioni e i motivi del loro voto.

RICCIARDI. Perdoni, io riconoscerò due freni al mio dire, quello del mio giuramento, giuramento che prestai il giorno 14 marzo, giorno in cui proclamammo unanimi il Re d'Italia; l'altro freno sarà la memoria del plebiscito del 31 ottobre 1860, in cui gl'Italiani del mezzogiorno proclamarono l'Italia una ed indivisibile sotto lo scettro di Vittorio Emanuele. Credo che mantenendomi in questi limiti l'onorevole presidente non abbia diritto di chiamarmi all'ordine.

Ieri l'altro e ieri parecchi fra gli oratori che mi precedettero citarono alcune parole del conte Di Cavour. Voglio anch'io ricordare una sua confessione, tutt'altro che diplomatica, a proposito dei documenti presentatici dal Ministero sulla quistione romana. Il conte Cavour ci diceva un giorno, con quel suo sorriso sardonico: i documenti più importanti non sono quelli a cui si dà pubblica luce.» Per conseguenza io non mi fermerò punto su quei documenti, e molto meno sulla lettera al Santo Padre, la quale invero mi ha prodotto lo stesso effetto che produce in me la lettura degli scritti di monsignor Liverani o del padre Passaglia.

Io parlerò in primo luogo della quistione generale, quindi scenderò alla quistione speciale delle provincie napoletane, la quale, siccome diceva l'onorevole Massari ieri l'altro, non esiste; ma io credo che esista pur troppo, che esista tanto, che assorbe in certo modo la quistione generale. Certo, tutti siamo unanimi nel voler giungere il più presto possibile al compimento dell'impresa italiana, per mezzo dello scioglimento delle quistioni di Roma e Venezia.

Ora io credo che bisognerebbe cominciare dall assodare questi due punti:

1° Non dover noi tentare, e neppur pensare a tentare l'impresa della Venezia, se non quando avremo almeno 500000 soldati effettivi, con cavalli ed artiglieria in proporzione;

3° Non poter noi, né dover far fondamento se non in noi soli!

A questo riguardo concordo interamente nella sentenza dell'onorevole mio amico Musolino; solo in questo da lui dissento, ch'egli crede gli altri potentati, salvo la Francia, favorevoli all'unità italiana. Io credo invece che noi non possiamo far fondamento che nell'alleanza morale dei popoli. Quanto a coloro, da cui dipendono l'armi e i cannoni, e' ci sono tutti più o meno nemici. Non aggiungerò se non due parole all'utilissimo corso storico, fattovi ieri dal mio collega Musolino; ma in primo luogo credo necessario dover dichiarare la mia simpatia profonda per la nazione francese; per la Francia, dalla quale bo ricevuto affettuosa ospitalità dorante tutta la mia vita esulante; per la Francia, in cui nacquero le mie figlie;

120 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

per la Francia. la quale versava per noi il sangue suo più generoso a Magenta ed a Solferino; ma la Francia e colui che la regge supremamente, la Francia e colui, nelle cui mani quel popolo generoso ha abdicato il suo libero arbitrio, non sono la medesima cosa.

Ora per me sta che Napoleone non vuole punto né poco quello che noi vogliamo. Se lo volesse, anche lasciando a Roma i suoi soldati per proteggere il Santo Padre nell'esercizio de' suoi diritti spirituali, potrebbe esigere ed ottenere assai di leggieri che Francesco II si allontanasse da Roma, ed ancorché volesse lasciare Francesco II a Roma, potrebbe benissimo, e di leggeri otterrebbe che da Roma non s'introducessero nel ex-reame di Napoli briganti, munizioni, oro ed armi; basterebbe a ciò un semplice cordone di truppe francesi. Essendoci in Roma 20 mila soldati circa, sarebbe cosa facilissima l'ottenere quello che io dico.

In terzo luogo non vedremmo a Viterbo quello che ora vediamo.

È noto, o signori, che la nobile città di Viterbo proclamava unanimemente l'Italia una e Vittorio Emanuele.

Il duca Cesarini Sforza era stato mandato commissario regio in quel luogo. Alcun tempo dopo arrivano le truppe francesi e ristabiliscono il potere del Santo Padre; quindi più di 700 cittadini furono costretti a emigrare.

Voi dovete rammentare una petizione dei cittadini di Viterbo, presentata in quest'aula dall'onorevole nostro collega Macchi.

Da quel giorno, o signori, cominciarono le più crude persecuzioni contro tutti i liberali, e liberali sono tutti in Viterbo, ed ora queste persecuzioni si fanno all'ombra della bandiera francese!

Dunque Napoleone III non è nostro amico.

Rammenterete altresì non aver egli voluto ricevere la petizione dei cittadini romani. Egli dunque non vuole uscire da Roma.

Ora, mi direte voi, in che modo il faremo uscire di Roma?

Capisco che qui sta la quistione, e che lo scioglimento di essa non dipende né da voi, né da me.

Noi non abbiamo se non due vie, la via morale e la via materiale.

La via morale consiste nel protestar fortemente ed unanimemente.

Ora il Ministero impedì queste proteste per ogni dove. Dobbiamo quindi afforzar le proteste colla pressione morale, da esercitarsi non solo dalla nazione italiana, ma da tutte le nazioni europee, sull'animo dell'Imperatore; ma afforzarle soprattutto armando, armando, armando. Finché non avremo tanti soldati da poter tenere tutt'altro linguaggio di quello che abbiamo tenuto finora, io vorrei che i signori ministri si astenessero da qualunque pratica, poiché nulla è più dignitoso in simile congiuntura quanto il silenzio.

Veniamo ora al capo importantissimo dell'armamento.

Bisogna, o signori, dire le cose siccome stanno; noi non abbiamo che 145 mila soldati effettivi atti ad entrare in battaglia; eppure nel bilancio del 1862 sono inscritti 320 milioni di lire! Ben so che l'onorevole ministro della guerra sta per ordinare nuovi reggimenti, nuove batterie, nuovi squadroni di cavalieri; ma questo so pure, che grande è la penuria dell'erario; ma questo so pure, che la leva in varii punti d'Italia è difficilissima, nelle provincie napoletane in jspecie; anzi la leva, al presente, è in quelle provincie, secondo me, una misura imprudente. Io poi credo, o signori,

che non avremo mai un esercito veramente compatto, se non quando avremo fuso in un solo elemento tutti gli elementi militari italiani.

Mi permetterete, o signori, d'insistere sopra questo soggetto gravissimo. L'esercito è oggetto per me d'immenso amore, perché nell'esercito sono tutte le nostre speranze; ed io vorrei che l'Italia potesse avere tre o quattrocento mila soldati il più presto possibile; ma non basta lo avere un esercito numeroso, bisogna averlo compatto, e moralmente compatto, il perché bisogna, ripeto, fondere e riunire tutti gli elementi italiani, bisogna assolutamente conciliarli in un solo.

Io non debbo tacervi che grandi lagnanze mi son pervenute.

Vi dirò, in primo luogo, che molti credono che la mia voce abbia sull'animo vostro un effetto che non ha punto, e che in conseguenza molti vengono a visitarmi, molti sono quei che mi scrivono. Potrei mostrarvi un fascio immense di lettere di ufficiali, cosi garibaldini, come dell'ex-esercito borbonico.

Quantunque io sappia che la mia voce non ha grande influenza sull'animo vostro, io non cesserò dal propugnare gli interessi di tutti coloro i quali mi recano delle lagnanze che io creda giuste.

Vi dirò, per esempio, che moltissimi ufficiali dell'ex-esercito borbonico si lagnano altamente di questo, che la capitolazione di Gaeta sia stata violata a loro riguardo, mentre fu rispettata, e fedelmente rispettata, riguardo agli ufficiali stranieri, sia bavaresi, sia svizzeri. Su di ciò io richiamo tutta l'attenzione del ministro della guerra, nonché dell'onorevole Menabrea, il quale, col generale Piola, firmò quella capitolazione.

Saprete, o signori, che il numero degli ufficiali dell'ex-esercito borbonico ammontava a nulla meno che a 3681. Bisognerebbe verificare quanti fra costoro sono stati collocati in attività, quanti in aspettativa, quanti in disponibilità. Se io debbo giudicare dai lamenti che mi son pervenuti all'orecchio, debbo credere che appena cinque o sei centinaia furono posti in attività.

Veniamo ora ai sott'ufficiali.

Il numero dei sott'ufficiali di quell'esercito di centomila uomini, ora distrutto, ammontava a 12226, gioventù intelligente e bellissima, la quale, io ne son certo, fusa nei battaglioni italiani, si sarebbe condotta egregiamente e sarebbe stata anche utilissima in questo, che avrebbe in certo modo fatta una propaganda italiana in Napoli, poiché costoro, scrivendo alle loro famiglie, avrebbero potuto dire il modo lodevole in cui furono trattati ed avrebbero distrutto alcuni pregiudizi che regnano in quelle provincie.

Su questo capo importante io richiamo tutta l'attenzione dell'onorevole ministro della guerra, quei giovani valorosi non altro chiedendo che di militare sotto la bandiera italiana.

Quanto all'esercito meridionale, credo ne sia stato parlato abbastanza, il perché io restringo a questo le mie parole, cioè che allora soltanto il nostro esercito sarà davvero potente, davvero compatto, quando coloro i quali si ebbero la ventura di combattere a Calatafimi e a Palermo, coloro i quali si ebbero la disgrazia di vestire l'assisa borbonica, ma nel loro cuore amavan pur essi l'Italia, e coloro che si ebbero la gloria di combattere e vincere a Palestro ed a San Martino, facciano una sola famiglia.

Non lascerò quest'importante argomento dell'esercito senza fare un ultimo appello alla giustizia dell'onorevole ministro della guerra.


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121 - TORNATA DEL 4 DICEMBRE

Fra gli altri richiami a me pervenuti, evvi quello delle gloriose reliquie del 1820 e 1821; pochi vecchi soldati, i quali ripetono il beneficio del decreto di Re Carlo Alberto, il quale è stato esteso alle provincie napoletane.

Invano hanno eglino reclamato; io vorrei che si facesse giustizia a questo richiamo.

Se noi vogliamo incoraggiare la gioventù a versare il suo sangue per l'Italia nell'ultima guerra italiana, dobbiamo mostrare che le ultime reliquie di quell'esercito sono anch'esse ricompensate.

Nessuno negherà la connessione strettissima fra l'esercito e le finanze; ognun sa essere inutile il parlare di armamenti e di accrescimento dell'esercito, se le finanze non lo permettono, e però mi permetterete alcune parole sulle finanze.

Il mio onorevole amico Brofferio diceva ieri che non bisogna toccare questa piaga; ma io credo in vece che la si debba toccare, io credo che si debba dir tutto, e ciò possa dirsi senza pericolo; poiché credete voi che i nostri nemici, che l'Austria non sappia sino all'ultimo scudo che abbiamo nelle nostre casse (Misteri inutili sono questi; il perché io parlerò francamente.

Certo non vi è motivo da rallegrarsi, ogniqualvolta volgasi l'occhio allo stato della nostra finanza. Ecco il quadro che ci si presenta: i cinquecento milioni del prestito da noi votato pochi mesi fa, consumati prima dell'incasso, vale a dire spesi a credito; buoni del tesoro emessi in quantità grande; impossibilità assoluta in questo momento di contrarre un novello prestito, stante il bassissimo corso della nostra rendita.

Ben capiranno, o signori, che io non posso discorrere che sui generali, non avendoci finora l'onorevole ministro delle finanze presentato i bilanci; quinci toccherò solo i punti più importanti.

Ebbi un giorno l'onore di protestare contro le maggiori spese, ma non ebbi quello di ricevere una risposta dal signor ministro: intanto queste maggiori spese non hanno fatto che crescere a dismisura, e in uno dei giornali ministeriali leggevasi, or son pochi giorni, che in un solo foglio della gazzetta ufficiale erano comparsi decreti i quali implicavano una spesa di 26 milioni non previsti in bilancio!

Citerò ad esempio l'esposizione di Firenze. Vi ricorderete che nel giorno 27 marzo attimo io fui quasi solo a prendere la parola contro l'esposizione di Firenze, perché doveva costare 700 mila lire: or bene, sapete quale sia stata la somma spesa dal Ministero? 1, 800, 000 lire! Io sono convinto che non si debba ricorrere a spese maggiori, se non nei casi di assoluta necessità, anzi di urgenza.

In appoggio di questo ch'io dice, voi vedete che in Francia, dove da dieci anni si è fatto un grande spreco del pubblico danaro, il Governo imperiale ha dovuto mettervi un argine, siccome rilevasi dall'ultima lettera dell'Imperatore al ministro Fould, la quale prescrive che non si abbia per Io avvenire a ricorrere ai così detti crediti supplementari, che corrispondono appunto alle nostre maggiori spese.

Non passa giorno in cui non ci sia nel giornale ufficiale qualche decreto, il quale non implichi una uscita di pecunia dal pubblico erario.

Avrei pure molto a ridire sulle pensioni, massime per ciò che spelta alle provincie napolitano, dove si pagano ancora grosse pensioni ai nemici della libertà e dell'Italia, mentre ho veduto negare una piccola somma di 50 lire mensili a chi ha tutto sacrificato per la causa italiana! E su questo capo delle pensioni io richiamo tutta l'attenzione del Ministero: egli promise, se non (sbaglio, di presentare alla Camera la lista circostanziata delle pensioni; io credo che, dopo un attento esame,

la Camera potrebbe trovar modo di abolirne non poche, tanto più poi che si tratta di somma ingente. Su questo punto, ripeto, vuolsi la più severa disamina.

Non parlo delle spese straordinarie fatte nei varii dicasteri: nel solo dicastero della guerra si sono profusi danari immensi, come se la capitale d'Italia dovesse perpetuarsi a Torino.

Io non so vedere veramente il perché si sieno fatte tutte queste spese. Quanto al Ministero delle finanze, le spese che ha fatte non ascendono a meno di 500, 000 lire. Signori, io credo che non si debbano fare se non le spese assolutamente indispensabili a far camminare la macchina dello Stato, a far fronte ai bisogni veri del paese, a far fronte alla estrema necessità di armare la nazione, di provvedere e allestire navigli da guerra.

Quanto a me, io sono e sarò sempre disposto a gettare nell'urna una palla nera per qualunque legge la quale non implichi spese assolutamente indispensabili.

Infine bisogna assolutamente limitare le spese; limitarle da buon padre di famiglia, il quale, se ha dieci, non ispenderà mica undici, ma cercherà di spendere solo nove e serbare il decimo pei casi straordinari; e voi ben sapete quali saranno per noi i casi straordinari.

Debbo poi dire un'altra cosa, la quale forse potrà essere utile agli onorevoli ministri, il che vuol dire che io non sono loro nemico.

I ministri sono nove.

Ora, che cosa accade? Accade un fatto curioso, cioè una strana lotta fra otto ministri ed il nono, il quale rimane solo a combattere contro gli altri. Ora come va questa cosa? Ve la spiegherò in due parole.

Ogni ministro decreta spese a suo beneplacito, senza curarsi punto di consultare l'onorevole ministro delle finanze. Ora, domando io: questo povero ministro delle finanze come può lottare contro otto ministri (Ilarità) Nessun ministro dovrebbe farsi lecita la menoma decretazione di spese, senza il beneplacito del ministro delle finanze, il quale è solo e vero giudice competente a vedere se si possa o no spendere il denaro richiesto.

Io conforto con tutta l'anima l'onorevole conte Bastogi a tener fermo, a mostrare i denti ai suoi otto colleghi. (Ilarità) Voi non dovete fare spesa veruna, o ministri, senza averlo consultato.

[RICCIARDI. Un altro po' di critica potrei fare sul capo delle indennità.]

Un altro po' di critica potrei fare sul capo delle indennità.

Queste indennità si danno con una facilità grandissima, massime nelle provincie napoletane, e talvolta non senza ingiustizia, poiché agli impiegati dell'alta Italia si danno cotali indennità, mentre agli impiegati delle provincie meridionali che vengono traslocati nelle provincie settentrionali, ch'io sappia, non se ne dà alcuna.

Di più debbo parlare contro le spese di rappresentanza. Anche di queste spese si è fatto uno spreco indicibile, cui bisogna por freno. Che importa all'Italia in questi momenti che i signori prefetti diano pranzi e feste da ballo? L'Italia ha ben altro a cui pensare! Di tali spese non vi citerò che un esempio. Il prefetto, deputato, generale La Marmora in questo momento riceve 120 mila lire all'anno per ispese di rappresentanza, oltre il suo stipendio di generale. Ora, io domando se in questi momenti si possa fare una simile spesa. E queste spese di rappresentanza esistono dappertutto: esistono a Milano, esistono a Genova, esistono a Firenze, esistono a Bologna.

Nei casi straordinari il buon padre di famiglia sopprime tutte le spese che non sono assolutamente necessarie alla

122 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

ed io vorrei che Io stato facesse il medesimo.

Restringo adunque il mio dire, quanto alle finanze, che la prima cosa debba essere la riduzione delle spese; in secondo luogo porgo di nuovo preghiera all'onorevole ministro delle finanze di presentare presto il bilancio e quella esposizione sullo stato del pubblico erario che ci ha promessa. Dirò, da ultimo, non accordarmi punto coll'opinione dell'onorevole Lanza, il quale ci diceva un giorno, non essere mica necessario esaminare il bilancio del 1861, poiché l'anno è quasiché per finire, ma essere invece molto importante lo esaminare quello dell'anno prossimo. No; noi vogliamo avere sott'occhio tutti i bilanci, quello di quest'anno e quello dell'anno venturo, che senza averli sott'occhio, in fatto di finanze, noi non possiamo se non discorrere sui generali, siccome ho fatto io. E la finanza, o signori, è la cosa più importante in questo momento, poiché, ripeto, senza denari noi non avremo esercito, e senza esercito non avremo né Venezia, né Roma.

Passerò ora all'ordinamento interno del regno.

Qui, onorevoli colleghi, la critica mi sarebbe facilissima, ma io voglio essere generoso. Non toccherò questo gravissimo capo se non in alcune parti. Non potrò fare a meno, per altro, di levare la voce contro una strana malattia del Ministero, la malattia della decretomania. (Ilarità) Non mai il giornale ufficiale ha contenuto tanti decreti quanto da un anno a questa parte; è un vero diluvio. Eppure io credo che un decreto sia cosa gravissima, e che prima di pubblicarlo debba essere ben meditato, per non esporsi a vedergli fare una pessima prova, od a non essere eseguito, siccome è accaduto più di una volta.

Io vorrei che, quando il Governo pubblica un decreto, tale ei fosse, non dico da non essere sindacato, perché opere perfette al mondo non ce ne sono, ma da poter essere fedelmente eseguito e rispettalo. E questo sarebbe nulla, se la maggior parte dei decreti in discorso non fossero profondamente incostituzionali, siccome quelli che per la più parte implicano sacrifizi pel pubblico erario, i quali non possono essere imposti al paese che dal Parlamento. Per esempio, si sono accresciute le piante di quasi tutte le amministrazioni, si sono creati impieghi nuovi; per conseguenza stipendi nuovi, per conseguenza aggravi allo Stato, che il solo Parlamento, ripeto, aveva il diritto d'imporre. La posta, per esempio, si è accresciuta in modo grandissimo, e ciò naturalmente doveva accadere; ma perché non ricorrere al Parlamento? perché non chiedere la nostra sanzione? Ora, che cosa è avvenuto? È avvenuto un fatto stranissimo; cioè che le poste, le quali in tutti i paesi del mondo sono una sorgente d'entrata, e che anche nell'antica monarchia sabauda davano danaro in copia, sono passive oramai di quasi due milioni di lire!

Un altro decreto incostituzionale, e che implicherà dei novelli aggravi, si è quello recentissimo sulle circoscrizioni giudiziarie; decreto, ripeto, incostituzionale, poiché l'onorevole guardasigilli non avea facoltà di cambiare tali circoscrizioni, ma il Parlamento sol esso.

Un altro decreto incostituzionale si è quello relativo alla abolizione di alcuni corpi religiosi ed al mantenimento di alcuni altri. Queste abolizioni e queste conservazioni sono state fatte a capriccio, dimodoché molte corporazioni abolite hanno diritto a lagnarsi. Si è voluto far per decreto quello che solo potevasi fare per legge, e cosi avete dato il diritto ai preti, ai monaci ed alle monache, che certo non vi amano, di odiarvi più sempre.

Altro torto gravissimo del Governo si fu quello di pubblicare una serie di decreti, i quali hanno per iscopo d'unificare a capriccio e a casaccio un paese diviso da secoli, un paese diversissimo d'indole e di costumi. E questo non ha certamente contribuito poco al malcontento che regna non solo nelle Provincie meridionali, ma in molte altre provincie d'Italia; ed io credo che molti fra i miei colleghi delle altre provincie d'Italia faranno eco alle mie parole.

Signori, io combatteva per l'unità italiana quando molti fra i miei onorevoli colleghi la riputavano un sogno; però, sebbene unitario da antico, non credo che si possa unificare a vapore. Quest'opera non può essere che l'effetto del tempo. Lo spirito municipale è tuttora vivace in Italia. Io non credo Io si debba accarezzare, ma credo che non Io si debba neppure urtare. Abbiamo poi delle cose molto più urgenti da fare, di quello che decretare l'abolizione di questa o quella legge, e sopratutto introdurre nel rimanente d'Italia le leggi dell'antico Stato di Casa Savoia, le quali non sono al certo le più perfette.

Ora mi permetterete una piccola digressione. Non bisogna dissimularlo, in questi ultimi mesi si è operato un fatto importante (domando alla Camera un po' di tolleranza), una reazione pressoché generale verso l'egemonia piemontese. Io non credo di poter essere accusalo di antipatia verso questo nobile paese; dirovvi al contrario che fino da' miei primi anni ebbi una grandissima simpatia pel Piemonte, e ne dirò il perché. Il primo libro che mi sia venuto alle mani fa quello delle tragedie d'Alfieri (Si ride); ebbene, nella mia mente, tuttoché fanciullesca, al leggere le opere dell'immortale Astigiano, nasceva il pensiero che un popolo, in mezzo al quale era nato Vittorio Alfieri, doveva essere un popolo forte e animoso. Amai vieppiù ancora il Piemonte, quando ne lessi la storia, quando conobbi la vita di Santarosa. Il mio amore crebbe poi sempre per questo paese quando vidi i suoi magnanimi sforzi nel 1848 e 1849; e quando scoppiò la guerra di Crimea ed i soldati piemontesi andarono in quella terra, io dal suolo straniero salutai i vincitori della Cernaia. Durante i dodici anni che il Piemonte tenne ferma ed alta la bandiera italiana io simpatizzai immensamente con esso, e nel 1859 ne fui più che entusiasta, allorché udii le vittorie riportale dai soldati piemontesi a Palestro ed a San Martino. Ma ciò non esclude che io debba esaminare con giustizia e con verità i fatti quali sono, e soprattutto questa reazione generale verso l'egemonia piemontese. E il suo perché lo sapete? perché il Piemonte, il quale ha fatto degnamente e lealmente la parte sua, iniziando l'unificazione italiana, avrebbe dovuto, invece di persistere ad assorbire, rassegnarsi a venire assorbito.

Nichelini. Né assorbito, né assorbitore.

RICCIARDI. Ora comincia un nuovo periodo, un nuovo stadio, e bisognerebbe che gl'Italiani di Piemonte fossero persuasi della necessità per essi di rassegnarsi ad essere provincia italiana siccome altre. (Mormorio) Forse gli altri Italiani s'ingannano, ma questa è una opinione radicata in essi loro, e non è certo questo l'ultimo motivo di malcontento. Rendo piena giustizia agli uomini generosi di questo paese, ma i fatti son questi. Tutto quello che vien da Torino non è ricevuto siccome il sarebbe se venisse da Roma.

Quest'opera, ch'io chiamerò assorbitrice, non è stata mai così attiva come nelle provincie napoletane. In nessun'altra regione d'Italia la mania d'assorbire del Ministero che siede in Torino si è prodotta cosi fortemente come nell'Italia meridionale. Che cosa avrebbe dovuto fare il Governo dopo il solenne plebiscito del 21 ottobre? Secondo me, l'opera sua avrebbe dovuto limitarsi a due cose.

123 - TORNATA DEL 4 DICEMBRE

In primo luogo cessare gli antichi abusi, riformando il personale degl'impiegati, con questa norma, che nei nuovi impiegati ci fossero capacità ed onestà, ed appoggiandosi principalmente sulla parte perseguitata dal Governo borbonico.

È un assioma politico, che un Governo nuovo debba appoggiarsi sulla parte perseguitata dal Governo vecchio.

In secondo luogo il Governo avrebbe dovuto applicare tutte le sue cure al riordinamento degli elementi militari del paese e delle finanze. Invece, che cosa ha fatto? Agli antichi abusi se ne sono aggiunti dei nuovi, per la ragione semplicissima che il personale degl'impiegati venne mutato a capriccio, senza norma nessuna, vale a dire alcuni impiegati borbonici sono stati cacciati via, altri mantenuti, alcuni onesti licenziati, alcuni tristi messi in loro luogo. Quanto all'esercito, ho detto che tutto fu sperperato u distrutto. Quanto alle finanze, signori, credo sappiate la penuria immensa dell'erario di Napoli, tanto Che non so quale dei precedenti oratori abbia detto ieri l'altro essersi dovuto mandare a Napoli da Torino alquanti milioni.

Come mai codesto paese, le cui finanze erano così floride, la cui rendita pubblica è salita sino al 1 18, è oggi in sì misere condizioni? (Rumori)

Quanto a me, confesso, o ministri, che nel caso rostro ordinerei un'inchiesta economica.

Ma il torto più grave del Governo nelle provincie meridionali fu quello della violazione del plebiscito.

Quest'atto solenne di un popolo di nove milioni, e dicendo nove milioni voglio parlare anche della Sicilia, venne malissimo interpretato.

Gl'Italiani di Sicilia e di Napoli non intesero unirsi al Piemonte, ma fondersi nell'Italia. (Mormorio)

Debb'esservi inoltre ben noto un decreto del prodittatore Mordini aver convocato il Parlamento siciliano, poiché si voleva far precedere al voto solenne e generale del popolo il voto della parte più eletta del paese, il voto del Parlamento, il quale rappresenta l'intelligenza del paese.

A Napoli, noi chiamati uomini del partito d'azione, noi riputati uomini rivoluzionari, volevamo che si procedesse a questo modo, cioè costituzionalmente, legalmente; noi volevamo che la dedizione si facesse per via giusta e decorosa, vale a dire mercé il Parlamento, e poi il plebiscito avrebbe sancito il voto del Parlamento.

Il general Garibaldi, questo anche forse vi sarà noto, stette lì lì per firmare un decreto concepito in questo senso; ma, per circostanze inutili a riferirsi, dovette rinunciare a questo disegno, ed allora il prodittatore Mordini dal lato suo credette dover rinunziare anch'egli a convocare il Parlamento siciliano: ma ciò non vuol dire che gl'Italiani della Sicilia e di Napoli convenuti nei comizi abbiano voluto, nel proclamare l'Italia una ed indivisibile, rinunziare alle loro antiche leggi, alle loro antiche istituzioni, (tumori. Ohi oh)

Gl'Italiani di quelle provincie sono disposti ad accettare le leggi che vengano da un Parlamento italiano convocato in Roma, ma sino a quel giorno male accetteranno le vostre leggi, (vivissimi rumori di disapprovazione dai banchi dei deputati e dalle tribune)

PRESIDENTE. Avverto l'oratore che il nostro Parlamento o sieda a Roma, o sieda a Torino, è sempre il Parlamento italiano, e la sua voce deve essere rispettata come la vera, la sacra voce d'Italia. (Prolungali applausi dalla Camera e dalle tribune)

RICCIARDI. Io rispetto altamente il Parlamento in cui ho l'onore di sedere; solo mi deve essere lecito d'interpretare le idee ch'ebbero gl'Italiani di Sicilia e di Napoli nel pronunziare il plebiscito, (voci a destra: No! no!)

Forse io sono in errore, ed allora quelli che mi combattono diranno la loro opinione, ma io son padrone di esprimer la mia. Insomma, qualunque sia la vostra opinione, la mia è questa, che il Governo italiano in Napoli fece quello che solo al Parlamento sarebbe spettato di fare. Secondo me, la maggior parte dei decreti pubblicati rispetto a Sicilia ed a Napoli sono incostituzionali, incominciando da quello del 17 febbraio di quest'anno, sino all'abolizione della luogotenenza. Io vi citerò a tale proposito alcune parole dell'onorevole Minghetti, allora ministro dell'interno.

Il nostro collega Minghetti, nella seduta del 23 marzo ultimo, dopo un lungo discorso del conte Di Cavour, e dietro alcune domande del mio amico Petruccelli e mie, rispondeva, spiegando il concetto del Ministero relativamente alla luogotenenza:

«Lo stabile ordinamento futuro di quelle provincie è riserbato al Parlamento, quando deliberi sui progetti che ebbi l'onore di presentarvi.»

Il che voleva dire che senza l'avviso del Parlamento non si sarebbe nulla innovato.

Io non credo che la luogotenenza abbia fatto grandi cose in Napoli, ma questo so bene che è stata soppressa nel momento in cui era maggiore il bisogno di conservarla, e poi è stata mantenuta in Sicilia. Ora, la Sicilia è una specie di paradiso in confronto dell'ex-reame di Napoli. perché mantenere la luogotenenza in Sicilia e abolirla in Napoli? perché abolirla in un momento in cui il generale Cialdini era popolare, in un momento in cui il generale Cialdini aveva quasi spento il

Ed eccomi ora, o signori, a parlarvi del

E prima di tutto, o signori, in risposta a quanto l'altro ieri diceva l'onorevole Massari, essere, cioè, il quasi finito, io vi riferirò la sostanza di una delle cento lettere di ricatto che potrei qui produrre.

Non ve la leggero ad literam, perché lo stile e l'ortografia sono tali che la rendono non presentabile (Ilarità); ma il senso è questo:

Il comandante della compagnia, Cola Pietro, domanda al fattore del signor Del Giudice, nostro collega qui presente, la somma di 3000 ducati, cinque rotoli di polvere, quattro vestiti di buona qualità, ed aggiunge che il panno debba essere fino, e quattro paia di stivali.

Pregherei l'onorevole Massari, dopo aver letto questo ricatto, di sottometterlo all'onorevole presidente del Consiglio dei ministri.

MASSARI. Domando la parola per un fatto personale.

RICCIARDI. Altri oratori che mi precedettero alla tribuna agitarono la quistione se il fosse vero oppure guerra civile; io credo che questa sia una discussione affatto oziosa.

Esaminiamo il fatto.

Noi abbiamo un numero considerevole di uomini, i quali vivono rubando colle armi alla mano, per conseguenza debbono chiamarsi ladri; ma d'altra parte io veggo che questa gente alza bandiera bianca, in alcuni luoghi stabilisce governi provvisorii, quantunque per brevi istanti, poi degli stranieri in numero molto considerevole, Spagnuoli, Svizzeri, Tedeschi, Francesi, fino un Belga, il conte di Trasignies, che è stato ucciso ultimamente, convengono in quelle provincie e fanno parte di quelle bande.

Io, in verità, non credo che questi stranieri, che questo conte Di Trasignies, si sieno recati colà credendo che si trat

124 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1801

Ma voi direte: abbiamo truppe bastanti per ispegnerlo.

Io vi risponderò che la truppa regolare non è bastante a spegnere il siccome già ebbi l'onore di dire al generale Cialdini fino dai primi giorni che venne a Napoli: il non può essere spento se non per opera degli uomini del paese, e soprattutto contentando il paese, e soprattutto rialzando lo spirito pubblico, e soprattutto rialzando la parte liberale, la quale è stata finora depressa; la qual cosa produsse che il partito borbonico divenisse audace oltre ogni dire.

Finora il pericolo non è stato grande, ma potrebbe divenirlo.

Non bisogna farsi illusione; in Ispagna la guerra dei Carlisti contro i Cristini cominciò precisamente siccome ora nelle provincie napoletane; vi erano poche bande che si chiamavano ed erano veramente di ladri; ma sorse un uomo di genio, Zamalacarregui, ed in breve tempo questi ladri divennero 50000 soldati agguerriti e disciplinati, che corsero fino a Madrid, sotto le cui mura fu anzi combattuta una battaglia, e se nel 1838 il generale Maroto non avesse disertata la bandiera carlista, io non so che cosa sarebbe accaduto.

Supponete che un uomo di genio sorga nel Napoletano; che cosa accadrebbe, massime se la guerra scoppiasse in sul Mincio?

Persuadetevi, o signori, che non è cosa da ridere; anzi si debbono porre in opera i mezzi più attivi per rimediarvi, e non tanto i mezzi di rigore, quanto quelli diretti a contentare il paese. Ed a proposito di questi mezzi di rigore, io non tornerò sul campo in cui entrò ieri l'onorevole mio amico Ferrari, tanto più che, avendo egli esaminato le cose sui luoghi, potette parlarne meglio di me. Solo vi dirò in massima generale che per l'avvenire bisogna evitare assolutamente ciò di cui fummo testimoni pur troppo. Finora abbiamo avuto nel fatto lo stato di assedio, sebbene non fosse stato decretato dal Parlamento, anzi neppur dal Governo; ma lo stato d'assedio ha le sue norme, le sue garanzie protettrici della vita e dulie sostanze dei cittadini, quali la pubblicità dei giudizi, la libera difesa, il dibattimento contraddittorio; ora nessuna di queste garanzie venne applicata fra noi. Io non iscenderò a venni particolare, io non incolperò punto l'egregio generale Cialdini, di cui conosco le rette intenzioni e l'animo nobilissimo; debbo anzi dire in sua lode che, quando ha saputo che l'autorità militare era scesa a qualche sopruso, egli ha fatto ogni sforzo per impedirlo, e in prova di ciò citerò il dolorosissimo fatto di Somma. Saprete che là sei individui, io non saprei se borbonici o non borbonici, furono arrestati ed io meno di tre ore giudicati e fucilali. Ora Cialdini sottomise a Consiglio di guerra il capitano che avea presieduto a quel dolorosissimo fatto.

PLUTINO. Fu assolto.

RICCIARDI. E quel fatto provocò la dimissione del mio onorevole amico marchese D'Afflitto, governatore di Napoli. Io mi limito a citar questo fatto, non fo commenti.

Molli rimedi furono proposti, ma io non credo che tornebbero di grande efficacia.

L'onorevole Pisanelli parlò dei lavori pubblici, cosa al certo desideratissima e indispensabile; parlò della riforma del personale; io non insisterò su queste proposte: ei parlava altresì dell'aumento dei ma, signori, questi non sono rimedi, ma semplici palliativi, mentre il male colà è grave assai; voi non dovete farvi illusione su questo punto.

Qui mi giova invocare di nuovo dal presidente la più gran libertà di parola.

Signori, voi avete a Napoli due spettri: lo spettro della reazione, aiutato, favoreggiato da tutti i re di diritto divino, da tutta la reazione europea; dall'altro lato avete lo spettro della rivoluzione, spettro il quale io non credo che vi piaccia troppo, e la cui terribilità è in ragione diretta dell'impotenza del Ministero. Vedete che in questo momento io vi parlo da conservatore, io che sono accusato di tendenze altamente rivoluzionarie. Io credo che fra questi due spettri ci sarebbe luogo pel Governo e pel Parlamento italiano.

E qui, signori, tollererete che io esprima un'idea eccentrica.

Già lo sapete, io passo per uomo eccentrico affatto (Ilarità); almeno cosi dicono le lance spezzate del Ministero, i giornali ministeriali. È cosa passata in giudicato in tutta Italia che io sono un uomo eccentrico affatto (Ilarità), sicché dovete permettermi un'eccentricità.

Io credo che ognuno de' miei onorevoli colleghi voglia fare da medico alle piaghe delle provincie napoletane, che ognuno abbia la sua ricetta. Tollererete che anch'io vi esponga la mia.

La mia ricetta sarebbe semplicissima, consisterebbe in due sole parole (Oh! oh! ) pubblicate nella Gazzetta uffiziale del regno d'Italia.

Vi avverto che quand'io dirò le parole (Risa) che vorrei vedere nella gazzetta uffiziale, forse la volta di quest'edilìzio crollerà sulle nostre spalle, (riva ilarità)

Per conseguenza, o signori, tutti coloro fra voi i quali abbiano la menoma paura, li prego d'uscire. (Si ride)

Le parole son queste (Movimento d'attenzione): La Sessione parlamentare del 1862 sarà aperta in Napoli. (Ah ahi - Ilarità prolungata)

Mi sembra, onorevoli colleghi, che la mia ricetta non vi sia parsa poi tanto eccentrica. Allora permetterete, poiché siete stati tanto indulgenti da tollerarne l'esposizione, che io sviluppi alquanto la mia proposta.

Due sono le principali piaghe di quelle provincie, che tutti, quantunque con mezzi diversi, vogliamo curare, l'una morale, l'altra materiale.

La piaga morale è l'offesa profonda recala all'amor proprio di sede milioni d'uomini; ed io credo che da tutta la tela del mio discorso sia risultala la prova di quest'offesa. Un paese, il quale durante otto o nove secoli è stato autonomo, e che ad un trailo si vede ridotto a provincia; un paese, il quale vede distrutte per via di decreti le sue antiche leggi, le sue antiche istituzioni, certamente non può essere troppo contento. Aggiungete a questo l'invasione d'impiegati non nativi del paese, i quali, a torlo forse, non sono veduti di troppo buon occhio. Infine in tutte le guise possibili quel paese, sia a torto, sia a ragione, si crede ferito nel suo amor proprio. Ebbene, colla presenza del Governo e del Parlamento in Napoli, questa ferita è rimarginata ipso facto.

Quanto alla piaga materiale, tutti sanno che c'è quivi ristagno in ogni cosa, e che la miseria è grandissima. Ora, la sola presenza del Parlamento e del Governo italiano rimarginerebbe anche quest'altra piaga.

Quanto a quella del si capisce benissimo che la misura da me proposta la distruggerebbe anch'essa ipso facto, perché lo spirito pubblico sarebbe rialzato immediatamente, ed il partito liberale prendendo il sopravvento, il sparirebbe in pochissimo tempo; oltreché il Governo stando sopra luogo potrebbe veder da vicino i ma' del paese e più di leggieri curarli.

Veniamo adesso alle obiezioni.

La prima obiezione si è questa: Napoli è una città irrequieta, ingovernabile.

125 - TORNATA DEL 4 DICEMBRE

Signori, il fatto prova assolutamente l'opposto. Ad onta di tanti mesi di malgoverno, non vi è stato in Napoli un tumulto che possa dirsi un po' serio. Qualche dimostrazione vi è stata, ma a farla sparire fu sufficiente la semplice apparizione dell'amata divisa della guardia nazionale. Voi sapete il come la festa del 7 settembre, commemoratrice dell'entrata del general Garibaldi, fosse celebrata colla massima tranquillità. Il generale Arnulfi, comandante dei mi confessava non aver ricevuto l'8 settembre una sola relazione di furto o di rissa.

Ora, persisterete a dire che Napoli sia una città ingovernabile?

Tutti sanno che Napoli ebbe due volte il suo Parlamento, nel 1820 e 1821, e nel 1848. Nel 1820 e 1821 esisteva la carboneria, ed era numerosissima, anzi un vero imperami in imperio; ciò non pertanto il Parlamento fu sempre rispettabilissimo, ed anche la voce dei singoli deputati era udita in modo maraviglioso. Nel 1848, dopo il fatale 15 maggio, il Parlamento fu abbandonalo a sé stesso; il re era vittorioso, una soldatesca sfrenata era, per così dire, padrona del paese: or bene, il Parlamento, difeso unicamente dall'opinione pubblica e dall'amore del popolo, potette lottare più mesi contro le voglie assolute del re!

Or perché mai il Parlamento italiano non sarebbe sicuro in Napoli? perché non sarebbe altrettanto sicuro, quanto lo sono il Senato ed il Corpo legislativo in Parigi, ch'è pure tenuta per una delle città più irrequiete e più ingovernabili?

Veniamo ad un'altra obiezione. Si dice: ma le altre Provincie che cosa direbbero di tal fatto? lo non credo che se ne lagnerebbero; io credo che gli Italiani delle altre provincie abbiano tanta pietà dei mali dei loro fratelli dell'Italia meridionale, da fare a lor prò questo piccolo sacrifizio, se pur sacrifizio può dirsi.

La sola parte d'Italia che sia ammalata in questo momento, è Napoli; or bene, il medico va dove sta l'ammalato; le altre province sono perfettamente tranquille, il perché non hanno bisogno della presenza del Governo, basta un prefetto in ogni provincia per amministrarla, basta la guardia nazionale a mantenervi l'ordine, mentre da noi la presenza del Governo è necessaria in tutto e per tutto.

E poi, io ve la dico schietta, da Torino non si governa l'Italia, da Torino non si regge Napoli; questa per me è convinzione profonda; in questo, o signori, sta la radice di tutti i nostri mali. (Susurro)

Forse l'obiezione più seria all'esecuzione del mio disegno si è questa; udii dire da molti: ma l'andare a Napoli potrebbe essere ostacolo all'andata a Roma, che per noi è quistione di vita o di morte. L'Europa direbbe: ebbene, poiché il Governo ed il Parlamento italiano si sono adagiati in Napoli, cioè nel più bel paese del mondo, e' possono rimanervi, la capitale d'Italia sarà Napoli. Io credo si possa rispondere vittoriosamente a questa obiezione Dice un proverbio francese che ogni via mena a Roma (tranne quella scelta dal nostro presidente del Consiglio); (Si ride) ed io penso che una delle tante vie potrebbe benissimo essere quella di Napoli.

Signori, finché non potremo avere un erario rifatto ed un esercito di 500 o 400 mila soldati, noi non avremo né Venezia, né Roma. Ora, per avere quest'erario e quest'esercito, non bisogna forse prima di tutto pacificare e contentare le Provincie napolitano, le quali in questo momento non possono darvi né un obolo, né un soldato, e vi darebbero invece, se fatte pacifiche e liete, danari e soldati in gran copia?

E però, se il rimedio da me proposto vi può far raggiungere questo scopo, vale a dire far sì che Napoli, il quale in questo momento è un orribile impaccio per l'Italia, possa essere di aiuto immenso nella prossima ed inevitabile guerra coll'Austria, perché mai ricusarlo?

Signori, io non abuserò più oltre della vostra pazienza. (Bravo! Bravo!)

Ho già detto due spettri esistere nell'Italia meridionale: quello della reazione e quello della rivoluzione. Credo che nessuno possa disconvenirne. Volete voi allontanate l'uno, distruggere l'altro? Distruggere la reazione, allontanare la rivoluzione, la quale al certo non può tornarvi gradita? Interponete fra loro il Governo ed il Parlamento, adottate il rimedio da me proposto; altrimenti chi sa se una terribile voce, quella della inesorabile dea Necessità, non venga a dirvi un giorno, quando meno ve l'aspettiate: sta quinci la reazione, quindi la rivoluzione; scegliete!

PRESIDENTE. Il deputato Massari ha facoltà di parlare per un fatto personale.

MASSARI. Io ringrazio l'onorevole deputato Ricciardi del messaggio che mi ha testé inviato, e dalla premura con cui l'ho recato all'onorevole presidente del Consiglio egli dovrà inferire che io spingo la mia deferenza verso di lui fino a rassegnarmi a fare il mestiere di portatettere. (Ilarità e mormorio a sinistra)

Egli però vorrà concedermi ch'io rettifichi un'asserzione sul conto mio, pronunciata nel suo discorso, e che stimo colla consueta lealtà egli vorrà riconoscere sia stata inesatta.

Egli m'ha fatto dire che nella tornata di avantieri io avessi asserito che il fosse nelle provincie napoletane pressoché interamente distrutto.

Tale non fu il mio pensiero, tale non fu la forma colla quale lo espressi. Dissi beasi, e mantengo la mia asserzione, che in questi ultimi mesi il è singolarmente scemato, ed ora trovasi (pur troppo!) concentrato nelle due provincie di Basilicata e di Terra di Lavoro. L'onorevole deputato Ricciardi, del resto, allorché moveva rimprovero al Governo d'aver soppresso inopportunamente la luogotenenza, diceva precisamente ciò che aveva detto io medesimo; poiché egli diceva che il Governo avea commesso il fallo di sopprimere la luogotenenza, quando gli sforzi dell'illustre generale Cialdini erano riusciti a scemare singolarmente il Del resto non ho che a ringraziare l'onorevole deputato Ricciardi della sua cortesia e della fedeltà con cui, mantenendo il suo giro d'iscrizione, iscritto per parlare contro il Ministero, ha realmente parlato contro. (Mormorio a sinistra)

Conchiuderò raccogliendo in questo momento

DI SAN DONATO. Questo non è un fatto personale.

PRESIDENTE. Non interrompa.

MASSARI. Perdoni, non tocca a lei fare questa osservazione.

Raccogliendo, in questo momento, uno strale che ieri con molta maestria mi fu scagliato dall'onorevole deputato Brofferio, allorché augurava al Ministero avvocati migliori di me, dirò che il suo desiderio a quest'ora è già doppiamente soddisfatto; fu soddisfatto da lui medesimo, allorché disse che bisognava esigere dal Ministero dei miracoli; fu soddisfatto dall'onorevole deputato Ricciardi, quando per tutto rimedio ai mali che contristano alcune provincie del regno suggerì il famoso decreto: «La Sessione del Parlamento del 1863 è radunata in Napoli.» (Ilarità e approvazione a destra)

PRESIDENTE. Debbo notificare alla Camera che il 21 novembre, cioè nel giorno successivo a quello nel quale fu

126 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

parte alla discussione, e che perciò io avrei dovuto fungere da questo seggio le di lui veci. Egli non ba creduto della sua delicatezza lo inscriversi da sé medesimo nella lista degli oratori, e mi ba dichiarato che, per ottenere la facoltà di parlare, si sarebbe rimesso al beneplacito dell'Assemblea.

La Camera non ignora che, secondo gli usi parlamentari, quando il presidente discende dal suo seggio, gli viene senz'altro conceduta la facoltà di salire la tribuna, e credo d'interpretare degnamente il voto dell'Assemblea (Voci generali: Si! sì!), se. interrompo a questo punto l'ordine degl'inscritti, e invito l'onorevole deputato Rattazzi a ragionare dalla sua ringhiera. (Vivi segni di attenzione)

RATTAZZI. Signori, la discussione che si agita da tre giorni in quest'Assemblea sulla questione di Roma, come sull'amministrazione interna del regno, e soprattutto delle Provincie napoletane, può riassumersi sotto due aspetti: da un lato si riferisce al passato, dall'altro guarda al presente e all'avvenire.

Si riferisce al passato, ossia si rivolge a riconoscere se la questione di Roma non fu per anco sciolta per colpa dei ministri, e se le condizioni gravi nelle quali versa il paese ai ministri siano imputabili; guarda al presente e all'avvenire, ossia è diretta ad indagare quali sono le condizioni attuali, quali i mezzi coi quali vi si possa portar rimedio.

Io, signori, non intendo trattenervi gran fatto sul passato: a mio avviso, un esame retrospettivo non può per lo più condurre ad alcun pratico risultamento nell'interesse del paese, e noi dobbiamo particolarmente ed esclusivamente occuparci di questo. L'esame retrospettivo per lo più non giova che ad irritare i partili, ad offendere le persone, e, lungi di favorire quella concordia che è nel voto di tutti noi, e che ci è indispensabile per superare le grandi difficoltà che ci circondano, non lascia ordinariamente che semi di discordie e di funeste separazioni. (Bravo!)

Il passato non è più nel dominio degli uomini, appartiene alla storia, lasciamolo ad essa. Con ciò, o signori, io non intendo neppure indirettamente gettare un biasimo sugli uomini onorandi che seggono nei Consigli della Corona; io riconosco la nobiltà delle loro intenzioni, la purezza, l'onestà del loro carattere; riconosco di più che se errori furono commessi, se le questioni non furono sciolte, certo ad essi non può intieramente attribuirsene la colpa. Quanto a Roma, a cagion d'esempio, chiunque fosse stato al potere, chiunque avesse dirette le nostre relazioni coll'estero, qualunque mezzo si fosse posto in opera, forsechè oggidì la questione sarebbe sciolta? Io noi credo. Non vorrei affermare certamente che il mezzo prescelto dall'onorevole presidente del Consiglio fosse tale che potesse lasciare grande speranza di raggiungere felicemente questo scioglimento. Probabilmente noi credeva neppure il Ministero, poiché, non appena egli fece qualche pratica a riguardo di quella lettera che egli intendeva rivolgere al Santo Padre, e vide che qualche ostacolo si opponeva a che essa potesse giungere al pontefice, egli non tentò altra via; col che ha dimostrato come non confidasse gran fatto nell'efficacia del suo espediente.

Non vorrei del pari affermare che le condizioni le quali furono proposte al pontefice, e che ci risultano dai documenti che il presidente del Consiglio ci ba presentati, fossero tali che potessero accettarsi nell'interesse del potere civile.

Io non oserei affermare che quelle condizioni non potessero in un avvenire più o meno remoto compromettere grandemente l'autorità temporale; ma, o signori, a qual prò sollevare questa discussione?

A che giova trattenerci sopra un progetto il quale non venne nemmeno spedito alla parte che doveva accettarlo? A che giova discutere se le condizioni dovessero o non dovessero accettarsi nell'interesse della società civile, se l'autorità ecclesiastica non volle neppur occuparsene?

Lasciamo adunque in disparte questo esame.

Forse potrebbe taluno meravigliarsi che, mentre non vi erano speranze che le trattative potessero condurre ad un pronto scioglimento, si andasse diffondendo la voce che era prossima la soluzione della questione romana, che presto ci sarebbero state aperte le porte della città eterna. Queste voci, signori, quando non hanno fondamento alcuno, sono sempre funeste, perché creano illusioni e speranze, che, quando scompaiono, lasciano il malcontento, tengono gli animi incerti e sospesi, e li distolgono dall'occuparsi di cose sovra le quali più efficace può essere l'opera del cittadino.

Ma, o signori, io non voglio dar colpa al Ministero se queste voci, che forse partirono da amici troppo zelanti o male accorti, si diffusero senza che il Ministero potesse in alcun modo farvi impedimento.

Parimente, quanto all'interno, io riconosco che alcuni provvedimenti si diedero, dai quali era più prudente consiglio astenersi; riconosco che non si fece forse ciò che l'interesse del paese richiedeva che si facesse; ma, signori, siamo giusti, vorremmo attribuire agli attuali consiglieri della Corona la colpa di tutti questi errori e di queste commessioni? Per cagion d'esempio, ieri l'onorevole oratore, che teneva giustamente desta l'attenzione della Camera, sul finire della seduta indicò due falli che certo dovettero contribuire non poco a rendere più gravi le condizioni delle provincie napoletane, vale a dire lo scioglimento dell'esercito meridionale e il licenziamento dell'esercito borbonico. Ma questi fatti, che furono senza dubbio gravissimi, vorrete voi attribuirli ai ministri attuali? Chi ignora che questi fatti provengono dall'amministrazione precedente?

Non intendo con questo neppure, o signori, di fare un rimprovero ai passati ministri, a tutti coloro che furono al reggimento della cosa pubblica.

Siamo giusti e sinceri; in mezzo al grande rivolgimento che si è operato fra noi, quando si trattava di costituire un nuovo regno dopo una grande rivoluzione, quando si trattava di organizzare quelle provincie, le quali erano state rette da un dispotismo il più umiliante, era certamente impossibile che gli uomini i quali si trovavano a capo della cosa pubblica non dessero talora provvedimenti che avessero a riuscire meno utili, e che qualche volta non ordinassero ciò che era nell'interesse assolutamente del paese di prescrivere.

È facile, o signori, il giudicare dopo gli eventi; ma è assai più difficile il provvedere quando il bisogno si presenta, quando chi deve ordinare si trova circondato e da difficoltà interne e da pericoli esterni.

Dunque, ripeto, lasciamo il passato, occupiamoci del presente e dell'avvenire.

PISANELLI. Domando la parola per un fatto personale.

RATTAZZI. Volendoci occupare del presente e dell'avvenire incomincierò dalla questione romana.

La questione di Roma, come diceva opportunamente uno degli oratori che parlarono nella prima tornata, non può più essere fra noi questione di principio: Roma appartiene all'Italia; Roma è la capitale naturale del regno italiano; questo principio fu solennemente proclamato dal Parlamento dopo una splendida discussione;

127 - TORNATA DEL 4 DICEMBRE

e prima che il Parlamento

La quistione per Roma non può dunque essere di principio; è quistione di tempo e di mezzi.

Roma, è vero, appartiene di diritto all'Italia; ma Roma è sgraziatamente occupata, e questa occupazione è ancora tutelata dalla bandiera francese.

In questa condizione egli è evidente che non ci è possibile avere Roma, senza che si proceda d'accordo colla Francia, senza che le truppe di quel potente impero la lascino libera e sgombra volontariamente. A niuno invero può venire in mente di usare la forza per costringerla. Ragioni evidenti, che è inutile esporre, e che ognuno sente da sé, ce lo vietano: cel vieterebbero sempre anche i vincoli di fratellanza e di riconoscenza che ci legano a quella generosa nazione.

Ma questa occupazione di Roma dovrà essere eterna? Possiamo noi credere che la Francia intenda di perpetuamente mantenervi le sue truppe ed impedire così che all'Italia sia restituita la sua capitale? Io noi credo, e dichiaro anzi col più profondo convincimento che, a mio avviso, il Governo francese deve desiderare e desidera più d'ogni altro che cessi questo stato anormale di cose, questo conflitto tra il diritto e il fatto, questa perpetua opposizione tra la forza materiale ed il voto unanime di un'intera nazione.

L'occupazione di Roma, la tutela del pontefice non porta alcun vantaggio al Governo, non giova che a cagionargli continui imbarazzi. Egli ha quindi interesse di far si che il giorno in cui quell'occupazione possa cessare non sia lungamente ritardato.

Egli vi ha interesse, perché questa occupazione solleva il malcontento nel gran partito liberale francese, il quale soffre di mal animo che le truppe di Francia si facciano custodi dell'autorità temporale del pontefice e siano cosi soffocate le nobili aspirazioni di un popolo il quale intende di costituirsi.

Non soddisfa il partito retrivo in Francia, poiché questo non è pago di tale temporarìa protezione, egli vorrebbe che le armi francesi fossero rivolte non solo a tutelare la persona del pontefice, ma a reintegrare totalmente la santa sede nel possesso di quei territorii che per lo addietro occupava ed a ricostrurre cosi tutto l'antico edificio del potere temporale.

Non ottiene nemmeno la riconoscenza del Santo Padre verso la Francia, poiché il pontefice accetta con grandissima diffidenza la protezione dei Francesi e non dirimette occasione per dimostrarlo e per far conoscere com'egli vedrebbe assai più volontieri che quelle truppe uscissero dal suo territorio.

È cosa singolare, ma pur vera, che, mentre il pontefice fu difeso nella sua capitale per parte delle truppe francesi, ed invece abbandonato dalle truppe austriache, allorquando insorsero le città che erano per lo addietro soggette alla Santa Sede e dall'Austria occupate, egli accetta gli ordini che gli vengono da Vienna, ma sprezza i consigli che gli sono dati dal Gabinetto francese. (Segni generali di approvazione)

Egli è dunque palese che la Francia non ha alcun interesse di mantenere le sue truppe in Roma, che ne ha anzi uno grandissimo di richiamarle.

Un'altra considerazione, o signori, mi persuade che tale sia e debba essere il desiderio della Francia, e quando nomino la Francia, intendo anche di parlare del Governo francese Egli è evidente che non può essere costituita solidamente l'unità nazionale italiana, senza che Roma sia libera.

Ora, a mio avviso, è incontestabile, checché abbia volalo dire in contrario il deputato Musolino, essere vivissimo desiderio del Governo francese che questa unità nazionale possa fortemente, solidamente e dentro un breve termine costituirsi!

Io credo che questa verità sia dimostrata da due fatti, i quali non ammettono interpretazione contraria.

Voci. E Villafranca!

Rattizzi Si parla di Villafranca. È vero, o signori, che dopo la pace di Villafranca il Governo francese pareva inchinarsi ad introdurre in Italia il sistema federativo; ei credeva (ed in questo errava senza dubbio) che la confederazione fosse il mezzo più pronto, più facile per dare all'Italia un forte e saldo assetto. Ciò che sopratutto gli premeva si è che l'Italia si costituisse in solide e durevoli basi; parendogli quindi che questo intento meglio si potesse raggiungere col sistema federativo, anziché col principio dell'unità, è facile comprendere il motivo perché preferisse quello a questo partito.

Ma, dal punto che quel Governo s'avvide che la confederazione in Italia aveva la disapprovazione di tutti i popoli, dal punto ch'egli s'accorse che il voto di tutti gì' Italiani era per l'unità nazionale, non era certo un Governo illuminato e saggio come il Governo francese che volesse frapporsi al compimento di questo voto; perché egli comprendeva bene che, frapponendosi al movimento unitario, e volendo invece far si che s'introducesse il sistema federativo, egli non avrebbe fatto altro che accrescere le difficoltà che già ci accerchiavano, e quindi rendere più difficile quel consolidamento di forze ch'era principalmente ne' suoi voti. Il sistema federativo ed il sistema unitario non potevano considerarsi salvo che quai due mezzi differenti per conseguire il medesimo intento

Ora, che sia cosa di fatto che il Governo francese, dopo aver accarezzala l'idea della confederazione in Italia, facesse buon viso all'unità italiana, Io provano, come testé diceva, incontestabilmente due fatti.

Lo prova in primo luogo il principio di nonintervento, ch'egli proclamò, mantenne e fece rispettare.

Lo prova in secondo luogo il riconoscimento del regno d'Italia.

Egli è palese, o signori, che, se dopo i preliminari di Villafranca e la pace di Zurigo, il Governo francese avesse voluto opporsi al movimento unitario, egli non avrebbe avuto a far altro se non che lasciare che l'Austria e le altre potenze che ci avversavano venissero ad impedire che quel movimento potesse attuarsi.

Esso, o signori, il Governo francese (e prego l'onorevole deputato Brofferio ad avvertire questa circostanza, egli che faceva distinzione fra il Governo e la nazione), il Governo francese avrebbe potuto facilmente, e dirò anche con minori pericoli e meno gravi difficoltà, serbare questo contegno; anzi l'avrebbe senza dubbio serbato se il pensiero suo fosse stato quello d'impedire il conseguimento dell'unità italiana. Esaminate, signori, la storia dei Governi che ressero la Francia prima del secondo impero, di quei Governi che pur si dicevano liberali, e vedrete quale sia stato il contegno loro rispetto all'Italia.

Non appena un qualche moto si manifestava in questa Infelice Penisola nel senso liberale e nazionale, non appena sorgeva qualche voto per l'indipendenza, le armi straniere intervenivano, e prestavano il loro soccorso a chi voleva soffocarlo, ed impedire cosi che la volontà dei popoli si pronunziasse. Ed il Governo francese, se pure non univa a quelle armi le sue, o se ne stava muto od indifferente, o tutto al più,


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128 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1801

pago di apparentemente protestare, lasciava però in fatto

In secondo luogo lo provò coll'atto di riconoscimento, lo domando, o signori: se il Governo francese avesse avversato l'unità italiana, se avesse voluto che l'Italia fosse divisa e dipendente, qual ragione lo spingeva a riconoscere il Governo italiano? Non poteva egli seguire l'esempio delle altre potenze che non intendevano di fare questa ricognizione? Certo non v'era alcuno che glielo impedisse.

E notate, o signori, che la ricognizione del regno d'Italia fu fatta dopo che il Parlamento aveva solennemente col suo voto dichiarato che Roma era la capitale naturale del nuovo regno, che Roma apparteneva all'Italia (Bene! Bene!); il che prova che l'atto di ricognizione conteneva implicitamente anche la ricognizione della capitale d'Italia. (Applausi)

Del resto, signori, erano due le politiche che la Francia poteva seguire: l'ima era la politica tradizionale delle dinastie che erano cadute, ed anche del Governo repubblicano, quella cioè di fare che l'Italia fosse serva e divisa, poiché in questo modo la Francia poteva, al pari delle altre potenze, esercitare sopra di essa la sua influenza. L'altra politica era quella di fare l'Italia forte, di costituirla solidamente per averla alleata, quando le circostanze fossero tali da fare che la nostra alleanza tornasse utile alla Francia.

Or bene, il Governo francese abbandonò evidentemente la prima politica, poiché quando avesse voluto lasciar serva e divisa l'Italia, certo non avrebbe fatto versare sui campi di Magenta e di Solferino il sangue francese per renderla grande ed indipendente.

Non rimaneva dunque che l'altra via, quella di una grande alleanza coll'Italia; ed è precisamente questa la politica che il Governo francese ha prescelto, politica che io credo giustissima, poiché l'alleanza tra la Francia e l'Italia ha salde radici negl'interessi comuni e nella solidarietà dei vincoli che congiungono queste due nazioni.

Del resto, volete, o signori, un'altra prova che il Governo francese non solo non avversa l'unità italiana, non solo non avversa l'idea di rendere libera Roma, onde sia restituita all'Italia, ma anzi desidera più che mai che questo giorno possa giungere fra breve? Esaminate chi sono coloro che in Francia avversano la causa italiana Signori, non sono soltanto i clericali, non sono solo coloro che vorrebbero ristabilito per principio di coscienza il trono pontificio nella sua integrità, non sono soltanto coloro che credono in buona fede che il potere temporale è necessario per assicurare l'indipendenza del potere spirituale; no, o signori, non sono i cattolici, ma sono i protestanti, sono quei seguaci della dottrina di Voltaire, di cui parlava ieri il deputato Musolino. E questi protestanti, questi volteriani sono i nemici i più acerrimi del Governo francese. perché dunque avversano la causa italiana? La avversano perché essi ben sanno che, quando potessero impedire lo svolgimento di questa causa, il conseguimento di questa unità, andrebbero direttamente a ferirò il Governo imperiale.

Perciò, quando ci facessimo anche noi a creare ostacoli a quel Governo, noi pure favoriremmo la causa dei nostri nemici. (Bravissimo! Benissimo!)

Del resto, senza addurre altre ragioni, dirò che anche le impressioni che io ho raccolte nel mio viaggio a Parigi (Segni di attenzione), i discorsi che ho uditi nelle sfere governative e da tutti gli uomini i quali sostengono il Governo, mi portarono sempre più nella profonda convinzione che quel Governo e quel popolo, lungi dall'avversare la nostra causa, lungi dal desiderare la prolungazione dell'occupazione francese in Roma, essi hanno le più grandi simpatie in favore dell'Italia, fanno i più fervidi voti perché la nostra unità trionfi, perché possiamo costituirci, perché possa giungere il giorno in cui sia libera Roma dalle loro truppe.

E qui, signori, posciachè mi avvenne di parlare del mio viaggio e di dirvi delle impressioni che ne ebbi, sento il bisogno di dare alcune spiegazioni (Segni vivissimi di attenzione) intorno alle voci che si fecero correre a riguardo del medesimo; voci the non mi erano certamente benevole, e che non indagherò da quale sentimento fossero ispirate.

Certamente, se si trattasse solo individualmente di me, io non mi darei gran fatto pensiero di rispondervi; non me ne darei pensiero, perché, avvezzo da molti anni a queste aggressioni sarei troppo ingenuo se volessi occuparmi di esse; ma, chiamato da voi al grandissimo onore di presiedervi, quelle voci che possono rivolgersi contro di me vi feriscono, ed è per ciò che sento il debito di spiegarmi. (Bene)

Fra le voci che si fecero correre, una che non saprei se abbia destato in me maggiore maraviglia, tanto mi parve strana, o più dolorosa sensazione, tanto mi parve malevola, mi ha maggiormente colpito, ed è che io avessi fatto il viaggio per ricevere un portafoglio dal Governo francese.

In verità, io credeva che i miei precedenti e la lunga mia vita politica mi potessero mettere al sicuro da una simile accusa.

Signori, io conto quattordici anni di vita politica; in questi quattordici anni, e quando il regno era ristretto al solo Piemonte, fui chiamato quattro volte a far parte della pubblica amministrazione nei Consigli della Corona; vi fui chiamalo quattro volte, ed accettai perché credevo che mi vi chiamasse il voto del Parlamento e la fiducia del Re; ne sono uscito, e ne uscii anche quando potevo credere a ragione che non mi mancassero e la fiducia della Corona e quella del Parlamento; ne sono uscito perché credevo che la mia presenza al Ministero potesse essere di qualche inciampo al più facile andamento della cosa pubblica.

Dopo ciò, o signori, oggidì che non v'è solo il Piemonte, oggidì che esiste il regno d'Italia, oggidì che ho meglio potuto apprezzare quali siano le spine che circondano il potere, ora si potrà credere che io abbia mutato contegno, potrà sorgere il sospetto che io voglia mendicare un portafoglio da un principe o da un ministro straniero! (Applausi)

Io so, o signori, che i portafogli non si distribuiscono né a Parigi, né a Londra; i portafogli non si possono ottenere che col voto del Parlamento e la fiducia della Corona. (Bene! Bravo!)

Io sono devoto quanto esser si possa all'alleanza francese. sono convinto che in quest'alleanza riposa in gran parie l'avvenire d'Italia e della nostra unità, e questa convinzione non è in me di fresca data, essa sorse in me sin dai primordi della mia vita politica: io ho costantemente sostenuto questa idea, e costantemente operato pel suo trionfo; ma, signori, io non confondo l'alleanza colla dipendenza, e credo aver dato prove, anche quando potevo essere posto a cimento, che sovratutto l'indipendenza del mio paese mi stava a cuore. (Applausi)

129 - TORNATA DEL 4 DICEMBRE

E qui debbo dire che quel sospetto non offende me solo, ma offende pure, ed offende gratuitamente il Governi) francese.

No, signori, io non posso credere che un Governo, il quale

Signori, potrei facilmente rispondere a questa domanda dicendo che non sono tenuto a render conto dei viaggi che faccio per conto mio, non potendosi negare a me quel diritto che non è negato ad alcuno; ma sarò più franco e più esplicito. Sì, o signori, se non ebbi una missione da altri, una io ne proposi a me stesso, e mi proposi quella missione che si può, che si dee proporre ogni uomo che ami il suo paese, e che ba dedicata la sua vita ed i suoi affetti a servirlo.

Convinto che l'alleanza francese è necessaria alla salute d'Italia, mi parve opportuno conoscere da vicino quali fossero le intenzioni degli uomini più influenti di quel grande impero, quale fosse lo spirito pubblico di quella generosa nazione a nostro riguardo. Mi parve altresì opportuno rappresentare a quegli uomini quali fossero i desiderii, quali le necessità d'Italia. Mi sembrò che la mia voce, ancorché individuale, potesse avere qualche forza, e per la parte che ho sempre preso nella cosa pubblica, e per l'autorità che mi veniva dalla posizione stessa, nella quale la vostra fiducia mi aveva collocato. Or bene, questa è la missione che io diedi a me stesso, e questa missione so di averla adempiuta con coscienza, con dignità, e soprattutto col sentimento d'onestà cittadina, colla lealtà alla quale per certo credo non aver fallito giammai. Se taluno volesse attribuire al mio viaggio motivi di particolare interesse o di meschini) ambizione, non dirò di rispondere, come disse altri, col disprezzo del silenzio, ma direi almeno che l'onore mi vieta la risposta. (Bravo! bravo!)

(La seduta è sospesa per cinque minuti. )

Vi chiedo scusa, signori, se vi ho per alcuni istanti intrattenuti, mio malgrado, della mia persona. Ora ritorno alla Francia. Io dissi, e lo ripeto, di essere intimamente convinto che niuno maggiormente del Governo imperiale desidera di richiamare, quanto prima sia fattibile, le sue truppe dalla città di Roma; ma anche per quel Governo siffatto richiamo è quistione di tempo, e noi non possiamo, né abbiamo interesse di creargli difficoltà e di pretendere ciò che potrebbe in qualche modo compremetterlo.

Non è qui, o signori, il luogo di giudicare il fatto dell'occupazione di Roma; è questo un fatto compiuto, il cui giudizio appartiene alla storia, e la storia lo giudicherà severamente. Intanto il fatto esiste ed è forza tenerne conto.

Ora è indubitabile che, se venissero richiamate immediatamente le schiere francesi, il pontefice dovrebbe partire da Roma, e il potere temporale sarebbe immantinente distrutto. Ma è pure incontestabile, o signori, che la Francia è, per la sua grandissima maggioranza, cattolica, e che molti pure cattolici in buona fede credono che il potere temporale del papa possa esser necessario per l'indipendenza del potere spirituale, e quindi è indispensabile che prima di tutto sia distrutto questo errore e che gli uomini di buona fede comprendano come il pontefice possa essere indipendente, anzi meglio esercitare la sua indipendenza quando sia spogliato delle cure del potere temporale;

quindi è necessario prima di tutto che la pubblica opinione sia su questo punto illuminata, e che tutti gli uomini di buona fede possano riconoscere la verità di quanto noi sosteniamo. E la questione, o signori, ha in questi tempi grandemente progredito, perché in tutti i libri, in tutti i giornali, la questione del potere temporale fu spogliata del suo carattere religioso e condotta ai veri ed ai precisi suoi termini, e tuttavolta che potrà essere entro questi termini circoscritta, egli è certo che verrà a rendersi generale il convincimento che, lungi di essere necessaria la potestà temporale all'esercizio della religione, è alla religione stessa grandemente funesta.

Quando si sarà giunti a questo punto, quando non vi sarà più alcun pericolo da questo lato, io credo che la Francia non avrà difficoltà alcuna a richiamare le truppe, e che la città di Roma potrà essere in fatto capitale d'Italia. Ma intanto questo rivolgimento negli spiriti, questa pubblica opinione non può formarsi entro brevissimo tempo; per quanto grandi sieno i progressi che si fecero recentemente, certo non può sperarsi che ciò avvenga più un giorno che l'altro.

Ora, mentre noi attendiamo gli effetti della pubblica opinione, dovremo noi rimanere nello stato attuale? Dovremo noi continuamente ed esclusivamente attendere al possesso di Roma?0 non dovremo meglio occuparci delle cose interne, di dare alla nostra amministrazione uno stabile e regolare assetto, d'ordinare internamente le nostre finanze, il nostro esercito?

Signori, io credo che, mentre noi dobbiamo avere continuamente gli occhi rivolti a Roma; mentre noi dobbiamo fare ogni sforzo, affinché coll'istruzione, coi giornali, coi libri si possa diffondere quell'opinione, di cui poc'anzi vi parlava, dobbiamo pure nel tempo stesso specialmente rivolgere solerti cure al nostro ordinamento, alla nostra amministrazione, all'ordinamento, all'armamento nazionale. (Bene!)

Quando noi avremo ciò operato, signori, noi avremo fatto un grandissimo passo e per lo scioglimento della quistione romana, ed anche per quello di tutte le altre quistioni che ancora ci rimangono a risolvere per la compiuta costituzione dell'Italia. L'Europa allora ci giudicherà con criterio diverso e saprà come siamo maturi per il compimento dell'unità nazionale.

Ma l'opera del riordinamento interno, del riordinamento della nostra amministrazione, è opera grande e difficile.

Se noi rivolgiamo il pensiero alla grande rivoluzione che si è compiuta nel giro di pochi mesi; se noi consideriamo che si tratta di organizzare un regno sorto da una rivoluzione, la quale ha distrutto in brevissimo intervallo parecchie antiche dinastie che avevano in Italia secolari radici; da una rivoluzione che ha insieme congiunti popoli, i quali bensì erano naturalmente membri di un'istessa famiglia, ma che da secoli erano divisi e governati da leggi, istituzioni e tradizioni diverse, e che avevano quindi contratto abitudini dissimili; se ciò, dico, noi consideriamo, agevolmente si comprenderà la difficoltà della nostra impresa. E questa impresa è tanto più difficile, inquantocbè s'aggiunge che noi dobbiamo accingervisi, mentre non siamo ancora definitivamente costituiti coll'aggregazione di tutte le parli d'Italia, ed abbiamo potenti nemici e nei partigiani dei principi spodestali e nel clero, il quale ha diffuse e potentissime relazioni in tutto il mondo cattolico.

Ora, chi non vede che quando si tratta di organizzare un regno posto in queste condizioni; chi non comprende che quando si hanno a fronte così gagliardi avversari, l'opera della organizzazione ne sia eminentemente malagevole?

130 - CAMERA BEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Quando io pongo mente a tali cose, e dall'altro lato esamino le condizioni presenti delle varie parti che compongono il nuovo regno, quasi quasi mi meraviglio che queste difficoltà non siano più gravi; ed invero, mentre non intendo per nulla dissimulare i molti e gravi ostacoli che ci circondano, egli è certo però che la situazione nostra non è ne sì grave, né sì pericolosa, come taluno potrebbe per avventura fors'anco supporre.

Infatti percorriamo le varie, provincie di cui il regno è composto.

Non occorre dire che le antiche provincie del Piemonte hanno una regolare amministrazione, e non soffrono in essa grandi, né serii imbarazzi; e la cosa è facile a comprendersi: didatti esse furono rette da una dinastia che da secoli aveva immedesimato i suoi interessi con quelli del paese; furono sempre governate da un'amministrazione savia, regolare e morale anche nei tempi in cui cui vi era il governo assoluto.

I mutamenti che avvennero non possono essere oggidì così da esse sentiti, poiché da più anni sono avvezze al sistema costituzionale, ed i recenti fatti delle annessioni operatesi, lungi di accrescere le difficoltà, certo le ridussero a minor importanza, perché in tal guisa è interamente od almeno in gran parte soddisfatto il voto di queste provincie, le quali, sia permesso il dirlo anche a me, quantunque ad esse appartenga, sostennero coraggiosamente grandi e molti sacrifici per la causa comune, per il riscatto della italiana indipendenza. (Bravo! Bene!)

Quello che io dirò delle antiche provincie, in parte può anche applicarsi alle lombarde.

Queste provincie, o signori, che in un tempo si dicevano ingovernabili; che l'Austria, quando fu costretta a cederle col trattato di Zurigo all'Italia, quasi quasi affettatamente si compiaceva della loro cessione, dicendo che dava all'Italia una piaga, la quale l'avrebbe condotta a rovina, ebbene, queste provincie, amo il dirlo altamente, sopportano i pesi tutti delle imposte e della leva, e qualsiasi altra gravezza, e le sopportano con ammirabile abnegazione, col più nobile sacrifizio, solo perché sanno che questo sacrifizio è indispensabile alla causa comune. (Bene!)

È vero che nei primi tempi dell'annessione la Lombardia avea manifestato grande malcontento per le leggi riformatrici che vi si erano pubblicate, ed io, su cui ne ricade principalmente la risponsabilità, non le farò certamente per questo un rimprovero. Io stesso, e mi è grato il poterlo dire, quando stimai mio debito di pubblicare siffatte leggi in quelle contrade, era grandemente dolente che esse dovessero ferire il sentimento naturale, il quale presso quelle popolazioni doveva esistere per la conservazione di quelle istituzioni che erano in parte opera dei loro padri, e che in altri tempi avevano prodotti ottimi frutti. Ma le stesse provincie lombarde conobbero che quel sacrifizio era necessario alla causa nazionale, onde consolidare l'unità italiana, «far cessare tutte le divisioni che per l'addietro esistevano tra popoli e popoli d'Italia, e volonterosamente vi si sottoposero, e il malcontento cessò. E un tal salutevole effetto fu prodotto da quelle leggi. È vero che in queste vi sono forse imperfezioni; è vero che il tempo ha dimostrato come sia convenevole di arrecarvi alcune modificazioni; ma queste mutazioni potrà il Parlamento. facilmente operarle; intanto il fatto dell'unificazione è compiuto, e la Lombardia oggidì è regolarmente amministrata, e non solleva al Governo difficoltà ed imbarazzi.

Del paro nelle provincie che già formavano gli antichi ducati l'amministrazione non soffre gravi incagli. La cosa è facile a comprendersi; i loro interessi erano strettamente connessi o colle antiche provincie del Piemonte o colle lombarde; il fatto quindi della loro unione non potè loro tornare

che di grandissimo giovamento. Dippiù esse erano dapprima soggette al più odioso despotismo, tanto più insopportabile, inquantochè era circoscritto in ristrettissima sfera.

Il vedersi pertanto libere da questo malanno, naturalmente fece sì che possono con maggiore rassegnazione sopportare i pesi che il nuovo ordine di cose può loro addossare, e quegl'inconvenienti che sono inseparabili da qualsiasi mutazione.

Similmente le difficoltà non possono dirsi né grandi, né insuperabili nelle provincie che formavano parte dell'antico Stato pontificio, perché esse sono dominate non solo da un sentimento grandissimo verso la unità nazionale, ma sono pure comprese da un ricordo tristissimo della dominazione pontificia.

A tale proposito io crederei fallire al debito mio se non avvertissi che vi sono due mali a riparare, ai quali è indispensabile portare pronto ed efficace rimedio; intendo parlare degli ostacoli che s'incontrano specialmente nelle Marche per la leva, come altresì dei fatti dolorosi che funestano talvolta Bologna e le altre città delle Legazioni.

È inutile dissimularlo; nelle Marche grandi sono gli ostacoli che s'incontrano per la leva. Coloro che vi son chiamati, o non accorrono sotto le bandiere, o, se vi si presentano, cercano il più delle volte a sottrarvisi. Io comprendo, o signori, che ciò nasce dacché colà la leva non era conosciuta; avvezzi gli abitanti di quei luoghi a non sopportare tale peso nello interesse dello Stato, essi non lo considerano come un dovere di qualunque cittadino di versare il sangue per la patria, ma lo ritengono piuttosto come un servizio odioso cui sia lecito a ciascuno di sottrarsi quando gliene si offra il destro. Ma, signori, non è meno vero che questa circostanza anche nelle Marche potrebbe rendere più difficile, ma non basterebbe a rendere impossibile la esecuzione della legge sulla leva.

La gran cagione per cui ivi non si può essa operare sta in che il clero, approfittando appunto della circostanza che per lo addietro la leva colà non era in vigore, cerca con tutti i modi di insinuare a quegli onesti abitanti di non sottostare a quel peso, e mentre li spinge alla diserzione, in pari tempo fornisce loro i mezzi perché questo iniquo disegno possa recarsi ad effetto.

Ora, o signori, è indispensabile che cessi questo stato di cose; è indispensabile che la leva anche colà si eseguisca, come succede in tutte le parti del regno; è indispensabile che si tolga questo male esempio, non solo perché così viene a scemarsi grandemente il nostro esercito, ma eziandio perché potrebbe tornare fatale anche per le altre provincie quando si propagasse e si estendesse.

Io credo che quando il Governo voglia valersi delle leggi penali che esistono, e sorvegliare quella parte del clero che cerca in quel modo di sviare le popolazioni, potrebbe facilmente colpire ì colpevoli. Se poi le leggi che vi sono attualmente non bastano, il Governo presenti un progetto il quale gli dia la forza, l'autorità di prendere dei provvedimenti straordinari, e sia tranquillo che il Parlamento non mancherà al compito suo e non intralascierà di concedere ad esso tutte quelle facoltà che nei casi straordinari, in cui versiamo, possono essere efficaci, indispensabili, onde il male, a cui ho dianzi accennato, sia assolutamente distrutto.

Quanto a Bologna, io non voglio esagerare i mali che si lamentano in questa parte del regno, né mi varrò delle espressioni che già si udivano in quest'Assemblea a tale riguardo.

Ma egli è certo che talvolta Bologna, come pure altre città delle Legazioni, sono funestate da qualche assassinio; è cerio che i furti si succedono frequentemente ed audacemente; è cerio che questi fatti rimangono impuniti, tuttoché si commettano bene spesso alla luce stessa del giorno.

131 - TORNATA DEL 4 DICEMBRE

Ora, signori, non si può tollerare che una città, e sovratutto una città così illustre, cosi benemerita alla causa nazionale, la quale sostenne una lotta cosi viva contro le armi straniere e contro il poter temporale, non si può, dico, tollerare che venga in questo modo ed impunemente funestata da casi cotanto sinistri. Io ho fede che, se il Ministero vuole rigorosamente far applicare da' suoi dipendenti con zelo e con energia le leggi che esistono, e soprattutto quella di pubblica sicurezza, la quale viene censurata per soverchia severità, io, dico, ho fede che in tal guisa avrà mezzi bastevoli, sia per iscoprire i colpevoli, sia per provocare contro di essi le debite pene. Ma, se anche per avventura le leggi attuali facessero difetto, se i mezzi che esse forniscono fossero insufficienti, anche qui io ripeto ai signori ministri: proponete rimedi straordinari, ed il Parlamento ve li approverà, e Bologna, e quelle città che furono finora funestale, e tutte le città d'Italia faranno plauso.

lo certo non voglio far colpa al Ministero se non previene tatti indistintamente i reati che si commettono; io so che questo è assolutamente impossibile, che, per quanto grande e minuta sia la diligenza che si voglia esercitare, ciò non sarà mai nel potere di qualsiasi Governo. Ma non deve d'altra parte neppure ammettersi che un Governo non sia in grado dopo un anno di far sì che una città non venga più oltre afflitta da fatti così tristi e che i colpevoli che li perpetrano alla luce del giorno non siano scoperti e puniti.

Dopo d'aver parlato dell'Italia settentrionale, verrò all'Italia centrale, alle provincie toscane.

Anche in queste l'amministrazione procede senza grandi difficoltà. Quantunque siasi ivi tolto il governo centrale, e siasi fatto cessare quella specie di centro particolare che colà esisteva, tuttavia non si è svegliato alcun malcontento, e le cose procedono col più grande ordine e colla più grande regolarità. Ciò è dovuto, io lo riconosco, alla mitezza dell'indole di quelle provincie, ciò è dovuto a quel sentimento patrio, a quell'affetto verso l'unità nazionale che ha spinto le popolazioni toscane a dar le prime l'esempio di rinunciare alla propria autonomia, ad un'autonomia così splendida per tradizioni e per patria storia.

Vengo all'Italia meridionale. (Movimento d'attenzione)

La Sicilia si diceva un tempo che non poteva essere governata; tutti credevano che desiderasse di esser separata dalle altre parti d'Italia; almeno molti, che erano avversi all'unità, pensavano che al modo stesso che essa era divisa dal continente dal mare, volesse pure essere divisa con un'amministrazione propria. Ebbene, o signori, tutto all'opposto, anche in Sicilia le cose procedono con ordine, le leggi sono rispettate, non sorge alcun partito avverso al Governo, e niuno, almeno per quanto ci consta, si duole dello stato delle cose. La leva stessa, quell'instituzione che il Governo borbonico non aveva osato introdurre in quell'isola, la leva, dico, si è stabilita, e fu posta in esecuzione senza che sorgesse opposizione veruna.

Rimane a parlare delle provincie napolitani. (Segni di attenzione)

Signori, è precisamente colà che l'amministrazione incontra ostacoli, è colà che la legge rimane sovente ineseguita, e dove, e forza il dirlo, succedono falli i più gravi ed i più dolorosi.

Ma, diremo noi che questa condizione di cose sia tale da ingenerare serie inquietudini sull'avvenire d'Italia, da far temere dell'unione di quelle provincie alla restante parte d'Italia! Io, signori, non lo credo: ho anzi pienissima fede nel sentimento generoso delle provincie napoletane, lo ho la pia salda convinzione che quelle popolazioni

sono più che mai sinceramente devote al principio unitario, e che a patto alcuno non intendono sciogliere il vincolo che le lega alle altre provincie. E questa convinzione è profonda in me, ed è corroborata da due fatti incontestabili: voglio dire il fatto stesso dell'annessione e il plebiscito.

Credete voi che, se il sentimento nazionale non fosse stato profondamente radicato nelle popolazioni napoletane, avrebbe potuto, in sì breve tempo, compiersi quel maraviglioso fatto della loro annessione alla restante parie d'Italia! Credete voi che quell'eroico guerriero, per quanto grande fosse il suo prestigio, potesse da solo distrurre quasi un esercito regolare, l'esercito borbonico, e presentarsi nella città di Napoli solo, o accompagnato da pochi compagni, se non fosse stato perché egli si presentava colla bandiera di Vittorio Emanuele e col principio dell'unità italiana; e che questa bandiera e questo principio erano seguili dall'entusiasmo di tutte le popolazioni napoletane? (Bravo! Benissimo!) Credete voi che, se questo non fosse stato il voto di quelle popolazioni, avrebbero esse schiettamente, e senza l'opera di alcun'arle, deposto il loro voto che poneva il suggello all'unione delle provincie napoletane col resto d'Italia? No, certo.

Ora, o signori, io non posso persuadermi che nel breve giro di pochi mesi quel sentimento nazionale che indusse quei popoli a distrurre una dinastia la quale regnava da oltre un secolo in quelle provincie; che li indusse a quella solenne manifestazione di volersi unire colle altre parti d'Italia; non posso, dico, persuadermi che quel sentimento sia stato senz'altro distrutto, che un sentimento contrario sia sorto in loro; anzi io ho pienissima fede che quelle popolazioni (e gli ultimi fatti me l'accertano ancora meglio) siano più che mai affezionate all'idea dell'unità; siano disposte a sopportare con grande abnegazione i pesi che il conseguimento di quest'unità può richiedere. E tutto questo, signori, mi è grato il dirlo, splendidamente lo provò l'abnegazione colla quale, ora son pochi giorni, in questa stessa Assemblea, i deputati di quelle provincie pressoché unanimi votarono il decimo di guerra, malgrado si trattasse di colpire una parte di quelle provincie che erano ancora infestate dai briganti, e che quindi non possono facilmente sopportare un peso di questa natura.

Ma, signori, è facile lo spiegarsi che, quand'anche tale sia il sentimento nazionale, tuttavia, per quei falli dolorosi, l'amministrazione debba soffrire degli incagli.

Una dinastia secolare è caduta; ed una dinastia, per quanto invisa alle popolazioni, non cade senza che lasci impresse le orme della sua passata esistenza. Non fosse altro, gli uomini dei quali la dinastia stessa si serviva per opprimere i cittadini, naturalmente debbono essere a lei affetti, se non per amore, almeno per interesse; essi devono necessariamente desiderare che il principe caduto ritorni sul trono.

Se a questi interessi si aggiunge il partito del clero, che, avversando l'unità italiana, ha pure necessariamente interesse di avversare l'unione delle provincie napoletane colle altre parli d'Italia, sarà facile lo spiegarsi come il Borbone, il quale si collocò a Roma in vicinanza del regno di Napoli, abbia potuto così facilmente organizzare in suo favore, e per difendere la propria causa, il brigantaggio. Ma, signori, questo brigantaggio, e per la sua stessa natura, e peri limiti, entro i quali è circoscritto, e per gli uomini che lo dirigono, lungi dal poter dimostrare che vi sia pericolo per l'unione, giova, a mio avviso, a sempre meglio far conoscere come quest'unione non possa essere grandemente compromessa.

Quando un partito per manifestarsi è costretto a vestirsi. delle sembianze del brigantaggio, quando un principe è caduto si basso, che per risalire sul trono è costretto di spingere sopra quei cittadini, che ancora intende governare,

132 - CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1801

briganti che li taglieggino e li uccidano, quel principe col suo partito è condannato, si giudica da sé stesso. Il tempo, in cui il brigantaggio e l'assassinio erano scala al trono, è per sempre passato. (Bene!) Il numero stesso, come la qualità degli uomini che dirigono il brigantaggio, è di poco momento.

Fra i partigiani del Borbone, fra quelli che non abbandonarono la sua causa, vi sono certamente uomini conosciuti, uomini di valore. Non sono pochi i generali che accompagnarono quel principe nel suo esilio; ebbene, signori, forsechè un solo di questi osa porsi a capo del brigantaggio?

Per aver dei capi, i briganti furono costretti ricorrere ad un Chiavone, ad un Donatello, uomini conosciuti unicamente per la loro proverbiale ferocia, e per la loro ignoranza; furono costretti a ricorrere ad un Borges inviato dalla Spagna; ma certo non poterono trovare un sol uomo il quale meritasse, pel suo carattere, la stima de' suoi concittadini.

Ponendo a confronto questo fatto con quanto avvenne nel secolo passato, cioè col moto ch'erasi organizzato dal cardinale Ruffo, si vede che quel moto era diretto da uomini che potevano avere un qualche valore, e che in poco tempo il medesimo si propagò, dal punto dove fu iniziato, sino alla città di Napoli. Ora invece il brigantaggio da più mesi rimane circoscritto in poche provincie, rimane senza capi, in guisa che nemmeno una città cadde in mano dei briganti. E non solo il brigantaggio rimane circoscritto a poche provincie, ma rimane circoscritto a quelle provincie le quali confinano cogli Stati pontificii.

È bensì vero che in sul principio il brigantaggio avea tentato di manifestarsi sulla punta estrema delle Calabrie; colà il Borges era disceso dai lidi della Spagna, dai lidi di quella nazione (è doloroso a dirsi), di quella nazione, la quale, nei tempi passati e nei presenti, lottò grandemente per la sua indipendenza.

Ebbene da quei lidi il Borges sbarcava sulla punta estrema delle Calabrie, sperando che colà potesse metter radici il brigantaggio, nel modo stesso che Chiavone lo dirigeva negli Abruzzi. Ha le popolazioni si mostrarono avverse, e Borges è costretto di lasciare libera quella parte d'Italia e trasportare il brigantaggio in Basilicata, là dove può, col mezzo della provincia avellina, mettersi in comunicazione con Chiavone, il quale riceve i suoi rinforzi dagli Stati pontifici. Il che dimostra che realmente il vero centro di quel brigantaggio non sta nelle provincie napoletane, non è fondato sul sentimento di quelle popolazioni, ma invece, e unicamente, viene fomentato da quella reazione che ha il suo centro a Roma.

Ora, o signori, qualunque sia Io scopo di questo brigantaggio, qualunque sia il rumore che ne menano i reazionari, certo non è a temere; ma è sommo dovere del Governo di farlo cessare. È dovere grandissimo di farlo cessare, non solo perché quelle popolazioni hanno diritto ad avere la loro vita e sostante sicure, ma è un dovere anche rispetto all'Italia; poiché giammai si potrà credere che l'Italia sia fortemente e solidamente costituita, se non proviamo che siamo in grado di rassicurare tutte le provincie, e di far cessare si funesti mali.

Ora, per farli cessare, due debbono essere specialmente i mezzi da usarsi.

Uno è l'azione diplomatica, l'altro è l'azione interna del Governo.

L'azione diplomatica è questa: dacché rimane dimostralo evidentemente che il centro da cui si movono le fila per dirigere questo brigantaggio è posto negli stati pontifici, io credo che il Governo sia in diritto di altamente reclamare contro questo fatto; mentre non è lecito ad un Governo di permettere che nel suo territorio si ordiscano congiure per assassinare le popolazioni del territorio vicino.

Ritengo che, se il Governo dirige i suoi richiami verso il Governo francese, la sua voce sarà ascoltata; è impossibile che quel Governo non senta i doveri d'umanità; e, sentendo questi doveri, non comprenda che la sua bandiera non può e non deve proteggere un altro Governo, il quale tollera che sul suo territorio si commettano cosi scandalosi fatti.

Un altro mezzo è quello dell'azione interna del Governo. Quivi il Ministero deve non solo valersi dell'esercito nazionale, ma eziandio di tutti i mezzi che le forze vive di quella parte d'Italia gli somministrano; egli deve valersi e della guardia nazionale e dei cittadini tutti, i quali spontaneamente e volontariamente si dispongono a far sì che cessi quel terribile flagello; essi sono più che mai interessati ad adoperarsi in modo che i briganti scompaiano e sieno distrutti; perché si tratta di salvare le loro vile e le loro sostanze. Se quindi il Governo fa appello ad essi e vuole servirsene, egli è certo che il suo richiamo non tornerà inefficace. Io ho, signori, fede grandissima nella fermezza, nel carattere e nello zelo di quell'illustre generale che il Ministero prepose a capo di quelle provincie, ed a cui è affidata specialmente la cura di estirpare il brigantaggio; ho fede che egli, dotato com'è di tutte le doti di mente e di cuore, condurrà a compimento quell'opera difficilissima che è stata iniziata da uno dei nostri colleghi, che mi duole di non vedere su questi banchi, dal generale Cialdini. Ma, signori, un uomo solo non basta, è forza che il Governo gli dia tutti i mezzi di cui egli abbisogna e che possano essere richiesti dalla gravità delle circostanze. Il Ministero deve dunque fornirli; ei deve riflettere che questa è una grande e suprema necessità, perché, senza la pacificazione di quelle provincie, senza l'estirpazione di quel brigantaggio, non si avrà mai fede in Europa sulla solidità del Governo in quelle contrade, e non sarà mai libera l'azione di una parte del nostro esercito, il quale è principalmente chiamato a difendere dallo straniero il suolo italiano, anziché a combattere e distrurre i briganti.

Ma, signori, noi non abbiamo solo a provvedere ad alcune Provincie, noi non abbiamo solo a rivolgere l'attenzione alle Provincie napolitano, dobbiamo provvedere a tutte le provincie dello stato. Ora io son d'avviso che, quando lasciamo in disparte l'esame speciale dulie varie provincie, il primo bisogno di uno stato in generale sia quello di un'amministrazione interna che sia fortemente costituita e regolarmente ordinala.

Egli è impossibile, signori, che, quando si succedono repentini cambiamenti per effetto di rivoluzione, le amministrazioni non si scompongano, si renda più difficile il servizio pubblico, succedano confusioni, e l'amministrazione stessa non rimanga grandemente indebolita; è impossibile che talvolta l'arbitrio non sottentri in qualche parte all'azione legittima e più efficace della legge. Ma, appunto perché in queste contingenze le difficoltà sono più grandi, perché più grande e più difficile è l'opera, tanto più attiva ed energica dev'essere l'azione del Governo.

Per superare questi mali, egli è, a mio credere, indispensabile che il Governo si dia la più indefessa, la più costante sollecitudine, affinché la mano sua si faccia sentire sopra tutte le amministrazioni, sopra i singoli rami di essa. Se le leggi che attualmente esistono possono avere qualche difetto, il Governo ne chieda la modificazione al Parlamento; son certo che noi tutti ci porremo d'accordo per introdurla;

133 - TORNATA DEL 4 DICEMBRE

intanto, finché le leggi esistono, egli deve curarne con mano sicura ed energica l'esecuzione, e deve soprattutto impedire che queste leggi vengano violate dai cittadini, e trascurate dai suoi agenti.

Un'altra cura importantissima e che interessa tutto Io stato è quella che riguarda le finanze.

Questo è un oggetto che deve, a mio avviso, particolarmente richiamare l'attenzione del Ministero, poiché dipende soprattutto dall'ordine e dalla floridezza delle nostre finanze il poter porre in sicuro il nostro avvenire. Se le finanze non sono ordinate, certo egli è difficile che l'Europa possa aver fede in noi.

Ora, io posso ingannarmi, ma mi pare che il riordinamento delle finanze non debba essere un'opera né molto difficile, né certo impossibile.

Il nostro bilancio, o signori, il bilancio del nuovo regno d'Italia non è che il complesso dei vari bilanci particolari dei singoli antichi stati, di cui il nuovo regno è composto.

Ora è innegabile che i vari bilanci di questi Stati particolari erano quasi tutti al pareggio tra l'attivo ed il passivo ordinario.

SCIALOJA. Domando di parlare.

RATTAZZI. Anche il Piemonte, il quale ha dovuto sottostare a multissitui sacrifici per la causa comune, e perciò contrarre molti debiti, non ostante le passività che ne derivarono, avendo portato un aumento relativo nelle imposte, anche il Piemonte, dico, avea quasi interamente pareggiato nella parte ordinaria il suo bilancio.

Ora, o signori, come può essere che questi bilanci particolari, i quali separatamente presentavano il risultato di un pareggiamento tra l'attivo ed il passivo, insieme riuniti diano invece luogo a quell'enorme disavanzo che esiste tra le spese e le entrate ordinarie del bilancio complessivo?

È vero che in alcune località si sono ridotte le imposte; è vero che negli eventi straordinari succeduti si dovettero fare straordinarie spese, e che per farvi fronte si dovette aumentare la rendita passiva; ma, quand'anche si tenga conto di queste circostanze speciali, non è ancora spiegato l'enorme disavanzo che esiste.

Aggiungo che, se da un lato, per cause straordinarie, crescevano le spese, il fatto stesso della riunione in un solo dei varii Stati e dei vari bilanci d'Italia, dovette necessariamente far luogo ad una diminuzione nelle spese. Vi sono certe spese generali, quelle dell'amministrazione centrale, ed altre molte, le quali dovrebbero essere ora minori di ciò che fossero per il passato, quando si ripetevano in ciascuno degli speciali bilanci.

Perché dunque, ripeto, s'incontra nel bilancio generale questo enorme divario? Questo, o signori, mi fa pensare che vi sia nell'amministrazione qualche vizio, che si faccia qualche spesa, la quale con amministrazione più regolare e con maggiore economia potrebbe forse evitarsi.

Io invito il Ministero a presentare il bilancio, e prontamente, perché questo è il solo mezzo di conoscere le cause dell'inconveniente, di spiegare il fenomeno che le spese vengano ad accrescersi, quando doveva esservi diminuzione, e di conoscere quale sia il rimedio da apprestare. Io invito e prego quanto so e posso il Ministero a non indugiare più oltre a fornirci questo mezzo di conoscere come si possa giungere all'ordinamento finanziario del regno.

Io lo invito e lo prego a farlo nel suo proprio interesse, poiché io so bene come talvolta costi al Ministero il togliere certi abusi, il fare scomparire certe irregolarità

che nel bilancio s'incontrano, irregolarità, le quali, se sono a vantaggio di alcune persone, tornano però a gravissimo danno dei contribuenti.

So, ripeto, che il far cessare questi inconvenienti torna bene spesso di fastidio al Governo. Ebbene, egli può facilmente togliere da sé ogni responsabilità, può liberarsi da qualsiasi odioso provvedimento, lasciando che il Parlamento metta egli stesso la scure sopra codeste categorie del bilancio, e tolga cosi gli abusi che non possono a meno che tornare gravosi ai contribuenti.

Un'altra cura non deve il Governo omettere, ed è quella dell'ordinamento dell'esercito e dell'armamento nazionale. Mi è grato qui, signori, di rendere il più solenne e più sincero omaggio al valore, alla disciplina ed al sentimento patrio del nostro esercito; ed io tengo per fermo che, se i giorni di nuove prove dovessero presentarsi, egli, guidato dall'intrepido e valoroso nostro principe, dimostrerebbe come esse sia sempre quell'esercito agguerrito ed intrepido di Palestro, San Martino e Castelfidardo. (Bene!)

Credo pure che egli sia anche per numero più forte di quello che i nemici d'Italia vanno supponendo, e non posso ammettere quanto affermava in questa stessa tornata l'onorevole Ricciardi, che il nostro esercito sia sovranamente difettoso; ma ciò nondimeno non credo che abbia ancora raggiunto quel numero e quello sviluppo che corrisponde al numero dei cittadini ed al ragguaglio delle popolazioni che formano il regno d'Italia.

La causa ne è palese, perché si è disfatto l'esercito borbonico, e tutta quella parte di forza che avrebbe potuto concorrere alla formazione dell'esercito nelle leve anteriori è mancante; non vi rimangono che le leve che dovranno farsi in appresso, ed è pur forza attendere che queste forniscano il loro contingente, onde l'esercito possa portarsi al normale suo compimento.

Ma appunto perché non è possibile avere si presto, e come i tempi lo possano richiedere, interamente compiuto il nostro esercito, il Ministero non può e non deve disprezzare le altre vie che pur gli si presentano per la difesa della patria, per l'armamento nazionale.

Egli deve specialmente rivolgere la sua attenzione alla guardia nazionale; egli deve valersi dei volontari; egli deve sovra tutto mettere in attivazione quell'istituzione della guardia mobilizzata, che fu votala dal Parlamento, e che non so per qual motivo sia stata pressoché nei mesi scorsi abbandonata. (Bravo! a sinistra)

Oltre tutto questo, il Governo deve pur valersi di tutte indistintamente le forze attive della nazione; deve valersi di tutti gli uomini, a qualunque partito appartengano.

Certo, o signori, io non intendo di dire che il Ministero debba rivolgersi agli uomini che sognano il passato col ritorno delle auliche dinastie, od avversano l'unità italiana sotto il pretesto della religione. Io non intendo che debba valersi di quegli uomini, i quali vogliono bensì l'unità italiana, ma non la vogliono colla forma monarchica, colla dinastia della Casa di Savoia.

Lungi dal favorire costoro, io credo che incomba al Governo uno strettissimo obbligo di combatterli, e quanto più li combatte energicamente, tanto più farà conoscere quanto poca sia loro forza. Allora solo saranno audaci e potenti, quando il Governo li accarezzerà. Ma, mentre credo che non deve valersi degli uomini i quali avversano l'unità italiana o non la vogliono colla bandiera della Monarchia e della Casa di Savoia, altrettanto, io dico, il Governo deve, senza distinzione di partito, senza tener conto di diversità di opinioni in questioni più o meno secondarie,

134 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

valersi indistintamente di tutti coloro i quali sinceramente accettarono l'unità nazionale colla bandiera della Monarchia e della Casa di Savoia. (Bravo! Segni di approvazione)

Sta bene, o signori, che quando un paese è costituito, quando più nulla rimane a compiersi, quando tutti i dissidi possono essere ristretti sopra questioni interne, sopra difficoltà di amministrazione, sta bene, o signori, allora che si lascino in disparte gli uomini i quali non sono interamente del nostro colore, i quali sostengono un'opinione che non sia interamente la nostra. Ma, allorché lo scopo principale cui miriamo è il riscatto della patria; allorché ci rimane a compiere l'unità; allorché abbiamo tante difficoltà da superare; allora, o signori, io dico, non è più questione di differenze tra opinione ed opinione. Tutti coloro i quali sinceramente vogliono questo riscatto, i quali sinceramente vogliono che l'Italia una sia costituita, i quali vogliono che quest'unità si costituisca colla forma che noi unicamente sosteniamo, colla dinastia della Casa di Savoia, tutti debbono concorrere unanimi e concordi nel prestare l'opera loro al Governo, per fare che questo desiderio si compia. (Applausi)

Questo, secondo me, è il solo mezzo di ottenere la concordia tra noi; quella concordia che è assolutamente indispensabile, perché il paese si organizzi e si costituisca; quella concordia, senza la quale è impossibile che si attraversino le grandissime difficoltà nelle quali versiamo.

Ed è appunto perché io faccio appello a questa concordia, che ho sentito or ora con grandissimo dolore in questa tornata un oratore a sollevare questioni, le quali, lungi dal ridurre gli animi a benevoli e concordi sensi

RICCIARDI. Domando di parlare per un fatto personale.

RATTAZZI. non fanno che richiamarli a meschine gare municipali ed a divisioni, che debbono per sempre scomparire.

Signori, non dimentichiamo che l'Europa ci contempla. Essa vede che l'edilìzio della nostra costituzione, lo stabilimento della nostra unità è attualmente riposto nelle nostre mani e nel nostro senno, perché dipende principalmente dal nostro ordinamento. Noi possiamo compierlo liberamente e senza tema di esserne distolti. E, per vero, dovremmo forse temere un'invasione straniera la quale ci turbi quest'opera? No, o signori, niuno intende di molestarci; l'Austria può fremere, ma ci deve lasciar tranquilli. Dovremo temere qualche fanatico avventuriero che scenda sulle coste di una delle nostre provincie? Mio Dio! questa sarebbe un'assurda supposizione. Dovremo temere che qualcuno il quale sogni il ritorno delle antiche dinastie possa compromettere la nostra unità? Ma anche questa sarebbe una supposizione più stolta che le altre.

Noi dunque, o signori, siamo padroni dell'opera nostra; quest'opera è affidata al nostro senno ed alla nostra concordia. Dio non voglia, ed io lo spero, che la storia non abbia a dirci che quest'opera o fu compromessa o fu ritardata per la nostra imperizia o per la nostra discordia. (Applausi nella Camera e dalle gallerie pubbliche)

PRESIDENTE. Il deputato Pisanelli ha facoltà di parlare per un fatto personale.

PISANELLI. Le cortesi parole con le quali l'onorevole nostro presidente ha fatto cenno del mio discorso m'inducono a supporre che non gli sia giunto intieramente al suo orecchio. Non potrei altrimenti spiegare come egli abbia potuto credere che io, noverando alcuni fatti avvenuti nel Napoletano, abbia inteso di quei fatti fare carico al Ministero.

Il mio intendimento è stato un solo, quello di esporre nettamente i mali che sono in Napoli e le loro cagioni. Facendo ciò, io credeva di poter chiarire la Camera

intera sulle condizioni vere del mio paese, ed intendeva di adempiere ad un obbligo che ho come deputato. Ma dei mali che esistono nel mio paese io diceva ciò che lo stesso onorevole presidente della Camera ha testé ripetuto, cioè che una gran parte di questi mali era inevitabile, ed un'altra parte era da addebitarsi alle amministrazioni precedenti, e che una piccola parte soltanto doveva mettersi a carico dell'amministrazione presente.

Chiarito l'intendimento del mio discorso, io non doveva entrare a valutare le difficoltà che le amministrazioni passate, o la presente, avevano potuto incontrare, né gli errori in cui esse erano incolte.

Ed io credo che l'onorevole nostro presidente Rattazzi, rileggendo le mie parole, farà quella giustizia che io merito.

PRESIDENTE. Il deputato Ricciardi ha facoltà di parlare per un fatto personale.

RICCIARDI. In verità, da tutt'altri mi sarei aspettato un rimprovero, fuorché dal nostro dilettissimo presidente (Risa), il quale vorrei paragonare a un maestro. (Si ride) Il maestro conosce naturalmente tutti i suoi scolari. Ora egli forse mi tiene per uno scuoiare alquanto indisciplinato (Risa); ma io non credo avergli mai dato il diritto di dubitare minimamente de' miei sentimenti altamente italiani. (Rumori)

Voci. Ma no! ma no!

Rattizzi. Chiedo di parlare per un fatto personale.

RICCIARDI. Ne' miei discorsi io ho sempre inculcato la concordia; io ho sempre accolto nel cuore un affetto grandissimo per tutte le parti della gran famiglia italiana, e nel mio discorso a non altro s'intese da me che a rimuovere qualunque cagione di dissidio fra le varie nostre Provincie.

Io credo, del resto, che la maggioranza de' miei colleghi mi conosca abbastanza, da non dubitare delle mie intenzioni; il perché non annoierò più oltre la Camera.

PRESIDENTE. Il deputato Rattazzi ha facoltà di parlare per un fatto personale.

RATTAZZI. Io credo che l'onorevole Ricciardi, nel volermi chiamare maestro, non abbia esattamente interpretate le mie parole. Io gli osservo che non ho mai inteso di porre in dubbio l'italianità de' Suoi sentimenti, io non ho giammai posto in dubbio che l'onorevole Ricciardi, il quale ha spesa la sua vita, ha dedicati tutti i suoi studi ed i suoi affetti al risorgimento italiano, non ho mai dubitato, dico, ch'egli nutrisse una sincera affezione alla causa nazionale, e che tutti i suoi atti fossero diretti a questo scopo: io ho unicamente osservato che le idee da lui espresse, quando venissero più oltre manifestate, avverserebbero, senza che tale possa essere la di lui intenzione, avverserebbero quella concordia che deve regnare fra noi; ed avversando la concordia degli animi, renderebbero anche più difficile il compimento della unità nazionale. (Segni d'approvazione)

PRESIDENTE. La parola spetta ora al deputato BonCompagni.

BONCOMPAGNI. Io sono a disposizione della Camera; ma l'ora è tarda, né io potrò esser breve...

Voci. A domani! a domani!

PRESIDENTE. Signori, faccio riflettere che non sono ancora le cinque...

Voci. Parli! parli!

PRESIDENTE. La Camera desidera che l'onorevole BonCompagni prenda a parlare; i signori deputati sono pregati di rimanere al loro posto.

Voci. A domani! a domani!


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135 - TORNATA DEL 4 DICEMBRE

BONCOMPAGNI. Ripeto che io sono agli ordini della Camera, ma preferirei veramente parlare domani.

La Camera ha prestato molta attenzione, tutta l'attenzione che meritava al discorso dell'onorevole suo PRESIDENTE. Credo quindi che ora difficilmente potrebbe ancora udir me volontieri; perciò pregherei la Camera di voler rimandare a domani il mio discorso.

PRESIDENTE. Consulto la Camera se intenda...

Ara. Chiedo di parlare.

Ieri si sono intesi tre discorsi contro la politica del Governo, mentre, stando alla regola ordinaria, se ne doveva sentire uno in un senso, l'altro in un altro. Quest'oggi non abbiamo neppur sentito un discorso in favore. Ora credo che sarebbe utile rimandare la discussione a domani pel motivo che sarebbe impossibile che il discorso che s'incomincerebbe venisse compiuto.

PRESIDENTE. Avverto l'onorevole Ara che oggi, come ieri e ieri l'altro, fu seguito l'ordine d'iscrizione. Dei tre oratori che s'udirono, l'uno era inscritto contro, il secondo in merito, il terzo in favore. Spetta alla Camera giudicare quali sieno le conclusioni di coloro che parlano; ma certo il presidente non può prima che parlino indovinare l'animo loro.

Prego i signori deputati di votare sulla proposta che loro sottopongo.

Quelli i quali intendono che la discussione sia rinviata a domani, si alzino.

(La discussione è rinviata a domani. )

L'adunanza è sciolta alle ore 5.

Ordini del giorno per la tornata di domani:

Seguito delle interpellanze al Ministero intorno alla questione romana ed alle condizioni delle provincie napolitano.

TORNATA DEL 5 DICEMBRE 1861

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE TECCHIO, VICEPRESIDENTE.

SOMMARIO. Omaggi. = Annunzio di decesso del deputato De Luca Placido. - Comunicazioni. - Domanda del deputato Greco Antonio relativa ad un accordo col Governo francese per impedire il brigantaggio, e risposta del presidente del Consiglio - Presentazione di un disegno di legge del deputato Nelli. = Seguito della discussione intorno alla questione romana ed alla condizione delle provincie napoletane - Incidente tra il deputato Zappetta ed il presidente circa le interpellanze da fare - Avvertenze del presidente del Consiglio, e deliberazione - Discorso del deputato BonCompagni in favore dell'operato del Ministero - Discorso contro, e interpellanza del deputato Zuppetta - Spiegazioni personali dei deputati Farini, Pisanelli e Zuppetta - Considerazioni del deputato De Blasiis in favore degli atti ministeriali - Discorso del deputato MandojAlbanese.

La seduta è aperta all'una e un quarto pomeridiane.

MASSARI, segretario, di lettura del processo verbale della (ornata precedente, che è approvato.

CAVALLINI, segretario, espone il seguente sunto di petizioni:

7635. Bulgarini Eleonora, vedova del principe Sigifredo Gonzaga, da Cremona, ricorre per essere provveduta di pensione vitalizia.

7626. De SolisSolito Chiara, da Napoli, domanda di essere riammessa nel godimento dell'assegno che percepiva dal monte della misericordia, e le vengano corrisposti gli arretrati non percepiti dal gennaio a quest'oggi.

7637. La Giunta municipale e varii proprietari di Cerchio, in provincia d'Aquila, circondario di Avezzano, chiedono che la casa religiosa dei minori osservanti in quel comune venga conservata.

7638. Il sindaco di Camarda, provincia di Abruzzo Ulteriore secóndo, circondario di Paganica, trasmette una petizione dei frati minori osservanti del convento di Assergi,

tendente ad ottenere la esclusione del loro ordine religioso dalla soppressione ordinata dal Governo.

7629. Bosio Pietro, di Vertova, circondario di elusone, provincia di Bergamo, domanda l'esenzione dal servizio militare a favore del suo nipote Agostino.

7650. Il sindaco di Magisano, circondario di Catanzaro, provincia di Calabria Ulteriore seconda, fa istanza perché si provveda a riparare prontamente ai danni che derivarono dalla distruzione di quell'archivio comunale, succeduta per opera dei briganti.

ATTI DIVERSI.

Presidente Il deputato Altieri di Magliano fa omaggio di 10 esemplari di un suo scritto: Della impresa italica e dei mezzi per compierla.

II sacerdote Paracca Giuseppe fa omaggio di 100 esemplari di un suo opuscolo: della riforma del clero cattolico.

Il ministro dell'interno fa omaggio di 10 esemplari di un quadro del personale superiore delle prefetture e sottoprefetture del regno d'Italia.

Il ministro dell'interno scrive alla Presidenza della Camera dei deputati, annunziandole la morte avvenuta in Parigi del professore Placido De Luca, deputato di Regalbuto

136 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1801

.Lo stesso ministro scrive:

«In riscontro alla pregiata nota dell'onorevole signor presidente della Camera dei deputati in data 26 prossimo passato novembre, il sottoscritto ha l'onore di notificargli che le considerazioni relative al collegio elettorale di Naso, ed all'opportunità di raccoglierlo in minor numero di sezioni, saranno prese nella debita considerazione e sottoposte al Parlamento, allorché si discuterà la legge sull'ordinamento del regno.

Per ora il sottoscritto non reputerebbe opportuna una parziale modificazione, mentre in più luoghi si riconobbero necessarie delle riforme sull'attuale circoscrizione dei collegi elettorali.»

(Il deputato Scoccherà presta il giuramento. )

Il deputato Greco ha facoltà di parlare.

GRECO ANTONIO. Desidererei di fare una domanda al signor ministro degli altari esteri.

Diversi giornali hanno pubblicata una notizia, che è bene che il paese sappia se sia vera oppur no. Si è detto che il nostro Governo sia venuto ad accordo col Governo francese intorno al modo con cui impedire le ulteriori aggressioni dei briganti, ed il loro irrompere dalla frontiera pontificia nelle Provincie napoletane. Sarei desideroso di sapere se questa notizia sia vera, e se l'accordo sia nei limiti di vietare il passo ai briganti che dallo Stato pontificio sono sguinzagliati nelle Provincie napoletane, oppure di agire di conserva colle truppe francesi, nel territorio napoletano, per distruggere il brigantaggio insieme coi nostri soldati.

RICASOLI, presidente del Consiglio. Io chiedo il permesso alla Camera di rispondere alla domanda dell'onorevole Greco quando il Ministero piglierà la parola nella discussione della quale ci occupiamo.

PRESIDENTE. Avverto la Camera che il deputato Nelli ha presentato una proposta di legge che sarà trasmessa agli uffici.

NELLI. Vorrei pregare la Camera a volersi compiacere di ritenere l'urgenza del progetto di legge che ho avuto l'onore di presentare. E ne dirò brevemente le ragioni

PRESIDENTE. Non si può dire di che si tratti finché non ne sia autorizzata la lettura; solamente sarà raccomandata l'urgenza agli uffici.

NELLI. Lo so, ma intendeva dire unicamente le ragioni dell'urgenza.

PRESIDENTE. Le osservo che non si può, perché per dimostrare l'urgenza bisogna entrare nel merito, mentre, secondo il regolamento, non si può neppure enunciare qual sia il soggetto od il sistema del disegno presentato, finché non ne sia stata autorizzata la lettura. Il deputato Nelli però può star certo che sarà il suo progetto caldamente raccomandato agli uffici per l'urgenza.

NELLI. Allora, basta cosi.

SEGUITO DELLA DISCUSSIONE SULLA QUESTIONE ROMANA E SULLE CONDIZIONI DELLE PROVINCIE MERIDIONALI.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno chiama il seguito delle interpellanze al Ministero sulla questione romana e sulle condizioni delle provincie napolitane e siciliane.

La parola è al deputato Zuppetta per una questione pregiudiziale.

ZUPPETTA. Mi si accorda dunque la parola?

PRESIDENTE. Sì, ma semplicemente per annunziare la sua questione pregiudiziale, perché altrimenti, secondo l'ordine d'iscrizione, la parola spetterebbe al deputato BonCompagni.

ZUPPETTA. Il giorno 20 novembre io aveva l'onore di far istanza che l'onorevole Camera ascoltasse certe mie domande relative alle cause delle malattie delle provincie meridionali e l'esposizione degli opportuni rimedi, e la Camera, dopo lunga discussione, con sua deliberazione accoglieva la mia istanza. Con altra deliberazione poi ne rimandava lo svolgimento al due dicembre. La discussione cominciava, sono decorsi oramai più giorni; hanno avutola parola parecchi oratori, ed io rendo loro grazie di tanti commendevoli argomenti che s'incontrano colle mie idee. Se non che colui che per l'appunto doveva prendere la parola è quegli che rimane ancora silente.

È nelle consuetudini parlamentari che l'interpellante debba avere la precedenza, fatta astrazione dall'ordine delle iscrizioni, e queste consuetudini sono conformi alla logica necessità.

Nel caso mio, io propongo, secondo la mia estimazione, l'enumerazione delle cause, l'enumerazione dei rimedi. perché altri oratori possano rispondermi, plaudirmi, confutarmi, ammendarmi, è indispensabile che anzi tratto ascoltino me nello svolgimento delle mie idee. Se altri mi obiettasse l'ordine delle iscrizioni, io farei riflettere all'onorevole. Assemblea che, anche secondo la lettera e lo spirito del regolamento, si deve aver la parola o colla domanda o coll'iscrizione.

Poiché non sono due modi per ottenere la parola, o quello delle domande, o quello delle iscrizioni. Io non solo ho una domanda che antecede, ma ho due deliberazioni dell'Assemblea; ho inoltre per me la logica ragione delle cose. Se bo potuto tollerare che altri avesse prima di me la parola, da questo momento reclamo altamente ciò che credo mio diritto, ritenendo che per un interpellante debba bastare l'ordine delle domande. In quanto ai non interpellanti si deve stare all'ordine delle iscrizioni. Credo quindi non essere troppo esigente, né troppo importuno, domandando che lo svolgimento della mia proposta abbia luogo nella presente tornata, sia prima, sia dopo del discorso dell'onorevole BonCompagni.

PRESIDENTE. Debbo su quest'incidente consultare la Camera.

Per accertare il fatto ho mandato testé a chiedere il processo verbale del giorno 20 novembre, in cui il deputato Zuppetta annunciava la sua interpellanza, alla quale, se mal non ricordo, egli aveva dato il nome di questione pregiudiziale.

Altri deputati avevano chiesto facoltà di muovere interpellanze al Ministero.

La Camera ha stabilito che su tutte le annunciate interpellanze avrebbe luogo la discussione nel giorno 2 dicembre. In codesto giorno, venuto io al seggio presidenziale, non vi ho trovato che la lista delle iscrizioni degli oratori, ed ho dovuto attenermi alla medesima. L'ordine d'iscrizione fu regolarmente mantenuto, salva l'eccezione che ieri, di consenso della Camera, si fece rispetto all'onorevole nostro PRESIDENTE.

Ora, secondo l'ordine delle iscrizioni, spetterebbe il diritto di parlare, come ho accennato, all'onorevole deputato BonCompagni. Dopo il BonCompagni, nella lista degli oratori inscritti in merito, il deputato Petruccelli tuttavia precede al deputato ZUPPETTA.

138 - TORNATA DEL 5 DICEMBRE

Debbo quindi interrogare la Camera se ella crede di concedere al deputato Zuppetta, siccome interpellante, la facoltà di parlare prima che si proceda oltre secondo l'ordine degli oratori inscritti.

DE BLASIIS. Domando la parola. ZUPPETTA. Chiedo la parola per uno schiarimento. Il signor presidente, leggendo l'ordine d'inscrizione, trova il mio nome dopo il deputato Petruccelli. Ma questa mia inscrizione è unicamente relativa alla questione romana, in quanto che, in ordine alla quistione napoletana, io sarei caduto nel ridicolo, se fossi andato ad inscrivermi, quando io interpellava, quando la Camera aderiva e quando la Camera fissava anche il giorno dell'interpellanza. E sarebbe ben nuovo in verità che tutti dovessero parlare, fuorché l'interpellante.

PRESIDENTE. Io veggo che l'inscrizione è complessiva, il titolo della lista è concepito colle seguenti parole: interpellanze sulla questione romana e sulle condizioni delle Provincie napolitane. E in effetto ha già sentito la Camera che negli scorsi tre giorni i vari oratori hanno tutti, qual più qual meno, toccate entrambe le materie.

Ora al deputato De Blasiis è accordata la parola sopra questo incidente.

DE BLASIIS. Io faccio osservare che l'interpellanza ammessa senza difficoltà dalla Camera il dì 20 novembre fu quella sugli affari di Roma (A sinistra: No! no!), ' e dopo una lunga discussione intorno alla convenienza di accogliere una seconda interpellanza sugli affari di Napoli, la Camera decise che gli oratori avrebbero potuto trovar motivo a parlare delle cose di Napoli al tempo stesso che si sarebbe discusso sulla questione, di Roma, L'iscrizione perciò degli oratori nel ruolo si è fatta cumulativamente e per l'una e per l'altra questione.

Se l'onorevole Zuppetta, che per verità fu il primo a chiedere di fare interpellanze sugli affari di Napoli, avesse voluto reclamare questa sua priorità, avrebbe dovuto farlo sul principio della discussione, poiché allora solo poteva sembrar logico ch'egli assumesse la parte d'interpellante e fosse il primo a parlare sugli affari di Napoli; ma poiché la discussione è messa in corso da quattro giorni, ed ora hanno parlato già una gran quantità di oratori e sull'una e sull'altra questione cumulativamente, non è più conveniente, mi pare, che il signor Zuppetta, che pur si è rassegnato a subire la conseguenza della sua tardiva iscrizione sul ruolo, sorga a chiedere una preferenza alla quale ha già rinunciato, e che gli altri che sono prima di lui iscritti debbano rassegnarsi a cedergli la parola.

ZUPPETTA. Io diverse volte mi sono occupato di quistioni di prescrizione; non ancora conosceva la teoria di una certa specie di priorità nell'iscrizione nella Camera: io aveva il diritto di domandare la parola sin dal primo di. Io per non avere l'aria di parlare con preferenza ho tollerato che altri parlassero; ma nel regolamento non trovo in vero nessuna prescrizione di questo genere. Farò notare che, supposto che nell'ordine d'iscrizione io mi trovassi l'undecimo, e che, dopo che la Camera avesse udito dieci oratori, venisse alla chiusura, si darebbe questo scandalo che, mentre l'interpellante domanda di essere ascoltato, e mentre sull'oggetto delle sue interpellanze si discute per intere giornale, non si vuole esso interpellante ascoltare. Questa è una teoria, la quale, sarà forse la pochezza del mio ingegno, non arrivo a comprendere; poiché allora quest'interpellanza dovrebbe cadere, cosa che non dovrebbe consentire la Camera, anche per la propria dignità. (Rumori a destra)

Due volte la Camera ha dichiarato che queste interpellanze sieno svolte: la prima volta, il giorno 50 novembre; la seconda volta, quando si annunziarono le interpellanze sulle cose di Napoli.

Non mi sembra poi che possa avere gran peso la circostanza che, essendosi le interpellanze di Napoli riunite a quelle sulle cose di Roma, si sieno fuse tra di loro, come noi, la Dio mercé, abbiamo fuse e andiamo fondendo le varie Provincie della nostra bella Italia.

Le questioni sono due: e rimarrà sempre distinta la questione delle provincie meridionali dalla questione romana. Che gli oratori inscritti per discutere sulla questione romana abbiano parlato della questione napoletana, è appunto ciò che ha indotto me a domandare di valermi di un diritto che io credo mi competa.

RICASOLI. presidente del Consiglio. Era intenzione del presidente del Consiglio dei ministri di chiedere la parola in questa tornata particolarmente, dopo che si fosse udito il discorso del signor BonCompagni; ma poiché il signor Zuppetta dichiara di aver materia assai importante da esporre, e interessante la presente questione, il Ministero sarebbe d'avviso, ove voglia consentirlo la Camera, che si concedesse la parola al signor Zuppetta, dopoché il deputato BonCompagni avrà parlato; il Ministero sarà lieto di poter accogliere, per comprenderle nella sua risposta, le nuove osservazioni che sarà per udire dal signor ZUPPETTA.

PRESIDENTE. Interrogo la Camera se creda che dopo il discorso dell'onorevole BonCompagni si debba accordare facoltà di parlare al deputato ZUPPETTA. (La Camera delibera affermativamente. ) La parola è al signor BonCompagni.

BONCOMPAGNI. Io non seguirò l'esempio dell'illustre oratore le cui eloquenti parole chiudevano ieri la nostra tornata. Tema del mio discorso sarà principalmente di esaminare se la presente amministrazione nell'indirizzo delle cose politiche abbia seguito lo spirito della deliberazione presa dalla Camera il 27 aprile dell'anno scorso e se abbia condotto queste pratiche con senno corrispondente alla grandezza degl'interessi che le erano commessi.

Al pari dell'onorevole Rattazzi io sono alieno dal suscitare questioni che possano dividere gli animi e render meno perfetta la concordia tra i ministri della Corona e i deputati della nazione.

Tengo tuttavia che essenziale prerogativa del Parlamento sia quella di chieder conto ai governanti della loro politica, e che la perfetta concordia tra i due poteri non si possa mantenere senza aperte e leali spiegazioni.

Innanzi di entrare nelle materie che io mi son proposto di trattare, prego la Camera che mi conceda di portare per un momento la sua attenzione sulle condizioni in cui si trovava l'Italia, allorquando le due Camere del Parlamento accolsero quell'importantissima deliberazione, e sugli effetti che essa produsse nell'opinione pubblica del nostro paese.

L'Italia aveva fatto una rivoluzione ed un governo. La rivoluzione mirava a rendere la nostra patria signora di sé, a distruggere tutti quei governi che servivano all'interesse dello straniero, nono! suo; la rivoluzione faceva sorgere un governo nuovo; questo non avea la sua ragione di essere nell'agitazione popolare, ma nella volontà degl'Italiani che si raccoglievano intorno al prode e leale rappresentante della sola dinastia che non fosse stata imposta all'Italia dallo straniero, ed acclamava quello Statuto che consacra ad un tempo i diritti della monarchia ereditaria e la liberti della nazione.

Da quel momento le sorti del Governo e quelle della rivoluzione furono inseparabili; nessun Governo tra noi potrà ottenere la fiducia del Parlamento e della nazione se non si adopererà alacremente a condurre al suo termine la rivoluzione, che dovrà rendere l'Italia tutta, senza eccezione di alcuna parte del suo territorio, signora di sé.

La rivoluzione non corrisponderà alle speranze che fece sorgere, ne avrà il voto dell'Europa civile, né il voto degli Italiani, se non si atterrà al principio che ella proclamava acclamando la monarchia di Savoia e lo Statuto costituzionale.

Erano cadute le monarchie di Toscana e di Modena stabilite nell'interesse austriaco; erano cadute le monarchie di Panna e di Napoli stabilite nell'interesse di casa Borbone, ma che servivano esse pure all'interesse dell'Austria, dappoiché la casa di Francia aveva cessalo di frammettersi nelle cose nostre.

Il nuovo regno italiano si trovava rimpetto alla sola delle monarchie già stabilite in Italia, la quale fosse sopravissuta io una sua parte a quella grande mutazione, alla monarchia di Roma, ammessa dal gius pubblico europeo come guarentigia della libertà della Chiesa cattolica, dell'indipendenza e della dignità del pontificato. Che cosa disse il Parlamento, che cosa disse il Governo accettando al cospetto di quella gran difficoltà il voto del Parlamento? Noi abbiamo detto tutti concordi: la rivoluzione italiana non si ferma né innanzi al patrimonio di san Pietro, né innanzi alle mura di Roma. Noi non abbiamo tenuto che fossero estranei all'Italia i grandi interessi che ci si diceva essere annessi alla conservazione del monarcato temporale del papa, la dignità e l'indipendenza del pontificato e la libertà della Chiesa; ma il monarcato del papa ci appariva come testimonio di dipendenza quando non si reggeva, se non in quanto cosi voleva chi teneva in Roma un esercito straniero.

Noi abbiamo detto: quelle guarentigie che ora si pretende che esistano, ma che in realtà non sono che una vana apparenza, l'Italia libera le darà, e le darà davvero.

In quali condizioni si trovava l'italiana opinione dopo questa dichiarazione? Permettetemi, prima ch'io risponda a questa domanda, che io ricordi le parole che scriveva trent'anni fa un illustre italiano sulla potenza temporale del papa, Pellegrino Rossi, quell'uomo, il cui nome ricorda una grande gloria ed un'immensa sventura italiana. Egli scriveva nel 1833, biasimando il modo a cui Napoleone I si era attenuto nell'abolire la potenza temporale del papa, ed accennando ad un tempo quali fossero le vie che sarebbero state conformi ad una sapiente politica. Ecco le sue parole:

«Mentre si proclamava altamente il principio della distruzione della potenza temporale del papato, sarebbe stato mestieri richiamarsi all'opinione dei popoli, e far loro comprendere che nemici della loro emancipazioni, non erano i vicari di Cristo, ma i principi temporali di Roma. Perciò conveniva anzitutto evitare ogni discussione religiosa, circondare la religione, i suoi istituti, i suoi ministri d'un rispetto profondo e sincero.»

Quel pensiero del grande statista era quello a cui si era ispirata la deliberazione della Camera, e da cui si era ispiralo l'illustre uomo di Stato che allora presiedeva al Consiglio della Corona nell'alto in cui la accettava.

Ma taluno di voi mi chiederà forse: nelle condizioni in cui si trovava l'Italia, colle ostilità aperte della curia romana, ed una gran parte del clero contro gli ordini nuovi, era possibile mostrarsi sinceramente ossequiosi alla Chiesa, sinceramente benevoli ai suoi ministri?

Anche qui io metterò innanzi le parole scritte dall'illustre pubblicista italiano che, essendo ambasciatore del re dei Francesi in Roma, scriveva in questi termini al ministro degli affari esteri per dargli contezza delle condizioni e delle opinioni correnti in Italia:

«Nel 1818, ed anche nel 1820 e nel 1321, eravi in Italia una parte che poteva chiamarsi filosofica Era imitatrice del 1789, e si componeva di letterati e di parecchi nobili. Accanto a quella parte, impotente oggi, che non fu guari nazionale mai nel senso proprio della parola, ne sorse un'altra meno impaziente, ma operosa e concitata, che o per persuasione o per calcolo, anziché porre in dileggio la Chiesa, l'onora e ne ricerca l'appoggio.

Certo l'alto clero ed il clero che si chiama gesuitico, e che è assai numeroso, l'osteggia; ma tutti gli altri ecclesiastici si pongono od inclinano a porsi nelle sue file. Non è da credere che siano eccezioni accidentali coloro che predicano la libertà e l'italianità considerate in relazione col cattolicismo. Le loro dottrine sono un sintomo, le loro parole sono una rivelazione, precoce di certo, esagerata forse, ma vera in sostanza, del lavorio che si va facendo nelle coscienze ecclesiastiche e cattoliche (1).

lo mi sento sopraffatto, o signori, quando penso alle vicende, alle agitazioni, alle speranze, alle disdette che commossero l'Italia dal 1847 infine ad ora. lo mi sento sopraffatto dalla grandezza di quest'Italia risorgente nella sua unità, che io non aveva sperato di salutare. Pure, anche al cospetto di queste grandi mutazioni, credo che le condizioni essenziali dell'opinione italiana in ordine al cattolicismo siano ancora quelle che Pellegrino Rossi descriveva nel 1847.

Si dice che il clero cospira contro di noi; ed io esorto i ministri quanto so e posso che provveggano alacremente, con tutti i mezzi che la legge loro somministra, per reprimere quei preti che, con pretesto di religione, cospirano contro il risorgimento della nazione. Ma lo esorto nello stesso tempo, e facendo questa esortazione confido di corrispondere alle loro intenzioni, che si attengano ai soli modi che convengono ad un popolo libero, che non permettano mai ad alcuno dei loro agenti di mettere l'arbitrio in luogo della legge, o di mettere i sospetti in luogo dei fatti provati.

lo credo, o signori, che vi ha nel clero una fazione mollo furibonda ed operosa che ha giurato la perdita delle nostre libertà; ma io persevero a dire, come diceva il Rossi nel 1847, che la conciliazione si deve fare, che essa è nella natura delle cose, che essa è conforme ai voti del popolo italiano.

Le condizioni vere dell'opinione italiana in ordine alle cose religiose sono per avventura più difficili ad esaminarsi che non paia a primo aspetto.

In quanto al laicato, io tengo per fermo che non vi abbia alcuna contrada in Europa dove le sincere convinzioni religiose siano più separate da ogni preoccupazione contraria a libertà. Di questa religione benevola, sapiente, cittadina, abbiamo l'esempio nell'uomo il cui nome è più illustre e più caro alla letteratura italiana, in Alessandro Manzoni.

In quanto al clero, la difficoltà a giudicarne è anche più difficile. Vi ha quel timore riverenziale che obbliga i vescovi a starsi soggetti al detto di Roma, che obbliga il clero inferiore a starsi soggetto al clero superiore; vi ha il dovere di coscienza,

(1) Vedi le parole del Rossi nella: Revue des Deux Mondes, 1er decembre 1801.

139 - TORNATA DEL 5 DICEMBRE

che prescrive a ciascun ecclesiastico di far passare gli obblighi religiosi del suo ministero innanzi agli interessi politici, e che gl'impone di non mettersi in grado di essere escluse dagli uffici gerarchici; vi ha la grande ignoranza di tatti quelli che non hanno altra coltura se non quella magra istruzione che ricevettero là dove fecero il tirocinio agli ordini sacri.

Costoro, alieni da noi solo per ignoranza, compiangono, o per coscienza o per timore, la necessità in cui sono di trovarsi in opposizione col Governo, e saluterebbero con gioia il momento in cui cessasse questa necessità.

Io vi affermo tuttavia che la parte più illuminata e più rispettabile del clero italiano è disposta a dar la mano a chi ama la libertà e la patria.

In una questione in cui è impossibile mettere innanzi dei nomi propri, ed in cui è difficile citare dei fatti pubblici, permettetemi che io ricorra alla mia memoria personale.

Per la parte che ebbi nelle cose di istruzione popolare e di beneficenza, per gli uffici che sostenni nella magistratura e che mi obbligarono spesse volte ad occuparmi degli interessi del clero, per un pensiero che mi ha sempre preoccopato delle immense difficoltà che potrebbe suscitare questa lotta, ho cercato sempre di conoscere le disposizioni del clero, ho cercato di avere delle relazioni personali con esso. Ebbene, o signori, io posso farvi questa dichiarazione, io che non dissimulai la mia opposizione alle prerogative temporali del clero, io che sostenni e colle parole e con la stampa l'opposizione alla potenza temporale del papa, io che propugnai questa sentenza nel Parlamento, nel clero non mi mancò per ciò una sola amicizia, né una sola simpatia; degli uomini che certo mi guarderò dal nominare, o di lasciar pure sospettare chi sieno, ma che tengono pure un luogo ragguardevole nella gerarchia ecclesiastica, degli uomini che io non conosco punto di persona mi espressero la loro benevolenza, la loro gratitudine pel modo in cui mi era adoperato a conciliare gli interessi della religione e della civiltà.

Pochi giorni dopo che io aveva parlalo in questa Camera contro la potenza temporale del papa, i miei elettori vollero onorarmi con una dimostrazione politica: ebbene, il clero del mio circondario elettorale prese luogo fra quelli che vollero darmi questi dimostrazione d'onore al pari di tutti gli altri celi della cittadinanza.

Ma vi hanno eziandio dei fatti pubblici. Noi abbiamo veduto in questi ultimi tempi degli ecclesiastici di grande autorità venire a propugnare a nome della religione il principio che noi sostenevamo. Havvi nel paesi vicini a noi, havvi pur troppo in tutte le contrade cattoliche una parte che si chiama cattolica e che si fa un dovere di associare i vili interessi della terra cogl'interessi eterni delle cose divine ed immortali. Fra noi vi La una parte cattolica ch esi affatica di conciliare questi due principi! r. che contrasta a chi vorrebbe farli vedere come ripugnanti. Sono illustri in Italia e sono venerati nel clero i nomi di monsignor Tiboni, dell'arciprete Salvoni, del canonico Ambrosoli, del padre Reali, dell'abate Perfetti, del padre Proto dell'ordine dei domenicani, del sacerdote Rinaldi, i quali scrissero in favore della distruzione del potere temporale del papa. Havvi un ordine, e non è necessario, o signori, che io vi accenni quale sia, vi ba un ordine il quale si rese famoso fino dalla sua istituzione pel calore con cui esagerò le prerogative spirituali, i diritti e il potere temporale del papato. Ebbene, il più illustre teologo di quell'ordine, il padre Passaglia, se ne separò per venire a propugnare la causa italiana cogli argomenti dedotti dall'ortodossia religiosa;

il suo scritto fu condannato, ed egli accolse la condanna colla coscienza del sacerdote che non si diparte dall'ossequio dovuto a' suoi superiori gerarchici, ma colla sapienza di colui che non confonde l'ossequio nelle cose spirituali coll'ossequio nelle cose temporali.

Due giorni fa noi abbiamo udito qui la voce dell'onorevole Brofferio, che lanciava contro di esse un nuovo anatema, lo spero che il padre Passaglia sopporterà quest'anatema con disinvoltura anche maggiore di quella con cui sopportò la condanna della curia romana. (Bravo! Bravo! Segni d'approvazione)

10 qui, o signori, non vi parlerò a nome di una credenza religiosa; credo che qui nessuno abbia diritto di chieder conto a chichessia delle sue intime credenze in ordine alle cose di Dio, come nessuno ha l'obbligo di venire qui a fare una professione di fede; ma credo che, legislatori di un popolo cattolico, dobbiamo tenere gran conto delle sue credenze religiose. E quando io guardo ai nomi autorevoli che vi ho citato nel clero, credo poter dire oggi quello che diceva l'illustre Pellegrino Rossi: che si va facendo un gran lavorio nelle cosciente ecclesiastiche e cattoliche in favore della alleanza della libertà col cattolicismo, mediante l'abolizione della potenza' temporale del papa.

Le deliberazioni del Parlamento, le condizioni dell'opinione pubblica in Italia imponevano al Governo un grave dovere. Poco tempo dappoi queste deliberazioni, l'Italia era colpita da una delle sue maggiori sventure. Mancava l'uomo illustre che infino allora l'aveva guidata nella via delta sua liberazione; l'Ilaria perdeva il suo più grand'uomo di Stato, e permettetemi di soggiungere ch'io perdeva l'amico con cui sin da lunghi anni io aveva avuto comuni le massime della libertà politica e religiosa.

La Corona chiamava ne' suoi Consigli colui che, per la tenacità con cui aveva propugnata l'annessione della Toscana, che ci era stata sconsigliata siccome un addentellato alla futura unità d'Italia, rappresentava meglio la sua intenzione di tenersi fedele a quel principio, ma dimostrava cosi come fosse intendimento suo il non separare la causa della rivoluziono e la causa del Governo italiano.

Il primo evento politico importante che avesse luogo dopo che l'onorevole Ricasoli si metteva a capo dei Consigli della Corona, era il riconoscimento del regno d'Italia per parte della Francia. Dopo tutto ciò che venne detto ieri dall'onorevole Rattazzi, non è mestieri ch'io spenda molte parole per insistere sull'importanza di questo fatto. Infimi allora la Francia aveva sempre tenuto per la confederazione. Il ministro degli affari esteri s'era riservato, in occasione del progetto di Congresso in Varsavia, di proporre quell'idea di confederazione alla prima volta che glie ne venisse il destro. Riconoscendo il regno d'Italia, l'impero francese veniva adire che riconosceva il sistema unitario, come il solo che avesse la probabilità di dare un ordinamento stabile al nostro paese. Ma vi ba di più; nel giorno stesso in cui il conte Di Cavour rendeva l'anima a Dio, sul progetto che si era fatto dall'Austria e dalla Spagna di rinnovare una lega cattolica, la quale avrebbe forse ricordato i tempi di Filippo 11, il Governo dell'Imperatore dei Francesi rispondeva con un dispaccio in cui stava implicita, come la conseguenza nelle sue premesse, l'unione di Roma al regno italiano...

Egli dichiarava infatti che non credeva che vi potesse essere alcun ordinamento stabile in ordine alle cose di Roma, il quale non fosse concertato col regno d'Italia.

Sapeva benissimo il Governo francese che il regno d'Italia era obbligato dall'onore a non accettare altro aspetto della causa romana se non quello che dichiarasse Roma capitale dell'Italia.

140 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Egli dichiarava nello stesso tempo che Roma non era una manomorta della cristianità, ma che i Romani avevano il diritto di ottenere un Governo che fosse accettato dal loro consenso.

È vero che due giorni dopo il Monitore di Parigi veniva a dire che non si era detto consenso, ma contento del popolo romano, con che pare a me che si rincalzasse l'argomento favorevole all'Italia, giacché si può consentire per rassegnazione ad un Governo che non:i voglia, ma non si può essere contenti di un Governo che non sia stato accettato liberamente. (Bravo!) Quest'atto torna ad onore del presidente del Consiglio, giacché non è dubbio che quando la Francia riconosceva il regno d'Italia con tanta prontezza, in un momento cosi difficile, ella mostrava la fiducia nella persona di colui che stava a capo dell'amministrazione. Quali erano i primi atti con cui il Governo procedeva nella via che gli indicavano le deliberazioni del Parlamento, che indicavano le risoluzioni accettate dal suo predecessore?

Primo atto importante della nuova amministrazione era quella famosa circolare che si spediva ai nostri agenti diplomatici verso il fine del mese di agosto. Correva allora la voce in Europa che il nostro Governo volesse imporsi per forza, che fosse sorta nelle provincie napoletane una opposizione cosi gagliarda, cosi numerosa, che provasse la volontà della nazione di respingere questa unità italiana, in cui nome, cosi si diceva, il Piemonte andava a portare la sua dominazione. Che cosa faceva il presidente del Consiglio? Egli respingeva assolutamente l'ipotesi che i falli di Napoli potessero rappresentare una volontà nazionale; diceva che le resistenze che il Governo incontrava non potevano per nulla paragonarsi a quelle che altri Governi avevano incontrate da certe fazioni che in tempi d'incertezza avevano potuto pretendere di rappresentare la volontà del paese; diceva che fra coloro che insorgevano contro il Governo italiano nelle provincie meridionali non ci era alcuno che avesse quella rispettabilità che è necessaria per pretendere a propugnare il diritto d'una nazione. Il presidente del Consiglio aveva gran ragione, perché sicuramente i nomi infami di Chiavone, di Donatello, di Cipriano, non possono stare a petto del nomi gloriosi presso i loro fautori, onorati presso i loro avversari, di Laroche-jacquelein, di Catetineau, di Quezada, di Zamalacarregui. (Segni di assenso)

Aggiungeva il presidente del Consiglio che questa resistenza non avrebbe avuto luogo se non fosse stata appoggiata da latta la reazione europea; che centro principale della reazione europea era Roma; che causa principale della forza che avevano prese queste fazioni era la protezione che trovava nella curia romana. Accennava per ultimo nel suo dispaccio che la curia romana e il si prevalevano della protezione della bandiera francese, la quale slava là per ben più alti e spirituali interessi

Io non li J veduto, o signori, che nessuno abbia allegalo un fatto solo che possa contrastare a ciò che il presidente del Consiglio diceva in ordine al carattere dei moti napoletani, vidi che la curia romana protestava altamente contro le manifestazioni intorno alla sua complicità col Ma nello stesso tempo, checché ne sia dell'aiuto che si desse col denaro di San Pietro, checché ne sia delle pratiche che potevano esservi Ira gli agenti del Governo romano e coloro che dirigevano queste scellerate fazioni, è certo, e ciò risulta da tuttala stampa europea, come in tutte le relazioni private, che sfacciatamente, apertamente si preparava in Roma il brigantaggio delle provincie napoletane. Alcuni giornali francesi si mostravano quasi offesi della franchezza delle parole del ministro;

dicevano che era un ultimatum che si intendeva proporre alla Francia, giacché si era accennato che la sua bandiera non doveva proteggere quelle scellerate fazioni.

Signori, un filosofo illustre dei nostri tempi, che sgraziatamente non è fra gli amici della nostra causa, ma che è sicuramente uno degli scrittori più ingegnosi e spiritosi di Francia, ha detto che il tempo è il più grande dei logici. Ha il tempo ha un gran difetto, come logico, che per lo più è un po' lento a dedurre le sue conclusioni. Ebbene, quantunque egli sia lento a dedurre le sue conclusioni, il tempo ba pur dedotto la conclusione delle cose che erano affermate dal presidente del Consiglio, allorquando denunciava alla Francia, o piuttosto che denunciare, insinuava che la sua bandiera non doveva proteggere la complicità di Roma colle fazioni napoletane; giacche io leggo in un annunzio, su cui aspetto le dichiarazioni già annunziate dal presidente del Consiglio, ma che per ora io ritengo come espressione generica dei fatti, che i comandanti delle truppe francesi lungo il confine napoletano prenderanno coi comandanti delle truppe italiane i concerti necessari per impedire che nuove bande di briganti si formino negli stati pontificii ed irrompano nelle provincie napoletane.

Per me, e signori, clic non sono un logico potente come il tempo, e non sono obbligato nei miei raziocini a seguire la sua lentezza, sapete che cosa c'è in questa dichiarazione? Ce implicita la decadenza dello Stato romano.

Signori, un Governo di cui si dice al cospetto dell'Europa, se non colle parole, col fatte, che non è alto ad impedire il di cui si dice con un fatto cosi solenne che conviene che forze straniere si adoprino per impedire che uomini scellerati non vengano ad uccidere, ad incendiare, a rubare in un paese vicino che vorrebbe stare pacifico; un Governo cosiffatto non può sussistere in mezzo alla presente cristianità, in mezzo alla presente civiltà. Se questo Governo dice che egli sussiste nell'interesse della religione cattolica, con una tale dichiarazione compromette la sua causa, fa vedere, sempre più la sua impossibilità.

Per me questa conseguenza la trovo nelle dichiarazioni che ci fa oggi la Francia; vedremo so il tempo sapràsvolgerla. (Bravo!) Le dichiarazioni che l'onore vole ministro faceva nella sua nota del mese di agosto aprivano la via ai progetti che egli intendeva porre innanzi.

Una volta ch'egli aveva posto innanzi dei (alti irrecusabili, per cai si faceva palese che il Governo romane era impossibile, si doveva chiedere: se il Governo romano è impossibile, che resterà a fare al Ministero? Non occorreva ch'esso si prendesse il disturbo di dirlo: l'aveva detto dapprima la Camera: facciamo Roma capitale d'Italia. Le dichiarazioni contenute nella proposta dell'amministrazione ad altro più non si riferivano che alla unità ed alla indipendenza del pontefice come capo della Chiesa.

lo non entrerò a discuterle; vi osta il diritto del Governo al quale solo si appartiene di ingerirsi in pratiche diplomatiche; vi ostano gl'interessi stessi del paese, i quali non consentono che il Parlamento si impegni in una discussione che potrà più tardi venirgli, sottoposta; vi Osta il decoro stesso di questa Assemblea, la quale è fatta per deliberare sulle leggi e sugli atti consumati dal Governo, non per discutere semplici progetti.

Domanderò solo se, proponendo questo progetto, il Ministero siasi ispiralo alle intenzioni del Parlamento, allorquando deliberava i suoi ordini del giorno; se egli abbia proceduto in quel modo che si doveva desiderare da chi aveva in mano le sòrti d'Italia.

141 - TORNATA DEL 5 DICEMBRE

Se io vedessi nei documenti che ci furono presentati, o se dai fatti che io conosco mi risultasse che il Ministero intendeva di ammettere che l'abolizione della potenza temporale del papa dovesse dipendere dal suo consenso, che cosi il pontefice avesse in mano sua la facoltà di far durare indefinitamente quel potere temporale che noi abbiamo dichiarato incompatibile coi diritti dell'Italia e colle condizioni presenti della civiltà; oh! allora io non avrei una parola di censura abbastanza amara da rivolgergli.

Se io credessi che il Ministero si fosse indotto a presentare questo progetto con la persuasione di aprire così una trattativa col pontefice, io affermerei che veramente il ministro non aveva quella cognizione degli uomini e delle cose che è necessaria a chi regge le cose dello Stato.

10 direi che il ministro doveva conoscere che, mercé alla potenza temporale, la curia romana vive nel passato, e questo passato per lei non è il medio evo, non è quel tempo in cui la resistenza di Gregorio VII ad Enrico IV apriva la via alla nobile vita dei comuni italiani, onde sorsero tutte le libertà e tutta la civiltà d'Europa. Il passato della curia romana è quel tempo in cui l'Italia cessava d'essere una nazione; è quel tempo in cui s'impiantò il Governo ecclesiastico, invece di tutte le libertà municipali che infino allora avevano resa non ripugnante agli Italiani l'autorità sua.

11 Ministero con quest'alto fece, io credo, due cose.

Egli dichiarò innanzi al mondo civile che per lui non ielava se non poteva trattare col papa. Dichiarò quale fosse la libertà che il Governo del Re intendeva assicurare al pontefice ed alla Chiesa.

Io credo, o signori, che questa dichiarazione fosse assolutamele neoessaria. Noi abbiamo dello che volevamo la libertà della Chiesa; ma, o signori, in fatto di libertà nessuna questione è risolta finché non si pone nulla più che un princìpio astrailo; e l'Austria non ha promesso la libertà alla Venezia, . non le ha offerto una costituzione? Queste specificazioni erano tanto più necessarie, che la civiltà moderna si trova innanzi a due sistemi i quali procedono egualmente dal principio della libertà, ma che, simili in apparenza, arrivano a risultati affatto opposti, .....

Uavvi una libertà che chiama lo Stato a partecipare al suo Governo, e che nello stesso tempo mantiene intera nella sua cerchia l'indipendenza della provincia, del comune, della Chiesa, della scuola, delle private associazioni. Havvi un'altra libertà all'incontro che chiama il paese ad ingerirsi nella sua propria amministrazione, . ma che nello stesso tempo confisca tutte le indipendenze, tutti i diritti acquistati, che rivendica, a nome della sovranità nazionale, quegli stessi diritti che si rivendicavano in addietro in nome della monarchia assoluta, che s'ingerisce in ogni interesse, che quasi quasi fa grazia di lasciare che la famiglia faccia da sé i suoi interessi, che moltiplica i comandi e i divieti.

Or bene, io sono certo, qualunque siasi per essere l'esito di queste trattative, io sono sicuro che anche quando dovessi vivere una vita assai lunga, e non vedere il fine della dominazione temporale del papa, io sono certo che verrà uh giorno in cui la Chiesa si porrà sotto la protezione della libertà e del diritto comune, perché la protezione ch'ella ha avuto in addietro, la protezione ch'ella pur troppo predilige, quella del privilegio, le verrà meno.

Ma, o signori, io sono certo, ed in ciò non posso dar torto alla Chiesa, ch'ella non si adatterebbe mai a quella liberti che confisca l'indipendenza di tutti, che confisca tutti i diritti acquisiti. E quando la Chiesa avrà inteso questo grande principio, allorquando essa avrà veduto che non può oramai più mettersi sotto la protezione del privilegio,

è che, invocando la libertà, verrà anch'essa a fare la sua protesta contro quella libertà mendace che fa sorgere dalle monarchie costituzionali la democrazia e dalla democrazia la dittatura, allora io tenderò di gran cuore la mano alla gerarchia ecclesiastica, (rivi segni di approvazioni:)

Non ricerco se per avventura in taluno degli articoli che vi furono proposti non ci sia qualche cosa che possa offendere i diritti dello stato; io non cerco se si debbano esigere maggiori cautele da una parte e dall'altra; ma io lodo grandemente il signor presidente del Consiglio di non aver lasciato il sospetto a nessuno di quelli che propugnano i diritti della Chiesa che noi volessimo darle una libertà che fosse pretesto a nuove ingerenze del Governo.

Le nostre proposizioni non potevano sicuramente aver effetto in Roma. Dove dovevano aver effetto? Dovevano aver effetto principalmente sull'opinione pubblica dell'Europa. Infatti, o signori, vi prego di ascoltare, colla benignità che mi avete dimostrata finora, una proposizione la quale ha qualche apparenza di paradosso.

Per noi non si tratta dell'abolizione del potere temporale del papa, è questione che appartiene al popolo di Roma, la nostra questione non è colla curia romana, la nostra questione consiste nel sapere se una forza straniera debba frammettersi a mantenere l'apparenza di un ordine di cose che in realtà non esiste più.

In quanto alla questione del dominio temporale del papa, essa è già risolta. Quando un Governo non ha più nessuno che gli obbedisca spontaneamente, quando un Governo è ridotto a vedersi fare, da quelli che lo proteggono, la dichiarazione che esso uon ha impedito il epperciò questo Governo che lo protegge verrà egli ad impedirlo nel suo paese; quando un Governo, non ostante i consigli di tutta l'Europa, non ha saputo Soddisfare ad una sola delle più semplici esigenze della civiltà; ma questo Governo non esiste più come Governo, perché governare è provvedere agl'interessi, al bene della nazione.

Noi dunque diciamo alla Francia, diciamo all'Europa: distruggete questa finzione che suppone esistente un Governo che non governa, un Governo che non ha sudditi che gli obbediscano, che non ha nulla di ciò che lo fa esistere. Noi diciamo come l'imperatore dei Francesi in un famoso discorso fatto all'arcivescovo di Bordeaux l'I 1 ottobre 1859, noi siamo in pensiero di ciò che succederà a Roma dopo la caduta della potenza temporale del papa; Roma avrà la pace? avrà l'anarchia? avrà il terrore? Noi vogliamo darle questo Governo libero, ordinato, che è quello dell'Italia. Per noi questo basta, finché trattiamo la questione italiana. Ma hawi la questione religiosa, ed in ordine a questa dichiariamo che questo Governo libero ed ordinato assicurerà la dignità e l'indipendenza del pontefice, assicurerà la libertà della Chiesa, «e noi, disse il signor ministro, l'assicuriamo, non con dichiarazioni vaghe e generali, ma con principii definiti, espressi, di cui avete i fondamenti.

Io non so se si possano accettare questi od altri, ma certo è questa la significazione, la conclusione che emerge dall'insieme di queste proposizioni.

Ora io fo ancora una questione. Quale effetto produsse la pubblicazione di questi documenti? Io ho esaminati con qualche cura i giudizi che ne portò la stampa per chiarirmi su quest'oggetto, ed ecco quali fatti mi si affacciarono: che generalmente in Europa, e sopratutto in quel paese che è più di tutti competente nelle questioni di libertà, in Inghilterra, le proposizioni fatte dal Governo italiano furono approvate;


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142 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

per la lunga concitazione che era nei loro animi, erano nemici più dichiarati della Corte romana; di coloro che inclinavano forse a guardare la nostra lotta col papato non come una dolorosa necessità, ma come una fortuna. Nello stesso tempo io vedeva nel diario di Roma una dichiarazione (e qui non entro in nessun segreto diplomatico, giacché a Roma non c'è altra stampa possibile, se non quella che più o meno s'ispira alle intenzioni del Governo), una dichiarazione ispirata dal Governo romano, in cui si rispondeva a quelle proposizioni colle solite contumelie, e si parlava della stabilità della potenza temporale del papa, come se si fosse all'indomani dei trattali del 1815.

Che cosa dobbiamo conchiudere da tutto ciò? Che l'impressione che si volle fare sull'opinione pubblica dell'Europa riuscì; dobbiamo conchiudere che, attendendo alle vere condizioni dell'opinione italiana, e attendendo alla vera probabilità dei falli, noi ci facciamo innanzi piuttosto come protettori, che come persecutori del pontificalo. Ne risulta che una trattativa col pontefice nelle condizioni presenti, finché dura il potere temporale, sopra condizioni accettabili, è impossibile.

Signori, io confido in quel gran logico che è il tempo, che dedurrà le conseguenze di questo fallo; ed io spero che la sapienza del Parlamento e quella del Governo aiuterà il tempo a sciogliersi dai suoi lunghi indugi. (Vivi segni di approvazione)

Chiedo di riposarmi per qualche momento.

(La seduta è sospesa per cinque minuti. )

Ho difeso sinora la politica del Ministero, bo difeso la risoluzione in cui veniva allorquando faceva alla Francia la proposizione (che proponeva di presentare) alla curia romana. Non dissimulo tuttavia che mi si può fare un'obbiezione molto grave. Si può dire: tutto questo sta bene; ma intanto la Francia sta in Roma; il pontefice sta, non voluto da' suoi sudditi, sul suo trono; l'Italia sta senza la sua capitale.

Mi si potrà chiedere: sapete voi quando sia per cessare questo stato di cose cosi strano, così mostruoso? Nonne so nulla, è credo che nessuno ne sa più di me. Con tutto ciò possiamo noi biasimare la presente amministrazione di aver proceduto In quella via? No certo; perché non poteva tenerne un'altra senza scostarsi dalle intenzioni che erano state espresse dal Parlamento. 0 buona o cattiva, quella era la sola politica che il Governo potesse tenere per corrispondere alla fiducia della nazione.

Dobbiamo noi insinuargli di mutare politica? Dobbiamo rinunziare noi stessi ai principi) che abbiamo posto innanzi nella risoluzione del 27 aprile? Dobbiamo noi rinunciare ai temperamenti col papato ed all'accordo colla Francia?

Ma, signori, rammentate le considerazioni che si sono già svolte, quelle che questa Camera, che il Senato, che l'illustre uomo di stato che allora presiedeva il Consiglio della Corona, e di cui deploriamo sempre la perdita, accettava, e voi vedrete che tolte quelle considerazioni sussistono ancora. Non è cessala l'impossibilità di entrare a Roma mentre vi sta la Francia, senza porsi in guerra con quella potente nazione, senza fare quello che sarebbe ancor più un atto d'ingratitudine che un atto d'imprudenza. Non è cessata la necessità di mostrare, se vogliamo risolvere definitivamente quella questione, che gl'interessi della Chiesa cattolica sono conciliabili con quelli della libertà. Non sono cessati i riguardi che noi dobbiamo ai sentimenti religiosi dell'Italia ed anche di gran parte dell'Europa. Non è cessata l'opportunità dell'alleanza francese, che ci rende favorevole o meno avversa l'Europa, che ei fa sperare di mettere quando che sia l'Italia sotto la tutela del diritto pubblico internazionale, emendato da quelle pecche che ne fecero una condanna contro l'indipendenza e la libertà d'Italia.

Ma dobbiamo noi smettere per ora il pensiero d'andare a Roma, rimanersi unicamente intenti a riordinare l'interno dello stato? Ciò non si potrebbe fare che in due modi: o separandoci per ora dalla rivoluzione, o procedendo ancora nella via, che io credo essenziale al nostro Governo, di tenere indissolubili gl'interessi del Governo italiano con quelli della rivoluzione, e volgere i nostri pensieri, la nostra attività più che verso Roma, verso la Venezia. Il primo di questi due partiti, quello che non abbandonerebbe nelle intenzioni, nei proponimenti, ma riserverebbe per ora la questione della rivoluzione; questo primo partito, dico, non dà luogo a discussione, esso è impossibile perché ripugna al volere di tutta la nazione, Ripugna a quei sentimenti che sono nel cuore di tutti noi, perché ripugna all'onore della Corona e del Parlamento. Ci è il secondo partito, ed io credo dover discutere di questo, perché si affacciò per un momento agli spiriti, quello di volgere l'attività della nazione verso Venezia. Vidi una parte della stampa estera che ci è favorevole, vidi una parte della stampa che soleva appoggiare il nostro sistema darci questo consiglio. Io credo che sia una di quelle tentazioni che possono presentarsi ai popoli, come se ne presentano agli individui, tentazioni che si presentano sotto un aspetto generoso e glorioso, ma che conducono a rovina.

Signori; io dirò tutto intiero il mio pensiero sulla Venezia.

Finché l'Austria occupa la Venezia, la condizione naturale dell'Italia non è la pace, è la guerra; ma questa guerra, o signori, possiamo noi farla per ora, e farla soli? So che, se ci fosse possibile d'incominciare a risolvere la quistione della Venezia, allora la quistione romana si troverebbe risolta da sé: allorquando l'Italia fosse tutta intera signora di sé, allorquando non ci fosse più un solo straniero sul suo suolo, allorquando anche ai nostri nemici non si affacciasse nessuna possibilità che andassero impediti i progressi della causa italiana, allora io sono certo clic la curia romana farebbe ciò che essa fa sempre innanzi ai fatti irrevocabili, essa si rassegnerebbe.

Con tutto ciò io tengo la mia proposizione che non dobbiamo mai guardar questo partito che come una pericolosa tentazione.

Io sono molto riconoscente ad alcuni oratori della sinistra. Non ricordo più chi degli onorevoli suoi membri parlando in questa discussione ci diceva che a Venezia non bisogna pensare finché non si possano mettere in campo 300 mila uomini.

Sì, noi andremo a Venezia quando saremo forti delle nostre armi, quando saremo forti del nostro naviglio, quando saremo forti dei comandi del Governo eseguiti in tutto il regno senza ostacoli; quando saremo forti della libertà dei popoli pienamente assicurata e lealmente esercitata; quando saremo fotti delle simpatie dei popoli di Europa. E anche qui ricordo una frase che uscì da que' banchi. Sì, noi andremo alla Venezia per le simpatie dei popoli d'Europa; ma, o signori, io non vorrei che ai torcesse la mia proposizione ad altra interpretazione che quella che voglio darvi. Non vi è popolo senza Governo, e noi non possiamo aspettare ad invocare le simpatie dei popoli finché siano capovolti tutti i Governi d'Europa.

Noi vogliamo le simpatie dei popoli; ma questi popoli non sono solamente composti d'uomini che desiderano un nuovo

Quando l'andata dell'Italia a Venezia si presenterà a tutta l'Europa come una guarentigia data a tutti gli interessi morali e materiali della sua civiltà,

143 - TORNATA DEL O DICEMBRE

come una guarentigia data a quegli interessi a cui partecipa ogni individuo più o meno frammisto alle agitazioni della politica, allora l'Italia, se saprà svolgere e adoperare le sue forze, andrà a Venezia; ci andrà colla pace, o colla guerra; colla pace, cosa. non conforme al corso consueto delle cose, ma cosa però non impossibile, trattandosi per l'Europa di riparare una iniquità di cui fu rea, e di tutelare insieme coi nostri i suoi interessi, e la sua pace.

Allorquando noi dovessimo scendere nel campo di battaglia, io sono sicuro che i grandi interessi europei, che scapiterebbero al prolungamento della lotta, indurrebbero ad impedire che ci fosse contrastato più lungamente quello che è il diritto dell'Italia. (Bravo)

Ma, o signori, possiamo noi far tutto ciò finché pende la questione romana?

É' prudente che noi rivolgiamo i pensieri della nazione a questo fine, che noi invece di quietarle concitiamo le impazienze!

lo non entro a questo proposito in lunghe disputazioni; vi farò solamente un paragone.

Supponete che Napoleone I, dopo aver instituito il suo governo al tempo del Consolato, si fosse trovato colla città di Avignone occupata da un pretendente; supponete che da quel pretendente si fossero minacciate tutte le provincie meridionali della Francia; che l'ordinamento interno non avesse ancora preso il suo assetto; sicuramente quel grande guerriero, che non peccava per troppi indugi nel correre alle armi, sicuramente non avrebbe intrapreso una guerra prima di avere risolta questa difficoltà.

Ma ora io propongo ancora a me stesso una questione in ordine a questa occupazione romana: se, cioè, la durala dell'occupazione francese che si prolunga assai più di quello che noi avessimo creduto, debba farci riputare impossibile che la Francia lasci una volta Roma libera di sé.

In primo luogo havvi una condizione semplicissima di fatto, ed è che la Francia, secondo le espressioni che si sono usate, ha dichiarato che non riputava opportuno di introdurre le proposizioni presso il Santo Padre; ma non ha respinto il principio a cui si informavano, e l'ipotesi che presupponevano, cioè l'abolizione della potenza temporale.

Ora vediamo che cosa sia succeduto qui tra noi; dapprima una illusione di speranza, poi un'altra illusione di scoraggiamento, sentimenti che si alternano facilmente nella vita degli individui come nella vita delle nazioni. Per noi era evidentissimo il diritto dell'Italia di andare» Roma, era evidentissimo che nessun interesse vero della religione era impegnato a mantenere il governo temporale del papa; era evidentissimo che quegli interessi non davano' a Francia alcun fondamento per prolungare la sua occupazione; dunque, abbiamo detto a noi stessi, la Francia sta per abbandonare Roma.

lo non so se abbiano potuto contribuire a diffondere questa opinione alcuni scritti o parole di taluno che si accostano ai nostri governanti; è certo che vi furono dei momenti in cui correva per le bocche di tutti che Ira un mese, tra alcune settimane, tra pochi giorni saremmo andati a Roma; ma ciò non fu. Allora si disse: noi non possiamo intenderci colla Francia; essa non vuole assolutamente che noi andiamo a Roma.

Vediamo tuttavia se sia cosi difficile l'accordo Ira Francia e Italia.

Anche qui io mi riferisco in gran parte alle cose che furono delle ieri dall'onorevole Rattazzi, il quale cerio è meglio che altri in condizione di far qualche plausibile congettura sopra di ciò; ma io mi atterrò anzi ai principii messi innanzi dalla Francia stessa, e lascio quel gran logico, che è il tempo, a dedurne poi le conseguenze, ed al Governo di affrettarne quanto sia possibile la conclusione.

Ma la Francia professa sempre la massima che la occupazione di Roma non può prolungarsi indefinitamente: abbiamo avuto le dichiarazioni espresse dall'imperatore dei Francesi in quel discorso fallo all'arcivescovo di Bordeaux, a cui io accennava già un momento fa.

Inoltre l'imperatore dei Francesi che cosa rappresenta rimpetto all'Italia, rimpetto all'Europa?

Egli rappresenta il principio di nonintervento. Egli fece la guerra del 1859 perché l'Austria s'ingeriva troppo nelle cose d'Italia.

Dopo quella pace di Villafranca che ci colmò di sgomento, egli mantenne costantemente il principio di nonintervento, e lo mantenne d'accordo con quella nobile Inghilterra, la cui influenza si mostra ogni volta si traiti del trionfo dei principii d'una vera libertà.

La Francia professò sempre di non essere venuta in Italia per imporre un governo ai Romani, ma per conciliare Roma e l'Italia col papa.

Questa fu l'intenzione espressa in occasione dell'occupazione francese del 1819; questa fu quella che si mantenne dappoi.

Ed io credo, giacché ho nominato quell'epoca infausta, che taluno di coloro clic avranno concorso a far accettare quel partito nei Consigli della loro nazione, taluno avrà rimpianto d'aver affatto dimenticate le lezioni della storia francese contemporanea, la quale insegnava come nessun Governo avesse mai potuto farsi accettare a Francia, il quale fosse appoggiato all'intervento straniero; avrà rimpianto di aver dimenticate quelle lezioni della storia contemporanea di Francia, le quali insegnano come invano si speri d'ottenere un'influenza salutare sopra un principe assoluto che si sia rimesso in trono. Del che fere l'esperienza il Governo della Francia nel 1823, allorquando Ferdinando VII di Spagna si mostrava stupidamente ostinato contro tutti i consigli di moderazione che gli dava il Governo di Lodovico XVIII.

La Francia vuole la conciliazione dell'Italia col papa. Ora la conciliazione dell'Italia col papato è impossibile, finché il pontefice mantiene la potenza temporale; è agevole quando nel pontefice non vediamo nulla più che il capo della Chiesa; essa è agevole per sé stessa; deve parere più agevole oggi, dopo che il Governo italiano ha mostrato d'essere disposto ad entrare in tutte quelle pratiche che possono attuare il grande principio della libertà ecclesiastica.

La Francia può respingere questo partito per frammettersi, non come un aiuto, ma come un ostacolo al compimento dei destini d'Italia, aspettando che sorga qualche incidente imprevedibile che renda possibile un altro temperamento da quello che noi abbiamo proposto. Ma come l'aspettativa potrà avverarsi? Si può avere l'aspettativa di una conciliazione dalla parte dulia curia romana, la quale ha nel suo potere temporale quella fede irremovibile, che è la più sacra, la più sublime delle prerogative dell'anima umana quando si rivolge alle cose immortali e divine, ma che è stupida, che è assurda quando si rivolge ad una istituzione terrena di cui tutto vi fa presagire la caduta? (Bene')

La Francia può presumere che possa conciliarsi col pontefice, principe temporale, il popolo romano, il quale ha già

144 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

La Francia può credere che noi dimentichiamo la nostra parola, il nostro onore, gl'impegni che abbiamo presi verso Roma e verso l'Italia, per smettere il pensiero di farla nostra capitale?

La Francia debbe dunque vedere Che l'ostinazione della curia romana, che le intenzioni tante volte espresse dal popolo di Roma, che l'onore della Corona, che l'onore del paese, che l'onore del Parlamento impediscono ogni altra conciliazione che non riposi sull'abolizione del potere temporale.

L'imperatore di Francia si presenta all'Europa, si presenta all'Italia come il protettore della Chiesa cattolica; e noi gli ammettiamo questa qualità, perché egli rappresenta quella nazione che è ad un tempo a capo della civiltà dei popoli continentali, e perché egli rappresenta il popolo più grande della cattolicità.

Ma il papato e la Chiesa non si proteggono prolungando una dolorosa agonia, che concita le passioni, che rende più esigenti gli spiriti, che renderà più difficile quei temperamenti che noi desideriamo, i quali Dio voglia che questi indugi non rendano impossibili.

Per l'avvenire d'Italia non può esserci che l'Austria padrona dei nostri destini, o l'Italia signora di sé. L'Italia signora di sé vuol dire l'Italia una, vuol dire l'Italia con Roma per sua capitale. L'Italia un'altra volta sotto la sopremazia dell'Austria sarebbe la nostra servitù, ma sarebbe una grande umiliazione per la Francia.

Ci sarebbe ancora un'altra combinazione, e sarebbe l'Italia raffazzonata secondo non so qual sistema, che si proponesse in Francia; ma quest'idea io la respingo lungi da me; mi vietano di apporre quel disegno all'imperatore la gratitudine e la convenienza; la respingo, perché sarebbe una mentita a quell'abilità, a quell'accortezza di cui egli diede tante prove. Egli sa benissimo che il maggior pericolo del secondo impero è di ricordare le prepotenze e l'ambizione del primo; egli non può abbandonare l'intenzione che è nel profondo del suo cuore, che lo ha guidato finora, quella cioè di rendere alla Francia ed alla sua dinastia un grande ascendente sull'Europa civile, e particolarmente sull'Europa latina; egli sa benissimo che quando quest'ascendente non si può prendere colle conquiste, quando non si può prendere colla preponderanza imposta, si deve prendere aiutando l'indipendenza eia libertà delle nazioni.

Io non dubito che, condotto da questa logica necessità, l'imperatore dei Francesi ricorderà quelle magnifiche parole del proclama di Milano, che per essere potente è necessaria l'influenza morale, e che questa esso veniva a cercarla contribuendo alla liberazione ed all'indipendenza d'Italia.

Se non che, o signori, una virtù è principalmente necessaria ai popoli nelle grandi imprese, la perseveranza; virtù necessaria sempre, necessaria soprattutto quando si è in mezzo ad una rivoluzione che è sorta più dalle meditazioni dei sapienti che non dagl'impeti popolari.

Signori, noi siamo a cospetto d'una istituzione che dura da secoli, che le abitudini dei popoli unirono finora a ciò che vi ha di più sacro, di più intimo nelle loro coscienze; noi siamo in presenza a quel potere temporale,

la cui distruzione io e gran parte di noi e tutti i seguaci delle idee costituzionali credevamo allora impossibile e rimandavamo a tempo in definito solo un anno fa, e voi vi meravigliate che dopo scorsi appena pochi mesi dalla nostra deliberazione Roma non sia ancora nelle nostre mani?

Io abbandono qui la questione romana, in cui mi pare avere svolto le principali considerazioni. Dichiaro con questo, che non intendo (e risulta già, io spero, da tutto il mio discorso) né che il Governo italiano, né che il Parlamento, né che la nazione abbandonino la causa della rivoluzione.

Io non mancherò perciò di rivolgere oggi al presidente del Consiglio, di rivolgere all'onorevole ministro della guerra quelle stesse parole che io rivolgeva nella discussione del 27 aprile al conte di Cavour: armate, e poi armate, e poi ancora armate.

Ma io so, o signori, che gli apparecchi delle armi non possono essere compiuti, non possono giovare quanto si vorrebbe, finché non è stabilito appieno su tutte le parli del territorio l'autorità del Governo. E qui mi si affaccia (con quella gravità che ha in sé) la tremenda questione di Napoli, che sorge sempre frammezzo alle nostre discussioni. Io non la tratterò; ho sentito farsi molti rimproveri al Governo, e vi confesso che io non saprei rispondervi. Aspetto con ansietà gli schiarimenti che saprà darci il Governo; spero che questi schiarimenti saranno compiuti, spero che il Governo sarà appieno istrutto dello stato delle Provincie napoletane, dappoiché esse furono esplorate dall'onorevole mio amico il ministro dei lavori pubblici, che in quest'opera avrà certamente portato quella perspicacità e quella sagacità di cui ha già dato tante prove

Ma intanto io vi dirò il mio parere; ammetto che molti degli errori che sono attribuiti alla presente amministrazione furono infatti commessi; ammetto che he avrà commessi anche degli altri di cui noi non abbiamo contezza; ma che per ciò? Avete voi alcuni altri espedienti chiari, pronti, su cui possiamo calcolare? Avete voi altri uomini di cui abbiamo la convinzione che, dando un voto di sfiducia a quelli che attualmente seggono sui banchi del Ministero, saprebbero condurre miglior termine la questione napoletana? (Mormorio a sinistra) Io vi risponderò ciò che rispondeva un grande oratore di Francia, Rover Collard: io non lo so, ma vi affermo che ciò non è; poiché io vidi molti uomini i quali avevano fatta ottima prova in tutte le parti dell'amministrazione, che avevano alacremente contribuito all'impresa della nostra unificazione, fallire quando furono colà. (Accennando al banco ministeriale)

Del resto, o signori, a che questa discussione sul passato? Ora siamo innanzi ad un ordine di cose affatto nuovo. Infino a che c'era una forma speciale di reggimento stabilita per Napoli, era naturale che si venisse a dire al Governo: voi non conoscete i fatti, modificate il modo dell'azione governativa in quelle provincie; ma ora le provincie napoletane si trovano, in quanto a governo, si trovano in condizione a un di presso simile alle altre provincie, dappoiché fu abolita la luogotenenza. Si fece bene o si fece male ad abolire questa luogotenenza? Noi avevamo già insistito presso il Governo perché l'abolisse; era opportuno il momento? Non lo so; e quando non fosse stato opportuno, nessuno di noi sorgerebbe a proporre di ristabilirla e di fare ancora una di quelle variazioni che tanto nocquero.

In mezzo a tanti dolori, in mezzo a tante ansietà, a cui danno luogo le provincie napoletane, ci sono due fatti che recano grande consolazione a tutti gli animi italiani. Primo è il lodevole, l'operoso concorso della guardia nazionale che con grande abnegazione s'adopera per ristabilire l'ordine. Un paese in cui i cittadini che furono sottoposti ad un infame serraggio s'assoggettano a tanti sacrifizi per ristabilire l'unità nazionale, questo paese deve pur racchiudere in sé il germe delle grandi virtù, questo paese è pur destinato a dare un efficace contributo alla causa italiana, quando si farà l'ultima prova sui campi di battaglia. (Bene! Bravo! a destra ed a sinistra)

145 - TORNATA DEL 5 DICEMBRE

C'è nelle provincie napolitane un altro gran fatto che mi consola. Una città, la terza d'Europa per il numero de' suoi abitanti; una città che darebbe da pensare a qualunque Governo per quelle inquietudini che danno oggi tutte le grandi metropoli, vide cadere quel regno, infame si, ma che pure agli occhi della plebe poteva avere apparenza di grandezza, vide cadere qualche giorno fa il suo Governo locale che non era un beneficio, ma poteva averne l'aspetto per antica abitudine, e ciò senza alcun tumulto in alcuna parte del regno, che anzi il Governo fu ringraziato, per aver preso questa determinazione, da tutte le provincie. Neanco in Napoli questo provvedimento incontrò ostacolo.

Credo che le difficoltà sieno gravi, ma credo pure che questi fatti bastino per provare che si possono affrontare senza alcuna esitazione. Ora che Napoli si trova sotto il diritto comune, per un qualche rispetto, non rimane a far altro se non che il Governo proceda con alacrità, senza transigere sulla esecuzione delle leggi, senza lasciar mai prevalere gli interessi privati, gli interessi di quelle provincie sugli interessi generali d'Italia.

Per far questo, che cosa potremo contribuire noi Parlamento, che cosa potremo contribuire noi Camera dei deputati? Occorre, o signori, di farci un'idea precisa delle nostre attribuzioni in ordine al Governo. È nostra prerogativa di chiamare ogni volta che ci piaccia il Governo a renderci conto della sua amministrazione, ma sarebbe grande errore il volere amministrare noi. Ora, se noi volessimo ad ogni passo portar qui la questione napoletana; se noi, non contenti di indicare al Governo l'indirizzo generale da darsi al pubblico reggimento, volessimo entrare nei particolari, le nostre discussioni non sarebbero utili, perché noi non potremmo avere nessuna cognizione particolare dei fatti.

Io ho tenuto dietro con molta attenzione a ciò che si è detto in questa discussione delle provincie napoletane, ed ho udito dei fatti gravi; ma, perché questi mi fossero motivo di un voto, occorrerebbe che io avessi cognizione dei falli speciali, bisognerebbe che io avessi sotto gli occhi una specie d'inchiesta. Ora questa il Parlamento non la può fare. Voi vedete che, se in qualunque modo si facesse qui un'inchiesta, o se la Camera creasse nel suo seno una Commissione di inchiesta, l'autorità del Governo sarebbe divisa tra il Ministero e la Camera, togliendo la libertà d'azione, la pienezza delle sue attribuzioni al Governo, e noi troncheremmo il solo mezzo che ci sia di provvedere ai mali di queste provincie. ((timori a sinistra)

Signori, io parlo senza nessuna cognizione speciale dei falli, ma io parlo sotto il dettame di quei grandi principii di libertà costituzionale, i quali noi non possiamo abbandonare senza pericolo.

E qui, giacché ho pronunciata questa parola, permettetemi che conchiuda anch'io il mio discorso colle stesse parole con cui lo conchiudeva l'onorevole deputato Ferrari.

Ministri della Corona, governate l'Italia con la liberlà. Imitate l'esempio dell'antico Piemonte che chiamò 22 milioni all'unione italica, mantenendo intatte le sue franchigie costituzionali. Nel mentre io onoro altamente l'ingegno e l'erudizione del deputato Ferrari, non soglio accettare le sue opinioni né nella filosofia, né nella storia, né nella politica; ma quando egli pronunziò quelle parole, egli non ebbe alcuno de' suoi discepoli che più fervorosamente aderisse alla sua sentenza di quello che io vi aderissi; mi ritornavano alla niente quelle parole dell'oratore romano:

O dulce nomen libertatis,

O ius eximium nostra civitatis! (Bravo!)

Sì, o signori, governate l'Italia secondo il diritto del nostro Statuto. Ricordate che l'Italia ha questo grande destino, di dimostrare al mondo che le nazionalità si fondano oggi non più col dispotismo, ma con la libertà: l'Italia compirà questo destino, o morrà. (Segni d'approvazione) Dal momento che noi volessimo provvedere con altri modi che quelli che sono conformi allo Statuto, che ci sono suggeriti dalle massime del Governo costituzionale, allora tutta la nazione direbbe che voi non vi diversificate abbastanza dai Governi che avete distrutti; allora tutta l'Europa direbbe che voi v'imponete all'Italia, che non è l'Italia che vi accetta spontaneamente.

Ora permettete, o signori, che da questi banchi della maggioranza esca una parola franca quanto possa essere qualunque altra che sia uscita dai banchi dell'opposizione. Le nostre libertà costituzionali, il nostro Statuto sono essi in piena attività? Lo Statuto prescrive l'uguaglianza dei cittadini dinanzi all'imposta, e non tutti i cittadini pagano la stessa imposta. (Bette!)

Lo Statuto prescrive che la nazione, rappresentata dal Parlamento, riveda l'amministrazione dello Stato col discutere i bilanci; e sono quattro anni che noi non abbiamo discusso un bilancio. (Nuovi segni d'approvazione) Lo spirito della Costituzione vuole che il Governo debba estendere la sua azione su tutte le parli dello Stato in modo uniforme, che debba esercitare un'azione parca abbastanza per lasciar luogo alle libertà locali, ma pure uniforme ed estesa dappertutto, affinché il Parlamento possa portarvi la sua vigilanza, e noi siamo ancora a chiedere quali saranno le norme d'amministrazione per l'Italia.

Signori, io non mi sgomento di queste difficoltà; io so che l'Italia ha innanzi a sé un'impresa più grande di quella che non abbia alcun altro popolo; io so che l'Italia ha superate le difficoltà che gli si affacciavano con minore difficoltà, che non tutti gli altri popoli che furono in rivoluzione, e le cui gesta stan consegnate nella storia, e credo perciò che essa abbia una maravigliosa altitudine a quel destino che le è compartito di stabilire la nazionalità per mezzo della libertà.

Io non fo colpa di quegli sconci agli uomini che governano; non ne fo colpa a nessuno; ma dico che dobbiamo lavorar tutti alacremente per superare queste difficoltà.

Ho detto che non ne dava colpa a nessuno; ma, o miei colleghi, mettiamoci una mano sul cuore, domandiamo a noi stessi se tutte le discussioni che abbiamo fatte nella prima parte di questa Sessione furono necessarie o utili; domandiamoci se esse non hanno contribuito a protrarre l'opera dell'organamento d'Italia, dell'impianto della sua libertà costituzionale (Mormorio a sinistra); se la coscienza ci dirà di si, non vi sia questo un troppo acerbo rimprovero, perché il tempo si apre innanzi a noi per ripararvi.

Uniamoci tutti, ministri e Parlamento, opposizione e maggioranza, per dar forza a quel Governo, che non vuol dire nove uomini seduti su quei banchi, nove uomini che hanno le mie simpatie, non quelle di tutti, anzi, ma che vuol dire quella istituzione, senza cui non si possono raccogliere le forze necessarie alla libertà ed all'indipendenza d'Italia. Diamo la forza che debbe avere al Governo; diamo la libertà che debbe avere alla nazione. (Vivi applausi)

146 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

ZUPPETTA. Onorevoli rappresentanti della nazione! Vi è noto che Esopo e Solone non isdegnarano di frequentare le Corti e di conversare cogli nomini del potere. Senonchè le loro massime di condotta non erano punto all'unissono. Il vafro Esopo opinava che agli uomini del potere o non convenga dir verbo, o convenga dire solamente quelle cose che radano bene a versi.

Il dabbene Solone opinava invece che, massime intorno alle pubbliche bisogne, gli uomini del potere debbano dire sempre la verità, tutta quanta la verità.

Io ho la debolezza di tenere per Solone; epperò mi accingo a manifestarvi tutta la verità intieramente, francamente, coscienziosamente.

Quando sono in un solo Stato raccolti 22 milioni d'Italiani, e le provincie più fertili, più doviziose per istoriche tradizioni, più careggiate ed illeggiadrite dalla natura, poco dopo la loro portentosa redenzione e l'unanime suffragio alla fenice dei re, ben lungi dal gustare i tanto sospirali frutti della libertà, si reggono stravolti nel vortice del disordine (Movimento); quando questi otto milioni d'Italiani, a ragione od a torto, ascrivono al falso indirizzo governativo tutta la serie delle loro calamità; quando il Governo, dal canto suo, si chiama tutelato abbastanza, sotto l'usbergo del sentirsi puro, . allora se nell'aula della rappresentanza nazionale sorge un deputato libero, indipendente e coscenzioso...

Voci a destra. Lo siamo tutti! (Mormorio)

ZUPPETTA... propone di enumerare con calma e senza recriminazione contro di nessuno le vere cause dei mali e di additare al Governo gli opportuni rimedi, questa proposta va accettata, non dirò con favore, ma con sentita riconoscenza. Io la feci questa proposta il giorno 20 novembre. Come venne essa salutata in questo recinto e fuori? Alcuni l'accolsero con iscede, con motti, con sarcasmi, con sali attici, per verità poco salati (Si ride); ed imitando quegli sciagurati che da Socrate appellavansi logofobi, per questo appunto che non solo disdegnavano di piegare alla potenza delle ragioni, ma rifuggivano ("manco dall'ascoltarle, la rigettavano a priori.

L'onorevole presidente del Consiglio la respinse come inutile, avvegnaché ritenesse, nella qualità di ministro, di deputato, di cittadino, che le malattie delle provincie meridionali non potevano trovare il medico che sapesse curarle.

Era come a dire: Napoli è già cadavere (quatriduanus est; iam felel); non vi ha potenza che valga a sorreggerlo. (Rumori, segni di diniego a destra)

In verità, io ritengo che nel calore dell'improvviso, e senza il consentimento dell'anima, sia sfuggita questa espressione al prudentissimo presidente del Consiglio, e che egli, dietro posata riflessione, abbia emendata la sentenza. E se cosi non fosse, come conciliare questa sconfortante sentenza colle speranze di andare a Roma? Andarvi unitamente ai Napoletani non si può, poiché Napoli è cadavere. Andarvi senza i Napoletani è un misconoscere che senza Napoli non vi può essere né Roma, né Venezia, né nazione italiana, e che la questione della Penisola si agita a Napoli, unicamente a Napoli, non altrove che a Napoli. (Movimenti a destra)

Del resto io stimo e spero che l'onorevole presidente del Consiglio non dissentirà che quando i due predestinali alla completa redenzione d'Italia, Vittorio Emanuele e Garibaldi, diranno al cadavere: Sorgi e combatti, questo cadavere sosterrà i primi scontri e farà miracoli di valore per la causa nazionale, (applausi dalla sinistra e dalle gallerie) Non mancò infine chi, per eliminare od almeno per rinviare alle calende greche la mia proposta, escogitò il bel mezzo di rammentare a me la nobilissima virtù del sacrifizio, senza punto riflettere che lo assistere impassibile,

e le braccia al sen conserte, al disfacimento dell'opera della più fortunata, della più legittima, della più santa delle rivoluzioni, non è mica un sacrifizio, ma è un nefandissimo parricidio. E la discussione seguitane, e i nobili sentimenti, e le argomentazioni addotte dagli oratori che mi precessero, fecero alfine vedere che la questione, non solamente si trovava utile, ma necessaria. Ed io posso oggi, come Dio vuole, esporre le cause ed accennare i mezzi. Vengo alla prima parte: cause.

Si dice da tutte le parti: l'Europa ci contempla, l'Europa ci guarda, l'Europa ci ascolta. Ci contempli, ci guardi, ci ascolti. Vorrei anzi che l'Europa avesse cento occhi, come Argo (Ilarità); vorrei che avesse ben pronunciate le orecchie, ma non come Mida. (Bisbiglio)

L'Europa si accorgerà che, ad onta di tanti esiziali errori del Governo, la questione italiana si trova di mollo progredita; l'Europa si accorgerà che, senza questi errori esiziali, forse a quest'ora gl'Italiani detterebbero leggi al mondo dal Campidoglio e compirebbero la loro missione civilizzatrice; l'Europa si accorgerà che l'universalità dei Napolitani ama cordialmente l'unità italiana; l'Europa si accorgerà che in terra non vi sono pei Napolitani che due idoli: il prode di Magenta e di Solferino, ed il prode dei due mondi; lo ripeto, Vittorio Emanuele e Garibaldi; l'Europa si accorgerà che il Napoletano odia, con odio vatiniano, l'espulso Francesco, odia i figli, e dei figli i figli e chi verrà da essi; si accorgerà (Bisbiglio e segni d''impazienza) che odia cordialmente il papa re; si accorgerà che odia cordialmente chiunque ci potesse balbettare, anche da lontano, la parola di federalismo, e dell'intrusione di qualsivoglia altro principe, venga egli dall'oriente o dall'occidente. Ma l'Europa si accorgerà (Continua il bisbiglio)

CRISPI. Un po' di tolleranza!

PRESIDENTE. Prego la Camera di far silenzio.

ZUPPETTA. Io prego il signor presidente a far osservare il regolamento, e poi dico a certo lato della Camera che, se vuole sconcertarmi, m'applaudisca. (Oh! oh! a destra)

Voci a destra ed al centro. Qual lato? qual lato?

ZUPPETTA. Quali sono le cause vere che affliggono le provincie meridionali? L'onorevole Massari mi prevenne e le espose secondo le sue vedute. Vi erano delle cause non cause, e delle non cause cause. (Si ride; nuovo mormorio)

PRESIDENTE. Prego la Camera a voler lasciare che l'oratore spieghi le sue opinioni.

ZUPPETTA. Anche l'onorevole Pisanelli mi ha prevenuto, ed enumerò, egli pure a suo modo, molte cause, ed addusse molti rimedi; mi han prevenuto gli onorevoli Brofferio, Ferrari, Ricciardi, e specialmente l'onorevolissimo presidente Rattazzi, il quale, essendo per molti rapporti in perfetta consonanza col mio modo di vedere, ha abbreviato di una mela il mio discorso. (Movimenti in senso diverso) Avverto che si può essere in consonanza per molli rispetti e in dissonanza per altri, e vado oltre.

La prima delle cause, dirò all'onorevole BonCompagni, non consiste solamente in gratuite asserzioni; io potrei poggiarla su dati, potrei poggiarla sulle cifre, potrei poggiarla sulle leggi e sui decreti. Ma in un momento in cui da tutte le parti della Camera parlasi di conciliazione, spero che, quando il Ministero avrà davvero conosciuto le cause dei mali che si deplorano, le riparerà. Epperò io di questa prima causa non favellerò, e spero che la sapienza governativa non ci darà in

La seconda causa è il trascendimento della prima luogotenenza. Io sono di parere che la scaturigine di tutte le calamità sia quella prima luogotenenza.

147 - TORNATA DEL 5 DICEMBRE

Il 9 novembre, quando farse poteva farla, e forse non farla da legislatore, esordisce colla nomina d'una Consulta. Chi crede la Camera che componesse questa Consulta, chi (Con calore) crede che nella terra di Vico e di Filangieri venisse a farla da legislatore? Non alludo alle onorevoli eccezioni; in questa Camera vi hanno individui che per la loro sapienza e pel loro carattere vi potevano appartenere; ma domanderò ai miei onorevoli colleghi, se tutti, cómeché onesti, avessero i numeri di legislatori. Ma molti passavano perché avevano una certa tessera di passaggio. Signori, come volete che in Napoli si prendesse sul serio quest'adunanza di consultori? Quindi altra causa di malcontento.

Il 1° dicembre l'onorevole Pisanelli metteva fuori la legge sulla stampa. Tal legge non poteva, almeno in quel momento, soddisfare alle esigenze. Prima arte di chi voglia riunire provincie a provincie si è quella di non urtare di fronte l'opinione popolare con leggi peggiori delle leggi precedenti. Allora il popolo cominciò ad avvertire che, mentre sotto gli esecrati Borboni, i quali pure avevano dato, per violarla, una legge sulla stampa (foci: Forte! forte!), questa legge non era peggiore di quella promulgata da

PISANELLI. Il 12 novembre mette fuori una legge elettorale. E quale? La legge elettorale piemontese. Ma qual altra dunque doveva essere promulgata?

Io, sempre distinguendo l'intrinseca giustizia degli atti governativi, non trovo politica quella legge. Quella legge poteva par convenire al Piemonte nella sua piccola sfera, ma quella legge, e s'accorgerà il Governo che non poteva convenire, quella legge avrà bisogno di modificazione.

Quella legge, diceva il popolo (e perché non dovrò io dire apertamente ai rappresentanti della nazione ciò che diceva il popolo?), quella legge, diceva il popolo, circoscrive di troppo poter mal far grande e al mal far invito; quella legge può creare, non dico già che abbia creato, quella legge può creare una nazione fittizia, una rappresentanza fittizia. (Rumori)

PRESIDENTE Rammento all'oratore che in virtù di quella legge noi sediamo in questo Parlamento. (Applausi) Quando egli crederà di farsi iniziatore di un progetto di modificazione di quella legge, egli eserciterà il suo diritto nelle forme statuite dal regolamento. Ma essendo quella legge la fonte del nostro mandato, non pare opportuno e non è lecito di provocarne il discredito. (Bravo!)

ZUPPETTA. Onorevoli signori, altro è che un oratore censuri una legge, altro è che un oratore dica alla Camera, pel bene della nazione: cosi si opinava su questa legge. (Oh! oh'. Rumori a destra)

Il 17 febbraio (anche questa è data) (Ilarità), si metteva fuori il Codice penale: a chi s'intendeva dare quel Codice penale? Alle provincie napoletane. Tutta la cosa pubblica sarebbe andata a soqquadro se si fosse aspettato ancora un giorno solo? Poiché il Parlamento nazionale aprivasi il 18 febbraio.

[ZUPPETTA. Un luogotenente, mal interpretando,]

Un luogotenente, mal interpretando, e con troppa latitudine l'articolo 82 dello Statuto, fece tali e tante leggi radicali, che lo stesso Parlamento ci avrebbe pensato tre volte e ponderato prima di avventurarle alla promulgazione. (Rumori)

Non dirò di una colluvie di altri provvedimenti tutti quanti legislativi, ed esaminando gli atti ufficiali delle provincie napoletane, si vede che il Governo meritava il rimprovero che al mese di novembre non poté andare ciò che si filò in ottobre. Tanta è la colluvie, tante sono le contraddizioni!

E volete che otto milioni di aiutanti rimangano cosi impassibili ad opera cosi imprudente e così contraria al vero sistema di ricondurre popolazioni che vanno ricondotte!

Una terza causa. Io, checché possa avvenirmene, debbo toccare di questa causa con sobrietà. Se un Governo, che pretende assimilare provincie a provincie, vuol esser giusto, non debbe assimilare tutto a un tratto, non debbe accentrare tutto a un tratto. Se anche volesse essere ingiusto, ma politico, dovrebbe accentrare con garbo. Io questa verità la dico; il Ministero ne faccia quell'uso che egli reputerà meglio; io fo il mio dovere.

Una quarta causa. Se le masse fossero altrettanti filosofi, oh la bisogna politica andrebbe ben altrimenti! Ma le masse hanno viva la immaginazione in pregiudizio della ragione. Una delle cose più capitali forse è la ingratitudine verso il liberatore.

Come dimostrarvi ciò? Ve lo dirò in due parole.

Era forse azzardo, e pareva disegno che tutti coloro che il Governo centrale inviava a Napoli, chi erano? Io non lo dirò perché le cose son note.

È quinta causa l'ingratitudine verso gli uomini della rivoluzione.

Questo dovrebbero sapere gli uomini che siedono a timone della cosa pubblica, che l'indirizzo politico non può scomporsi, arrestarsi e capovolgersi in un attimo di tempo, e ciò che viene dalla rivoluzione non può conservarsi che dalla rivoluzione.

Quale era la rivoluzione? Non era già la rivoluzione che i nostri avversari politici facevano sentire a tutta l'Europa, quegli avversari di cui taccio... Che cosa era quella rivoluzione? Era la rivoluzione la meglio diretta, la più ordinata; era la rivoluzione che riceveva moderazione non solamente da colui che vi era a capo, ma anche da un alto personaggio che io non debbo nominare in questa Assemblea; era rivoluzione adunque ben diretta, che non poteva far supporre trascendimento, non poteva far supporre esagerazione.

Ebbene, si incominciò per dire: questi uomini siano messi fuori; questi uomini siano messi alle porte; ed io mi appello ai colleghi che vengono da Napoli. Eppure nei più gravi bisogni della patria come si comportavano questi uomini della rivoluzione che venivano respinti? Vi sovvenga del 19 marzo 1861; vi era Nigra; era questione di qualche piccolo baccano che forse poteva suscitarsi; a chi egli si diresse? Agli avventati, agli esaltati della rivoluzione. Il popolo si raccolse io teatro; chi arringò questo popolo? Un avventato della rivoluzione.

Che avvenne? Ordine perfetto, ordine completo.

Che dissero intanto i miei avversari politici? Voi fate attenzione a ciò che dice, dovreste pensare a ciò che pensa. Oh vera inquisizione politica!

Ed anche i rivoluzionari della guardia nazionale resero servigi da incomparabili cittadini, ed io invoco la testimonianza dell'onorevole San Donato, il quale, avendo un alto posto nella guardia nazionale, può corroborare questa mia asserzione.

Ma come si comportavano i nostri avversari politici?

Qualunque volta si trattava di allontanare l'uragano gridavano: pace, concordia, conciliazione. Appena l'uragano era

Sesta causa: l'esercito garibaldino.

Di questo hanno toccato molti altri oratori; io dirò appena appena una parola.

148 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Il popolo meridionale ha forti gli affetti, specialmente quello della gratitudine. L'immaginazione gli faceva vedere i garibaldini come uomini onesti di allori, ricoperti di gloriosa polvere raccolta nel 1 ottobre, epoca della vera redenzione d'Italia.

E come si vedevano poscia? Derisi, derelitti, al bando, all'accattonaggio!

E dirò anche di più; che certi tristi cercavano di disseminare zizzanie e dissidi! fra questi angioli oramai decaduti e i bravi nostri ufficiali dell'armata piemontese. E se non riuscirono, fa l'opera di quei mal agi uomini della rivoluzione. (Bene! a sinistra)

Ottava causa si fu una cupidigia di supremazia di casta, la quale dura tuttavia. Per effetto di questa casta il nostro popolo ha assistilo al più desolante spettacolo; cioè che uomini provali, uomini intemerati, e che mille sacrifizi avevano fatto per la causa nazionale, si trovarono esuli in casa propria, perché non avevano la tessera di passaggio.

Io lodo il presidente della Camera che a questa calamità ha suggerito un grande rimedio, lo lo ringrazio per coloro che egli ha inteso di tutelare.

Una nona causa. Per quanto la casta potesse essere operosa, le era impossibile di collocarsi in tutti quanti gli uffizi, in tutte quante le cariche; e allora, onorevoli colleghi (satanico concetto 1), preferirono di stringere la mano dei borbonici ancora grondante sangue, piuttosto che quella dei fratelli che loro avevano aperto le porle di provincie contenenti dieci milioni di abitanti, (applausi a sinistra e dalle gallerie) E poi si dice che quel popolo è ingovernabile; e vi ha chi prende sul serio questa diceria!

Una decima causa. Come apparve Farini, ecco tutto ad un tratto, come per incanto, sospesi tutti i lavori, morte le industrie, languente il commercio.

Un'altra causa di calamità, la ingiustizia nel santuario della giustizia; e questa calamità dura tuttavia e va sempre peggiorando.

L'egregio ed onorevole Miglietti viene da Napoli e viene di Sicilia; dica lealmente, francamente, che ha egli veduto, oppure che cosa poteva egli vedere? A lui la risposta.

Fuori di questo recinto io avevo emessa la mia opinione come cittadino, cioè che il Governo doveva avere il coraggio di pubblicare un decreto siffattamente concepito:

«Art. 1. La magistratura delle provincie meridionali è abolita. (Movimento)

«Art. 3. Sono nominati... (Seguano i nomi)

Ecco un rimedio sicure, che di mezze misure ne avemmo di troppo!

L'onorevole Pisanelli richiamava la mia attenzione sopra una sua importantissima osservazione. Egli diceva nel forbito suo discorso: «Vi ha Corti nelle quali la maggioranza è composta di elementi vecchi, e non vanno; vi ha delle Corti in cui la maggioranza è composta di elementi nuovi, e non vanno; vi ha delle Corti composte esclusivamente di elementi invivi, e non vanno.

Dunque sarà impossibile l'amministrazione della giustizia? A questo punto chiamo l'onorevole Pisanelli giudice della cosa.

Egli, più che io, deve sapere quali siano le vere cause, perché non si possa andare colla prima maggioranza, non si possa andare colla seconda maggioranza, e non si possa andare coi nuovi, perché i nuovi son troppo nuovi, e per la soverchia novità non possono forse aver fatto quegli studi profondi che richiederebbero le alte magistrature.

Invece le cariche si sono date ai primi venuti.

Ma, signori, io stesso che vi parlo, quantunque trambustato ed esule in casa propria, come conoscono i miei amici, veniva chiamato alla carica di presidente di Corte criminale...

PISANELLI. Domando la parola per un fatto personale.

ZUPPETTA... Ed io che risposi?

Per personale dignità io non debbo, non voglio, non posso accettare.

Quale sarebbe adunque la vera cancrena di quelle Corti?

Coloro che sono abituati a queste antiche provincie non potranno mai, senza una spiegazione, aver il cancello chiaro della cosa.

In queste vecchie provincie i giudici, anche vecchi, i quali condannavano i rei di stato, potevano forse essere saggi, potevano essere onesti. Non così appo noi, poiché appo noi le condanne venivano indicate sulla lista inviata direttamente da palazzo.

Io ricordo il processo del 18 maggio in cui il... voleva colpire Massari, seguace di Gioberti, perché, fra gli altri, si porlo presente alle barricate!... e la Corte e l'avvocato fiscale ed i testimoni lo tennero presente. Eppure Massari si trovava già a Roma in compagnia di Gioberti.

MASSARI. A Milano...

ZUPPETTA. Sia dunque a Milano; certo non era a Napoli; non sulle barricate.

Ebbene, con uomini siffatti chi potrà mai collegarsi? La vittima può mai dire collega al proprio carnefice? E di questi carnefici noi ne abbiamo di molti a Napoli, a disonore della magistratura. (Bravo!)

Nona causa. Sicurezza pubblica. È, più il tacer che il ragionare onesto. Non ne dico altro. (Ilarità)

Guardia nazionale. Quando il flagella, o per lo meno disturba le popolazioni, il dispregiare la guardia nazionale e creare questa guardia nazionale con leggi le più imperfette, io credo sia il punto più censurabile dell'amministrazione.

Il 21 luglio 1860 il Borbone, facendosi meno borbonico dei borbonici, stabiliva che alla guardia nazionale i retrivi non potevano appartenere. Era finzione, era larva di lealtà, ma vi era questa larva.

Viene il decreto di Garibaldi del 17 settembre 1860, ed in esso erano pure esclusi i notoriamente conosciuti come attaccati al Governo borbonico.

Viene altra legge tutta speciale a Napoli del 14 dicembre nel medesimo senso, e S. A. R. il principe di Carignano, che nomino per causa d'onore, il 16 febbraio si attenne a questo sistema medesimo.

Rovescio della medaglia.

Per una relazione del dicastero dell'interno, il 16 aprile 1861 si abolirono quelle sapienti leggi, e si disse: bisogna tutto unificare; non dico altro, tutto unificare! Ebbene con questa legge uomini di ogni colore, uomini impudentemente borbonici si videro uscire coll'uniforme, che io dico sacra, della guardia nazionale.

Ma non è tutto. Mentre ferve il mentre molesta per lo meno, la guardia nazionale è in gran parte inerme. Pare incredibile! Se non fosse storia, parrebbe favola! Nella provincia di Bari sono iscritti nella guardia nazionale 25000 cittadini. Quanti gli armati? 5000 appena;


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149 - TORNATA DEL 5 DICEMBRE

Vi sono guardaboschi, guardie rurali, guardie campestri, guardie doganali. Io una sola provincia, Capitanata, vene sono da 600 a 700 (io desidero che il Ministero, che di certo vuole indagare il vero, faccia bene attenzione a quello che io dico); costoro, riuniti e capitanati da un tal maggiore Farini, in pochi giorni sconfissero una prima banda di briganti, mettendone fuori combattimento dicianove. E, mentre centinaia di briganti occupavano Volturino, 'e dopo due giorni, a baionetta spianata, con un coraggio che loro fa onore, perché spendevasi per la difesa di tanti infelici che sarebbero stati vittime, li arrestavano, li fugavano, li sbandavano. perché, dopo questi miracoli di valore, tre giorni dopo, costoro vennero sciolti? Piacerebbemi molto che uno dei signori ministri me ne desse spiegazione. E quando questo? Quando si va colla lanterna dì Diogene per cercare coloro che vogliano battersi contro bande le più turpi, le più detestabili.

Un'altra causa, ed è l'ultima delle cause interne. (Mormorio) Quasi sempre si è fatto pompa di rintuzzare quasi di proposito la pubblica opinione. È la massima di Guizot. Ogniqualvolta l'opinione pubblica sviluppa un bisogno, esige qualche provvedimento, voi non cedete già a quest'influenza dell'opinione pubblica, qualunque possa essere il numero di chi la esprime.

lo diceva che è la massima di Guizot; ma io ne' suoi panni non vorrei invidiargli le conseguenze della sua politica.

Un'altra causa. Mentre tutte queste cagioni producevano lo sconforto, producevano il malcontento, giunse il generale Cialdini, il vincitore di Gaeta.....

Nei primi giorni in Napoli si fecero luminarie..... Alquanti giorni dopo si disse: vi è qualche cosa che attraversa...

Ripeto che, se tutti fossero filosofi, forse quest'osservazione non sarebbe stata fatta mai. Il popolo la fece. Quindi, mentre tali cause di malcontento assalgono gli abitanti di quelle Provincie, nei giorni passati, anche prima ch'io partissi di colà, agenti, che non predicavano di certo l'unità, perlustravano diverse provincie. Non dico altro, ai sapientissimi ministri fu quest'osservazione.

Ora, se a tutte queste cause avessero posto mente quei giornalisti imbrattanomi, che parlano sempre di quelle Provincie come di miseranda cosa, come di uomini ingovernabili; se a queste cagioni avessero seriamente posto mente gli uomini del potere, quale deduzione si sarebbe inferita? Che ai governati spesso mancarono i governanti, non viceversa.

E noto che quest'espressione non va già a colpire solamente il Ministero presente, anzi lo colpisce ben di poco, perché colpisce piuttosto la prima amministrazione degli uomini che si dicevano luogotenenti.

Che cosa si potrebbe oggi dire, dopo tutti questi schiarimenti, a quei giornalisti prestanomi? Si potrebbe dire: per la storia noi conosciamo Caio Fimbria. Costui, nei funerali di Mario, per impulsione di Silla, accettò il mandato di pugnalare il pontefice Scevola. Ma questi si ritrasse, ed il pugnale non gli si poté conficcare interamente nel petto. Osò Fimbria chiamare Scevola in tribunale, accusandolo d'irriverenza, per non avere accolto in seno tutto il pugnale. Veramente non è questione di pugnale; ma costoro che accusano le provincie napoletane, le accusano di non aver accolto col sorriso sulle labbra tutti gli errori di coloro che s'inviavano a governarle; le accusano del grave torto di avere dal canto loro la ragione ed il diritto.

Vengo alla seconda parte: Rimedi. I mali durano, i mali stanno ancora permanenti; quali ne sono i rimedi?

Voglio qui ricordare un fatto storico.

Un Greco fu spedito ad un sire di Macedonia e dal sire domandato: Che cosa io posso fare per la tua Grecia? Impertinente, gli rispose: suicidati.

È una risposta indegna dei Greci, indegna di tutti i tempi.

Io esprimo in una forma sintetica tutti i rimedi, tutta la panacea.

Signori ministri, fate l'opposto di quello che si è fatto sin oggi e dagli antecessori e da voi continuatori.

Mi si domanderà: chi dovrà riparare al mal fatto? È un'altra questione, intorno alla quale vi è discrepanza tra Plutarco e Tacito. (Oh!) Plutarco dice che colui il quale ha commesso i mali è il più adatto a ripararli; Tacito dice invece che colui il quale ha commesso mali pende sempre all'errore; e spingeva questa massima tant'oltre da dire che anche quando un imperio si ottenesse per via non legittima, il rimedio era impossibile: impossibile est imperium maìis artibus assequutum, non eisdem artibus retinere.

Io lascio alla coscienza vostra la scelta tra la massima di Tacito e la massima di Plutarco; ed ho finito.

FARINI. Domando la parola per un fatto personale.

PRESIDENTE. Ha la parola.

FARINI. Dacché l'onorevole oratore, accennando ai primi alti della luogotenenza di Napoli, usci a dire che si erano fatte deplorabili leggi; due, cioè, l'una sulla stampa, l'altra la legge elettorale, mi è giuocoforza dire poche parole.

Io non farò confronti Ira la legge sulla stampa che prima esisteva e la posteriore, ma ricorderò all'onorevole oratore come quella legge portasse l'obbligo della cauzione, e quindi fosse assai più grave di quella che andò in vigore in vece sua. Gli ricorderò ancora che l'incarico che io aveva dal Governo del Re era quello di procacciare l'unificazione delle leggi politiche il più presto possibile; non potendosi ammettere che le leggi politiche fondamentali, cioè la legge sulla stampa e la legge elettorale, fossero diverse da quelle dalle quali la monarchia era governata. In quanto alla legge elettorale, mi fa gran meraviglia che un uomo di leggi non consideri, come non si potessero mandare deputati ad una stessa assemblea, i quali venissero per legge e per disposizioni diverse eletti. (Bravo'. )

Qualunque sia la critica che si voglia portare di me per quel breve tempo che ebbi l'onore di reggere le provincie napoletane, io abbandono interamente alla storia il giudizio delle mie azioni. Mi è forza tuttavolta di dichiarare che mi è grandemente rincresciuto che l'oratore, nell'accennare alla Consulta (sull'instituzione della quale egli poteva dire ciò che voleva), abbia con isprezzo parlato degli uomini egregi che la componevano, mentre, dei ventiquattro consultori, che erano in funzione, diciotto seggono su questi banchi a destra e a sinistra. Ciò più d'ogni altra cosa mi duole.

Il loro decoro non permette loro di fare questione personale, e per argomento di siffatta Specie; ma sia a me permesso di ricordare all'onorevole Zuppetta che non si onora il proprio paese facendo sfregio a chi si acquistò, pei suoi atti e pei suoi consigli, l'onoranza, la stima e la benemerenza dei proprii concittadini. (Vivi segni di approvazione)

PRESIDENTE. La parola spetta al deputato Pisanelli per un fatto personale.

150 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

PISANELLI. L'onorevole deputato Zuppetta, ricordando alcune parole da me profferite, le ha rappresentate in modo da far supporre che io, dicendole, avevo voluto promuovere una questione personale, mentre il mio scopo era appunto di mostrarla vana

Io diceva quelle parole nel ricordare uno degli errori più gravi che domina parecchie menti nel Napoletano, quello cioè di ripetere ogni male ed ogni bene del Governo; e che, come conseguenza di questo errore, il rimedio unico che soglia da molti proporsi fosse di mutare il Governo. A questo proposito io rammentava che avveniva il medesimo per le Corti criminali, che avveniva lo stesso per tutte le altre amministrazioni, cioè che molti riguardassero ogni questione come questione puramente di persona, mentre in realtà se l'azione del Governo era impedita, se l'azione delle Corti era inceppata, se l'azione delle altre amministrazioni non era né rapida, né spedita, né in tutto lodevole, ciò dipendeva da un cumulo di circostanze straordinarie, di difficoltà gravissime che le persone, qualunque esse siano, non bastano né a vincere, né a dileguare in un punto; ed io aveva ricordato quali fossero tutte queste gravi circostanze. Si trattava di unire Provincie fino a quel tempo disgregate, si succedeva ad una rivoluzione che aveva rovesciata una dinastia e disfatta l'autonomia del paese.

Innanzi a questi gravi avvenimenti ogni persona è certamente piccola cosa; e quante non se ne sono rotte e spezzate? Dimostrava appunto questo, citando quelle persone le quali, comunque avessero un'occupazione più limitata, un compito più ristretto, nondimeno risentivano ancor esse queste difficoltà e le conseguenze dell'agitazione generale.

Io non mi farò a rileggere le mie parole; ma esse diranno che io non intendeva di sollevare una questione di persone, ma bensì di accennare le cagioni generali delle condizioni del paese, le quali dipendono precipuamente dai fatti straordinari colà avvenuti, potenti a vincere qualunque accorgimento.

PRESIDENTE. La facoltà di parlare spelta al deputato Zuppetta per un fatto personale.

ZUPPETTA. Accetto le spiegazioni dell'onorevole Pisanelli.

Quanto alle osservazioni dell'onorevolissimo Farini, se con calma si fosse a me diretto, io avrei avuto argomenti per confutarla; ma, poiché non è cosi, io rispondo che non debbo, né voglio rispondergli. (Ohi ohi Rumori a destra)

PRESIDENTE. La facoltà di parlare spetta al deputato De Blasiis.

DE BLASIIS. Signori, io credo che principale obbligo di chi prende la parola sopra gravissimi affari, quello sia di essere sobrii, e pensare qual tempo toglie alla Camera, quali cose profferisce alla presenza della nazione, alla presenza del mondo.

Io aveva a fare un discorso, ma si discute da quattro giorni, e sono l'ottavo inscritto; preferisco dunque di rinunziarvi, e dirò brevissime parole soltanto. Vi sono già stati molti che hanno enumerate a lungo le cagioni dei mali che affliggono pur troppo Napoli; io dirò loro francamente che hanno dimenticata la principale cagione. La principale cagione, o signori, io credo che sia stata quella delle tante diverse amministrazioni governative che con diverso indirizzamento, con diverso personale, nel breve spazio di poco più di un anno si sono avvicendate a Napoli. In meno di un anno, o signori, sono passate su quel paese non so quante e dittature e prodittature e luogotenenze di ogni sorta, di ogni colore.

Ora io dico, che qualunque paese che fosse andato soggetto a questi sì moltiplici e si frequenti rivolgimenti politici, non poteva non cadere in quello stato in cui è caduto effettivamente l'ex-regno napolitano; e noi per tutto rimedio

a quei mali staremo sciupando il tempo, e cercando a gara chi di qua chi di là le sorgenti degli errori, a vece di cercarvi gli opportuni rimedi?

Se errori vi sono stati, questi errori sono stati o di tutti o di nessuno, ed è tempo perduto ormai il ritornare su di essi. Se davvero ci preme il bene del nostro paese, oh! non andiamo rivangando errori, non andiamo facendo recriminazioni inutili, ma pensiamo a quello che possa farsi di maglio. per lenire i suoi mali. Ora, quello che si può fare di meglio per lenire e distruggere i suoi mali sta appunto, a mio credere, nel dare ormai stabilità al Governo; sta nel toglier via le cagioni perché non succedano nuovi mutamenti e di persone e di sistemi governativi, i quali non varrebbero che ad accrescere la confusione nella confusione, il disordine nel disordine.

Adunque io sostengo che, senza recriminare sul passato, noi dobbiamo guardare coscienziosamente, se ormai l'altitudine del Governo è tale che possa tendere e che tenda a migliorare le condizioni di Napoli; e, se dai suoi atti, dalle sue dichiarazioni ci risulta che a tale scopo è intenta l'opera sua, io sono convinto che dobbiamo appoggiarlo francamente e senza esitazioni; e intendo perciò di insinuare a tutti i miei colleghi, che hanno veramente a cuore la salute ed il bene del proprio paese e la costituzione di questo Stato d'Italia, di cui sediamo qui rappresentanti, che è tempo di mettere da banda le inutili battaglie di parole, e pensare sul serio a costituire l'Italia, a restaurare le sue finanze, ad aumentare le sue forze.

Un'altra cosa dirò ancora brevemente, o signori; il Governo senza dubbio può fare molte cose per migliorare le condizioni in cui versano le Provincie napoletane; io spero che lo farà; sono sicuro anzi che lo farà, accettando specialmente quei pratici ed efficaci espedienti che noi sapremo indicargli; e noi, deputati delle provincie napoletane, cercando di volgere la sua attenzione sulle sofferenze e sui bisogni di quelle provincie, avremo al certo adempiuto cosi al principale dei nostri doveri.

[DE BLASIIS. Essi sono ignoranti.]

Ma noi abbiamo un altro dovere, signori, ed io oso rammentarlo ai miei colleghi del Napoletano. La voce autorevole dei deputati non è solo destinata a fare intendere e valutare dal Governo gl'interessi del paese che li ha eletti, ma anche a far sentire a quelli che li hanno eletti parole di prudenza, parole di saviezza; a rappresentare ad essi sotto i veri colori, sotto il vero aspetto, l'attitudine del Governo e le grandi necessità dello Stato.

Ora io invito i deputati delle provincie meridionali ad essere concordi in questo, a parlare parole di saviezza ai nostri popoli che ne hanno bisogno. Essi sono ignoranti. (Interruzioni, rumori a sinistra)

Signori, quando parlo, avrete la bontà di ascoltarmi.

Quando dico ignoranti, intendo parlare delle masse ignoranti che non mancano in alcun paese, e specialmente io quelli che, come il nostro, sono stati si lungamente oppressi da un dispotismo immorale e pervertitore. A queste masse ignoranti, adunque, bisogna che gli eletti del paese parlino parole di verità, e lungi dal lusingarne i pregiudizi e le basse passioni, ne rischiarino le menti, ne moralizzino il cuore e le avvezzino a rassegnarsi a certi mali inevitabili ne' gravi mutamenti politici, ed a non pretendere dal Governo se non le cose che il Governo può fare. Preserviamo, deh! preserviamo il nostro paese dal trionfo di idee municipali e grette, che sarebbero la sua rovina e quella dell'Italia!

151 - TORNATA DEL 5 DICEMBRE

L'ex-regno di Napoli io oso sostenere ch'è la parte d'Italia che guadagnerà più di tutte nell'unione nazionale, e ciò pel semplice motivo che, essendo più indietro delle altre parti (Rumori prolungati - Esclamazioni a sinistra), essendo più indietro (Con calore) delle altre parli d'Italia nell'industria, nel commercio ed in ogni sorta di prosperità sociale, appunto perché un orribile dispotismo l'ha tenuto si ostinatamente segregato dal mondo civile e dalle altre parti d'Italia (Segni d'approvazione a destra), guadagnerà più delle altre raggiungendo nelle vie del progresso le sue compagne e sorelle.

Io credo, o signori, che, se noi faremo sentire questa voce ai nostri concittadini, essi la comprenderanno e ne faranno profitto, e noi allora potremo davvero darci il vanto d'aver bene adempiuto il mandato ch'essi ci hanno affidato, non solo illuminando il Governo sui loro bisogni, ma anche illuminando essi sui loro doveri. (Bravo! a destra)

PRESIDENTE. Il deputato Mandoj-Albanese ha la parola.

MANDOJ-ALBANESE. Essendo troppo tardi, io mi riserverei di parlare domani. Voci. No! no! Parli! parli!

MANDOJ-ALBANESE. Signori, Dopo quanto è stato detto da consumati e splendidi oratori sulle cose di Napoli, mi rimane ben poco ad aggiungervi; il campo è stato mietuto e spigolato; sarò quindi breve.

Non oratore, nuovo all'onore della tribuna, io mi sarei taciuto se la conoscenza particolare ch'io ho di quelle provincie, de' loro mali, de' loro bisogni, non mi facessero in questo solenne e grave momento, in cui, cioè, la Camera è chiamata a dare una gravissima sentenza, donde dipendono, o signori, non solo gl'interessi, la salute di quelle provincie, ma la salute stessa d'Italia nostra, non mi facessero, dico, il dovere di intrattenere il più breve possibile questo illustre Consesso sulle cause dei mali che ora affliggono si miseramente quelle provincie, sui pronti rimedi da apportatisi.

Prego la Camera ad osservare che l'uomo, che ha oggi l'onore di parlarle, è quello stesso che un anno or fa, mosso dall'amor di patria, veniva in questa nobile città, affrontando disagi e dispendi, per dire al Governo clic la politica inaugurata in quelle generose provincie era falsa, rovinosa, dissolvente; che avrebbe menato non a fare, ma a disfare l'Italia!

Né egli fermavasi alle premure soltanto presso l'egregio suo amico conte Mamiani, ma ne informava le sommità politiche del paese, della cui amicizia egli onoratasi tanto. Il nobile nostro presidente, l'egregio commendatore Rattazzi, l'uomo stesso che oggi ne fa le veci, l'onorevole avvocato Tecchio, ne possono qui fare piena fede. Non vorrei che anco questa fiata le mie predizioni si avverassero! Vorrei non essere, anzi che veder disfatta la sublime e divina opera dell'Italia una, indipendente, con Vittorio Emanuele! Premesso ciò, non dubito che questa nobile Assemblea, nello accogliere benignamente le mie parole, sarà verso di me indulgente per qualche concetto od espressione non del tutto parlamentare. Debbo da prima manifestare con mio sommo compiacimento alla Camera, debbo solennemente proclamare da questa tribuna, che oggi più che mai, in cui i mali cotanto si aggravano nelle provincie napolitane, i sagrifici di ogni genere in quelle si aumentano ed i pericoli sono imminenti, oggi più che mai, dico, quelle provincie vogliono l'Italia una, indivisibile, sotto il nobile scettro del Re galantuomo! Vogliono il plebiscito. Sono ferme, costantissime in tale nobile proposito. Io ho girato provincie, circondari, comuni; io ho soggiornato in città, in villaggi, in sobborghi, nelle campagne; io ho conversato con nobili e ricchi proprietari, con la borghesia, con uomini di affari, con gente povera, con la plebe.

Bene, o signori, tutti, tutti unanimemente mi han ripetute quelle nobili e patriottiche parole, congiunte a reclami, proteste contro l'attuale amministrazione.

Il memorabile anniversario del 7 settembre ultimo, che altro mai diceva? Esso fu, è vero, per onorare ed esaltare l'uomo che è ne' cuori di tutti i veri ed onesti Italiani e patriotti; fu pure un tacito biasimo al Governo; ma in fondo però stavano quelle parole! Che altro esprimeva l'anniversario del 31 ottobre ultimo, in cui tutti i municipi! di quelle nobili provincie non si contentavano solennizzare soltanto con grande pompa quel patriottico e grandioso atto, ma, facendosi essi interpetri de' caldi voti de' loro amministrati, dei loro conterranei, inviavano indirizzi al Governo? Vero è pure che in questi v'era anco involta l'idea di protesta, di biasimo! Io ne rimasi sì fattamente commosso; fui compreso da tanto compiacimento; giudicai la cosa di sì grave momento, che intesi il debito tenerne per telegramma informato l'egregio presidente del Consiglio.

Non insisto di vantaggio, signori, su di un fatto oramai noto a tutti coloro che sono stati in quelle provincie; ch'è stato comprovato da atti splendidi e gloriosissimi contro la masnada che affligge quelle belle ed amene contrade; ch'è stato dal sangue di tanti prodi suggellato: gli è un fatto oggi del tutto incontestabile.

Assicurata la Camera sul nobile e patriottico sentire di quelle vivaci popolazioni, della ferma ed irremovibile loro volontà, de' sagrifizi che queste son pronte a continuare per veder compiuto il programma della nostra unità, nazionalità ed indipendenza, io passo ad enumerare e toccare appena di voto le principali cause de' mali attuali; donde lo stato miserevole, i gravissimi pericoli di quelle provincie traggono origine. Lo fo, perché da essi potremo trovare il modo come sovvenire a' bisogni urgentissimi, ricavare ed apportarvi gli opportuni e solleciti rimedi. Ai fatti dunque.

Errori del Governo. Primo errore, o signori, fu lo scioglimento della benemerita armata Garibaldi, come ben faceva osservare prima di me l'egregio avvocato PISANELLI. Solo differisce il mio giudizio dal suo in ciò; egli era un consigliere allora di luogotenenza, io un privato cittadino.

Di fatti tale armata dovevasi invece depurare, disciplinare dal suo valoroso capo, quindi dipartirsi nelle diverse provincie meridionali. In guisa che con questa benemerita e valorosa armata non avrebbe mai colà il brigantaggio e la reazione osato far capolino. Ma sventuratamente il Ministero la scioglieva; ed in che modo? A tutti è pur troppo noto!... È. questo un fatto che non solo profondamente addolorava i Napolitani, non solo era causa di grave malcontento e di grave discredito pel Governo (occupando così una brutta pagina d'ingratitudine nella storia), ma altresì dava luogo a quel funesto dualismo che tanto tanto abbiamo deplorato; che avremmo voluto vedere del tutto distrutto. Ma, sciolto pur anche, perché mai bandire la sua ufficialità da quella terra che aveva essa sì valorosamente redenta? perché confinarla nelle nordiche lontane provincie? mentre ora si tiene a giacere cosi neghittosa e scontenta in una fatale inerzia! Quali importantissimi servigi non avrebbe essa reso ora in questi gravi pericolosissimi momenti di quelle sventurate provincie?

Il secondo errore, o signori, sta nella dissoluzione dell'esercito borbonico. Era esso composto di 97158 uomini, di 3684 ufficiali; formante 72 battaglioni, 81 squadroni e 16 batterie montate. Mentre questo esercito, fattosi cambiar cielo, rigorosamente scrutinato e depurato, fuso nel nostro valoroso, ci avrebbe data fin dal primo una forza disciplinata di circa 80000 uomini pronta a combattere.

152 -CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Ma invece lo si volle sciogliere! Si mandarono alle loro case meglio che 90000 uomini, i quali certamente non erano tutti nostri amici; si dispersero questi in tutte le provincie. Che cosa dovevasi da essi per tale malcontento aspettare? Pur troppo dolorosamente lo vediamo!

Potrei qui soffermarmi lungamente sugli avvisi dati al Governo senza alcun prò. I replicati rapporti dei pubblici funzionari, che si affrettavano a manifestare le funeste conseguenze di un si improvvido passo. Io stesso, come comandante di 6000 guardie nazionali nell'importantissimo distretto di Casoria, non trascurai spedirgliene ben quattro circostanziali, che rivelavano gli imminenti pericoli. Ma gli avvisi, i rapporti rimasero sventuratamente perduti!

Qui, o signori, non posso passare sotto silenzio che di 3684 ufficiali di tale esercito, solo 500 in 600 furono messi in attività. Di essi poi quelli che si diedero a Garibaldi, che resero servigi alla causa nazionale, in gran parte furono messi al ritiro, inutilizzati, tenuti pure in sospetto! Degli altri poi, quelli che i primi fecero adesione al plebiscito, furono ben pochi chiamati in attività. Furono invece preferiti e premiati coloro i quali s'erano battuti in Capua, in Gaeta, ecc. ; che erano rimasti fedeli al Borbone sino all'ultimo istante, che furono causa di spargimento di sangue cittadino, si videro preferiti e messi all'attività.

La stessa politica verso i militanti e benemeriti patriotti! Questa stessa ingrata dissolvente politica col benemerito corpo di Garibaldi; ingiusta e di sospetti verso tutti; questo voler accarezzare e premiare l'elemento borbonico è stata una principal causa del brigantaggio, della reazione; dello stato deplorabilissimo in cui ora versano quelle disgraziate province!

La terza causa di errori del Governo, o signori, io la riconosco nel profluvio delle leggi che si intempestivamente si vollero a forza promulgare. Esse furono ancor causa di malcontento, di babilonia, di mancanza di governo che tuttavia in quelle provincie regna. Ma v'ha di più; la legge comunale, la legge arbitraria della guardia nazionale, sulla relazione del 16 aprile dello Spaventa, applicata immediatamente in un paese per tanti anni flagellato dal Borbone, dovevano dare quei risultamenti da tutti previsti, meno dai signori consiglieri della luogotenenza di Napoli; cioè dovevano dare, in generale, borbonici nei Consigli municipali, borbonici nella guardia nazionale. Questa, o signori, ha bisogno di prontissime ed energiche riforme, essendo in grandissima parte in rovina, in dissoluzione.

lo dall'egregio cavalier Farini non mi aspettava, o signori, ch'egli si fosse messo in aperta contraddizione con sé stesso; con quanto, cioè, ei elegantemente, con tanta saggezza avea scritto nella sua bella Storia d'Italia, là dove parla degli avvenimenti del 1820 di Sicilia; non mi avrei quindi aspettato mai ch'egli avesse assentito alle numerose, intempestive ed indigeste leggi e decreti propostigli dai suoi consiglieri.

Invano il paese gridava: non più leggi, non più inopportuni decreti; novità che oggi ci gelerebbero nella confusione! Lasciate al Parlamento, cui solo spetta, che le faccia con calma ed opportunità! Ma no, le leggi, i decreti continuarono a piovere, e ci condussero alla confusione, al malcontento ed allo stato in cui ora siamo.

Qui cade pure in acconcio, ot signori, manifestare come il Governo centrale ha voluto e vuole amministrare quelle infelici provincie, non con l'opinione del paese, ma contro; anzi a dispetto di questa. Qui mi astengo, per amor di concordia, di nominare alcuni uomini preposti ivi alla cosa pubblica; uomini su di cui apertamente erasi già pronunziala l'opinione del paese!

La stessa ragione m'impone a non dar giudizio sulla loro amministrazione. I fatti sono per sé pur troppo eloquenti.

Richiamato l'egregio cavaliere Farini, il commendatore Nigra, di Napoli, succedeva loro il distinto conte Di San Martino. Questi, espertissimo amministratore, uomo politico ed accorto, arrivato in Napoli ponevasi a studiare i bisogni di quel paese; scriveva quindi al Governo centrale che, se gli avesse mandati non più che 6000 uomini, avendone appena 20000, egli compromettevasi ridurre quelle provincie in breve allo stato normale, al pari delle altre provincie dello Stato. Scriveva che quelle popolazioni non fossero ingovernabili; egli le aveva trovale buone, ragionevoli, docili. A queste belle promesse, a queste belle speranze, che davansi dal nobile conte Di San Martino, come rispondeva il Ministero centrale? Non mandandogli quella poca forza, che in allora sarebbe stata sufficiente a distruggere qualche incipiente banda di briganti, che mostravasi appena ora qua, ora là. Alle sue premure, a' suoi replicati uffizi e telegrammi, si rispondeva dal Governo in che modo?Con un colpevole silenzio! Finalmente come gli si rispose? A tutti è ben noto!...

Pure, o signori, il conte Di San Martino era non solo stimato, ma amato dai Napolitani; egli vi rispondeva con pari affetto. Fu egli che iniziava il loro contentamento; essi fidavano in lui, e ben a ragione vi fidavano. perché dunque lo richiamava il Governo centrale? Tutti lo sanno!...

Il Governo centrale, conseguente alla sua malaugurata politica, credeva prescegliere nell'illustre generale Cialdini l'uomo che meglio potesse attuare il suo dissolvente programma: ma no; il nobile generale, consultata solo la propria coscienza, iniziava una ben diversa politica; quella cioè del vero bene del paese lui affidato; politica fondata sulla giustizia, moralità e libertà vera.

Il paese seppe ben presto ravvisare le pure intenzioni del generale, in guisa che la parte eletta, capitanata da sinceri patriotti, stringevasi intorno a lui nella nobile e difficile impresa. Quando il vincitore di Castelfidardo, o signori, nel suo bel cammino slava per raggiungere la mela, ecco un decreto del Governo centrale che lo arrestava al mezzo!...

Si sopprime sì inopportunamente la luogotenenza ad urtare ed irritare viemaggiormente il paese 1 A suscitare funesti rancori, dualismi, la si lascia poi in Sicilia!...

Fatti questi che pesano e si accumulano precipuamente sopra uno de' ministri, che più d'ogni altro avea il debito, anzi il dovere di fare gl'interessi, il bene della sua terra; difenderne i dritti, il decoro, la dignità! Ei rappresenta nel Consiglio della Corona la parte napoletana!

Sono i Napolitani, signori, ingovernabili, esigenti, intolleranti, incontentabili, tiepidi patriotti? Come possono mai essere questi amici dell'attuale Ministero? Ora, lo dicano per me il nobile conte Di San Martino, l'illustre generale Cialdini!... Eran questi pure i migliori amici, i più fidi del Ministero.

Agli errori gravissimi accennati di voto del Governo centrale, o signori, aggiungevasi un'altra precipua causa di malcontento, di discredito pel Governo; questa si è la miseria originala in gran parte dal necessario mutamento politico, a cui dovevasi sopperire con pronti ed efficaci provvedimenti di lavoro, industria e commercio.

Le cause della miseria sono, primo la distruzione d'un'armata di terra e di mare di meglio 120000 uomini, che cquipaggiavasi e fornivasi di tutto da quelle provincie, che dava lavoro e pane.

153 - TORNATA DEL 5 DICEMBRE

La giusta cessazione dell'esecrato Borbone, che spendevi ben moltissimi milioni pel suo esercito; tale ingente somma è stata presso a che perduta per quelle provincie; perocché, senza giustizia distributiva, fino le scarpe ed i cappotti si mandano colà da questi depositi centrali! Gli appalti, le maggiori aste per fornimento della nostr'armata (annosi altrove! Quindi in Napoli fabbriche di panni, venditori, artieri, operai in rovinai

Una seconda causa di miseria, sebbene non proveniente dai falli del Ministero, gli è la mancanza quivi del Governo, dei principi e famiglia reale;dei ministri esteri; dei Ministeri ed amministrazioni principali; non chela mancanza dei nobili non patriotti e seguaci del tiranno, che sonosi di colà allontanati.

A questi difetti però era dovere imperantissimo pel Governo provvedervi altramente e con prestezza! Il Ministero vi ha sopperito forse, dando colà lavoro e pane? No! Vi ha create nuove risorse, nuove industrie, ecc. ? No! Vi ha portato ed installato in Napoli, come pur si fece per Milano e Firenze, una grande, ricca e nobile amministrazione, la quale, oltre al soddisfare all'amor proprio di quei paesi, apportasse altresì soccorsi di danaro, di commercio, ecc. ? No, sempre no! Toglieva e disfaceva invece 1 Egli non seppe far altro che demolire! Tutto, tutto distruggere; niente, niente edificarti...

Gli errori del Governo la miseria cagionata da cangiamenti, necessari alcuni, intempestivi altri, han generato il malcontento; hanno partoriti gli avvenimenti che oggi deploriamo. Mettono in pericolo quella concordia, quella unione che è tanto necessaria per andare al Campidoglio, per riscattare la regina delle lagune, per formare l'Italia' una, forte, indipendente, sotto la nobile e gloriosissima insegna sabauda.

De' nostri errori, delle nostre discordie ne hanno saputo e ne sapranno ben trarre profitto i nostri nemici, se noi non vi provvediamo, i nemici delle nazionalità, delle libertà e della civiltà.

Gli errori di una parte politica giovano all'altra. Sempre, sempre cosi s'è visto. Spesso, per volersi con troppo ardore inoltrare, si oltrepassa la meta; si disserve la propria causa, per servire quella degli avversari. Cosi parmi essere avvenuto, o signori, nel nostro caso.

Da quanto ho avuto l'onore di esporre a questa nobilissima Assemblea, parmi dovessero prendersi i seguenti provvedimenti.

Primamente, finirla all'intuito col passato, con i borbonici. Circondarsi, al dire dell'onorevole nostro presidente, di uomini onesti e di specchiata fede politica, senza distinzione di parte, purché questi amassero l'Italia, rispettassero il Governo proclamato dalla nazione. Moralizzare in tal guisa prontamente il paese, apportarvi la concordia, la forza.

In secondo luogo, parmi che sarebbe d'uopo che le quattro divisioni a formarsi de' volontari, i nuovi reggimenti siano formali, equipaggiati ed installati nelle Provincie meridionali.

Per terzo rimedio, finalmente, sarebbe desiderabile che que' pubblici lavori, le tante e tante fiate promessi e ripromessi dal Ministero, si effettuassero una volta.

Qui pure parmi luogo opportuno il dire che sarebbe cosa lodevole, se i signori ministri si facessero a pregare il nostro augusto Monarca di beare con i reali principi, di quando in quando, colla loro augusta presenza quelle desiderose ed affettuose popolazioni; in seno alle quali sonovi pure tante cospicue e splendide reggie, che ora si veggono deserte, derelitte ed abbandonate.

In una parola, il Governo deve iniziare una nuova politica interna veramente italiana; cioè non gretta e d'impicciolamento, non irritante, non di sospetti e di esclusivismo; ma invece una generosa, franca, giusta, riparatrice e moralizzatrice.

Cosi solo potrassi raggiungere quella tanta sospirata concordia raccomandata da tutti gli egregi oratori che mi hanno nobilmente preceduto.

Finisco, o signori; non voglio ulteriormente abusare della vostra pazienza, facendovi da ultimo osservare, che i dolorosissimi casi di Napoli sono gravi, anzi gravissimi; le nostre famiglie, i nostri cari sono in gravi ed imminenti pericoli I I nostri genitori, le nostre mogli, i nostri figli aspettano da voi un salutare ed energico provvedimento 1 Guai se la Camera non ascoltasse la loro voce! 1 legittimisti, i carlisti, i papisti; insomma quanto vi ha del vecchio dispotismo, di sozzura della tirannide, tutta la reazione europea sceglieva per estremo campo di battaglia le infelici provincie napoletane. Questi ribaldi vogliono trarre partito dall'ignoranza, dalla superstizione, dallo stesso abbrutimento delle masse impiantato dal Borbone; dal malcontento, dal malessere, dal discentiamento prodotto dalla soppressione intempestiva della luogotenenza, onde darci battaglia. Noi dobbiamo accettarla, o signori, per farla una volta finita con costoro, con la santa sede, facendo appello a tutte le forze vive e generose del paese. Io non sarei alieno anco, ove il Governo il giudicasse necessario, come mi pare che ne sarebbe il caso, di mandare colà un alto commissario con pieni poteri. Le nostre leggi, o signori, sono impotenti; esse non sono per i ribaldi ed i masnadieri!... In questi supremi momenti, quando il Ministero godesse la fiducia della Camera, questa non gli negherebbe, a mio credere, i pieni poteri all'uopo. Salus publica suprema lex est.

PRESIDENTE. Prima di sciogliere l'adunanza, avverto che il presidente del Consiglio ha annunziato che prenderà la parola all'aprirsi della tornata di domani.

La seduta è levata alle ore 5 ½ .

Ordine del giorno della tornata di domani:

Seguito delle interpellanze al Ministero intorno alla questione romana ed alle condizioni delle provincie napolitano.

CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

TORNATA DEL 6 DICEMBRE 1861

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE TECCHIO, VICEPRESIDENTE.

SOMMARIO. Omaggi. = Giuramento d'un deputato. - Seguito della discussione intorno, alla questione romana ed alle condizioni delle provincie meridionali - Discorso del presidente del Consiglio in risposta ai vari oratori - Discorso del ministro guardasigilli - Repliche personali del deputato Brofferio - Discorsi e ragguagli dei ministri per la guerra, pei lavori pubblici, e per la marineria - Avvertenza del deputato Ranieri - Discorso del deputato Petruccelli contro l'operato ministeriale.

La sedata è aperta alle ore una e un quarto pomeridiane.

Massari, segretario, legge il processo verbale della precedente tornata.

««Lincei, segretario, espone il seguente sunto di petizioni:

7631. Ventidue cittadini dottori in medicina, da Napoli, si lagnano di non essere stati ammessi nell'esercito nella qualità di uffiziali sanitari, sebbene dall'esame di concorso subito siano stati riconosciuti idonei.

7632. I farmacisti militari delle provincie napoletane, già addetti all'esercito meridionale, domandano di essere riconfermati nei loro gradi nell'armata stanziale.

7633. De Rose Luigi da Cosenza, provincia di Calabria Citeriore, ex-luogotenente nel battaglione de' carabinieri nazionali, domanda un impiego.

7634. Rusconi coniugi Luigi e Maria di Vendrogno, provincia di Como, chiedono che il loro figlio Luigi sia congedalo dal servizio militare.

7635. La Camera notarile di Messina fa istanza perché i notai tutti dell'isola siano dichiarati sciolti dell'obbligo della inserzione dogli estratti negli alti traslativi di dominio e venga abrogata la disposizione ministeriale del 22 marzo 1861.

7636. Boni Angelo, residente in Torino, colonnello in ritiro, chiede la pensione equivalente al suo grado.

ATTI DIVERSI

PRESIDENTE. Il prefetto della provincia di Terra di Lavoro fa omaggio di 25 esemplari di una Memoria sulla circoscrizione territoriale della provincia di Benevento.

Il presidente ilei Consiglio provinciale di Cuneo fa omaggio alla Camera di una copia degli atti di quel Consiglio, Sessione 1861.

L'ingegnere Lue Angelo, di Milano, fa omaggio di 400 esemplari del giudizio emesso dal Consiglio dei giurati per l'esposizione di Firenze sopra il nuovo sistema di strade ferrate a cavalli da applicarsi sulle esistenti strade rotabili.

Il cavaliere canonico Giovanni Chelli, da Grosseto, fa omaggio di considerazioni manoscritte intorno alle proposte del presidente del Consiglio dei ministri relative alla questione romana.

DI SAN DONATO. Chiedo di parlare sul sunto delle petizioni.

Presidente Ha facoltà di parlare.

DI SAN DONATO. A nome ancora dell'onorevole generale Cosenz, prego la Camera di voler dichiarare d'urgenza la petizione 7632, presentata dai farmacisti militari delle provincie napoletane, già addetti all'esercito meridionale, i quali ricorrono contro una decisione emessa dal Governo, che pregiudica radicalmente la di loro posizione, dopo i tanti servigi prestati in epoche difficilissime. Trovando io la petizione poggiata su validissime ragioni, interesso il Parlamento a volerle accordare l'urgenza.

(È decretata d'urgenza. )

GALLOZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

GALLOZZI. Colla petizione 7631, ventidue dottori in medicina napolitani si lagnano che, avendo subito il concorso fin dal novembre 1860 per essere ammessi nell'esercito italiano nella qualità di ufficiali sanitari, dopo essere stati approvati e riconosciuti con dicasteriali dall'onorevole generale Cugia e dal conte Revel, essi non si vedono ancora piazzati; si lagnano che, avendo subita la visita sanitaria, e presentati i diplomi, era vedono piazzati altri che sono stati accettati in concorsi posteriori, mentre essi furono dimenticati. Aggiungono ancora che, durante l'epidemia del tifo, essi si sono prestati negli ospedali, e dopo furono rinviati, mentre uno di essi pagò il tributo della vita nello assistere gl'infermi.

lo prego quindi la Camera a voler dichiarare d'urgenza questa petizione; ardirei anzi pregarla perché venisse riferirta al più presto possibile, dappoiché questi professori, tenendo i loro diplomi qui depositati al Ministero, non hanno potuto esercitare la loro professione, né presentarsi ad altri concorsi, mancando di documenti regolari.

(La petizione 7631 è dichiarata d'urgenza. )

(Il deputato Carsico presta giuramento. )

(La Camera non essendo in numero, si procede all'appello nominale, che è interrotto. )

PRESIDENTE. La Camera è in numero. Metto ai voti il processo verbale testé letto.

(E' approvato. )

SEGUITO DELLA DISCUSSIONE INTORNO ALLA QUESTIONE ROMANA

ED ALLA CONDIZIONE DELLE PROVINCIE MERIDIONALI.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguilo della discussione intorno alla questione romana ed alle condizioni delle provincie di Napoli e di Sicilia.

Il presidente del Consiglio dei ministri ha facoltà di parlare! (Segni d'attenzione)

RICASOLI B, presidente del Consiglio dei ministri. Signori, durante quattro giorni avrete riscontrato come il Ministero abbia prestato una religiosa attenzione agli elaborati discorsi che si sono pronunziati sopra i due oggetti importantissimi che sono all'ordine del giorno. Quest'attenzione non era nel Ministero eccitala da diffidenza di sé, nò da timore di ricevere accuse fondale; era tranquillizzalo in questo dalla persuasione di aver sempre operato secondo coscienza; era pure grandemente eccitato dal desiderio vivissimo di conoscere esattamente i veri mali del nostro nuovo regno. Infine, non Io nascondo, restai confortato nel conoscere che questi mali non sono nulla più di quelli dei quali, durante sei mesi di governo, il Ministero, e particolarmente quegli che ha l'onore di parlare alla presenza vostra in questo momento, si erano con lunga meditazione reso conto a sé medesimi. Di più l'attenzione era naturalmente eccitata dal desiderio di conoscere se i rimedi fino a questo giorno apprestati dal Governo fossero stati conformi a saviezza, conformi al bisogno. Anche su questo ho avuto il conforto di riscontrare che tutto quello che è stato dagli onorevoli deputati durante quattro giorni suggerito fu già in precedenza dal Governo messo in pratica, e, credo io, anche con frutto sensibile. Cosicché oggi nel prendere la parola mi giova il credere che, tenendomi unicamente nei fatti e nel concreto, poiché non si governa con astrazioni, io potrò portare alle deliberazioni future di quest'Assemblea importanti argomenti di conforto.

Mi si permetta, prima ch'io entri nell'intrinseco della questione, ch'io rilevi alcune asserzioni che ilei passati giorni sono state enunciate, le quali non sono, per dire il vero, serie, ma piuttosto singolari, e solo notevoli perché danno al Governo l'occasione di manifestare tutt'intero anco su certi argomenti l'animo suo.

L'onorevole deputato Musolino ha impiegalo un lungo discorso che ha dovuto dividere in due sedute per dimostrare una cosa, la quale fino a questo giorno era rimasta a me veramente nuova, che cioè l'Italia non avesse altri nemici che la Francia. Non dirò che con più brevi parole si potrebbe dimostrare il contrario, perché sarebbe pur questo un andar lungi dal vero.

Dirimpetto a quest'asserzione basta solamente ricordare i due ultimi anni della nostra storia per dimostrare, die la Francia è la prima amica dell'Italia. Il sangue sparso da quella generosa nazione nel 1859 basterebbe per sé solo a darmi ragione; ma c'è un fallo anche più segnalato, e prego l'Assemblea di non lo voler mai dimenticare: il fatto, cioè, che ha meglio assicurato all'Italia il compimento della sua volontà, e che è garanzia all'ulteriore procedimento dell'opera nazionale. Questo fatto è il nonintervento guarentito dallo sguardo vigile e formidabile dell'imperatore dei Francesi. (Voci: Bene!)

Questo certamente è il più gran benefizio che l'Italia potesse ricevere, poiché, lungi dall'umiliarla, la pose in grado di diventare forte e capace di sostenere la sua indipendenza;

ma è pur d'uopo che quanto si è ottenuto sia guarentito dalle virtù della prudenza, della perseveranza, dell'abnegazione. Ed ecco la parte nella quale sono completamente d'accordo coll'onorevole Musolino, cioè a dire che l'Italia d'ora in poi deve fare da sé, e deve studiarsi di non aver bisogno di qualunque aiuto, se questo aiuto è straniero. (Bene!)

L'onorevole Musolino mi attaccava però in una cosa nella quale sono veramente sensibile. Egli ha chiamato l'esercizio di quella politica, che oggi trovasi confidata nelle mani mie, esercizio adoperato con modi servili.

Mi ha sorpreso veramente quest'accusa, perché invece io era abituato a sentirmi condannare per troppa tenacità, per troppa alterezza, per una politica la quale fosse più propria a una nazione oramai gagliarda e superiore a qualunque pericolo nelle sue relazioni coll'estero.

Anche su questo abbia la bontà l'Assemblea di ascoltare una mia difesa.

La mia politica non è ne millantatrice, né timida.

Io rappresento una nazione che si distingue per assennatezza, per modi civili, per generosità d'animo, e studio tutti i modi affine di compiere nelle mie relazioni, per quanto può il mio criterio, i doveri della mia rappresentanza. (Segni d'assentimento dalla destra e dal centro)

Un altro onorevole deputato, il conte Alfieri, parmi che accusasse il Ministero di avere in principio percorso un periodo interamente contrario a quello che era stato inaugurato dall'ottimo conte Di Cavour, vale a dire che avesse il Ministero attuale posto in cima a tutti gli altri suoi concetti la volontà di andare a Roma, e non pensasse ad altro che a ciò, e dimenticasse quindi tutti gli altri interessi della nazione, e soprattutto gl'interessi interni. Poi dopo, il medesimo onorevole deputato trovò che il Ministero, fallita (a suo dire) l'impresa di Roma, avesse mutato pensiero, vale a dire, che, non pensando più a Roma, si occupasse dell'ordinamento interno.

Non so qual atto, a dir vero, abbia potuto condurre l'onorevole preopinante ad un giudizio così opposto al mio intimo sentimento, lo credo che nella vita di una nazione, siccome in quella degli individui, anzi più rigorosamente, occorra mantenere la vitalità in ogni parte, e non si debba concentrare in una sola a pregiudizio delle, altre. Quindi colgo quest'occasione per dichiarare che stimerei una grande sventura se quest'idrati sosta potesse essere accolta dagli animi dei miei concittadini. Non vi è sosia quando si tratta di compimento della nazione; vi può essere un modo di procedere savio, prudente e non precipitato, ma non mai sosta; sosta, equivale a morte.

11 Ministero presente si occupò di continuare l'opera del conte Di Cavour, e, credo io, interpretando pienamente l'animo ed il voto del Parlamento, stimò di non minore importanza tutto quello che tende all'ordinamento interno; e ciò stima ancora, in quanto che crede che un individuo prospero è robusto sia quello che meglio d'ogni altro possa anco compiere gl'intendimenti del suo spirito.

Il Ministero adunque, sin dal giorno che assunse gli affari del paese, si occupò dell'ordinamento interno, si occupò della questione romana, si occupò d'ogni altra questione, e mantenne fedelmente quel programma che in brevi parole espose quando assunse le redini del potere e che fu ripetuto il 1° luglio nell'occasione dell'imprestito.

Vi darà, o signori, ognuno de' miei colleghi, spiegazioni precise sulle particolari sue incombenze; gli onorevoli miei colleghi della guerra e della marina vi parleranno dell'armamento, e spero vi faranno convinti che non fu punto dimenticato, né trascurato; e ciò non solo per obbedire,


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156 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

o signori, alla vostra volontà, che già sarebbe un dover nostro, ma per seguire ancora il convincimento che abbiamo tutti noi, perché tutti apparteniamo come voi all'Italia.

Vi darà pure discarico fedele il mio ottimo collega della giustizia sopra l'amministrazione di questo importante ramo del pubblico servizio, e vedrete e riconoscerete quello che si è fatto e quali siano gli intendimenti sul da farsi.

Pertanto mi limiterò a parlare particolarmente dell'amministrazione civile del regno, delle sue condizioni, dopo di di che passerò a parlare delle condizioni in particolare delle Provincie napoletane.

Le condizioni del regno io non le voglio esagerare né in troppo bene, né in troppo male, perché in appresso i miei giudizi intendo siano confermati con qualche esempio.

Le condizioni del regno oggi sono quali debbono essere per un paese che è in corso di rivoluzione; ma quello che importa di sapere gli è se questo paese, se lo spirito pubblico d'Italia voglia o non voglia la patria sua.

Ebbene, su questo proposito io non temo di affermare che l'Italia è il paese il più ordinato che esista. E quando anche l'Italia non avesse tutti i miei affetti, gli affetti che si hanno per la patria, li avrebbe dappoiché ho conosciuto che lo spirito italiano si presta stupendamente alle opere grandi, senza sviare giammai dalla temperanza. (Bene! bene!)

Si citino il paese, la strada invasa da moltitudini tumultuanti e sfrenate, si citino 1 In fin dei conti l'uomo non è di cera, né di terra cotta, né tutti, io credo, i gradi sociali sono al medesimo punto di cognizioni e di educazione. Un paese che entra in rivoluzione può avere anco i suoi momenti d'impeli smodati, imperocché la libertà ordinariamente non si fonda radicalmente senza un qualche disturbo nel suo principio; è in seguito poi che si bilancia e piglia il suo assetto.

Che cosa vi è di male in Italia? Vi saranno certamente dei mali in un grado superiore che non sia in paesi ormai vecchi in tutti i loro ordini. Vi sono, parlo in generale, perché ho dichiarato che toccherò più particolarmente delle Provincie napoletane, vi sono i delitti che si verificano in ogni società, in certi luoghi più intensi, più numerosi che in altri. A questo rispondo: è naturale in un paese che sorge, che esce da un despotismo iniquo, che ha tutto impedito, cosi il bene, come il male; perché anche il terrorismo esercitato sul pensiero si diffonde e reagisce nelle passioni ordinarie dell'uomo, e il dispotismo non aveva nulla creato; non avea formato il cuore, non formate le menti, perché si opponeva ad ogni educazione, ad ogni istruzione, alimentando unicamente tutto ciò che portasse a depravazione, a fanatismo, ad ignoranza.

Mi si dice che la sicurezza pubblica è difettosa. Converrò che non è perfetta, e dirò che non può essere altrimenti, poiché durante questi due anni abbiamo dovuto fare più della politica che degli affari.

In due anni si poté egli educare gli impiegati e i funzionari, specialmente quelli i quali sono destinati alla pubblica sicurezza? Si poté egli in due soli anni crearli in quei termini, in quella estensione che faceva d'uopo ad un regno diventato immenso dirimpetto a quello che era prima? Le forze che prima servivano alla sicurezza pubblica ne' piccoli stati essendo corrotte, perché piuttosto chiamate a servire alla tirannia che alla pubblica sicurezza, queste forze non potevano servire alla nuova costituzione del paese:

anzi queste sono forze che oggi animano disgraziatamente Io sciagurato stuolo di gente avverso al movimento nazionale.

Ora dunque conveniva creare una nuova milizia di pubblica sicurezza, conveniva portare il corpo dei carabinieri a quel numero, a quella forza che era necessaria.

Ha egli fatto il Governo tutto quello che occorreva per arrivare a questo risultato? Io dico: sì, lo ha fatto, perché si è dato immediatamente ad organizzare la nuova forza dei carabinieri, e in soli sei mesi, cioè dal giugno a questa parte, oltre a tre mila teste accrebbero quel corpo. Esso è ancora ben lungi dal raggiungere il numero stabilito, perché in questo momento quel corpo novera solamente tredici mila teste delle diciannove mila di che dev'essere formato; ma le leve che si stanno facendo e quelle che fra breve sono per farsi daranno presto il modo di condurre questa forza cosi importante e benemerita al numero suo normale.

Il Governo pure provvede costantemente a migliorare le guardie di pubblica sicurezza, nonché tutti gli agenti destinati a conservare la pubblica quiete.

Il Governo si preoccupa parimente degli alti funzionari; e su questo non lardo a dichiarare quali debbano essere e quali siano stati i suoi prìncipii direttivi nella scelta delle persone; questi principi! sono la probità, la capacità, il pensiero politico. Su questo dichiara solennemente per mia bocca il Ministero, che ora ha l'onore di reggere i destini del paese, che non transigerà mai con coloro i quali furono pel passatoi satelliti, gli stromenti del dispotismo. (Bene! Bravo! da tutti i lati della Camera)

Fin d'ora dichiara il Governo che sarà lieto di stringersi con tutti quelli i quali hanno nel cuore sinceramente il patriottismo che qui tutti abbiamo giurato. (Bravo!)

In questo solo sta, signori miei, la verace concordia, ma questo ho la coscienza di aver sempre mantenuto e manterrò. (Segni dissenso)

Nel caso che io obbliassi qualche punto particolare degli affari, domando scusa, e invito anche ad avere la bontà di richiamarmelo alla memoria, se alcuno desiderasse di avere su quello particolari informazioni.

Passo alle provincie napoletane. (Movimento di attenzione)

Uria parola si è pronunciala qui che mi ha grandemente ferito, perché il supporre, il solo supporre che verso quelle Provincie il Governo non abbia quell'amorevolezza, quella benevolenza, quell'affetto che dobbiamo tutti avere per tutto ciò che appartiene alla famiglia italiana, questo, signori, mi ha recalo un grave disturbo; al contrario io dirò che, appunto perché quelle provincie richieggono più particolare sollecitudine, perché quelle sono delle ultime arrivate alla grande famiglia, credo debbano piuttosto avere il posto di predilezione, e non un posto che stia in fondo della tavola.

Su questo, signori, il Governo potrà facilmente giustificarsi. Primieramente è noto come due dei miei colleghi, dimenticando gli scomodi ed anche i pericoli, si sono portati personalmente in quelle località per riscontrare l'andamento della pubblica bisogna in due rami importantissimi, cioè nella pubblica giustizia e nei lavori pubblici.

L'egregio collega Peruzzi ha attraversato tutte quante quelle località, si è confuso con quelle popolazioni, ne ha riscontrato i bisogni; ed io ho la consolazione, che egli ha avuto prima di me, di poter dire che la sua gita è stata veramente efficace. I lavori, colla sua presenza, si sono attivati, in gran parte hanno ricevuto un impulso veramente benefico. E qui, se pensiamo che non solamente provveggono a tanti bisogni, a tante necessità presenti, che quei lavori son destinati a dare comunicazioni nuove, a fondere insieme genti che si consideravano non solo come distinte, ma come diverse; a dar vita a tante ricchezze,

157 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

a tanti elementi di prosperità finora mortificali dall'isolamento e dall'abbandono; quando pensiamo a questo, siamo in verità indotti a credere che appunto il ministro dei lavori pubblici è quello che debbe compiere la unità d'Italia, unendo insieme tutti gli animi, tutti gli spiriti, come tutti gl'interessi nazionali.

Della giustizia, ho detto, ne parlerà da sé l'egregio ministro.

Ora, qual è lo stato di quelle popolazioni? Il Governo è in comunicazione diretta con ognuna di quelle provincie, quindi è in grado di portarne giudizio esatto. Napoli non può servire di misura ad una popolazione di sette milioni; già ho fede in Napoli forse più di coloro i quali tanto parlarono di Napoli; io non ho che da appellarmi a quanto ho scritto sulle Provincie napolitane con una circolare che mi ha fruttato qualche dichiarazione di riconoscenza da' miei concittadini, a proposito di Napoli.

L'esperienza di questi mesi mi ha confermato come i giudizi espressi in quella circolare fossero giusti.

Io nelle provincie napolitane non ho scorto, lo dirò senza esagerazione, se non esempi di tale patriottismo, che non ho veduto in altre parti d'Italia. Questo patriottismo mi si mostra costantemente nella resistenza al brigantaggio e nella repressione di esso.

Quando si considera la guardia nazionale, gente inesperta nelle armi, completamente disabituata ad una vita difficile, pericolosa, nella quale si pone a repentaglio la vita e si arrischia d'incorrere nella morte data coi modi i più crudeli, quando si pensa che il brigantaggio è stato combattuto dal valore delle nostre truppe regolari, ma spesso associato col coraggio, coll'energia della guardia nazionale; che il brigantaggio, mercé quest'accanito combattimento, è ridotto oggi a limitate proporzioni, io dico che in quelle provincie vi sono tutti gli elementi d'un futuro non lontano risorgimento.

Io son lieto in quest'occasione di attestare che il Governo, lungi dal mettere in non cale i bisogni di quelle popolazioni, dal non far conto del personale più adatto, più capace che si trova in quelle parti, ne farà anzi sostegno efficace nel suo governo.

E prova di ciò sia il numero non piccolo di eletti ingegni che già si trovano al Ministero delle finanze, e che prestarono l'opera loro al ministro nella elaborazione di quelle leggi che vi furono presentate.

Il Ministero dell'interno ha già dei cittadini di quelle provincie, e molti più ne avrà quando sia fatta ragione alle ricerche che già ne ha fatte. Nel personale superiore dell'amministrazione non pochi delle provincie napoletane hanno luoghi egregi; e questa non è che una parte del lavoro avviato, in quanto che il riordinamento del regno si va facendo.

Questi mi paiono argomenti efficaci a togliere ogni sospetto che il Governo non apprezzi gli alti ingegni di quelle parti, e l'utile ed importante opera loro.

Io non lesserò la storia del brigantaggio, perché mi parrebbe un ufficio, più che inutile, doloroso, e in questa Assemblea se n'è già troppo lungamente e variamente parlato. Verrò piuttosto a dire cose più consolanti.

Premetto che il brigantaggio, frenato già dall'opera ardita, energica ed efficace dell'ultimo luogotenente del Re in Napoli, pareva riprendesse momentaneamente vigore nelle provincie di Basilicata e di Terra di Lavoro. E lo prese di fatto questo vigore; ma se ne conosce la cagione. perché già da qualche tempo il Ministero

aveva rapporti che in quei giorni da Roma si mandavano stuoli di gente reazionaria arrotata in quella città. Quindi era anche preparato a vedere un ultimo doloroso saggio di questi masnadieri. Questo saggio ha avuto effetto, e mercé la truppa, mercé la guardia nazionale è ormai al suo termine. Gli ultimi provvedimenti venuti dal Governo francese, che non ha mai voluto smentire la sua costante benevolenza verso l'Italia, credo che ci diano ampia garanzia che il brigantaggio abbia ormai raggiunto l'estrema sua ora. Un concerto tra le autorità militari italiane e le francesi è già stabilito fin dagli ultimi giorni del mese decorso, onde impedire che nuove bande di briganti si formino nello Stato pontificio ed irrompano nelle provincie napolitane. Questo non può mancare di produrre i suoi felici effetti.

In quanto ai delitti ordinari vi è nella voce pubblica piuttosto esagerazione, che giudizi veri, reali.

Di ciò io porterò a prova alcuni ragguagli che l'egregio ministro dei lavori pubblici mi ha in questa mattina comunicato.

Le messaggerie che fanno il servizio delle lettere e dei viaggiatori nelle provincie meridionali, ed i corrieri che sono unicamente destinati alle corrispondenze epistolari, sommano a circa 56 al giorno. Questo numero moltiplicato per i giorni di un mese, e questi giorni sommati dal 1° aprile al 20 novembre danno un numero di 13440 viaggi di corrieri e di messaggerie. Ora si è verificato che in questo spazio di tempo solo 42 sono state le aggressioni delle carrozze che servono a tali servizi. Io non dirò che non sia desiderabile che, invece di 42, siano soltanto 20 od anche nessuna; ma osservo che questo numero non dà veramente luogo a giudicare che la pubblica sicurezza nelle provincie napolitane sia ridotta agli estremi dell'abbandono.

Il Governo non intende con ciò di affidare sé medesimo, né di acciecare, direi, le sollecitudini del Parlamento, perché siano eccitati al meglio i pubblici servigi; al contrario, il Governo vuole soltanto constatare che il male non è tanto che debba spaventare, e promette che vi apporterà quei provvedimenti che valgano a raggiungere completamente il fine.

Osservo poi che, rispetto alla pubblica quiete in quelle provincie, il Governo non ha mancato di provvedere con le forze militari spedite colà in amplissimo numero. A questi giorni si contano in quelle provincie ben 80 mila uomini di truppe regolari, che servono efficacemente alla quiete pubblica, e specialmente a combattere il brigantaggio.

Con ciò vi provo, o signori, che il Governo è stato alacre in tutti i provvedimenti coi quali si poteva raggiungere quel bene che tutti desideriamo, cioè di portare quiete, tranquillità nelle provincie dell'Italia meridionale.

Ora, quali sono gl'intendimenti del Governo rispetto agli ordini interni, poiché fin qui vi ho parlato di atti amministrativi? Già voi conoscete che il principio che predomina nel Governo attualmente è il principio d'unificazione. Sì, o signori, io sono lieto di cogliere quest'occasione per dirvi che io credo non vi sia altra salute che nell'arrivare sollecitamente ad unificare tutti quanti i nostri ordini amministrativi e legislativi; che convenga anzi, per arrivarvi più presto, passar sopra al desiderio dell'ottimo, contentarsi del buono, e andar avanti riserbando il miglioramento a tempi più calmi, quando l'esperienza l'avrà anche additato. Partendo adunque da questo principio, ed interpretando il vostro animo, quando conobbi clic fosse opportuno, non tardai ad abolire la luogotenenza napoletana ed il governo della Toscana; non tarderò neppure a sopprimere la luogotenenza siciliana.

158 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

D'ONDES REGGIO. Domando la parola.

RICASOLI B. , presidente del Consiglio. Senza centralità al governo degli atti politici, ed anco direi degli amministrativi in quella parte che spetta al Governo di provvedere, non vi può essere risultato utile nei pubblici servigi, non vi può essere neppure responsabilità pel Governo centrale.

Ben si comprende quale sia t'opera di un governatore locale, quand'anche l'esperienza non lo avesse mostrato. Il governatore locale non porta più efficacia all'ordine ed al Governo, al contrario è una barriera, un velo, un sipario, pel quale quei paesi non conoscono l'animo del Governo ed il Governo non conosce lo spirito di quei paesi. (Bene! Bravo!)

Confesso d'essere stato per un tempo amico io pure del sistema regionale, ma portataci sopra una meditazione più profonda, più compiuta, e rendendomi meglio conto, dirò, della fisiologia degli affari, mi sono persuaso che. la regione era una ruota non solo inutile, ma dannosa; cosicché, convinto che pel bene d'Italia ne' suoi ordini interni si dovesse applicare la centralizzazione per parte del Governo in ciò che si attiene più specialmente ai generali servigi, io non ho esitato ad appoggiare questo provvedimento. Del pari sono convinto che rispetto a tutti gli interessi locali, questi si debbano confidare all'opera, all'intelligenza degli interessati; ed ceco perché la legge comunale, la legge provinciale amo che siano il compimento di questo principio, cioè che la provincia, abbia i suoi amministratori in tutto ciò che ha riguardo all'interesse delle Provincie; i comuni, gli amministratori propri in tutto ciò che concerne gl'interessi comunali. E appunto partendomi da questi due principii avrò l'onore di presentare quanto prima al Parlamento la legge comunale e provinciale, che già è in applicazione nella più gran parte del regnò, onde il Parlamento si degni permettere che questa legge sia estesa nella sua applicazione anche alla toscana. (Bravo! Bene!)

E ciò io farò con le stesse modificazioni che già si sono adottate per le altre provincie. Io spero che il Parlamento avrà conforme al mio il suo pensiero. Del pari chiederò al Parlamento si degni estendere l'applicazione a tutto il regno della legge sulle opere pie e della legge sulla pubblica sicurezza.

Concreterò adesso i pensieri che il Governo ha nella sua coscienza intorno alla questione romana. (Movimento di attenzione) La questione romana non è unicamente politica, che si possa trattare coi soliti mezzi diplomatici; e la questione più grande che i tempi moderni abbiano sollevalo. Da un lato tiene alla costituzione d'Italia, dall'altro tocca le credenze di tutto il mondo cattolico; l'Italia vi è direttamente interessala.

Alla Francia, come grande potenza, come quella che sia a capo d'ogni progresso umano, come amica all'Italia, come potenza cattolica, tocca il compito di aiutatrice alla soluzione di questo grande argomento.

La trasformazione del papato, signori, dee farsi, cred'io, coll'opera d'Italia, aiutatrice la Francia.

Se dunque la questione romana è politica e religiosa insieme, parmi ne consegua, per naturale e logica deduzione, che non debba cercarsi di scioglierla con mezzi violenti. Discutere se debba adoperarsi la violenza è già fuor di luogo, perché implicherebbe rottura colla Francia; e poi, quando anche la violenza restasse vittoriosa, credono forse, o signori, che la questione sarebbe sciolta? A dir vero, ne dubiterei assai. Credo adunque che la soluzione della questione romana si maturi colla discussione. Quello che un tempo si faceva davanti ai concilii, mi permettano queste parole, oggi dee farsi davanti all'opinione pubblica, che è il grande concilio dell'intelligenza umana e della società. (Brava! Bene!)

Siamo schietti, signori, l'opinione pubblica in pochi mesi ha fatto progredire assai la soluzione di questo problema, l'ha follo progredire più che non si crede.

In un tempo che non è lungi da noi si sosteneva che il potere temporale fosse d'assoluta necessità per il papato. Oggi non v'ha mente saggia che lo sostenga. Si sosteneva del pari che, perduto lo splendore di un regno terreno, la religione si perderebbe anch'essa. Non vi è credente sincero che oggi, al contrario, non istimi che la religione si farebbe invece, prosciolta dai legami terreni, più accetta, più rispettata.

Vi resta ancora un dubbio, ed è quello di non sapere come si possa conciliare la libertà del pontefice senza sovranità territoriale. Quando il Ministero presente venne agli affari trovò che la soluzione di questo dubbio era stata dichiarata da un grande uomo di Stato, in questo stesso Parlamento, colla formola: libera Chiesa in libero stato. Questa formola però era rimasta una semplice astrazione, non essendosi pensato al modo di attuarla.

Il Ministero credette suo dovere di esaminare se sì fossero potuto gettare le basi di una pratica soluzione, ed ha creduto che queste basi sostanzialmente stessero nel progetto che è noto agli onorevoli rappresentanti.

Allora non tardò a procurare l'effettuazione di questo progetto, sicuro che, una volta che l'opinione pubblica l'avesse accettato, non avrebbe il progetto subito più incerta sorte.

Nel progetto che io ho avuto l'onore di presentare al Parlamento non vi deve essere certamente il riscontro con dei documenti diplomatici, e cosi questo progetto conserva la sua particolare essenza.

E al pontefice che il Governo si dirige, è all'opinione pubblica che il Governo pure si rivolge.

Credeva il Governo che fosse necessario che l'Italia mostrasse a tutto il mondo cattolico che, nel volere la sua capitale, voleva conservare lo splendore e la gloria della Chiesa; nel volere la sua unità politica voleva conservare l'unità religiosa. Ecco quale è stato il fine che il Governo ha voluto raggiungere.

Molte obbiezioni si sono fatte a questa maniera di giudicare, ed io mi limiterò a rispondere alle principali. (Segni di attenzione)

Dicesi, ad esempio, che la via tenuta è una via lunga, è una via sterile di risultali immediati. A dir vero, io non lo credo; ma non metterò in campo la mia particolare opinione; dirò unicamente: perché discutere sulla via lunga, quando siamo tutti chiari che non ve n'è un'altra più breve? (Ilarità) D'altronde, nella trasformazione che deve pur succedere di un'istituzione che conta dieci secoli d'esistenza, vorremo noi contare i giorni?

Si è pur dello che si concedeva soverchiamente; si è pur detto che lo Stato rinunziava alle sue prerogative. Non credo veramente che siano fondale queste accuse; non credo che sia questione di concessioni né dall'una parte, né dall'altra; io penso che in grazia della maturità dei tempi lo Stato e la Chiesa possano e debbano entrare nella loro sfera d'azione; non credo che vi sia una parte che scapiti, una parte che guadagni; ciascuno ricupera il suo. Io credo anzi che sia il vero modo per ristabilire l'armonia tra il potere civile ed il potere spirituale.

Misi addebita di più di avere nella forma adoperate termini troppo umili, troppo sommessi. Ho già dichiarato che quei documenti non sono un prodotto di cancellerie diplomatiche. Ma chieggo io, ministro di un Re cattolico, di un Re che sta a capo di una nazione cattolica, doveva io dirigere linguaggio da nemico al pontefice? Credo che no. lo ho parlato il linguaggio che doveva essere adoperato

159 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

da chi parlava a nome di una nazione credente; e penso di non essermi umiliato, né d'aver umiliato questa nazione. Del resto il Parlamento mi giudicherà. (Bene! dalla destra e dal centro)

Riassumendo, concludo, la quistione romana non può risolversi con mezzi violenti, deve risolversi dall'Italia d'accordo colla Francia, d'accordo coll'opinione cattolica illuminata. La questione romana si scioglierà, perché i tempi moderni l'hanno maturata, perché il bisogno di tranquillizzare le coscienze si fa ogni giorno più sentire; si scioglierà per la benefica azione di quel principio che anima tutto il movimento moderno degli spiriti, la libertà. Procedendo in questo modo di giudicare, che è pur quello, a mio credere, che il Parlamento ha enunciato, io ho promosso quest'importante argomento. Non poteva rivolgermi direttamente al pontefice, mi sono rivolto all'intermediario, dirò, diedi ragione può stare tra l'Italia ed il pontefice. L'intermediario non ha pronunciato nessun giudizio sfavorevole sul progetto, solamente dichiarò che il tempo non era opportuno: la disposizione d'animo del pontefice non incoraggiva in quell'istante a presentargli il progetto.

In quel momento ancora vi era una circostanza importante, quella cioè che la Francia non aveva a Roma il suo rappresentante.

Del resto quel progetto fu rimesso al Governo francese da quel personaggio che degnamente rappresenta la Francia in questo momento presso la Corte di Torino.

Con questa dichiarazione ogni falsa interpretazione spero sia rimossa.

Adesso non mi resta che a dichiarare che il Governo intende in ogni momento dare discarico di sé a tutti i rappresentanti dell'Italia; al tempo stesso chiede che, qualunque sia la deliberazione che il Parlamento emetterà, sia nella e senza equivoci: o il Governo ha bene operato, va in una via diritta, conforme agli interessi d'Italia, e il Governo chiede, come ha diritto di chiedere, approvazione ed incoraggiamento; quando il Governo non vada, vuole assolutamente dichiarazione di biasimo. (Bravo!a destra)

E vi raffido, signori, che qualunque sia la vostra deliberazione, il Governo porta nel suo animo fin d'ora il compiacimento di aver sempre operato per il miglior bene dell'Italia. (Vivi applausi dalla destra e dal centro)

PRESIDENTE. La parola è al signor ministro guardasigilli.

MIGLIETTI, ministro di grazia e giustizia. Dirò brevi parole (e le dirò con voce forse troppo debole), non permettendomi l'attuale stato di mia salute di far un lungo discorso.

Nella discussione ch'ebbe luogo il ministro ha avuti molti consigli, è ha sentito ugualmente alcuni rimproveri; non al certo malevoli, ma che ad ogni modo il Ministero non può accettare senza prima rassegnare alla Camera le ragioni del suo operato.

lo compio per parte mia il mio debito, e lo faccio tanto più volentieri, in quanto che, se dovessero essere ritenuti come esatti tutti indistintamente i falli che furono da alcuni onorevoli oratori allegati, bensì potrebbe disperare ili vedere in un avvenire non troppo lontano fondata sopra giuste basi l'amministrazione della giustizia.

Prima però che io entri in questi particolari, mi permetta li Camera che io mi rivolga all'onorevole Brofferio e mi sdebiti seco lui di una censura che egli ha voluto fare a me particolarmente. Trattando l'onorevole Brofferio la questione romana ed esaminando quel trattato che il Governo del Re aveva allestito, e si proponeva di presentare al sommo gerarca, si meravigliava che il ministro guardasigilli avesse cosi facilmente consentito che il Governo rinunciasse a quei diritti regali,

a quei patronati della nazione nella nomina dei vescovi, che furono sempre con tanto senno propugnati nelle nostre scuole e con tanto coraggio sostenuti dalla nostra magistratura.

Io fui educato nella Università di Torino, feci lungo tempo parte del foro, e non posso conseguentemente ignorare queste tradizioni delle nostre scuole e della nostra magistratura.

Ma io comprendo egualmente come l'esercizio di questo diritto, come questo patronato della nazione fosse un'assoluta necessità, allorquando il Governo si serviva della religione siccome mezzo di governare; come non si possa senza inconvenienti rinunziarvi in un paese, nel quale vi sia una religione nello Stato, nel quale le parole: Libertà di culto, libertà di coscienza, siano un'eresia. In questi casi il Governo deve senza dubbio tutelarsi contro gli abusi possibili di una religione, alla quale egli stesso concorre a conferire un'autorità ed un'importanza eccezionali, ed è per ciò che le nostre Università e la nostra magistratura furono sempre gelosi e tenaci custodi di questi diritti.

Non dubiti quindi l'onorevole Brofferio: sino a tanto che la libertà di coscienza, la libertà dei culti sarà un desiderio, io sarò gelosissimo osservatore delle regole che furono insegnate nell'Università e propugnate dalla magistratura. E di queste mie disposizioni ben potrà egli convincersi se leggerà la circolare da me mandata ai vescovi, e più ancora le risposte che i vescovi mi indirizzarono: da esse scorgerà facilmente come questi non ravvisino in me lai persona che possa tollerare le clericali intemperanze.

Ma se verrà un di in cui il sommo gerarca, deposto lo scettro di re, si contenti della verga pastorale; se verrà un di in cui la libertà dei culli e delle coscienze sia una verità; se verrà un di in cui il principio: libera Chiesa in libero Stato, possa essere efficacemente attualo vorrà egli, l'avvocato Brofferio, che è il difensore nato di tutte le libertà, negare questa libertà alla Chiesa? lo non lo credo. Non sono dunque fondati i rimproveri che a me egli rivolgeva.

Vengo agli appunti che a me specialmente furono rivolti dagli onorevoli oratori, i quali trattarono la questione relativa all'amministrazione della giustizia.

Fu detto particolarmente che non si era provvisto sufficientemente alla buona amministrazione della giustizia e alla repressione dei misfatti, il cui numero si lamentava andare ogni giorno aumentando. Ma, o signori, che cosa mai il Governo poteva operare di più? Io faccio appello agli stessi onorevoli deputati i quali hanno rivolta questa censura al Governo.

Se si parla dell'amministrazione della giustizia nell'Emilia, a Bologna, nelle Marche e nell'Umbria, io ben posso dichiarare apertamente che la magistratura in quelle provincie esercita le sue funzioni con zelo e con attività, e ben posso dire che le leggi sono applicale, e che le medesime sono sufficienti per la repressione dei reali. Se questi non sono tutti repressi, ciò non deve essere imputato all'insufficienza delle leggi oppure alla poca attività dei magistrati che sono chiamali ad applicarle, ma bensì e principalmente a che difetta troppo soventi la prova dei reali.

Ora, per correggere questo difetto, quali sono i mezzi da adottarsi? Forse leggi eccezionali? forse leggi di sospetto? Io lo dichiaro francamente, io non porrò mai il mio nome a leggi di prevenzione, a leggi che colpiscano, prima ancora che esistano i reati; non metterò mai il mio nome a leggi le quali deviino da quei principi di libertà che costituiscono il nostro edilìzio sociale.

160 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Quando una rolta quest'edificio sia toccato, fosse anche per una necessità, noi non saremo più certi di poterlo tenere in piedi.

Il modo con cui questi difetti possono essere tolti quest'è che l'istituzione dei giurati si accrediti in quelle provincie.

Dall'istituzione dei giurati dorrà venire nei cittadini quel coraggio del quale ora si sente difetto.

PEPOLI GIOACHINO. Domando la parola.

MIGLIETTI, ministro di grazia e giustizia. E ben posso assicurare che dacché in Bologna, e nelle Marche, e nell'Umbria funzionano i giurati, se succedono ancora misfatti pur troppo numerosi, il loro numero però è proporzionatamente minore di quello che si lamentava nei tempi anteriori.

Quindi io confido che con quest'istituzione, la quale educa il cittadino e rileva la dignità dei giudizi, si verrà ad ottenere che i reati vengano tutti repressi.

Un secondo appunto fu fatto al Governo ed a me particolarmente. , di non attuare, cioè, nelle provincie napolitane con bastante sollecitudine l'esecuzione di quelle leggi organiche, le quali già erano state adottate sotto la luogotenenza di S. A. il Principe di Carignano; e si portò per modo d'esempio ciò ch'era avvenuto riguardo alla legge relativa alla soppressione delle case religiose.

Si disse: quella legge era stata pubblicata fin dal 17 febbraio 1861, come mai corsero otto mesi prima che essa andasse in effettiva esecuzione?

Come mai? Io domanderei a coloro i quali fanno questo rimprovero al Ministero, ed a me specialmente, se possono in loro coscienza assicurare che, mentre durava la luogotenenza che succedette a quella del Principe di Carignano, si desiderasse che questa legge venisse attuata. (Bene!) Io domanderò a coloro i quali mi hanno fatto questo rimprovero, se quelli che consigliavano in quel tempo il luogotenente generale desiderassero che questa legge ottenesse la sua esecuzione.

MANCINI. Domando la parola.

MIGLIETTI, ministro di grazia e giustizia. Io posso dire francamente che ciò non si desiderava, e che mi si scriveva che il dare esecuzione a questa legge sarebbe stato una gravissima calamità. (Benissimo'. ) Ed ho il debito di dichiarare qui formalmente alla Camera che, se io non avessi avuto soccorso da una persona che siede in quest'Assemblea e che nomino, voglio dire dal deputato Mancini, il quale mi comunicò le memorie ch'egli aveva prese a questo riguardo, e se io non fossi andato in Napoli, questa legge neanco al giorno d'oggi non avrebbe avuto la sua attuazione.

Quanto ai provvedimenti relativi al personale dell'amministrazione della giustizia, mi difende ciò che fu dichiarato dall'onorevole Pisanelli, che non c'era modo nessuno di comporre quel personale in guisa che potesse presentare almeno l'apparenza di tribunali atti a pronunziare retti giudizi. Quindi che cosa doveva io fare? Occuparmi di correggere l'istituzione, perché qui stava il difetto. Ed io ricordo alla Camera come, allorquando il Governo si è trovato nella necessità di presentare, sul finire di giugno, una domanda per essere autorizzato a prorogare l'attuazione degli organamenti giudiziari delle provincie meridionali, io pregassi la Camera stessa perché volesse fissare un termine brevissimo; e ricordo pure che coloro i quali oggi mi fanno rimprovero di non avere con bastante sollecitudine attuata l'esecuzione di questi organamenti presentassero allora istanze

perché fosse fissato un termine maggiore, ed oggi ancora domandano una nuova proroga a quella attuazione.

Io, o signori, ho l'intima convinzione che l'unità politica italiana deve essere cementata coll'unità delle istituzioni amministrative e delle istituzioni giudiziarie. Per questo motivo io fui sempre sollecito di mandare ad affetto tutte quelle leggi le quali tendevano a questa unificazione, ed a questo fine, o signori, io avrò l'onore di presentare fra pochi giorni buona parte dei Codici da applicarsi a tutto il regno.

Non si può dunque fare a me rimprovero che io sia troppo lento nell'attuare quegli ordinamenti i quali devono rafforzare la nostra unità politica.

Un ultimo e grave rimprovero mi fu fatto. Voi, si è dello, non date parte conveniente ai cittadini delle provincie napolitane nell'amministrazione della cosa pubblica; voi ci avete umiliati. Questa parola fatale fu pronunciala, e mi scese amarissima nell'animo, perché, onde giustificare questo fatto, si è ricorso ad un esempio, desumendolo dalla mia amministrazione.

Spiacemi, o signori, addentrarmi in minuti particolari, ma ho il debito di giustificare pienamente la mia condotta e di mostrare come l'asserzione sia stata fatta troppo leggermente.

Quando io entrai nel Ministero, il mio antecessore aveva alcun tempo prima formata una pianta degli impiegali. Secondo questa pianta, il numero rimaneva fissato a centoventidue, lo ho creduto di dare al Ministero che reggo un nuovo ordinamento, ed ho introdotte quelle disposizioni che ho riputate convenienti perché gli affari potessero più sollecitamente essere spediti ed io potessi meglio esserne informato. Ma, o signori, gli impiegati che erano al Ministero all'epoca in cui io ne assunsi la direzione erano centosei, quelli che esistono attualmente sono cent'otto. Vi fu un impiegato che lasciò il Ministero, ed è un Piemontese; ne entrarono tre altri, e sono tre Napolitani.

Nel fare l'ordinamento del mio Ministero, io ho contemplata la venuta di questi Napoletani, che io desiderava, che chiamava, che pregava perché venissero, ed ho per questo lasciato vacante un posto di capo di divisione, ho lasciati vacanti due posti di caposezione, ho lasciati vacanti ancora più altri posti, e ciò sempre nell'intendimento di nominare a questi posti impiegati napolitani.

Questa è verità storica, ed io l'accenno alla Camera; ma non avrei bisogno di accennarla all'onorevole oratore il quale mi ha fatto codesto rimprovero, avvegnaché fra i motivi pei quali io mi recai in Napoli, questo vi era essenzialmente di poter trovare là quel numero d'impiegati capaci sufficiente a riempire i posti lasciali vacanti nel Ministero. Io aveva per mezzo del segretario generale De Biasio cercato che questi impiegati fossero qui inviati; ma non mi fu possibile mai di ciò ottenere. E quello che non ho potuto ottenere con lettere, debbo dirlo francamente e a scarico mio, non ho potuto ottenerlo neanche colla persuasione e cogli uffici verbali che ho falli a Napoli. A quanti io ho fatta la proposta di venire impiegati al Ministero in Torino, tutti mi risposero: per carità, datemi un posto qualunque, ma a Napoli; datemi anche un posto inferiore a quello che ora occupo, ma in Napoli, poiché io assolutamente non posso andare a Torino. (Movimenti diversi)

E non si ricorda l'onorevole Pisanelli che io, posto in queste condizioni, mi rivolsi a lui, e gli dissi che io non voleva assolutamente partire da Napoli, senzachè mi accompagnassero due o tre impiegati abili dei quali potessi giovarmi nel Ministero? E non mi rivolsi io a lui perché mi suggerisse

161 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

PISANELLI. Chiedo di parlare.

MIGLIETTI, ministro di grazia e giustizia. Io dunque, o signori, ho fatto tutto quanto stava in me, e se un rimprovero si potesse fare, non dovrebbe essere a me rivolto perché non abbia fatta parte conveniente nell'amministrazione della giustizia agl'impiegati del Napoletano, ma con maggior ragione io potrei dire che non ho ottenuto né con uffici, né con parole che i Napoletani volessero concorrere per la loro parte nel sopportare il peso dell'amministrazione pubblica.

Le cose adunque, o signori, stanno oggidì in tal modo che niuno può mettere in dubbio che il desiderio di avere impiegati napolitani nelle singole amministrazioni fosse comune a tutti.

I posti ai quali io ho accennato sono tuttora vacanti, lo aspetto che impiegati napolitani vengano a coprirli; io li solleciterò; ma al certo, e lo dichiaro formalmente, non darò mai a questo riguardo un ordine; giacché preferisco di avere due impiegati i quali vengano volonterosi, ad averne dieci che vi vengano costretti, ed unicamente per non perdervi il soldo. (Movimenti diversi) Io, signori, non credo di dover entrare in altri particolari; questi erano i fatti che specialmente mi riguardavano; ho voluto dar sopra i medesimi una spiegazione, non per soddisfare ad un amor proprio mio personale, ma perché in verità troppo sarei stato dolente se la Camera avesse potuto credere che io non abbia in ogni modo cercato e di attuare prontamente le leggi organiche, e di chiamar nel seno dei Ministero gl'impiegati che sinora hanno prestato la loro opera nell'amministrazione delle provincie napoletane e che in oggi la possono prestare efficacissima presso il Governo centrale.

BROFFERIO. Domando la parola per alcuni fatti personali.

PRESIDENTE. Avrebbe facoltà di parlari il ministro della guerra, ma se il deputato Brofferio asserisce che parla solo per un fatto personale, ha facoltà di parlare.

BROFFERIO. Noto all'onorevole presidente che chiesi la parola per alcuni fatti personali. I fatti personali hanno la precedenza.

PRESIDENTE. Ha la parola per alcuni fatti personali. (Ilarità)

Brofferio. Non creda la Camera che io abbia domandato la parola per isfogo di personali iracondie; io sono a queste gare assolutamente contrario, e dico schiettamente alla Camera che, a fronte dei tanti oratori iscritti prima di me, ho colto al vaio il diritto che mi offre il regolamento per ribattere qualche osservazione dei signori BonCompagni, Massari e Miglietti.

Comincierò da quest'ultimo.

Il signor ministro di grazia e giustizia restrinse il mio rimprovero sull'abbandono ch'egli fece dei patrii diritti riguardo alla presentazione dei vescovi. Per giustificare la sua incredibile concessione disse che questi diritti di patronato, cari e preziosi al Piemonte, giovarono efficacemente nei tempi addietro a difendere l'indipendenza del nostro paese contro le tentate usurpazioni della Corte di Roma; soggiunse poi che ora non siamo più in simili contingenze, imperocché i contrasti religiosi, che allora ardevano, siansi dileguati dinanzi alla proclamata libertà dei culti.

Io non comprendo come mai il signor ministro possa affermare che ai di nostri non fervono più religiosi contrasti. Egli ba dimenticato che il primo articolo dello Statuto, il Camera quale dichiara la religione cattolica, apostolica, romana unica religione dello Stato, dà luogo ogni giorno a gravissime contestazioni, che hanno turbato e turbano sempre lo stato.

Se corse mai tempo in cui fosse necessario difendere il diritto patrio contro le cospirazioni clericali è certamente questo. Quindi il suo abbandono dei nostri civili e politici diritti al potere clericale è più inopportuno ed intempestivo che in qualunque altro tempo.

Il signor ministro mi ha invitato a leggere la sua circolare. L'ho letta, e, dico il vero, mi piacque; ed ho pur letta la risposta che gli fecero i vescovi, la quale trovai piena di intemperanze e di contumelie. La qual cosa dimostra sempre più come sia opportuno non abbandonare neppure un palmo di terra al mitrato nemico.

Se i vescovi sono cosi intolleranti, e rispondono con tanta insolenza alle pacifiche esortazioni del signor ministro, ora che hanno da noi il sacro pastorale, quando avverrà che siano criminali dalla sola autorità pontificale non faranno cento volte peggio? (applausi)

Ora risponderò una parola agli strali che mi scagliava ieri il signor BonCompagni.

Egli ha condotto in campo il padre Passaglia, ed io ricuso contro di lui il conflitto; lo ricuso perché nelle questioni di patria, di nazionalità, di indipendenza, io non frammischio le argomentazioni di teologia e di diritto canonico. Quando ho il Codice in mano, io non apro il breviario. (Bene!)

Lo stesso silenzio non serberò verso il signor Boncompagni per un'altra ben più grave imputazione, la quale venne diretta più che a me a' miei amici.

Il signor BonCompagni col Soccorso di una sentenza di Rover Collard dichiarò che gli uomini dell'opposizione democratica, quando avvenne che giungessero al potere, si mostrarono sempre incapaci, e non hanno creato mai nulla. Mi permetta il signor BonCompagni di dire che egli, attentissimo investigatore della storia, questa volta ha dimenticato fatti capitalissimi; ha dimenticalo che in Francia i migliori ministri di Luigi Filippo, voglio dire Casimiro Perrier, Guizot e Tbiers, vennero tutti dalla sinistra parlamentare. (Bene! Bravo! a sinistra - Mormorio a destra)

Ha dimenticato che in Inghilterra uno dei più famosi ministri fu Canning, il quale dalla ringhiera salutava l'emancipazione civile, politica e religiosa di tutti i popoli (Bene! a sinistra), e Canning usciva dalle fila dell'opposizione.

Ha dimenticato che nella Spagna uno dei più rispettali ministri fu Martinez della Rosa, sostegno un tempo anch'egli dell'opposizione.

Ha dimenticato finalmente che uno dei nostri ministri che hanno maggiormente contribuito col conte Di Cavour a ordinare e unificare l'Italia, che ebbe quattro volte il portafoglio, e lo lasciò godendo dell'affetto e della confidenza della Corona e del Parlamento, si chiama Urbano Rattazzi, figlio anch'esso dell'opposizione democratica. (Applausi)

Al signor Massari una parola in passando, e basta. (Si ride)

Disse il signor Massari che io era l'uomo del programma miracoloso; egli voleva farci comprendere che i suoi ministri non fanno miracoli. Questo, per dire la verità, io lo sapeva già prima. (Ilarità)

Non voglio lasciar credere al signor Massari che io pretenda che i suoi ministri abbiano la virtù dei santi taumaturghi; non voglio, per far miracoli, risuscitino i morii, o facciano camminare montagne; io voglio che facciano il miracolo che d'innanzi all'invasione dei Galli e dei Cartaginesi facevano Fabio, Camillo, Scipione, salvando portentosamente la ornai vinta repubblica di Roma.

162 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Io voglio che facciano i

PRESIDENTE. Avverto le tribune che è proibito ogni segno di approvazione o disapprovazione; se insistessero in questo sistema, avrei il doloroso dovere di farle sgombrare. (Benissimo! Bravo! dalla destra e dal centro)

Il ministro per la guerra ha la parola.

DELLA ROVERE, ministro della guerra. Signori, il Ministero ha desiderato che io, come ministro della guerra, dessi qui alcune spiegazioni in merito alle interpellanze che vennero fatte circa gli ordinamenti militari e a quanto si fece a questo riguardo da un anno in qua.

Le osservazioni fatte dagli oratori e della destra e dell'opposizione, si aggirano su tre capi principali: sull'esercito borbonico stato licenzialo; sull'esercito dei volontari dell'Italia meridionale stato disciolto; sullo stato dell'esercito attuale.

Prenderò dapprima a trattare dell'esercito borbonico, che si dice il Ministero abbia disciolto, licenziato.

Farò osservare brevemente come quell'esercito si è sciolto, né sia stato sciolto e licenziato.

Quando Garibaldi scese in Sicilia vi trovò buon numero di truppe borboniche. Queste, in seguito alle capitolazioni di Palermo e di Milazzo, vennero tutte sul continente meridionale, salvo una frazione rimasta in Messina.

Nella sua marcia vittoriosa da Reggio a Napoli l'esercito meridionale trovò man mano le truppe borboniche; ma a misura che si scontravano, o per combattimento o per trattative si dissipavano; e ben faceva Garibaldi, quando quelle truppe venivano a trattare, di congedarle e mandarle a casa, perché con quel sì piccol numero d'uomini che aveva seco non poteva certo fidarsi di lasciar quelle truppe composte in armi.

Si andò cosi fino a Napoli. Fra Napoli e Gaeta stava il resto dell'esercito borbonico in forza di 50 a 55 mila uomini. Si combatté al Volturno, e l'esercito borbonico andò indietro. Dal Volturno andò a ripararsi sotto Gaeta, dopo aver lasciato una forte guarnigione a Capua. Questa guarnigione nel mese di novembre capitolò e fu mandata in Piemonte. Dunque il ministro non ha sciolto, non ha licenziato questa parte di esercito, la portò invece in Piemonte e la incorporò nell'esercito italiano.

Restano gli uomini che si erano posti sotto Gaeta, nel ritirarsi dopo il combattimento sul Garigliano. Quindici o venti mila di questi, che erano la miglior parte forse dell'esercito borbonico, si diressero su Terracina, e là, sotto l'impulso di capi infami,

commisero l'atto il più orribile che sia avvenuto in questa guerra; invece di arrendersi ad un generale italiano, che offriva loro buone condizioni, cedettero le armi ad un capitano di stato maggiore francese. (Bravo. Bene!)

Restava la guarnigione di Gaeta; questa almeno combatté valorosamente, e poi, per l'avvenuta capitolazione, dovette avere due mesi di congedo. In questi due mesi naturalmente questa parte dell'esercito borbonico si sbandò, andò tutta alle sue case.

In quanto a quelli che avevano capitolato coi Francesi a Terracina furono poi mandati in gran parte a Napoli, e furono ricoverati in depositi preparati appositamente.

Il ministro della guerra d'allora, generale Fanti, ha preso una decisione, con un decreto, che io non posso abbastanza lodare. Di tutta questa gioventù che avea appartenuto all'esercito borbonico fece due parti: la più giovane, quella che da quattro anni soltanto era stata chiamata sotto le armi, la destinò a far parte dell'esercito italiano, e l'altra, che poteva ascendere da trenta a quaranta mila uomini o vecchi od ammogliati, lasciò alle case loro, coll'obbligo però di venire sotto le armi quando fossero chiamati.

Quelli che dovevano venire sotto le armi sicuramente non si presentarono subito, ma vennero mano mano; ed ora io posso assicurare la Camera che di questi, trentadue mila uomini stanno nelle file dell'esercito italiano, ed ottomila stanno coi veterani di Napoli; numero veramente esagerato, e che andrò cercando di ridurre mettendone nei corpi attivi; cosicché noi abbiamo già dell'esercito borbonico incorporati, pagati ed a nostra disposizione quaranta mila uomini.

Questo dunque stia per le osservazioni fatte sullo scioglimento dell'esercito borbonico.

Vengo ora all'esercito dell'Italia meridionale, ai corpi dei volontari.

Questo esercito si disse che il Ministero Cavea sciolto: non è vero; esso seguì la legge sua, la legge che fa agire qualunque esercito di volontari. Cessato l'entusiasmo, cessata la guerra che aveva loro fatto dare di piglio alle armi, l'esercito dei volontari si scioglie. Non è stato al mondo mai un esercito di volontari stanziale; appena cessa quell'impulso, quell'energia, quel bisogno di guerra che li fa sorgere, quando si passa alla politica i volontari se ne vanno. E così accadde. Restarono i quadri; e quali accuse possono farsi al Ministero pel modo con cui questi furono trattati? Il Ministero, apprezzando quanto utile si possa ricavare da un esercito di volontari, sopratutto dopo di aver veduto quanto avevano compiuto nell'Italia meridionale, si guardò dal distruggerne i resti, ma li organizzò in quattro divisioni. Venga la guerra, e queste quattro divisioni saranno capaci di 40000 a 50000 buoni volontari; e spero che l'Italia li darà, tanto più se il generale Garibaldi al momento dell'azione vorrà prenderne il comando. (Bravo! Bene!)

MUSOLINO. Signor presidente, domando la parola.

DELLA ROVERE, ministro per la guerra. Vengo all'esercito stanziale.

Tutti parlano qui di 500000 uomini. Questa mattina ho esaminata la situazione dell'esercito stanziale e vi ho trovato il numero di 262000 nomini. Certo questi 262000 uomini non sono tutti combattenti, ed io credo doverne diffalcare un 60000; ma 200000 rimangono. Le leve che si stanno operando ci daranno, se bene eseguite, un 94000 uomini; vede dunque la Camera che ai 500000 uomini ci siamo vicini.


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163 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

Però, se in febbraio o in marzo avremo 300000 uomini, ciò non vuol dire che avremo trecento mila buoni soldati, trecento mila legionari come i 120 o 430000 già provati nel 1855, nel 1856 e nel 1860. Per fare di questi soldati ci

Con questo non bisogna dire che, se una guerra venisse ad essere necessaria per l'indipendenza d'Italia, noi non potessimo entrare in campo; ma allora ci confideremmo all'entusiasmo, al patriottismo di tutta la nazione; allora forse succederà quello che diceva l'onorevole Brofferio testé, che la nazione si sollevi tutta e venga in aiuto a sé stessa. (Segni di adesione)

Ma voler sperare che questo esercito stanziale.....

MUSOLINO. Io domando la parola, signor PRESIDENTE. (Si ride)

PRESIDENTE. L'ha già domandata una volta, ed è notato.

DELLA ROVERE, ministro per la guerra …... sia tutto buono, tutto in ordine, come erano quei pochi soldati che combatterono a San Martino, e quegli altri che, per le campagne del 1859 e del 1860, si fecero perfetti nelle guerre delle Marche, dell'Umbria e del Napolitano, e nella guerra che si fa ora contro i briganti, ci vuol tempo. Lo dico francamente, io non credo che prima di un anno questo esercito possa essere bastantemente compatto.

E quando ho detto che tra un anno potremo contare su 300000 soldati ho detto poco, perché 40 o 80 mila volontari potremo averli in sussidio dell'esercito stanziale; ed ora bisogna aggiungere che avremo ancora 120000 guardie nazionali, formale secondo l'ultima legge promulgata nell'estate scorso. Queste guardie nazionali non sono ancora raccolte, né devonsi raccogliere che al momento del bisogno. Gli ordinamenti che devono presiedere alla loro chiamata si stanno elaborando, ed io ho appunto sul tavolino il regolamento che doveva essere redatto dall'autorità militare; appena lo avrò percorso, lo trasmetterò al ministro dell'interno, perché ne faccia un sol tutto colle note sue particolari che dipendono dal suo dicastero. Questo non può portare gran tempo; appena il ministro dell'interno avrà tutto combinato, sarà stabilito per ogni provincia il numero dei battaglioni che dovrà dare, ed appena questo sia decretato, si daranno i quadri che credo sarà conveniente prendere nelle Provincie stesse.

Per quello che porterebbe maggior tempo nell'organizzare questi battaglioni, cioè la provvista del vestiario e delle armi, io posso dire alla Camera che siamo in grado di armare e di vestire tutta la guardia nazionale, oggi stesso, se occorre. (Bene! Bravo! Applausi)

PRESIDENTE. Il ministro pei lavori pubblici ha facoltà di parlare.

PERUZZI, ministro dei lavori pubblici. Se io dovessi prendere la parola in questa discussione soltanto per rendere conto di quello che nel corso dei pochi mesi trascorsi dopo l'altra discussione fatta intorno a quest'istesso argomento è stato operato dal Ministero cui ho l'onore di presiedere, brevi sarebbero le parole colle quali darei discarico alla Camera. Imperocché, nello stadio di preparazione nel quale ci troviamo, non molto fu operato, e potrei brevemente dar conto di quello che è stato apparecchiato. Ma alcune parole pronunziate in questa Camera da vari oratori che mi precedettero, e quelle che testé diceva l'onorevole presidente del Consiglio, mi fanno un debito di manifestare alla Camera le impressioni

che ho personalmente ricevute in una recente perlustrazione falla attraverso le provincie, che ben a ragione attirano l'attenzione del Parlamento nazionale.

Questa perlustrazione fu motivata dall'assoluta necessità nella quale personalmente mi trovava di conoscere i luoghi e le persone, per poter dare un indirizzo vigoroso, uniforme e corrispondente all'interesse generale della nazione alle opere pubbliche, delle quali tanto abbisognano quelle Provincie.

Ebbi poi anche naturalmente lo scopo di accomunarmi con quelle popolazioni, d'interrogare le autorità e tutti coloro coi quali aveva occasione d'intrattenermi, per riferire ai miei colleghi i bisogni, dei quali da lontano non si può sovente prendere bastante cognizione, ed ho la coscienza di aver adempita e l'una e l'altra parte della missione coll'animo desideroso di renderla, per quanto era possibile, fruttuosa alla nazione ed a quelle popolazioni. Laonde con intera schiettezza aprirò alla Camera l'animo mio.

Nei dibattimenti che intorno a questo argomento ebbero luogo in quest'aula parlamentare e negli articoli dei giornali si sono generalmente lamentati dei grandi mali, degli ineffabili dolori, come diceva l'onorevole Zuppetta nell'annunziare le sue interpellanze, che sono patiti da quelle popolazioni.

Signori, io ho infatti osservato dei grandi mali, degl'ineffabili dolori; ma questi grandi mali e questi ineffabili dolori sono eglino precisamente quelli che da molti si mettono innanzi ed ai quali si ricercano rimedi? Alcuni di questi, certamente, io li ravviso tali; ma a me pare che più profondi siano i mali, più antichi dolori di quelle provincie, e che, se vogliamo cercarne i rimedi, noi dobbiamo andare alla radice del male. E questi mali, o signori, come vi diceva l'onorevole presidente del Consiglio giorni sono, non sono tali da far credere incurabile la malattia, ma sono di quelli che richiedono rimedi che necessariamente non possono adoperarsi e non possono fruttare se non con grande lentezza. Io temo anzi che nel fermarsi a certi mali che più sono appariscenti, e che perciò frequentemente si lamentano, e nel cercar loro rimedio, si faccia troppo sovente una falsa strada, e che prendendo per causa certi mali, i quali non sono altroché effetti, tante volle si ponga mano a un rimedio non adattalo, o si dimentichino i rimedi veri e più efficaci.

In verità i rimedi che ho udito fin qui proporre da alcuni oratori, lasciando di parlare di quello che solo mi è parso concreto, sebbene io non possa neppure discuterlo, proposto dall'onorevole deputato Ricciardi, sono rimedi assai generici, sono rimedi i quali potrebbero per avventura palliare il male, ma non ne estirperebbero veramente le radici.

Neppure mi tratterrò su quelli proposti dall'onorevole Pisanelli, imperocché quando egli vi dice: create una magistratura la quale renda efficacemente la giustizia, aumentate i sia rinforzata la pubblica sicurezza; questi, non può cader dubbio, sono rimedi efficaci, sono rimedi ai quali il Governo ha pur pensato, e che sta in questo momento applicando, come già vi diceva l'onorevole presidente del Consiglio. Ma fermandomi sui lamenti, dei quali si è menato generalmente maggior rumore, ed ai quali si son pur cercati dei rimedi, dirò di avere osservato che piuttosto (mi si perdoni la mia schiettezza) si riferissero alla città di Napoli, che a tutte le provincie napolitane. (Bravo! Bene! a destra; voci di dissenso a sinistra)

In verità, o signori, la città di Napoli, come tutte le grandi città, le quali cessano di essere centri di un governo di un grande Stato, la città di Napoli ha fatto all'Italia un immenso sacrificio (Bene!);

164 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

l'Italia in questo modo ha contralto un gran debito verso la città di Napoli (Bravo!), e l'Italia dovrà soddisfarlo. (Bene) Ma come dovrà soddisfarlo, o signori? Dovrà soddisfarlo non già col riparare qualche offesa personale

Io ricordo, o signori, che quando, due anni or sono, era a Parigi per accelerare l'unione della Toscana al resto delle Provincie italiane, compiendo la missione che mi era stata confidata dall'onorevole presidente del Consiglio, io mi ricordo, dico, che continuamente mi si menava gran rumore di questa decadenza della mia città natale, di quella Firenze che era stata sempre rappresentante di una cosi splendida autonomia; mi si dimostrava lo squallore delle sue strade, e quasi novelli Geremia venivano i diplomatici, i giornalisti, i pubblicisti a piangere sopra la mia desolata città. (Si ride)

Signori, se questo si diceva di Firenze, che cosa non si dovea aspettare di Napoli? Napoli vale cinque Firenze per la sua grandezza; Napoli ha una storia splendida quant'altremai; Napoli è una città, mi si permetta il dirlo, alla quale era stato dato un eccessivo ed artificiale sviluppamento; Napoli era centro di un Governo che aveva tutto ridotto nelle mura della capitale, simile a quel tiranno antico il quale avrebbe voluto che tutte le teste dei sudditi fossero riunite in una sola per tagliarle ad un tratto. (Bravissimo! Bene!)

Signori, in mezzo a dei grandi dolori dei quali Napoli era centro, essa fruiva necessariamente di questa eccessiva centralità. Ma vi era di più: quel Governo voleva sempre ostentare una fantasmagoria dinanzi all'Europa. Io fui due volte in Napoli, e vi vidi ogni maniera di progresso, di cui quel Governo vi aveva dato una mostra impercettibile. Voi avevate a Napoli un albergo dei poveri, il quale doveva accogliere i poveri di tutto il reame. (Si ride) Basta manifestare questa idea per combatterla. Voi avevate a Napoli una quantità di istituii centrali, dei quali mancavano i corrispondenti nelle provincie. Voi avevate a Napoli una moltitudine d'impiegati i quali, risedendo nella capitale, esercitavano nominalmente degli uffici nelle provincie. (Si ride) Io stesso, o signori, nei ramo cui ho l'onore di presiedere ho trovato che parecchi degl'ingegneri i quali dirigevano lavori nelle provincie risiedevano a Napoli (Nuove risa); e da uno di questi ingegneri, al quale ingiunsi come condizione sine qua non per continuare nella direzione di un tal lavoro, al quale portava grande affezione, di risiedere in un luogo centrale per il lavoro stesso, sapete, o signori, che cosa mi udii rispondere? Ma questo, signor ministro, è un esilio! (Ohi oh Si ride); tanto era radicato nell'animo degli alti funzionari quest'abitudine di risiedere in Napoli, mentre il loro dovere li chiamava nelle provincie. (Ilarità e movimento)

Ma v' ha di più. Percorrete, o signori, i dintorni della città di Napoli; voi vi trovale le più belle strade che vi siano in Europa; voi vi trovate un lusso, un lusso tale, che, se si dovessero continuare le strade per tutto uno Stato anche piccolo su tal piede, nessuna finanza basterebbe a sopperire alla spesa. Ma a dieci, a quindici miglia dalla città, ahimè quale differenza! (Si ride) Voi trovate a Napoli una piccola rete di strade ferrate, la quale è stata la prima in Italia;

voi trovate degli stabilimenti industriali, come quelli di Pietrarsa, i quali all'occhio del volgare fanno un gran bagliore; ma poi andate nelle provincie, e là trovate, a ben piccola distanza dalla capitale, una scena tutt'affatto diversa.

Ora, o signori, qual meraviglia che una quantità d'interessi, lesi sempre in casi analoghi, siano stati in proporzione immensamente più vasta offesi quando Napoli cessava d'essere capitale? Napoli, terza città dell'Europa, capitale di uno Stato il quale sarà stato l'oliavo o il decimo per la sua popolazione, Napoli è fatta città di provincia.

E qui, o signori, ho voluto accennare a tutto questo, anche perché ciò spiega come in sui primi sia stato commesso un atto che io mi asterrò completamente dal giudicare, ma che però è stato qui qualificato da molli come un atto immensamente improvvido del Governo del Re, come la base di tutti gli errori e di tutti i mali che sono accaduti: la istituzione della luogotenenza.

Signori, ognuno si metta la mano sulla coscienza, e dica se nell'anno decorso, quando si trattò di organizzare il governo nelle provincie napoletane, fosse stata discussa una tale materia, se per avventura vi sarebbe stata una grande unanimità per una diversa soluzione. Io non lo so, ma parmi ricordare come fosse opinione assai generale che si avesse bisogno di una transazione nell'amministrazione di quelle Provincie.

Il Governo del Re ha spedito a Napoli uomini i quali erano altamente onorandi; vi ba spedito quell'uomo, della cui amicizia mi onoro altamente, il quale aveva contribuito grandissimamente all'annessione delle generose provincie dell'Emilia; vi ba mandato uno dei più riputati amministratori di questo paese, vi ha mandato l'eroe il quale ha illustralo le armi italiane in modo meraviglioso. Un principe di Casa reale, accompagnato da nomini di meritala riputazione, si è pare recato a Napoli per agevolare la transizione; egli uomini più riputati per ingegno sono stati scelti fra i cittadini di quelle provincie per assistere questi illustri personaggi.

Non giudico il passato; imiterò un oratore che mi ha preceduto ricoprendolo con un velo; ma dico che queste sollecitudini mostrano tutto l'interesse che gl'Italiani, i quali costituirono primi questo nucleo della grande famiglia, portavano ai nuovi fratelli ai quali tendevano le braccia.

Ora, signori, anche per la città di Napoli il Governo deve studiare e studiare costantemente di diminuire, per quanto è possibile, queste difficoltà, che chiamerò quasi individuali e che sono inevitabili nell'assimilazione di una grande città; il Governo deve pensare e pensa a dare a quella grande e numerosa popolazione un'attività diversa da quell'attività artificiale che le era stata data dal dispotismo, l'attività degli affari, l'attività del commercio, e a tal uopo non deve risparmiare spesa, (Vivi segni di approvazione)

Il Governo del Re, mentre, ne sono certissimo, andrà studiando quali esser possano te instituzioni alle ad accrescere lo splendore civile, scientifico, artistico di quella grande ed illustre città, per organo mio vi fa sicuri che fra breve presenterà un vasto progetto per un ampio porto da stabilirsi in Napoli, al quale andranno congiunti tutti quegli stabilimenti mercantili che meglio valgano a dare all'attività di quella popolazione quell'indirizzo che deve, sotto il regime della libertà, essere sostituito agl'interessi fittizi creati dal despotismo. (Benissimo!)

Venendo alle provincie, signori, io già vi ho accennato lo squallore che in esse ho riscontralo, eppure in mezzo a quello squallore vivono popolazioni ardenti e piene di intelligenza, popolazioni affezionatissime alla causa italiana. Io ho percorso tutte quelle provincie in un tempo nel quale il non era sedato,

165 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

io le ho percorse solo ed inerme, e non aveva neppure quell'innocente revolver che accompagnava l'onorevole Ferrari nella sua gita a PonteLandolfo. (Ilarità generale e prolungata)

FERRARI. Domando la parola. (Nuova ilarità)

PERUZZI, ministro pei lavori pubblici. Mi pare avere udito l'onorevole Ferrari a chiedere la parola. Se per caso le mie parole lo hanno potuto offendere, io l'assicuro che ciò era lungi dalla mia intenzione, e che non era che una rimembranza venutami sulle labbra nella improvvisazione.

FERRARI. Rinunzio alla parola.

PERUZZI, ministro dei lavori pubblici. Rari sono stati quei casi nei quali, cedendo allo zelo delle autorità, mi sia fatto scortare da forza stanziale; ma, dovunque il mio arrivo era stato annunziato, io trovava sulla strada numerosi drappelli di guardie nazionali, venute a proteggere e a far onore a questo rappresentante di quel Governo che da taluno si vorrebbe far credere usurpatore, da altri il piemontizzatore, il distruttore di tutto quello che vi aveva di grande, di bello, di nobile, di illustre in quelle magnifiche provincie. (Bravo. )

Io ho traversato i Principati, le Calabrie, la Basilicata e le Puglie, ho traversato due volte gli Apennini nelle loro più erte vette a cavallo, e dappertutto ho trovato la stessa lieta e festosa accoglienza, dappertutto ho trovato la stessa sicurezza, mercé lo zelo, mercé l'attenzione, mercé le cure, direi quasi, amorose che da tutte quelle popolazioni si sono usate a mio riguardo. E prendo quest'occasione per attestarne sinceramente a tutti quegli egregi nostri concittadini la più sentila mia riconoscenza.

Ebbene, o signori, io ho osservato in questo giro dei mali profondi e dei dolori ineffabili, come diceva in principio; vi ho osservato come la più gran parte di quelle popolose città e borgate sieno fra loro separate assolutamente per mancanza di comunicazioni; ho osservato come in tutta la costa non vi sia un porto che meriti tal nome, un porto che offra rifugio ai naviganti. Ho veduto degli scali, come sarebbe quello di Gioia nelle Calabrie, che ora mi viene in mente, dove si fanno operazioni di olii considerevolissime, talché nei rendiconti delle finanze voi potrete vedere che cosa si incassi in quella località, dove non è assolutamente possibile d'approdare. Noi dobbiamo stabilire dei servizi marittimi che presto saranno attivati fra Napoli e la estrema punta delle Calabrie; ma spesso nella stagione invernale non potranno i piroscafi approdare al Pizzo ed a Paola, perché è impossibile di gettarvi pur l'ancora per brevi momenti, senza pericolo di perdersi.

L'istruzione pubblica, o signori, era, non dirò solo negletta, ma fuorviata; l'autorità (e questo è il male più grande), l'autorità della quale ho veduto come si andassero gradatamente riformando gli agenti e come essi andassero riacquistando la fiducia delle popolazioni, l'autorità, dico, è generalmente considerata come nemica. Ma quello che vi ha di peggio, signori, sono altri mali che generalmente sono la conseguenza di un dispotismo, qual era quello che affliggeva quelle belle provincie: questi mali sono la sfiducia assoluta nel Governo, non perché Governo rappresentato da Tizio o da Caio, ma nel Governo come ente, come autorità; è una sfiducia reciproca nel seno stesso delle popolazioni, la quale spesso produce divisioni là dove si crederebbe dovesse trionfare la concordia.

Fra le molte lettere che ricevo soventi da persone rispettabili di quelle provincie, dove ho avuto la fortuna di stringhe dei legami che chiamerò di amicizia, una ne ho scelta, nella quale fra le altre cose leggo queste parole che spiegano il mio concetto:

Il giorno in cui i proprietari sapranno migliorare le loro terre, e quindi, ritirandone maggior profitto, saranno in grado, dì aumentare la mercede dei coloni, io credo che cesserà in essi lo spirito di ostilità che nutrono contro i padroni e quindi contro il Governo di cui li credono gli amici. Ma ciò non può essere che l'opera del tempo, la conseguenza dell'istruzione, delle scuole agrarie, dell'educazione morale e sociale per la quale verranno dissipati gli errori economici e politici. Del resto, da quanto ho potuto apprendere, l'indole dei contadini non è punto cattiva, giacché sono rispettosi e non mancano di attività, per cui credo che non si durerà molta fatica ad affezionarli alla causa nazionale.

Sì, o signori, nel seno delle popolazioni non si scorge sempre nelle provincie napoletane quella fiducia reciproca che è base di ogni retto ed ordinato vivere civile; e vi hanno alcune località nelle quali, mal consigliati dalle misere loro condizioni, i lavoratori della terra insorgono talvolta, talché vi si manifesta una specie di brigantaggio.

DE BLASIIS. Domando la parola.

PERUZZI, ministro pei lavori pubblici. Anche nelle amministrazioni comunali vi ebbe sovente finora un'ingiustizia a carico de' meno agiati, lo ho osservate come i comuni, i quali non hanno beni patrimoniali, il più delle volte ritraggono le loro rendite da quelli che chiamano balzelli, cioè dazi sui generi di consumo; le sovrimposte sulle fondiarie e sulle derrate sono rarissime.

E qui, o signori, vediamo subito qual è il bene della libertà; io mi sono molto interessato a questo stato di cose che mi parve dover perpetuare dei motivi di divisioni che bisogna distruggere, e perché per esso non potranno mai procacciarsi i comuni quelle rendile delle quali hanno bisogno per sviluppare nella cerchia dei loro territorii e per quanto da loro dipende la pubblica ricchezza.

Ebbene, ho osservato, ed osservato con immensa soddisfazione, come non poche fra le nuove amministrazioni comunali, elette dal libero suffragio dei cittadini, abbiano diminuiti i balzelli ed abbiano stabilito la sovrimposta sulla fondiaria; e giorni sono, parlando con un onorevole deputato che tengo in grandissimo conio, ma che in questo mi parve andar errato, io udiva come in certi comuni si manifesti per parte di qualche proprietario on certo scontento verso le nuove istituzioni appunto per questo motivo; al che io rispondeva: abbiate fede nella libertà, se si è ecceduto per avventura nei primordi, non abbiate paura, che verranno le nuove elezioni e rimedieranno a tutto. Abbiamo fede nella libertà, perché colla libertà solo si promuoverà il progresso nella istruzione e nell'educazione civile, che sarà rapidissimo perché raramente ho visto ingegni più svegli ed animi più volonterosi. (Bravo! Bravo!)

Quanto ai Consigli provinciali, o signori, in verità io non posso parlarne senza manifestare la mia più grande ammirazione, sicuro di essere l'eco di tutti quelli che hanno potuto osservare gli atti che vennero pubblicati. Quando si parla dei Consigli provinciali si va già in una sfera assai più elevata, dove, malgrado gli ostacoli che poneva il Governo passato all'istruzione, l'educazione ha potuto giungere a produrrei benefici suoi frutti. Ed invero dagli atti dei Consigli provinciali delle provincie napoletane e siciliane, che vi esorto tutti ad esaminare attentamente, voi vedrete quanti germi di civile sapienza alberghino in quelle menti.

166 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Quasi tutti i Consigli provinciali volarono immense somme per opere pubbliche, quasi tutti si occuparono dell'istruzione pubblica, molti promossero ogni maniera di civili istituti. 11 Consiglio di Salerno, a cagion d'esempio, ha votato cinque milioni per completare la rete stradale della sua provincia che tanto ne abbisogna.

Vi ha di più: per dimostrare come in quelle provincie i mali prodotti dal Governo passato, e singolarmente la mancanza di ogni benessere materiale abbia influenza grandissima sopra lo svolgersi delle nuove istituzioni, mi sia lecito di citare l'esempio di una provincia, la quale per la sua rete stradale completissima, per la sua agricoltura altamente sviluppata, merita di essere posta a fianco delle più floride Provincie del regno, la Terra di Bari. In quella provincia, dove in parte, mercé le felici condizioni topografiche, si è sviluppata una rete stradale completissima, io ho veduto popolazioni che nulla lasciano a desiderare dal lato delle discipline agrarie, ho veduto come si cominci a promuovere lo spirito di associazione, come i cittadini si adoperino ad aiutarsi in ciò che male aspetterebbero dall'opera del Governo. Nella città di Trani io ho avuto l'onore di assistere ad un'adunanza di un'associazione che chiamano, credo, unitaria; adunanza nella quale mi sedavano al fianco il presidente della gran Corte civile e il vicario capitolare della diocesi. E ciò dico per dimostrare come tutti gli ordini dei cittadini fossero concordi in un solo volere.

Io ho là veduto come quella benemerita associazione avesse instituito da qualche tempo una cassa di risparmio; ho veduto come si adoperasse per rimuovere dall'animo degli ignoranti le opposizioni alla legge della libera esportazione dei cereali; ho veduto come una ventina di giovani componenti l'associazione si adoperassero ad istruire il popolo in scuole serali.

Io sono convinto che questo esempio sarà seguito dalle altre provincie napoletane a misura che saranno le popolazioni fatte certe della pubblica sicurezza, a misura che acquisteranno la fiducia nel Governo, mercé lo svolgersi delle opere e dei provvedimenti a cui si è dato incominciamento.

La mancanza di fiducia nel Governo, la quale è naturale conseguenza degli immensi disinganni che quelle popolazioni ebbero sino ad ora, la sfiducia nel Governo è generalmente giunta ad un segno che sarebbe veramente allarmante per chi non avesse fede nel prospero ed immediato risultamento delle provvisioni a cui diamo opera. A poche miglia di distanza dei luoghi dove avea veduto sviluppati sopra larga scala i lavori, per esempio, delle strade ferrate, io mi sono sentilo esporre dei rammarichi perché i lavori delle strade ferrale non fossero incominciali, ed ho sentito dei segni di manifesta sfiducia nella esecuzione di queste opere. Una cosa mi ha colpito: che, quando si parla dell'avvenire riservato a quelle provincie, per conseguenza dei lavori che vi si andranno sviluppando, anche sui luoghi stessi ove i lavori sono già incominciati, non si dice mai: quando avremo la strada ferrata accadrà questo e questo; ma si dice: se avremo la strada ferrala accadrà questo! (Si ride)

E dalla sfiducia ne viene la credulità eccessiva, la quale credulità, o signori, è talvolta usufruita dai partiti avversi al nuovo ordine di cose. Per esempio, è indubitato che le strade ferrate non possono gran fatto andare a genio a chi è contrario all'unificazione d'Italia. Voi ricorderete, o signori, quante volte sia stato ripetuto a sazietà che, sotto il pretesto delle strade ferrate, si facevano venire miriadi di agenti borbonici a lavorare nel paese, per poi metterlo sottosopra. Io ho voluto esaminare a fondo questa questione, e mi son dovuto convincere che non v'era niente di vero.

Forse qualche caso particolare avrà potuto sfuggire a me, come sarebbe sfuggito alle autorità, ma assicuro il Parlamento d'aver voluto coscienziosamente scrutare a fondo, per scuoprire la verità di questa voce, e che non mi è riescito di appurarla.

Quando s'era cessato di parlare della società Talabot, perché non esisteva più, si cominciò a parlare della società delle strade ferrate romane; e nel tempo stesso che si diceva come quella società facesse venire da Roma gli agenti borbonici a favorire la reazione nelle provincie napoletane, degli alti funzionari di questa società erano a Roma destituiti per ordine del Governo pontificio. (Si ride) Cito, a cagion di esempio, il nome del signor Venturelli.

Si è poi detto, a sostegno della diceria del piemontizzamento (la qual diceria va certamente molto a garbo ai borbonici), che perfino i lavoranti delle strade ferrate fossero per la massima parte piemontesi.

DI SAN DONATO. Domando la parola.

PERUZZI, ministro pei lavori pubblici. Anche intorno a questa voce ho voluto avere precise informazioni. La Camera intende come, quand'anche questo fosse stato vero, non aveva io il diritto d'impedire agli appaltatori di prendere quegli operai che volevano, e mi sarei ben guardato dal rimproverare un alto che infine avrebbe agevolata quell'assimilazione, quell'unificazione, quella fusione che deve farsi fra le varie provincie italiane. (Bene!) Solo avrei manifestato il desiderio che questo non si facesse a detrimento dei lavoranti locali.

Ma, avendo voluto prendere delle informazioni precise, ecco, o signori, quello che mi risulta dagli ultimi rapporti. Vi sono nelle varie strade ferrale attualmente iu costruzione per conto del Governo oltre otto mila operai. Di questi otto mila operai ve ne sono duecento circa i quali appartengono alle altre provincie, come sarebbe il Piemonte, la Lombardia, l'Emilia e la Toscana. Ora io vi domando, o signori, se in un paese, dove non sono mai state fatte su larga scala opere pubbliche di questo genere, sia possibile di farne prendendo un minor numero di operai da provincie dove queste opere pubbliche sono grandemente sviluppate. A questo proposito, a dimostrare come questo accada dovunque, io ricorderò come, pochi giorni fa, leggessi in una relazione ufficiale pervenutami intorno ad una grande sciagura che ebbesi a lamentare nella costruzione della strada ferrata maremmana in Toscana, che sopra otto operai che per una esplosione di un barilotto di polvere perdettero miseramente la vita, quattro fossero abruzzesi, tre lombardi ed uno piemontese; nessuno toscano.

Questo è un fatto che cito come un esempio che non prova nulla, lo intendo bene, ma che fa vedere come dappertutto gli appaltatori debbano necessariamente prendere per certe operazioni speciali gli uomini che ne hanno già fatte e che godono la loro fiducia.

Venendo poi alle opere pubbliche, io credo, o signori, che la nazione non userà mai soverchie larghezze per svilupparle in quelle provincie. Io credo, o signori, che, senza affrettare la costruzione e l'attivazione delle strade ferrate, senza affrettare il compimento della rete stradale interna e della rete telegrafica, senza metter mano sollecitamente ai porti principali, dei quali quelle provincie hanno bisogno, e seni» svolgere poi gradatamente la costruzione degli altri porti e dei fari, non si potranno soddisfare i bisogni legittimi di quelle popolazioni, non si potrà dare alla ricchezza quello sviluppamento senza del quale male potrà essere fatta quella parificazione completa negli oneri pubblici che ben a ragione è voluta da tutti; e credo che, senza sviluppare queste opere pubbliche, neppure sarà possibile che l'amministrazione proceda colla dovuta regolarità e speditezza,

167 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

e che quelle popolazioni siedano, come meritano e nel posto che meritano, al banchetto delle civili nazioni.

Ora, per far ciò, io vi dirò schiettamente quali siano gli intendimenti, quali siano le speranze del Governo del Re. (Segni di attenzione. )

Quanto alle strade ferrate, io vi faceva, nella Sessione decorsa, delle brillanti promesse; signori, adesso bo veduto le cose co' miei proprii occhi, adesso gli studi sono in varie parti molto avanzati, i lavori sono in altre parti iniziati ed in pieno sviluppa mento; ora posso adunque parlarvi con maggiore cognizione di causa e con maggior fiducia che alle mie parole abbiane a rispondere i fatti. Ebbene, io bo la fiducia che nel corso dell'anno venturo Napoli non sarà più divisa da Torino, per la via di terra per Ancona, che da quaranta ore di viaggio, delle quali ventiquattro in istrada ferrata da Torino fino presso Popoli e da Presenzano a Napoli, e sedici in vettura da Popoli a Presenzano.

Io credo che nei primi mesi del 1865 (se l'incertezza della stagione invernale non mi vietasse di dare un affidamento preciso, direi assolutamente nei primi giorni del 1863), la strada ferrata per Foggia potrà andare fino ai piedi dell'Apennino, al Ponte Santovenere presso Calitri, in prossimità di quel terribile bosco di Monticchio, del quale tanto si è favellato ultimamente. Gli studi pel passaggio dell'Apennino si vanno compiendo, e credo che fra pochi mesi, forse fra poche settimane, potranno essere dati gli appalti.

Si studia parimenti la linea da Foggia a Barletta per proseguirla poi verso Bari e Brindisi; ed io credo che sia molto probabile che nel corso del 1865, od almeno in principio del 1864, la locomotiva possa giungere fino all'antico porto di Brindisi.

La strada da Napoli a Presenzano venne aperta testé, mercé un ponte provvisorio gettato sul Volturno, anticipando cosi di quattordici mesi l'epoca stabilita dalla legge, che voi ci faceste l'onore di sancire (Bene); ed io confido che nella primavera ventura Napoli e Roma saranno collegate fra loro con una strada di ferro. Tutto questo è naturalmente subordinato all'approvazione di quei progetti che fra pochi giorni il Governo avrà l'onore di presentarvi. Di più la strada da Taranto a Reggio si sta studiando. Tre sezioni d'ingegneri hanno condotto pressoché a termine gli studi della prima sezione, che muove da Taranto, ed hanno già molto avanzati quelli della seconda sezione, che muove da Reggio; talché spero che fra poche settimane potranno queste sezioni essere appaltate; ed infine un'altra sezione studia la strada da Bari a Taranto.

BIXIO. Chiedo di parlare.

PERUZZI, ministro dei lavori pubblici. Quanto ai porti, io vi bo già dello come i molti progetti che erano stati presentati por il porto di Napoli fossero sottoposti ad una Commissione, la quale ha già fatto la sua relazione al Governo; al seguito di che ho incaricato un ingegnere napoletano, espertissimo In questi lavori, di fare gli studi particolarizzati ed il progetto di capitolato per poter presentare al Parlamento un disegno di legge, corredalo di quei documenti, senza dei quali la Camera manifestò, nell'altra parte della Sessione, una ben giusta e legittima ripugnanza a sanzionare quei progetti che non erano di strettissima urgenza.

Un altro distinto ingegnere fu invialo a visitare i porti dell'Adriatico, e questi sta facendo la sua relazione; avuta la quale, si recherà a visitare tutti i porti dell'Adriatico e del Mediterraneo una Commissione mista, istituita dai ministri della guerra, della marina e dei lavori pubblici, colla missione di determinare i porti militari,

i porti mercantili, gli scali di vario ordine ed i cantieri e bacini di costruzione e di riparazione che dovranno essere stabiliti nelle varie località.

Io confido che questa Commissione, composta di un numero limitato di scelti ufficiali del genio militare, marittimo e civile, adempirà alla sua missione con quella sollecitudine che è vivamente desiderata dal Governo, il quale non si stancherà di raccomandarla, per modo che nella Sessione ventura noi possiamo presentare al Parlamento un piano completo dello sviluppamene da dare a queste opere importantissime.

Quanto alle strade ordinarie interne, il Governo ha cercato di darvi opera con quella maggiore alacrità che nelle condizioni presenti era possibile. E prima di tutto ha dovuto provvedere ad un bisogno che era urgentissimo e che proveniva ancora dalla mala signoria passata, al bisogno, cioè, di ristabilire il credito del Governo. Sì, o signori, il credito del Governo di fronte agli appaltatori era completamente perduto; imperocché io ho veduto come persino alcune opere eseguite nel 1842 non fossero ancora state pagate. (Sensazione)

I fondi di quest'anno sono stati in parte adoperati nel soddisfare i crediti liquidati, e di tutti gli altri si è affrettata, per quanto si è potuto, la liquidazione.

Abbastanza viziosi erano i sistemi degli appalti generalmente in uso in quelle provincie, e che il Governo sia riformando, anzi vari dei quali ha già riformato, perché non si dovessero avere per soprappiù degli appaltatori forniti di legittime scuse, di legittime ragioni per non adempiere ai loro impegni.

Noi abbiamo in quest'anno eseguito in opere nazionali per tre milioni e mezzo di lavori; abbiamo speso circa 600 mila franchi in bonificazioni; circa 3 milioni sono stati spesi in opere pubbliche provinciali, e 33400 operai sono stati in media, durante l'esecuzione dei lavori, impiegati in queste opere. Nell'anno venturo io confido che queste opere saranno ancora più sviluppate, mercé i progetti particolarizzati ai quali si è dato mano con grande alacrità in questi ultimi tempi, e mercé il riordinamento degli uffici del genio civile nelle provincie, i quali, come tutti gli altri uffici provinciali, erano assai negletti, abbandonati e scarsi di personale. Anzi il Governo, preoccupato della necessità di svolgere alacremente questi pubblici lavori, ha assunto, sulla sua responsabilità di anticipare sei milioni e mezzo sul bilancio del 1862, dei quali circa 4 milioni per opere nazionali e circa due milioni e mezzo per opere provinciali, affinché, senza aspettare il bilancio dell'anno venturo, si potessero principiare i lavori e procacciare impiego alle braccia inoperose. Il Governo confida che il Parlamento sanzionerà col suo voto questa misura presa per ragione d'urgenza, e confida che, provvedendo a che le deliberazioni dei Consigli provinciali, dirette a raccogliere ingenti somme per via d'imprestili, possano avere esecuzione (malgrado le difficoltà che si incontreranno in quelle provincie a concluderli per lo stato deplorabile del credito pubblico), metterà le rappresentanze provinciali in condizione di effettuare nel corso dell'anno venturo quelle restituzioni alle quali si sono impegnate.

Quanto alle province siciliane, analoghi provvedimenti sono stati presi, con due sole differenze che erano disgraziatamente imposte dal difetto di popolazione che in varie di quelle provincie si patisce, e ch'è un ostacolo allo svolgimento dei lavori pubblici, e dalle condizioni assai più incomplete nelle quali si trovavano gli uffìzi del genio civile.

Il Governo ha, dietro domanda dei Consigli provinciali, posto ad intiera disposizione dei Consigli stessi il fondo proveniente dalla sovratassa del 5 0|0 che a quelle provincie era stata imposta dal Governo borbonico per il compimento della rete stradale.

168 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Confidando nell'attività dei cittadini per lo sviluppamene» delle opere pubbliche, il Governo ha creduto di dare a quelle popolazioni una prova ben meritata della fiducia ch'egli ripone nel concorso sempre più efficace dell'attività privata, senza la quale non potremmo sperare lo svolgimento delle pubbliche libertà e della pubblica ricchezza.

Questa misura inoltre farà sì che gli interessati medesimi giudichino (e lo faranno assai meglio che il Governo stesso) quali opere debbano avere sopra altre la necessaria preminenza.

Ha ciò non bastava. La Sicilia è in tale condizione in fatto di opere pubbliche, che sarebbe impossibile sperare il sollecito compimento della sua rete stradale colla sola risorsa dei fondi provinciali.

Quindi, or son pochi giorni, io aveva l'onore di proporre all'approvazione del Parlamento un progetto, per il quale, dotando la Sicilia di una rete di strade nazionali, al pari delle altre Provincie del regno, si verrebbero a sollevare i bilanci provinciali dalle spese di mantenimento, di miglioramento e di compimento di quelle strade; per guisa che i fondi che a questo servizio erano fin qui allocati potranno erogarsi in un più spedito compimento della rete provinciale.

Anche per la Sicilia il Governo ha dunque fatto quello che ha operato per le provincie napoletane.

Ha mandato là pure due distinti ispettori del genio civile, per esaminare i porti e raccogliere tutti i progetti che esistevano per alcuni di essi; e ben presto un'apposita Commissione si recherà a visitarli nello scopo istesso che ho testé annunziato per le provincie napoletane. Ed infine speciali ingegneri sono destinati ad apparecchiare progetti per la costruzione dei molti ponti mancanti nelle provincie meridionali.

Quanto alle strade ferrate in Sicilia, avevamo un progetto del piccolo tronco da Palermo a Bagheria, il quale con poche modificazioni si è potuto approvare immediatamente; talché i lavori su quel punto sono già abbastanza sviluppati, e lo saranno sempre più in breve, mercé l'appalto di quella linea sino a Trabia, a cui sono addivenuto, valendomi dell'autorizzazione della quale il Parlamento mi fu cortese nel precedente periodo della Sessione.

Frattanto si stanno studiando altri progetti per la strada da Messina a Catania e per quella che deve percorrere l'interno dell'isola.

Alla sezione da Messina a Catania ho preposto un distinto ingegnere siciliano, come nel Napoletano a varie sezioni sono preposti distinti ingegneri di quelle provincie.

Ma il Governo, o signori, mal potrebbe raggiungere lo scopo che egli si è prefisso a riguardo di quelle provincie in tutti i rami della pubblica amministrazione, se non fosse confortato dall'attività dei cittadini e dal voto del Parlamento. Quanto all'attività dei cittadini è arra per il Governo di poterla ottenere, quello che ho osservato dei Consigli provinciali e di parecchi Consigli comunali. Il Governo confida che, a misura che si andranno svolgendo le opere pubbliche in quelle provincie, a misura che la pubblica amministrazione si andrà riordinando, che la pubblica sicurezza andrà estendendosi, quella fiducia, della quale io lamentava il difetto, si andrà corroborando ed estendendo, del che è arra preziosissima il contegno della guardia nazionale di tutte quelle provincie.

Della guardia nazionale di Napoli, o signori, qual elogio può esser fallo che sia pari al suo merito? Quella popolosa città, nella quale già io vi diceva come pur dovesse convenirsi esservi necessariamente dei motivi di scontenti parziali,

ebbene quella popolosa città in un momento di rivoluzione qual imbarazzo ha dato al Governo? qual è quel tumulto, qual è quella sommossa, di cui ci sono stati tanti esempi nei tempi dei Governi passati, che abbia ora preso un carattere veramente pericoloso e di fronte al quale appena nel suo sorgere, quantunque questo carattere non avesse, non si sia messo a fronte, chi dunque? Forse sgherri prezzolati come a' tempi del Borbone? No, la milizia cittadina.

Nelle provincie, o signori, la stessa cosa.

Paragonate questi fatti con quelli che si sono svolti in tanti altri paesi al momento delle rivoluzioni, e quale rivoluzione, o signori? Le provincie napolitane e siciliane non passarono, come le provincie toscane e le provincie dell'Emilia, per uno stadio intermedio, che pur somigliava ad una dittatura; ma immediatamente, dal più assurdo, dal più tremendo dei dispotismi, esse passarono alla più grande libertà. (Bene!)

Ora per corroborare quest'opera, all'iniziativa delle popolazioni conviene che si aggiunga, come diceva l'onorevole presidente del Consiglio, la fiducia del Parlamento in chi dee reggere la cosa pubblica.

Io già vi diceva, signori, che l'autorità come autorità, il Governo come ente, non perché rappresentato da Tizio o da Caio, raccoglieva per tradizione in quelle popolazioni assai poca fiducia.

Quello che importa principalmente all'Italia in questo momento si è, come vi diceva in principio, di andare alla radice dei mali; di curare non gli effetti, ma le cause; di far si, bene inteso, che questi effetti siano, per quanto è possibile, meno nocivi; ma non arrestarci agli effetti e dimenticar le cause.

Per far questo, principale condizione, in ispecie per quelle Provincie, si è di ristaurare il principio dell'autorità, ma di un'autorità la quale non si fondi sopra istituzioni che sappiano del despotismo o sopra un entusiasmo passeggero, sibbene sopra il voto legittimo della nazione, liberamente manifestato per mezzo dello svolgimento degli ordini costituzionali. Quest'autorità, o signori, era sconosciuta a quelle popolazioni; bisogna farla loro conoscere.

Quando un Governo, come ben vi diceva il presidente del Consiglio, quando un Governo non è rappresentato da uomini che siano abbastanza degni e capaci a condurre la nazione a quei destini ai quali tutti dobbiamo intendere, allora il Parlamento faccia si che a quelli siano altri uomini sostituiti; ma conviene che chiunque sia chiamato a reggere in momenti si gravi la cosa pubblica, possa dire ad alta voce, a fronte elevata: noi governiamo qui per la volontà della nazione, liberamente e legalmente espressa da' suoi rappresentanti; noi faremo osservare le leggi, e tutte le forze vive del paese svolgeremo per mezzo della libertà. (Voci generali di approvazione)

PRESIDENTE. La parola è al signor ministro della marineria.

MENABREA, Ministro della marina. Dopo l'eloquente discorso del mio collega, il ministro dei lavori pubblici, non so se potrò ancora attirarmi l'attenzione della Camera; la prego tuttavia a volermene essere cortese, perché è debito mio di rispondere ad alcuni appunti che mi furono fatti, e di dare un rapido sguardo all'amministrazione che mi venne affidata.

L'onorevole deputato Pisanelli, tra le molle cause del grave malcontento che egli nota nelle provincie meridionali, accennava a varii fatti che si riferiscono all'amministrazione della marina, e citava fra questi i torti che, a suo credere, si fecero ad una classe importante d'impiegali, cioè ai commissari della marina e ai macchinisti;

169 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

diceva, per ultimo, che si era portato il disordine nella scuola di marina a Napoli.

Risponderò ordinatamente a tutte queste accuse; e in prima quanto ai commissari della marina.

Allorquando venne operata la fusione delle due marine, cioè di quella delle antiche con quella delle provincie meridionali, era necessario eziandio di riunire le due amministrazioni; ma perciò fare si presentavano alcune difficoltà, la soluzione delle quali fu affidata ad una Commissione che subì bensì alcune vicende, ma che fu sempre presieduta da distinti uffiziali della marina napoletana.

Senza entrare nei particolari delle discussioni che ebbero luogo, accennerò soltanto che le questioni sollevate si riferivano segnatamente all'assimilazione dei gradi. Ma quando fu sciolta siffatta questione e si cercò di distribuire i gradi fra i diversi impiegati delle due amministrazioni, quando le nomine furono fatte secondo questa disposizione, posso assicurare che vennero generalmente accolte con riconoscenza dagli impiegati delle provincie meridionali. Probabilmente alcuni di coloro, la cui ambizione e le cui speranze furono deluse, si fecero interpreti di supposti diritti, perché io non credo ne avessero il mandato, e tradussero il loro malcontento sui giornali, malcontento di cui si fece organo innanzi a voi, o signori, il deputato Pisanelli.

Ma, affinché possiate giudicare della cosa, io vi accennerò i risultati della deposizione che si vorrebbe censurare. Nell'amministrazione economica della marina sono attualmente 933 impiegali: di questi 61 appartengono alle antiche Provincie e alla Toscana, 163 alle provincie meridionali. Nei gradi superiori 3, sopra 9 impiegati, appartengono alle antiche provincie, 6 alle napolitane.

Fra gli impiegali napolitani 99 ebbero aumento di stipendio da HO lire a 1, 425. Pochi soli non l'ebbero. Qui però debbo aggiungere che furono tolti quei proventi che erano bensì permessi sotto il Governo borbonico, ma che il nuovo non poteva più né riconoscere, né tollerare. Vede dunque la Camera che i rimproveri fatti al Ministero a questo riguardo non sono per certo meritati.

Vengo alla questione dei meccanici, per la quale si menò non lieve rumore.

Sotto i due Governi antichi del Piemonte e di Napoli, i meccanici, prima degli ultimi eventi, erano divisi in varie categorie ed assimilati a gradi militari. Negli ultimi giorni del Governo borbonico fu emanato un decreto regio, in virtù del quale i macchinisti che prima avevano il grado di caporale e di sergente nell'armata navale erano promossi al grado di ufficiali. Quando si trattò di riunire le due marine, quelli, che nelle antiche provincie avevano grado soltanto di bassi uffiziali, si trovarono a fronte di quelli della marina napolitana che, esercendo il medesimo ufficio, aveano grado di ufficiale. Si presentava in seguito ad un tal fatto una grave difficoltà che il Governo credette di poter sciogliere, lasciando a quelli impiegati, che avevano ottenute promozioni particolari, il loro grado di ufficiale, ma disponendo, mentre loro conservava il grado, che venissero sottoposti agli obblighi dei gradi inferiori corrispondenti alla marina delle antiche provincie.

Molti fra' meccanici avevano accolto volontieri questa risoluzione; ma sgraziatamente anche qui cattive inspirazioni di malevoli fecero nascere reclami che diedero luogo a minacce di demissioni e furono fatte pervenire al Ministero in modo anche più grave di quello usato pei commissari. Ed invero questi impiegati, che devono considerarsi come militari, mandarono un loro rappresentante in Torino

con una domanda collettiva, la quale fu riprodotta sui giornali, e vennero in questo modo a reclamare, senza passare per le vie gerarchiche, insino al Ministero.

10 ho ricevuto bensì il deputato di quei meccanici, ma non volli ascoltarlo, perché non poteva permettere che si violassero in modo così grave i primi principii della militare disciplina. (Bene! Bravo!)

Il mandatario di quei meccanici diceva inoltre che quegli uomini non potevano sottoporsi alla umiliante disciplina della bassa forza della marineria italiana. (Risa)

E qui è d'uopo che si sappia che nel mestiere delle armi non vi è nulla di umiliante, e che chi serve al paese, è ugualmente onorato, sia ch'ei porli l'assisa del soldato, sia che vesta quella del generale. (Applausi)

Si è, applicando questo principio, o signori, all'antico esercito sardo di terra e di mare, che si sono fatti i soldati di Palestro e di San Martino, d'Ancona, di Gaeta e di Messina! (Applausi)

Vengo ora ad un altro appunto, a quello che riguarda la scuola di marina di Napoli.

(Il deputato Di San Donato pronunzia qualche parola a bassa voce. )

Il deputato Di San Donato ha qualche cosa da dire?

DI SAN DONATO. Risponderò a suo tempo.

MENABREA, ministro per la marina. Voi sapete, e signori, che esiste una scuola di marina in Genova, e ne esisteva egualmente una in Napoli.

La scuola di marina in Napoli era fondala sopra il principio, che generalmente è vigente presso tutti i Governi assoluti, cioè si prendevano in quella scuola i giovani dall'età più tenera, dai 7 agli 8 anni, quindi si istruivano fino all'epoca in cui uscivano uffiziali di marina.

Questo sistema, che poteva tollerarsi in un Governo assoluto, dove il favore del sovrano era la prima legge, diveniva incompatibile coi nostri ordini costituzionali, i quali chiamano egualmente i figli di tutti i cittadini a concorrere a tutti gli impieghi, a tutte le dignità, come impongono a tutti eguali doveri verso lo Stato.

Infatti il conte Di Cavour in quest'anno fece emanare un regio decreto, col quale vennero riordinate le due scuole di Genova e di Napoli secondo lo stesso sistema, e col quale si fissa l'età d'ammessione non inferiore a quella di 13 anni.

Ora succedette in Napoli, che quarantaquattro o quarantacinque giovani avevano un'età appunto inferiore ai 13 anni, ed in conseguenza non potevano essere ammessi nella nuova scuola cosi riordinata. Mi furono fatte parecchie istanze, affinché si desse qualche provvedimento riguardo a quei giovani, ed io, prima di prendere una determinazione definitiva, mi rivolsi al ministro della guerra, indi a quello dell'istruzione pubblica, per vedere, se vi fosse modo di ricoverare negli altri istituti del Governo quei giovani che non potevano più stare nella nuova scuola di marina di Napoli. Mi fu risposto negativamente, perché gli istituti del Governo non bastavano neppure ai bisogni rispettivi di quei due Ministeri. Cercai allora altri istituti, ma invano. Intanto il tempo stringeva; il comandante generale, sperando che un buon numero d'allievi si sarebbe presentato quest'anno per entrare nella scuola, temeva che, se non si fossero tolti quei giovani da quell'istituto, non rimanesse posto per accettare i nuovi, ed in conseguenza il divisamento di ordinare la scuola secondo il nuovo decreto più non potesse tradursi in allo. Si fu allora che si pensò d'invitare i parenti dei giovani a ritirarli, stabilendo però, onde compensarli e dei disturbi dati e del corredo che in parte non avrebbe più potuto servire,


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170 - CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1801

che sarebbe stata accordata un'indennità sufficiente. Non piacendotale disposizione, vennero fatte nuove rimostranze, le quali pervennero al Ministero, sia direttamente, sia per mezzo del luogotenente del Re. il generale Cialdini, al quale risposi che, siccome credevasi impossibile che quei giovani allievi potessero stare nella scuola insieme cogli altri che si aspettavano, io non poteva mutar divisamente Mi si mise allora in campo il diritto, lo questo diritto non lo ammetteva allora, come non lo ammetto oggi. Riconosceva bensì che questi giovani avevano avuto privilegi e favori, per la massima parte dall'antico Governo; ma questi favori e questi privilegi non costituivano per me un diritto. In conseguenza, quando mi si parlò a nome di questo, respinsi la domanda.

Tuttavia, riconoscendo che era necessario di aver riguardo a quei giovani, immediatamente dopo la mia dichiarazione cercai di nuovo se non vi fosse nelle altre parli dello Stato qualche stabilimento che li potesse accogliere.

E qui è d'uopo sapere, signori, che la città di Livorno volle essa stessa istituire una scuola di marina, la quale, sussidiata dal Governo, dà molta speranza di eccellente riuscita, e che potrà alimentare tanto la scuola di Genova, quanto quella di Napoli, lo allora vi rivolsi subito il mio pensiero, ebbi un abboccamento con un membro di quel municipio che generosamente accolse la mia domanda in favore dei giovani napoletani. Non contento ancora di ciò, incaricai un distintissimo ufficiale della marina napoletana, perché, in compagnia di due altri ufficiali napolitani, si recasse a Livorno, sia per visitare lo stabilimento nascente, sia per mettersi in relazione col municipio. L'ufficiale, dopo maturo ed attento esame delle condizioni di quel nuovo istituto, mi fece un rapporto, dal quale risultò che esso era meritevole di tutta la confidenza dei parenti, e che i giovani potevano esservi ricoverati sicuramente per ricevere quell'educazione, che li avviasse alla carriera cui si destinavano.

Confortato dal buon successo di questi miei tentativi, feci allora un invito ai parenti per mezzo del comandante generate della marina, e dirò che, avendo per un istante creduto che le mie proposte fossero accolte favorevolmente, pregai il municipio di Livorno a mandare un delegato a Torino per intendersi col Governo su questo punto, e per disporre del modo con cui dovessero ricoverarsi quei giovani.

Erano queste negoziazioni in corso, quando il generale La Marmora andò a Napoli; e pochi giorni dopo io riceveva da quest'illustre generale nuove istanze a nome dei parenti, affinché i loro figli fossero conservati a Napoli, lo gli feci una prima risposta analoga a quella che aveva fallo al generale Cialdini. Ma il generale avendo nuovamente insistito, Io pregai di esaminare esso stesso la cosa, e di cercare di risolvere quelle difficoltà che sul principio mi aveano arrestato.

Ora, o signori, il caso volle che quel gran numero di allievi, che si sperava non si presentasse, e che il locale, che sul principio si credeva troppo ristretto, rimanesse sufficientemente ampio da poter accogliere anche gli allievi, di cui è questione: ed è in seguito a questa circostanza, che da Napoli essendomi venute proposte, che io giudicai favorevoli, ho avuto l'onore di rassegnare a S. M, un decreto, col quale viene ordinata in Napoli una scuola per educare quei giovani che sono destinati alla scuola superiore di marina. Ecco la esalta esposizione dei falli.

Io avrei desiderato che l'onorevole signor Pisanelli, invece di attingere le sue informazioni a sorgenti meno certe, si fosse rivolto al Ministero; perché probabilmente, dopo le spiegazioni che io gli avrei date, e che ho ora esposte al

Parlamento, non avrebbe avuto occasione di muovere contro il Ministero accuse che io credo immeritate.

Dopo aver appurati i fatti relativi alle imputazioni mosse dall'onorevole risalitili, mi permetta la Camera che io entri in alcuni particolari rispetto all'amministrazione che mi è affidata.

Riassumendo le varie osservazioni ed i vari consigli che dalle diverse parti della Camera vennero fatti al Ministero per l'ordinamento del paese, pare si possano ridurre a due punti principali, cioè: armale ed organizzate.

Ora, o signori, se si esamina il modo con cui furono generalmente dati questi consigli, parrebbe siasi voluto movere un rimprovero al Ministero di non aver operato in conformità di essi. Il mio collega, il ministro della guerra, vi ha dimostralo assai evidentemente che riguardo all'esercito si era fatto molto; ed io spero che relativamente all'armala navale vorrete anche riconoscere che il ministro della marina non è stato inoperoso. (Segni di attenzione)

Signori, quantunque l'Italia sia destinata a divenire una gran potenza marittima, non bisogna però credere che questa potenza si possa creare in pochi anni; ci vuole tempo e danaro per creare il materiale, e ci vuole più tempo ancora per formare il personale. E perché sia meglio chiarito il mio pensiero, io vi prego di portar la vostra attenzione sopra lo sviluppo delle forze marittime di due nazioni, le quali, abbenchè secondarie, deggiono tuttavia essere riguardate attentamente, voglio dire della forza marittima austriaca e della forza marittima spagnuola.

Io ho fatto raccogliere i dati più precisi e più recenti sulle forze tanto dell'Austria che della Spagna, per paragonarle alla nostra. Ora da questo paragone, che sommariamente io accenno e che si trova consegnato nel prospetto che tengo tra le mani, e dove tutte le navi sono indicate nominativamente, ho ottenuto questo risultato: che il Governo italiano nei primi giorni della primavera ventura avrà bastimenti da guerra 85, forza in cannoni 989, forza in cavalli 13480. Invece il Governo austriaco ha attualmente solo 80 navi da guerra, forza in cannoni 703, forza in cavalli 6473; meno circa della metà di quella della flotta italiana.

In quanto alla flotta spagnuola, ecco la sua forza: navi da guerra 144, forza in cannoni 907, inferiore a quella della flotta italiana; forza in cavalli 13040, ancora inferiore alla nostra.

Ciò non basta ancora, o signori, quelle nazioni costruiscono e costruiscono alacremente, ma anche noi pensiamo a costrurre. Abbiamo già nei nostri cantieri tre fregate di primo ordine, e varie corvette anche di primo ordine, otto bastimenti, dei quali tre o quattro saranno armati nel corso dell'anno venturo, senza parlare di due fregale corazzate che furono ordinate in America.

Inoltre il Governo si occupa attivamente per creare nuovi cantieri, nuovi scali, e voi vedrete, o signori, dalle proposte del bilancio, che già si sono fatti i relativi progetti, e che tutto è preparalo onde cominciare ancora nuove costruzioni navali che daranno alla nostra marina uno sviluppo adeguato ai presenti bisogni. Spero clic voi vorrete approvare queste proposte, ed ho piena fiducia che mediante ù vostro voto, e l'appoggio del ministro delle finanze, potremo fare qualche cosa che sia degna dell'Italia.

Non vi parlerò, o signori, dell'arsenale marittimo della Spezia, la cui costruzione fu da voi volala nel primo periodo di questa Sessione. Molte offerte furono già fatte da società potenti per l'eseguimento di quest'importante arsenale e spero che fra poco noi potremo dar mano ai avori in modo

171 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

A questo riguardo si presentavano molte difficoltà. La Liguria aveva sulla leva di mare leggi che furono osservate sino a questi ultimi giorni. Ha nelle Romagne e nella Toscana queste leggi non esistevano; le provincie del Napoletano poi ne avevano una, la quale diede gli eccellenti marinari che attualmente servono nella nostra armata navale. Nella Sicilia non esistevano leggi a tale riguardo.

Quand'io venni al Ministero non era ancora volata la legge sulla leva marittima, che fu poscia accolta dal Parlamento; quindi ci si affacciavano grandi difficoltà nello allestire ed aumentare le nostre forze marittime. Applicare alle antiche Provincie la legge che esisteva, ed applicarla a quelle di Napoli era impossibile. Usare una legge uniforme per tutto lo Stato avrebbe aggravato alcune provincie, mentre altre non avrebbero potuto pagare il loro tributo. Ed è per questi motivi ch'io insisteva presso di voi, affinché la legge sulla leva di mare, quantunque giudicata in alcune parti imperfetta, fosse da voi approvata. Promulgata questa legge, doveva essere applicata egualmente io tutte le parti del regno. Ma qui ancora sorgevano altri ostacoli: per applicare la legge sulla leva di mare, era necessario costituire l'amministrazione della marina mercantile, la quale è specialmente incaricata di provvedere a queste leve. Ora l'ordinamento di quest'amministrazione fu cosa lunga ed ardua. Si potrà in breve estendere convenientemente a tutte le pai ti del regno la legge già esistente nelle antiche provincie, e cosi trovare quel personale che vuol essere dotato di non comune abilità, perché l'arte del marinaro è difficile e richiede una cognizione profonda dei regolamenti.

Tutto quest'ordinamento venne ora attuato, ed in conseguenza la legge nuova dovendo andar in vigore al 1° gennaio 1863, spero che noi potremo nei primi giorni dell'anno operare la leva rivolta la nuova legge.

Intanto, siccome il Ministero della guerra ordinava la leva di terra, specialmente nelle provincie siciliane, si venne ad un accordo fra i due Ministeri, affinché fossero ceduti all'armata navale tutti gli uomini, che per la loro professione erano più adatti al servizio di mare, che a quello di terra. E in seguito appunto di questo accordo, io credo che dalla Sicilia avremo circa 600 marinari per quest'anno. Le altre provincie dello stato, spero, ne daranno nella medesima proporzione. Quindi, quantunque la legge non possa ancora perfettamente funzionare, il che avverrà certamente fra due o tre anni, tuttavia colla sola leva del 869 potremo ottenere dai 2500 ai 3000 marinai.

É ben vero che, se si ricorresse alle classi precedenti, facilmente si potrebbe raddoppiare il numero, ma anche senza di ciò ho speranza che in questa primavera avremo una forza sufficiente per poter all'uopo armare tutti i nostri legni.

Questo, signori, ho dovuto dire relativamente all'armamento marittimo.

Ora vorrei anche accennare alla Camera ciò che si è fatto relativamente alle altre parti dell'amministrazione che dipendono dal ministro della marina.

Quest'amministrazione è assai varia ed estesa, e non riguarda soltanto la parte militare, di cui finora vi ho intrattenuto, ma eziandio l'amministrazione della marina mercantile, altra parte importantissima e che si è dovuta estendere a lotte le parti del regno.

Riguarda l'amministrazione della sanità marittima, che in seguilo alla nuova legge votata è stata completamente variata.

Riguarda la legge sulle lasse marittime, che si è dovuta attuare e che ha richiesto anche nuovi ordinamenti.

Infine, un'altra cosa occupa sgraziatamente il ministro della marina, e quasi l'opprime come un peso enorme, ed è l'amministrazione dei bagni, dei condannati che ascendono circa a 10000.

Non vi parlo poi, o signori, di molle amministrazioni che nelle antiche provincie e specialmente nelle meridionali furono istituite. Solo dirò che il Ministero non ha perduto di vista tutti gli ordinamenti che debbono completare la nostra marina. Egli ha formalo una legge generale che riordinerà sopra una base uguale tutto il servizio della marina mercantile. Questo progetto, profondamente elaborato, si trova attualmente al Consiglio di stato per averne il parere, e quindi sarà presentato alla Camera.

Infine vi è il Codice penale militare marittimo, che una Commissione, composta di uomini eminenti, attualmente esamina, onde possa esso pure essere sottoposto alla sanzione del Parlamento.

Signori, io v'ho per sommi capi esposto quanto si è fatto intorno a quest'amministrazione, e da ciò avete modo di giudicare, se veramente il ministro polla marina meriti i rimproveri che gli furono filli dai giornali pochi giorni sono, cioè che egli aveva avuto l'arte di trasformare il suo Ministero in un canonicato, io cui si godevano le beatitudini di un dolce far niente.

10 credo che si e molto lavorato; ma, come diceva l'onorevole presidente del Consiglio ed il mio collega il ministro pei lavori pubblici, l'opera è ardua, e per poterla proseguire conviene che il Ministero abbia tutta la fiducia del Parlamento.

Molte voci Bravo! Bene!

PRESIDENTE. Il deputato Ranieri ha domandato la parola per un fatto personale?

RANIERI. Avevo domandata la parola per protestare altamente contro l'immaginario dualismo fra la città di Napoli e le provincie, insinuato nel suo discorso dal signor ministro dei lavori pubblici. Napoletani della città di Napoli o delle provincie abbiamo tutti una sola opinione sopra la natura, la gravità e le cagioni dei nostri mali comuni... una sola opinione!

PRESIDENTE. La parola spella al deputato Petruccelli.

PETRUCCELLI. Signori, io mi proponevo di rinunziare alla parola, perché credeva che dopo il discorso dell'onorevole presidente del Consiglio dei ministri la discussione potesse chiudersi di fatto, e ciascuno di noi dare in petto il suo voto e balbettare una speranza.

La mia aspettazione è stata delusa. L'eloquente, il fiero discorso del presidente del Consiglio è stato una cambiale non soddisfatta, rimandala all'opposizione

Non un programma, non una giustificazione, non un conto reso; nulla!

Per gli affari interni il signor ministro ha dipinto un paesaggio florido di speranze.

Per gli affari stranieri ha ostentato un'impenitenza che io non saprei qualificare.

Il programma dell'avvenire sarà il programma del passato, lo non parlerò quindi sulla politica interna, perché divido

col signor ministro il supremo principio dell'unificazione assoluta, completa e sollecita; ed inoltre, come non mi piace di far opposizione vaga e su piccoli fatti che sono incidenti nella vita sociale, io mi taccio.

Non toccherò neppure la parte canonica della politica esterna del Ministero, e seguirò il consiglio che il nostro

172 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Il signor ministro non ha creduto di portare alcuna giustificazione sullo insuccesso delle pratiche, non ha creduto darci alcune speranze di modificazione al metodo che egli deve seguire. Egli si è posto come il destino, come una locomotiva sopra una rotaia, e corre sopra di essa o al suo destino o a spezzarsi.

La nostra politica straniera si ricapitola ed ha il suo più grande splendore nella questione romana.

Il signor ministro l'ha amplificata, l'ha magnificata, ha chiamato il cielo e la terra alla soluzione di essa.

Ebbene, o signori, io credo che noi ci arrabattiamo intorno ad un incidente, e che una questione romana non esiste. (Oh! Oh!) Ciò sembrerà strano, vi sembrerà un paradosso, perché e diplomazia, e stampa, e Parlamento ne discutono; ebbene, io spero, voi verrete nella mia convinzione che questione romana, come oggi si posa, come oggi si discute, quella questione romana su cui si fissa l'attenzione del Parlamento, e l'attenzione della diplomazia, e l'attenzione dell'Europa, non è la vera; essa è una maschera per dissimulare la vera questione.

Infatti permettetemi, o signori, di rimontare un momento all'origine di questa questione.

La pace di Villafranca fu accolta a Roma con un giubilo immenso da prima, poi con terrore profondo; il papa si vide spezzata sotto i suoi piedi la sala tavola di salute che gli restava, l'Austria; e si vide alla mercé di due nemici, la Francia e l'Italia. Allora egli si volse a quello che credeva meno nemico, al Governo francese, e gli domandò due cose: che l'occupazione di Roma fosse estesa alle Marche ed all'Umbria; che un corpo di esercito francese invadesse le Romagne, e le ritornasse all'abborrito dominio che avevano già rotto.

Il Governo francese rispose: è impossibile! Queste provincie, quando la guerra ardeva, si sono mostrate pronte a tutti i sacrifizi; io non posso ricambiarle di ingratitudine e combatterle.

Il papa comprese che restava alla mercé di sé, e che non poteva oramai più ricorrere che alla sua forza morale, la sola che gli rimanesse; quindi fece appello al mondo cattolico, e gli domandò danari ed uomini.

Voi conoscete l'esito del prestito. Quanto agli uomini, il mondo cattolico razzolò in tutti i suoi più tristi luoghi, e pose su quell'esercito, a cui il generale Lamoricière non ebbe onta di comandare.

Da quel momento Roma divenne una fucina di cospirazioni. E contro di chi? Contro il solo salvatore che avesse: l'imperatore dei Francesi I E la cospirazione legittimista cattolica era tanto esagerata, che lo stesso ministro del Borbone trovava che fosse un'ingratitudine spaventevole della Corte romana, e che il pontefice correva al precipizio.

Ma il pontefice, per dare una fisionomia anche più netta, anche più spiccata a quella cospirazione, malgrado l'avviso contrario di Antonelli, malgrado le rimostranze del signor DI Grammont, nominò monsignor Di Merode ministro delle armi.

Dietro questa dichiarazione di guerra l'imperatore fa significare al papa dal suo ministro a Roma che fra dodici giorni egli avrebbe ritirato l'esercito francese, e le negoziazioni preliminari per le operazioni del richiamo furono cominciate.

Frattanto Garibaldi sbarca in Sicilia, vince a Calatafimi, a Palermo, a Milazzo, e si accinge a marciare sul continente. Il terrore che invade il Borbone si comunica alla Corte di Roma, con la quale da lungo tempo erasi stabilita solidarietà di politica.

Allora il papa scrive una lettera autografa all'imperatore, e monsignor Sacconi la presenta. Con quella lettera si esponeva il grande pericolo che correva Roma, se la rivoluzione trionfasse a Napoli; e monsignor Sacconi soggiungeva al signor Thouvenel, che il mondo cattolico avrebbe veduto il lugubre spettacolo di un pontefice romano, capo della cattolicità, andare a domandare un asilo ad una potenza protestante a Malta. Il signor Thouvenel rispose freddamente che il papa non aveva bisogno di andare a Malta, potendo andare alle isole Baleari!

Questa parola, che si chiamò da monsignor Sacconi una spaventevole enormità, fu una rivelazione per la Corte di Roma. Essa comprese che non poteva contare che sulle sue risorse, sulla sola sua iniziativa, ed il generale Lamoricière si pose in campagna.

Lamoricière parve preso da vertigine. Egli minaccia di invadere il Napoletano, minaccia di assalire il nostro esercito schierato alla frontiera, minaccia comprimere e tagliare a pezzi le popolazioni dell'Umbria e delle Marche che già indicavano a ribellione.

Voi sapete, signori, come fu vinta la battaglia di Castelfidardo e fu presa Ancona. La esaltazione dello spirito italiano era tale, ed in tale diapson d'orgasmo, che lo stesso imperatore dei Francesi, quest'uomo la di cui calma olandese è quasi paradossale, disse, come spaventato, ai due messi che il Borbone gli mandava per sollecitare la mediazione: «Non c'è più nulla da fare; la rivoluzione avanza, incalza, ci è su, cedete!» (L'idée nationale doit triompher; la force n'est plus de notre coté, M. De Cavour est débordé!)

Se dunque lo slancio della rivoluzione sureccitava, allarmava l'animo più calmo d'Europa senrza considerarvi quale dovesse essere lo stato di quelle provmcie, nelIo stesso tempo Garibaldi vinceva sul Volturno e prometteva a Napoli che sarebbe andato a proclamare l'Italia una al Campidoglio!

Qual era, signori, la situazione della Francia a Roma in quel momento?

Essa si trovava nella necessità d'attaccare l'Italia, ovvero di ritirarsi. Essa si vedeva circondata dai soldati italiani da una parte, dai soldati di Garibaldi da un'altra, dal popolo che insorgeva, e non poteva combattere la controparte della battaglia di Solferino; perché lo stesso imperatore aveva detto, pochi giorni prima, ai messaggieri stessi di Francesco II:

Les Italiens sont fins. Ils savent bien qu'après avoir verse le sang de mes enfants pour la cause de la nationalite, je ne tirerai pas le canon contro elle.

Tale era la sua posizione. Non potendo battersi nelle prime file contro i soldati d'Italia; non potendo rivirarsi, perché non aveva ancora realizzate quelle speranze, quegli intendimenti che l'avevano condotto a Roma, l'Imperatore dei Francesi si tira da lato. E' scomparisce, e lascia di fronte chi? Il popolo italiano e il papa, vale a dire crea la questione romana.

E vedete, o signori, come questa politica sia profondamente infernale. Qua) era la situazione dell'Italia?

L'Italia aveva la simpatia dell'Europa, quando, malmenata dall'Austria, cercava di costituirsi a libertà. L'Austria era odiata, e svegliava nelle potenze d'Europa una profonda.

173 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

Ora, la violenza, l'ingerenza dell'Austria eran cessate, e la Francia Pareva rimpiazzata.

Creando la questione romana, che cosa faceva l'Imperatore?

La simpatia che l'Europa aveva per noi cessava; il mondo cattolico ci osteggiava, perché ci credeva nemici del papa, guardando alla questione romana. L'odio che avrebbe dovuto gravitare sulla Francia, si cangiava in simpatia, perché la si credeva protettrice del papato, protettrice del cattolicismo. Le parti erano invertite.

Comprendete adesso, o signori, quale scopo, quale portata avesse questa fatale questione romana? Ma una questione romana esisteva essa per noi; esisteva una questione romana pel popolo italiano? No, o signori, no. Il papa è un santissimo Giano che ba due faccie: l'una serena, augusta, quella del pontefice; l'altra idiota, feroce, brutale, quella del re di Roma.

Or bene, l'Italia aveva dessa qualche cosa di comune o col pontefice o col re di Roma? Col pontefice? Ma il Governo italiano non è un concilio; il Governo italiano non discute il papa; non discute se il papa fosse o no capo della cristianità; se è il primo dei vescovi; se sia superiore ai concilii; se può fabbricare dogmi, concordati, e che so io; se, infine, vi potesse o non potesse essere anche cattolicismo senza papa; la grande soluzione della quistione cattolica nel mondo, a cui miravano le prime riforme di Arrigo Vili. L'Italia non discuteva neppure il cattolicismo, quando sa che Io stesso cristianesimo è messo in dubbio dagli scienziati di una nazione vicina; e quando gli Straus, i Daub, i Paulus, gli Ullemena, i Gunther, i Bauer, gli Schleirraacher ed altri ne fanno chi un mito, chi un apologo, chi un fenomeno naturale.

L'Italia non entrava in questa quistione del basso impero, imperocché sapeva che il pontificato è oramai come le piramidi d'Egitto, grandiose, imponenti al di fuori, ma che hanno dentro una mummia.

L'Italia ha coscienza della grande rivoluzione che compie, il complemento della rivoluzione francese, l'89 delle anime! In quale discussione poteva dunque entrare col pontefice il Governo italiano? Esso si dichiarava incompetente; esso sapeva che combattere il papa sarebbe stato un dargli vita. Se Pio IX, questa madama de Maintenon del papato... (Rumori a destra)

PRESIDENTE. Prego l'oratore a moderare le sue espressioni.

PETRUCCELLI. Se questo santissimo Pio IX avesse potuto per un momento (Rumori prolungati a destra)

Una voce dalla destra. All'ordine!

Una voce dalla sinistra. Che ordine!

PRESIDENTE. Prego di nuovo l'oratore di temperare le espressioni.

RICCIARDI. Il solo presidente ha diritto di chiamare all'ordine. (Rumori)

PETRUCCELLI. Dunque io chiamerò Pio IX il più santo dei santi...

BIXIO. Che organizza la guerra civile in Italia.

PETRUCCELLI. Io dunque diceva che il Governo italiano sapeva bene che combattere il papa sarebbe stato un galvanizzarlo, un dargli una persona, se tuttavia Pio IX fosse di tempra da far rivivere l'opera di Gregorio VII e di Innocenzo III.

Questo quanto al pontefice.

Quanto al re, signori, nella questione italiana, che da tanti anni si discute, di che si tratta in fondo? Si tratta puramente a semplicemente di una discordia tra principi e sudditi. Sono i sudditi di Parma, i sudditi di Modena,

i sudditi di Napoli e di Toscana che attaccano, che vincono, che cacciano i loro re; sono i sudditi del papa che attaccano e che cercano di vincere, e che hanno vinto in parte il pontefice romano, ciò che non successe loro di fare nel 1831 e nel 1818.

In che c'entra il Governo italiano qui? È questa una questione puramente di polizia, è una questione puramente interna; anzi è una questione amministrativa, perché al postutto non si tratta neppure di cangiare in principio repubblicano un principio monarchico. Tutto al più si tratta di una semplificazione geografica. Ebbene, il Governo italiano, chiamato, arriva; invitato, accetta. E perché arriva? perché accetta? Per difendere l'ordine pubblico, signori, per mantenere l'equilibrio delle forze sociali. E se il Governo italiano va a Roma un giorno, diciamolo pure altamente, o signori, esso ci va unicamente chiamato dal popolo romano, che oggi è oppresso dal Governo francese, e ci va per salvare le vite dagli assassini di Locatelli. (Rumori) Il nostro incesso a Roma non è opera d'intervenzione; noi vi andiamo solamente per quel grande rispetto che si deve all'ordine e per quel principio che il principe di Metternich proclamava, quando intervenne a Napoli nel 1821 e quando entrò in Romagna nel 1831, vale a dire che, quando il fuoco è alla casa del suo vicino, l'altro vicino ha diritto di andare a spegnerlo, onde alla sua casa non s'appigli.

No, signori, diciamolo alto, chiaro, di un modo solenne, si che l'Europa tutta ci ascolti, sì che ogni coscienza onesta vi creda; l'Italia non perseguita, non attacca il papa; sono i suoi sudditi che lo chiamano al rendiconto, e trovandolo un magistrato incorreggibile, lo scacciano.

Dunque, o signori, il Governo italiano non avendo nulla che fare col sovrano di Roma, né come papa, né come re, in che cosa questa questione romana interessa l'Italia? perché la si fa sull'Italia gravitare?

Ma, lo ripeto, questa questione era necessaria alla Francia; questa questione era per la Francia una maschera, onde celare la sua attitudine a Roma (Rumori a destra ed al centro); era una pompa diplomatica onde sopprimere l'incendio che essa vedeva divampare intorno a sé. E, signori, mi duole il dirlo, questo Parlamento ne fu il pompiere. (Si ride; rumori)

Sì, o signori, ne fu il pompiere. Una volta però messa questa fatale questione, bisognava trattarla. Illuso o disilluso, convinto o no, il conte di Cavour, che aveva ammessa questa questione, o che, meglio, l'aveva accettata, doveva trattarla. Ed allora furono trovate quelle grandi basi che anche adesso, anche poco fa l'onorevole presidente del Consiglio invocava; vale a dire: libera Chiesa in libero Stato; andar a Roma colla Francia.

L'opposizione ebbe ben a gridare che ciò era impossibile. L'opposizione, come sempre, ebbe torto, e vi fu persino chi la schernì, dandole questi del poeta, quegli del teoretico incallito, quell'altro dell'eccentrico; quasiché, signori, e Canning e Martinez della Rosa, che invocava poco fa l'onorevole Brofferio, e Chateaubriand non fossero stati nel medesimo tempo e grandi poeti e grandi politici; quasi che non fossero stati uomini a teorie inveterate e Pitt e Guizot, che pur sapete non furono mediocri uomini di Stato; quasiché la prima mente politica dell'Europa odierna, lord Palmerston, non fosse nello stesso tempo l'uomo più eccentrico del Regno Unito.

Ma, signori, l'opposizione dovè tacersi e tacque; gli avvenimenti però hanno dimostrato che l'opposizione non s'ingannava, perché oggi ci troviamo in tale angiporto, in cui ciò che possiamo fare di più nobile è d'incrociare le braccia ed obbedire.

Una voce dalle tribune pubbliche. Bravo!

174 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

PRESIDENTE. Dalle tribune nessuno può dar segno di approvazione. (Ilarità)

PETRUCCELLI. Dunque libera Chiesa in libero stato. Ma come, signori?

Che avessimo voluto commettere questo errore l'anno scorso, prima della prora, eravamo pur perdonabili; ma che il presidente del Consiglio anche oggi venga a dire che questa questione non si possa risolvere che con questa istessa base, io veramente non lo so più comprendere.

Ma abbiamo adunque obbliata la storia? Dove mai, quando mai è esistita questa libera Chiesa in libero Stato?

La Chiesa, o signori, sia dessa grande come la Russia, sia dessa piccola come la repubblica di San Marino, sia dessa un punto od un mondo, sia sotto i poli o sotto i tropici, la Chiesa, per essere libera, deve essere Stato, stato a sé. Non vi può essere altra composizione. Nello Sialo, o stato; ma parallela allo Stato giammai! Una libera Chiesa è per sé stessa uno stato, una enormità, un anacronismo, una monarchia dispotica, teocratica, infallibile, inqualificabile, irresponsabile, qualche cosa che ci respinge in un mondo che non è più.

E che cosa è poi uno Stato con una libera Chiesa nel seno? Lo Stato non è più padrone di sé; esso ha diviso la sua autorità con un'altra potenza, che gli ha tolto la metà dell'impero, l'imperio delle anime! Lo stato ha creato un dualismo, l'anarchia. Da che cosa nacquero, signori, le guerre dell'impero colla Chiesa, guerre che durarono per tanti anni? Non nacquero da altro se non da che la Chiesa pretendeva di essere libera, dove lo Stato si reputava sovrano. Ed abbiamo inoltre veduto che là stesso dove la Chiesa è stata sottomessa, avvennero dissidi, querele, lotte lunghe, burrascose, pericolose, sia per giurisdizione ecclesiastica, sia per exequatur, sia per vescovi, sia per nunzi, ed altre simili cose.

Ciò stante, come potete voi, o signori, conciliare la libertà dello stato con questa libertà assorbente?

La Chiesa vi domanderà libertà d'insegnamento, e voi dovrete concederla. Essa vi domanderà giurisdizione a sé, con i suoi, per i suoi, in materia di canoni, vale a dire due Codici nello stato, due ordini giudiziari, e voi dovrete accordarla.

Essa vi domanderà privilegi, immunità, dritto d'asilo, santo ufficio, la bolla In coena Domini, un ritorno al medio evo, la risurrezione dell'immenso edificio che la Chiesa elevò lentamente da Gregorio I a Innocenzo X, e che il Congresso di Munster rovesciò, quando le tolse la metà dell'imperio e lo assentì al protestantismo, e voi dovrete accordarla. (Mormorio) Voi non vorrete accordarla? Ebbene allora non sarà più libera la Chiesa. La Chiesa per essere libera deve godere di tutta questa sterminata autorità per esercitare tutte quante le sue facoltà. Dunque, se volete che la Chiesa sia libera, rinunciate a pretendere che lo stato sia libero. Questo quanto alla proposta in sé. (Segni di dissenso)

Ora ammetto che si conceda al papa la libertà della Chiesa. Qual garanzia darete voi, o signori, al pontefice di Roma? Sarà la garanzia collettiva dell'Europa? Ma il mio amico Musolino vi ha detto già che ciò sarebbe un crearvi la guerra in permanenza.

I preti potrebbero allora commettere tutte le gentilezze che leggiamo ogni giorno nella Gazette des Tribunaux, e voi non potreste toccarli; perocché altrimenti grideranno: alla violenza! alla violazione! e chiameranno in soccorso quei principi che, avendo un'uggia qualunque contro di noi, vorrebbero muoverci guerra.

Ricordatevi, o signori, che ogniqualvolta lo straniero discese in Italia, fu chiamato dal papa o a causa di un papa.

Ma, signori, e come, voi governo libero, voi Parlamento popolare progressista, come potreste voi consentire a questa cristallizzazione del diritto? (Ilarità)

Ma come? E non ricordate dunque voi che ciò che ieri era ius e giustizia, oggi è violenza ed iniquità?

Ricordatevi del tribunale dell'inquisizione, del diritto divino, del diritto di asilo, delle immunità ecclesiastiche.

Il papa, o signori, era sovrano. Egli aveva principati, avea feudi, aveva privilegi; stendeva la sua autorità sull'Ungheria, sulla Polonia, sulla Norvegia, sull'Inghilterra, sulla Svezia e sulla Spagna; Napoli era suo feudo, l'Impero suo rivale, la Francia il suo incubo, l'Italia il suo teatro di battaglia... imperava su tutto l'universo.

E che cosa è adesso il papa, o signori?

Una voce impotente che non arriva neppure a svegliare gli echi del Vaticano.

Il papa si uccise al Concilio di Trento, quando rinunciò di essere pontefice, e preferì di esser re.

La rivoluzione, che mai non muore, e la gelosia del potere monarchico fecero il resto. E rimarcate, signori, che il più acerbo a demolire il papato fu il potere monarchico, la Francia, la Spagna l'Austria, che oggi scomunicano l'Italia, la quale al postutto significò sempre una negazione del papato.

Se dunque, signori, la Chiesa libera è impossibile; se non potete dar garanzia allo Stato, come volete realizzare questa base che deve essere la prima leva per la soluzione della questione romana?

Ma ammettiamo che noi, sotto la pressione della Francia, per sottrarci a dissidi ed a molestie, offrissimo di buona fede un capitolato qualunque, un concordato qualunque al pontefice. Ma l'avvenire? Da quando in qua i trattati sono eterni? Siamo leali, signori. Non patteggiamo con la Chiesa, la quale, se raramente tiene i patti, ne tiene sempre memoria, e sa trovarli sempre opportunamente e servirsene come arma.

Vediamo ora l'altra base se sarà più sensata e più possibile: andare a Roma colla Francia

Signori, a Roma non si potrebbe andare con la Francia che per la diplomazia o per le armi.

Colla diplomazia? Ma no, signori! La diplomazia francese non ha potuto mai nulla ottenere dalla Corte di Roma. Sono tredici anni, signori, che la Francia lotta con una costanza, con una pazienza, con un'abnegazione miracolosa, onde ottenere qualche libertà, qualche riforma per quelle infelici Provincie italiane, e finora nulla ha ottenuto. La Francia ha dovuto rinunziare persino al principio che la guidò all'occupazione di Roma. Ricordatevi, signori, quelle parole solenni che il signor Tocqueville scriveva al signor De Courcelles: Et surtout ne perdez jamais de vue que nous n'allons pas à Rome pour y continuer Grégoire XVI, non y allons pour y restaurer la papauté constitutionnelle.

Gregorio XVI, signori, fu continuato e peggiorato; la Francia non ha potuto ottenere neppure la realizzazione di quel ridicolo motuproprio di Portici.

La diplomazia francese, signori, ha avuto tre fasi di negoziazioni a Roma: nella prima, dal 1849 sino al 1859, dimandò che il papa realizzasse le riforme cui aveva promesse a Gaeta ed a Portici; nella seconda, dal 1859 sino al 1860, dimandò che il papa accedesse ad un Congresso europeo per gli affari d'Italia, e che volesse acconsentire al principio della confederazione italiana sanzionato a Villafranca; nella terza, l'attuale, si dice che essa dimandi al papa che abbandoni

175 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

il Governo temporale e si contenti dello spirituale. Sapete voi la risposta del papa? (Una voce a destra: Non possumus. ) Alla prima domanda il papa rispondeva: io sono uno Stato libero, uno Stato autonomo, indipendente; nessun Governo ha diritto di venirmi ad indicare, neppure a consigliare (la parola è autentica), neppur consigliare ciò che io debba fare. Riforme! il mio popolo non ne ha bisogno. L'Austria istessa che consigliava pure riforme non fu ascoltata. Il cardinale Antonelli rispondeva al conte di Colloredo: se l'Austria è cosi tenera di riforme, se le cominci in casa sua.

Nella seconda fase, quando il Governo francese domandò che il papa intervenisse ad un Congresso, il papa rispose: un Congresso, e a che? Ma, questione romana non esiste. Capite, signori, questione romana non esiste! E poi quand'anche io volessi per compiacenza, continuava il papa, accedere alla vostra domanda, potete voi concepire che io, vicario di Cristo, maresciallo della Santissima Trinità (Bisbiglio a destra), io mi presenti alla sbarra di un tribunale composto di tre giudici non cattolici, e di due cattolici nemici fra di loro? Congressi, mai!

E la confederazione?

Per la confederazione; il Governo romano rispose: sì, l'accetto in principio; però cominciate a restituire le cose nello statu quo ante bellum; cominciate dal soggettarmi le Romagne, dal reintegrare tutti i principi esautorati, e poscia vedremo; perocché oggi asserire che io volessi partecipare alla confederazione italiana, significherebbe che io sanzionerei tutte le usurpazioni falle dal Piemonte. Che cosa risponda adesso che non gli si vuole lasciare neppure il Vaticano ed il famoso orto, io non saprei dirlo.

Questo, o signori, è il frutto che ha tratto la diplomazia francese da tutti i servigi che la Francia ha resi al pontefice. Ora, come sperate voi, o signori, che questa diplomazia fosse più fortunata nel presentare i vostri capitolati e la vostra nota?

Dunque colla diplomazia francese a Roma non si va. Colle armi forse? Ma non vi è bisogno d'armi, o signori. Ma diciamolo altamente, chiaramente, che noi non vogliamo andar a Roma, in un modo qualunque, per cacciarne il papa; che non siamo noi che cacciamo il papa, è il popolo romano, (Una voce dalla tribuna delle signore dice: È vero! -mormorio) Come volete voi, o signori, ridurre questo popolo a paria di Italia? Ma che? questo popolo non ha forse esso pure gli stessi diritti che aveano i Napoletani, i Marchigiani, i Modenesi, i Toscani? Qual è la differenza di questa provincia d'Italia colle altre provincie? Iddio non ha creato dieci Italie, signori; ne ha creato una, una sola, indivisibile, che noi abbiamo proclamala e che sapremo far rispettare. (Bene! Bravo! - Si sente nella tribuna delle signore la stessa voce che dice: SI, signore, col sangue e colla vita. - (Mormorio prolungato)

Molte voci. Si faccia sgombrare t %

PRESIDENTE. (Dopo letto un articolo del regolamento) L'usciere della tribuna nella quale è successo questo inconveniente abbia cura di esaminare qual sia la persona che vi diede luogo, e nel caso torni a verificarsi, faccia che la persona stessa sia allontanala dalla tribuna.

PETRUCCELLI. Signori, non vi è che un modo solo di andare a Roma colla Francia, ed è che se ne vada!

La Francia, o signori, e la quistione romana è tutta li, e non ci è re di Roma, non ci è pontefice, non c'è mondo cattolico; quando la Francia sia partita, la Corte del Vaticano sarà partita già. Dunque, o signori, come vedete, quistione romana non esiste: esiste sibbene una quistione franco-italiana a Roma, cui, creando quella, si voleva dissimulare.

La Francia ha proclamato quattro principi!

Essa ha detto: l'Italia deve essere indipendente! Ed in virtù di questo principio mosse guerra all'Austria, e l'Europa tacque.

Essa ha detto: ogni stato è libero nell'azione sua interna e nell'interna amministrazione. E con questo principio dovette ritirare il suo ambasciatore da Napoli nel 1858, quando il Borbone gli diceva: io non conosco consiglieri. Con questo principio dovette ammettere le annessioni degli Stati dell'Italia centrale.

Con questo principio dovette piegare umilmente il capo alle ripulse della Santa Sede.

Il terzo principio è stato quello che ogni nazione ha diritto alle sue frontiere naturali. E con questo principio essa ci domandò Nizza e Savoia; e con questo principio ne legittimò il possesso dinanzi all'Europa, e l'Europa si rassegnò.

Infine essa ha proclamato il principio del voto popolare.

Ebbene, noi domandiamo che questi principii siano applicati allo Stato romano. Ma che cosa fa la Francia? Restando a Roma, essa viola l'indipendenza d'Italia; restando a Roma, essa s'immischia negli affari interni di uno Stato, si interpone tra i sudditi ed il loro principe, opprimendo i primi, sostenendo il secondo; restando a Roma, essa crea in mezzo all'Italia una frontiera fittizia, dopo averle presa la frontiera naturale; restando a Viterbo, essa viola il principio, la base stessa della costituzione dell'impero francese attuale; viola il suffragio universale; imperciocché la provincia di Viterbo innanzi a Dio ed agli uomini ha proclamato la sua annessione al regno d'Italia. 12000 voti, portati nell'urna sotto gli occhi stessi del carabiniere pontificio e del soldato francese, furono presentati al commissario Popoli. La provincia di Viterbo fu ridotta sotto il papa; l'esercito italiano dovette disoccuparla; la popolazione emigrò in massa dietro quell'esercito ed all'avvicinarsi della bandiera francese; ed oggi quella nobilissima provincia è torturala sotto l'aguzzino romano ed il soldato della Francia, che la strozzano fraternamente! (Ohi ohi)

Ora, che cosa domandiamo noi alla Francia? Che cessi questa violazione dei principii da lei proclamati e dall'Europa sanzionati o subiti.

Io son sicuro che l'onorevole presidente attuale del Consiglio ed il lagrimato conte Di Cavour queste ragioni dovettero dire, dovettero far valere; perché io non mi do il merito di averle inventate. Che rispose la Francia? La Francia resta a Roma. Ma, in nome di Dio, perché vi resta?

Si disse: essa vi resta perché l'imperatore Napoleone ha paura del partito cattolico, per proteggere il papa, per sostenere il catolicismo; infine, si dice, per proteggere noi, per guarentirci da un'aggressione austriaca.

Signori, siate persuasi che l'imperatore Napoleone III non è della stoffa di cui si fanno i Davide, né Pio IX di quella di cui si fanno i Samuele. (Ilarità) L'imperatore Napoleone ha coscienza di occupare un trono, sul quale lo precedettero dei sovrani che, non cessando di essere cattolici, tennero testa ai papi e li spezzarono sotto la loro mano. (Si parla) No, voi dite?

Innocenzo III muore di crepacuore perché il figlio di Filippo Augusto passa in Inghilterra malgrado gli ordini suoi. San Luigi, lo stesso San Luigi rifiuta a Gregorio IX la sua ospitalità, perché questo santo ed i suoi baroni credettero che accordargli l'ospitalità fosse pericoloso! (Si ride) E Filippo il Dello era più schifiltoso? Noi altri Italiani ci siamo di tempo in tempo divertiti, ora a strozzare un papa, ora ad avvelenarne un altro, ora ad ucciderlo a colpi di pietra od a colpi di martello; Filippo il Bello fa schiaffeggiare sulla stessa cattedra di San Pietro Bonifacio Vili (Sensazione), che muore di rabbia.

176 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

E Richelieu, il gran cardinale Richelieu, si fé' del papa uno istromento di governo. Luigi XIV umiliò Alessandro VII per modo che lo ridusse a domandargli scusa pubblicamente. E Napoleone I fa condurre il pontefice di brigata in brigata fra due gendarmi; e Pio VI era in tale stato, che vi ricordate, o signori, la famosa ricevuta di quel caporale, che prendendolo in consegna non so più a qual sito, scriveva: recu un pape dans un très fichu état. (Si ride)

Ebbene, signori, potete voi supporre che un sovrano, il quale succede a questa serie di re, possa poi essere tanto tenero del cattolicismo? Potete voi credere che. un sovrano il quale presiede a quella gloriosa, nobilissima nazione, la nazione francese, la quale fece guerra perennemente coi suoi Parlamenti al potere temporale, che si diede un culto particolare, il culto gallicano, potete voi credere che Napoleone III sia per mercantare, per vilipendere così la dignità di una tanto nazione, elevandola a gendarme del cattolicismo?

Vi resta forse per tenerezza verso Pio IX?

Ha, signori, io ho trovato negli archivi degli affari stranieri di Napoli almeno venti dispacci che il ministro di Roma scriveva, nei quali denunziava la politica infame, scempia di Pio IX. (Sensazione)

Pio IX odia l'imperatore Napoleone; e se venti volte almeno non fece appello al mondo cattolico per levarsi e rovesciare l'impero (sono sue parole), gli è stato, signori, perché il cardinale Antonelli lo ha ritenuto da quest'insensatezza.

Or, potete voi credere, o signori, che questi fatti siano ignorati dall'imperatore Napoleone? E potete voi credere che l'imperatore Napoleone ami Pio IX, il quale è il capo di quel partito ultramontano legittimista che gl'insidia la corona?

Sarebbe poi per paura forse di questo partito cattolico? Ma voi avete veduto, o signori, non ha guari, fiaccare o piuttosto sottomettere alla polizia quella società di San Vincenzo di Paoli, la quale, come il serpente di Laocoonte, allaccia ed avvinghia la società francese, e colla piccola moneta della carità cospira, onde ristaurare principi che la Francia cacciò nell'esilio.

Sarebbe forse allora per noi? Ma, signori, voi sapete troppo bene, che la Francia non ha che a dire una parola per iscongiurare le aggressioni, incatenare l'Austria nel suo quadrilatero, e dirle: guai se ti muovi!

perché dunque resta la Francia a Roma? L'imperatore Napoleone è il principe il più francese, dopo Enrico IV e Luigi XIV, che si abbia avuto la Francia. Egli dunque resta a Roma per sé, per gl'interessi francesi. Il signor Billault del resto lo disse l'anno scorso dalla tribuna del Senato: noi siamo a Roma per i nostri interessi 1 Ma quali?

Io non so, o signori, se sia possibile di penetrare in quell'abisso profondo che è il cuore dell'imperatore, la cui forza, il cui prestigio è tutto nel mistero e nel silenzio. Però se qualche cosa si può congetturare, a me pare che non possa restare a Roma che per due ragioni, o, per meglio dire, per una di queste due ragioni: o egli non vuole l'Italia una, ovvero da questa Italia una, da questo stato di 37 milioni, egli vuole delle garanzie tali, che possa, senza rimorsi, senza aspettarsi rimproveri nell'avvenire, indursi a violare l'antica tradizione della politica della Francia, la quale, qualunque fosse la sua forma di governo, non ammise mai che uno stato potente si formasse alle sue frontiere. (Bravo! a sinistra)

Quale sia di queste due ragioni, o signori, io non so. E forse l'imperatore stesso non lo sa; e forse egli ondeggia e ritarda la soluzione della questione romana,

precisamente perché aspetta dagli avvenimenti che lampeggiano all'orizzonte un consiglio, una ragione, un pretesto, non so che infine, onde decidersi, sia a gravitare su quest'Italia con tutte le sue forze e spezzarla, sia ad unirsela seco come sorella, come complice.

Signori, io sono certo che il patriotta ministro, il quale siede alla presidenza del nostro Consiglio, egualmente che il conte Di Cavour, avranno offerto alla Francia ogni specie di guarentigie. Noi vogliamo dare alla Francia guarentigia di noi intera, completa, assoluta, limitala sola dai diritti della nazione, limitala dagl'interessi d'Italia, limitata dal rispetto santissimo che si deve al suolo italiano. (Bene!) Malgrado ciò, la Francia sia a Roma. Dunque non sono le guarentigie che essa sollecita. Può essa forse dubitare del popolo italiano? Ma il popolo italiano ama la nazione francese; il popolo italiano, benché abbia a lamentare qualche infedeltà, che il mio amico Musolino cangiò bello e buono in tradimenti, il popolo italiano in tutte le circostanze diede alla Francia non dubbi segni di simpatia.

E qui mi sia permessa una parentesi per rispondere all'onorevole MUSOLINO.

Egli ha dello che la Francia ci ha traditi quando firmava la pace di Villafranca. Ciò non è esatto. La Francia dovette subire la pace di Villafranca, perché la Prussia era alla vigilia di denunziare un intervento armato

MUSOLINO. No!

PETRUCCELLI. (A Musolino) È verissimo.

PRESIDENTE. (A Petruccelli) Parli all'Assemblea.

PETRUCCELLI perché la Russia mobilizzava due corpi d'esercito, e l'Inghilterra lasciava fare.

La Francia adunque, onde non sottostare ad una pace imposta nobilmente, quantunque vincitrice, stese la mano e subì condizioni che, anche vinto, l'imperatore d'Austria un avrebbe subile.

Non era dunque per tradire l'Italia, non era perché non volesse compiere il suo programma. Io era a Valeggio, io era a Villafranca a quell'ora, e vidi io stesso sulla figura degli ufficiali francesi e dello stesso Napoleone, figura impassibile, una concitazione d'animo che faceva rabbrividire.

Nel 1819, dice il mio amico Musolino, la Francia venne a strangolare la repubblica romana. L'è vero. Ma voi ricorderete che il papa aveva chiamalo, prima della Francia, prima anche di appellarsene al mondo cattolico, come poi fece a Gaeta, aveva sollecitato l'intervento esclusivo dell'Austria. Che fece allora la Francia? La Francia, per non lasciar cadere moralmente di nuovo l'Italia tutta sotto il dominio esclusivo dell'Austria, intervenne per bilanciarla e per assicurare, come fece poscia colle note, che non seppe far realizzare dai falli, per assicurare al popolo romano un bricciolo di libertà.

Dove era dunque il tradimento? E nel 1851, quando occupò Ancona? Vi andò di consentimento e dovrei forse dire a consiglio del cardinale Bernetti, il quale, vedendo già l'Austria installata in quelle Legazioni, delle quali da tanti anni agognava il possesso, insinuò l'intervento per neutralizzare con la Francia l'austriaca influenza. E ne parli infine, perché il signor Thiers fu mistificato dal principe di Mettermeli, il quale gli fece credere che avrebbe fatta concedere al principe d'Orléans in matrimonio quell'arciduchessa Teresa die venne poi a Napoli come Eumenide di odio.

E nel 1821 Luigi XVIII aveva scritte già a Ferdinando due lettere: una, prima della rivoluzione, onde consigliargli a dare la Costituzione, ed una seconda,


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177 - TORNATA DEL 6 DICEMBRE

dopo che la Costituzione fu proclamata, perché la conservasse, la rispettasse. Al Congresso di Lubiana poi il principe di Caraman fu quello che pel primo insistè affinché la Costituzione di Napoli non fosse rovesciata. E se poi rallentò di zelo e le istruzioni del signor De La Perronnays falsò, e fu perché il fatale principe di Metternieh, sapendo che il principe di Caraman aveva una passione infelice, la secondò, e con quel turpe mercato lo sedusse.

Dove è dunque questa permanenza di tradimenti? L'Italia non ha a lamentare che qualche infedeltà per parte della Francia; ma la Francia è donna, e come tutte le belle donne... (Ilarità)

Signori, se la Francia si ostina a restare a Roma, ciò che noi non vogliamo, che può farsi per farla partire? Non v'han che due modi: armi o diplomazia. Non parliamo d'armi. Se potessimo adoperarle, se le avessimo, certo non vi sarebbe stata mai una causa più santa della nostra per muovere una guerra. Guardate che cosa succede in questo momento in Inghilterra. L'Inghilterra è sul punto di dichiarare là guerra all'America. E perché? perché un naviglio inglese fu visitato da un naviglio americano e due commissari americani catturati. Figuratevi ora per noi, di cui la Francia viola il territorio.

Dunque non armi. Diplomazia allora? La diplomazia estera non ha voluto sposare la nostra causa; la sola che avrebbe potuto farsi mediatrice, interporsi tra la Francia e noi, l'Inghilterra ha declinata la missione. Colla diplomazia nostra poi voi sapete a che punto siam ridotti. La nostra diplomazia ha detto la sua ultima parola. Dunque, se non si v? né colle armi, né colla diplomazia; se la Francia resta ad ogni costo, e' non v'ha, o signori, che un mezzo per ridurla a partire, ed è di renderle la stazione di Roma intollerabile, di far si che la Francia si senta a Roma come sopra ad un calvario, come sopra ad una gogna, e ne fugga costernata. (Sensazione) E ciò in che modo?... (Segni d'attenzione)

In che modo? In un solo, ed è quello di cangiare radicalmente politica all'interno, come all'estero.

Certo, signori, non vi aspetterete da me che venga a consigliare una politica all'acqua di zucchero; perciò preferirei di tacere i mezzi, tanto più ch'io non sono consigliere della Corona; non pertanto farò il mio debito, affinché la Camera non creda ch'io parli a caso, per nulla dire, per fare dell'opposizione ad ogni costo.

Il Governo, nella politica da lui seguita finora, ha sconosciuto la sua origine; esso ha sconosciuto il suo stato attuale, quello, vale a dire, d'un Governo essenzialmente, radicalmente rivoluzionario. E che cosa ha fatto? Ha fatto una politica di cloroformio. (Movimento)

Il Governo sperava completare la creazione d'Italia con l'opera della Francia, con i mezzi normali, e l'ha secondata. Quindi, onde piacerle, esso si è gettato accanitamente sopra il partito liberale che gli aveva dato l'Italia; ha cercato di sopprimere quanto l'Italia aveva di vivo, di libero, d'indipendente, ed ha fatto di questa nazione un cadavere. (Segni di disapprovazione)

Tutta la politica messa in atto finora l'è stata una politica d'assideramento.

Or bene, questa politica deve cessare, noi dobbiamo ritornare alla politica che ci consigliava Manin: agitatevi ed agittte! Né vi allarmate che la nostra agitazione spaventi l'Europa. No, la nostra agitazione è essenzialmente conservatrice; perché la vien fatta sotto principi! essenzialmente conservatori, vale a dire il principio delle nazionalità e della indipendenza, e la bandiera di un Re.

La nostra agitazione religiosa non conturberà poi le coscienze cattoliche, perché noi non verremo a proclamare un nuovo dogma, ma ritorneremo alle antiche tradizioni della Chiesa italiana, a quei principii che furono proclamali in questa stessa Torino, nel ix secolo, dall'arcivescovo Claudio, e che venendo giù per sant'Ambrogio, Gioachino da Flora, Dolcino, i due Socino, l'aleario e tutti i martiri della riforma nel xvi secolo fino all'illustre abate Passaglia, hanno costituita la grande e nobile tradizione della Chiesa italiana.

Dunque, o signori, né la nostra agitazione religiosa, né la nostra agitazione politica allarmeranno l'Europa.

Ma se poi l'allarmano, siamo noi forse che ci compiacciamo di questa agitazione? Noi, o signori, noi ereditiamo una situazione che ci fu fatta, e contro cui noi lottiamo. L'agitazione è per noi la vita. La Francia, il papa, l'Austria ci fanno la situazione che l'Europa fece alla Francia nel 1793.

Ebbene, noi saremo a quell'altezza; noi proclameremo: a ogni cittadino un moschetto, per ogni traditore un patibolo!

Fin ora noi abbiamo raccomandato al popolo dello Stato romano di avvicinare i Francesi come fratelli, di riconoscerli come alleati. Si revochi questa santa parola. Che l'Europa vegga il vero, sappia tutto; Vegga che in realtà i Francesi sono a Roma come i Russi a Varsavia. Che i Romani cangino atti, cangino forme; che essi appariscano quali sono, odiando qualunque straniero, quantunque opprime ed oltraggia, sia cardinale, sia papa, sia francese. E protestino, e protestino dovunque ed in tutto e tutti. Però che si guardino bene dal versare una sola goccia di sangue francese. Ma se sangui: italiano, sangue innocente, sangue di inermi, come quello che si versa nelle strade di Varsavia, corra perle strade di Roma, ed allora, oh! le goccie di questo sangue di gente inerme ed innocente, il sangue di quel popolo che reclama i diritti dei suoi fratelli s'imprimeranno sul volto pallido dell'imperatore francese, come uno stigmate di ferro rovente; quelle goccie di sangue apriranno nel suo cuore un tanto abisso di rimorsi e di terrore ch'egli si leverà spaventato nelle notti ed aggirandosi sotto le sale dorate delle Tuileries, griderà come l'Otello di Shakespeare a Desdemona: l'Italia ha ucciso il mio sonno! (Bravo! Bene!)

Signori, io non aggiungo di più.

Ora, o signori, io fo appello alla lealtà del barone Ricasoli: si sente egli la fibra di fare un tanto cangiamento di fronte nella politica? Se il barone Ricasoli crede che con la politica testé proclamata da lui noi possiamo andare a Roma, che la Camera prenda nota delle sue parole. Però io credo che lugubri giorni si preparano per l'Italia seguitando per quella via. Ma questa politica è stata consecrata da questo Parlamento. Lo so, signori; ed è per ciò appunto che questo Parlamento porta seco un peccalo d'origine, è per ciò appunto che io opino che noi dobbiamo ritornare a ritemprarci al contatto dei nostri elettori. (Movimenti)

Io son certo che gli uomini che seggono ora in questa Assemblea saranno di nuovo tutti novellamente qui rimandati, perché in questo Consesso siede oggidì quanto l'Italia ha di più elevato per ingegno, per altezza di sacrifizi, per sapere, per carattere. Ma noi vi riverremmo ritemprati, ribattezzati dal contatto del popolo, da questa pila voltaica di libertà, di generosità, di abnegazione. Ripeto quindi che mi rimetto all'onore del barone Ricasoli, alla coscienza del Parlamento; che essi decidano.

Una sola parola per le provincie napoletane.

Il mio onorevole amico Ferrari, ed il ministro, ed il signor BonCompagni,

178 - CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

hanno detto sempre: governate, colla libertà. Io credo che in questa Assemblea non vi sia alcuno che possa pensar esser io contrario alla libertà. Però vi sono delle circostame in cui la libertà è omicida. Ora ciò avviene in talune provincie del Napoletano. Io domando che lo stato d'assedio sia messo in quelle sole provincie dove il brigantaggio infierisce. Il brigantaggio, signori, è un affare di partita doppia: vi è il brigante della montagna, vi è il brigante della città. Ora il brigante del bosco e della montagna non può vivere un giorno solo, un'ora sola senza il brigante della città. Ebbene, sotto il regime della libertà e nello stato normale voi colpite il brigante della montagna, perché quello non ha misteri, non ha maschera, si mostra, attacca, brucia, uccide, ruba. Dio e gli uomini lo vedono, Dio e gli uomini lo giudicano. Ma il brigante della città, il brigante della città non s può colpire che collo stato d'assedio. (Bravo!)

Quindi io domando che talune di quelle provincie, momentaneamente, finché duri l'invasione del brigantaggio siano poste in istato d'assedio. (Vivi applausi)

La seduta è levata alle ore 6.

Ordine del giorno per la tornata di domani :

Seguito delle interpellanze al Ministero intorno alla questione romana ed alle condizioni delle provincie napolitane.

TORNATA DEL 7 DICEMBRE 1861

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE TECCHIO, VICE-PRESIDENTE

SOMMARIO. Omaggi. = Seguito della discussione sulla quistione romana, e sulla condizione delle provincie meridionali-Risposta del presidente del Consiglio circa un punto non toccato nel suo discorso di ieri - Osservazioni del deputati Mellana circa l'ordine dei discorsi dei ministri nella discussione - Prendono parte all'incidente il presidente, il guardasigilli, ed il deputato Lanza Giovanni - Eccitamento del deputato Ricciardi al Ministero - Riserva del deputati D'Ondes-Reggio circa alcune sue risposte - Spiegazioni del deputato Alfieri - Risposte e ragguagli del ministro per l finanze circa i bilanci dei varii ex-Stati d'Italia - Discorso del deputato Camiti in difesa della politica ministeriale - Discorso del deputato Bertani contro l'operato del Ministero - Incidente intorno ad un'accusa fatta dal deputato Bertani circa la violazione del segreto delle lettere - Risposte per fatti personali dei deputati Minghetti e Pisanelli, al deputato Bertani - Eccitamenti e dichiarazioni del deputato Gallenga, e del ministro pei lavori pubblici - Spiegazioni ed osservazioni dei deputati Crispi, Jacini e Conforti - Voti motivati proposti dai deputati Conforti e Amicarelli ed altri; dai deputati Bon-Compagni, Valle, Alfieri, ed altri; e dal deputato Mancini, per la chiusura delle questioni romana e napoletana - Il ministro pei lavori pubblici insiste per una soluzione della questione mossa dal deputati Bertani - Risposte e proposizione dei deputati Crispi e Bertani - Il presidente del Consiglio insiste pure per la soluzione immediata - Osservazioni del deputato Brofferio - Proposta dei deputato Lanza Giovanni per la nomina di una Giunti - Parlano sul tempo da fissare, il guardasigilli, ed i deputati Crispi, Bixio, Ara, Sella, Chiaves, Valerio, Lanza ed il ministro Cordova - Si approva la nomina di una Giunta, ed è designata dal presidente - Sulla controversia del tempo a stabilirsi, si passa all'ordine del giorno - Sulla proposta del deputato Ricciardi, si delibera per domani, domenica, una sedata pubblica.

La seduta è aperta all'una e un quarto pomeridiane. MASSARI, segretario, da lettura del processo verbale della tornata precedente, ed espone il seguente sunto di petizioni:

7657. Il sindaco, a nome della popolazione di San Savino, circondario e provincia di Cremona, rappresenta la necessità che quel comune abbia un ufficio postale e sia autorizzata la vendita minuta de' generi di privativa.

Piacentini Andronico avvocato, di Rivignano, provincia di Udine, residente in Genova, fatte le campagne del 1859 e 1860, chiede la carica di sostituito avvocato fiscale, o quanto meno quella di giudice istruttore presso l'udito rato di guerra

7639. Il sindaco di Borgo-Vercelli trasmette una deliberazione del Consiglio municipale per ottenere dal Governo l'integrale rimborso dell'ammontare delle requisizioni e dei danni a cui soggiacque quel comune per la guerra del 1859.

7640. Franchi Michele, cancelliere del censo in San Casciano, prefettura di Firenze, domanda che il decreto n° 4789, distributivo delle classi e degli stipendi degli ufficiali del cesso, non venga applicato nelle provincie toscane.

7641. Moretti Luigi, di Pesaro, ricorre per ottenere il pagamento di scudi 210, ammontare di provviste fatte alle truppe pontificie in generi del suo esercizio di pizzicagnolo.

179 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

ATTI DIVERSI.

PRESIDENTE. Sono pervenuti alla Presidenza i seguenti omaggi:

Dal deputato Jadopi, 300 esemplari del discorso pronunciato nell'anniversario della morte di suo figlio, morto nella reazione del 50 settembre 1860.

Dal dottore Emilio SerraGrosselli, da Milano, due copie de' suoi studi per l'attuazione di libera Chiesa in libero Stato; la vera idea della costituzione della Chiesa.

Dal professore cavaliere Giovanni Sannicola, da Napoli, un esemplare di prospetto statistico delle forze agricole, industriali e commerciali del regno d'Italia.

Dal deputato Scoccherà un esemplare del suo discorso pronunciato nell' inaugurazione della cassa di risparmio in Trani; e di poesia iu morte del conte Di Cavour.

Dal signor Grabau Enrico, da Livorno, una copia de' suoi cenni sulla proprietà e legislazione delle miniere; 19 copie d'altro opuscolo sulla stessa materia in risposta ai signori senatori Pòggi e Marzucchi e professori Savi e Meneghini; otto esemplari di un altro suo scritto: Le miniere dell'Elba e l'industria del ferro in Italia.

(Si procede all'appello nominale, il quale, poco stante, viene interrotto. )

La Camera trovandosi ora in numero, si apre la discussione.

SEGUITO DELLA DISCUSSIONE SULLA QUESTIONE ROMANA E SULLE CONDIZIONI DELLE PROVINCIE MERIDIONALI.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno chiama il seguito delle interpellanze al Ministero sulla questione romana e sulle condizioni delle provincie napoletane.

Il presidente del Consiglio ha facoltà di parlare.

MELLANA. Chiedo di parlare sull'ordine della discussione.

PRESIDENTE. Ella parlerà dopo. I ministri hanno sempre diritto di parlare; il signor presidente del Consiglio, avendo chiesta la parola, ba facoltà di parlare.

RICASOLI B. presidente del Consiglio. Un rimprovero mi venne diretto, perché ieri, nell'esposizione delle condizioni del regno, tralasciai di parlare della città di Bologna. I deputati al Parlamento che vengono da quella egregia città ed il Parlamento stesso saranno ben persuasi che ciò non avvenne né per obblio, né per difetto di sollecitudine; mi parve che non fosse il caso di parlarne, inquantoché le condizioni di Bologna, sebbene gravi, rispetto al numero ragguardevole dei reati ordinari che visi commettono, ed anche rispetto all'intensità dei reati stessi, però le sue condizioni politiche sono eccellenti.

Mi è grato oggi che quest'occasione mi si porga per assicurare il Parlamento che il Governo, rispetto a quella città, ba preso immediatamente provvedimenti energici, sempre, ben inteso, nella scala dei provvedimenti amministrativi; imperocché il Governo è convinto che con questi provvedimenti potremo raggiungere la tranquillità di quella città.

Venendo a parlare dei provvedimenti adottati, mi è grato dire che sono stati aumentati di 300 i carabinieri destinati appunto alla tutela di quella città; venne aumentato il numero delle guardie e degli agenti di pubblica sicurezza, come pure quello degli agenti della polizia civile. Gl'impiegati che vi erano dedicati alla pubblica sicurezza sono stati in gran parte mutati, e si andranno mutando completamente.

Quest'operazione non può farsi istantaneamente, imperocché, in luogo di giovare, ne sarebbe pregiudicato il servizio. I migliori agenti di pubblica sicurezza conosciuti sono tutti consacrati al servizio della città di Bologna.

Il Ministero, del pari, si è occupato, d'accordo col municipio, di por mano a tutti quei provvedimenti che possono essere più opportuni per raggiungere l'intento della pubblica sicurezza.

Allorché avvenne quel grave fatto dell'uccisione dei due ispettori, fu quasi verso la convocazione del Parlamento. Io approfittai di quell'occasione, ed invitai l'onorevole Minghetti a confortarmi de' suoi consigli. Egli fu cortesissimo, e lavorò meco allo studio di quanto potesse meglio giovare all'intento, e mi propose un importante progetto di pubblica sicurezza alla maniera inglese, progetto che si sta attualmente studiando.

Rispetto poi alle leggi di pubblica sicurezza, il Governo ba confidenza che possano bastare all'uopo, purché se ne raggiunga la pronta esecuzione.

Abbiamo poi un fatto che consolerà tutti; ed è che i delitti i quali si sono commessi nella città di Bologna durante quest'anno sono in un numero sensibilmente inferiore a quelli che avvennero nell'anno decorso, locchè torna anche a lode dell'amministrazione che precedette l'attuale.

PRESIDENTE. Il deputato Mellana ha facoltà di parlare per una mozione d'ordine.

MELLANA. L'onorevole nostro presidente saggiamente ha stabilito che si succedessero i discorsi contro, sovra e in prò del Ministero in questi dibattimenti. Io non ho nulla a ridire su questa savia determinazione; ma vi è un'eccezione a fare, ed è questa che, in grazia del nostro regolamento, i ministri hanno diritto di avere la parola in qualunque punto la discussione si trovi.

Io non respingo nemmeno questo principio giusto, stabilito dal nostro regolamento; ma una volta che i ministri hanno fatto un discorso, dovrebbe calcolarsi direttamente fra i prò; se diversamente si facesse, potrebbe venirne il caso che nove ministri parlando solo due volte, il che farebbe già diciotto discorsi, e calcolando altrettanto, cioè a diciotto i discorsi dei deputati in favore, non vi sarebbe più proporzione e giustizia quanto ai discorsi degli oppositori.

Diffatti, abbiamo avuto ieri un diluvio di discorsi dei ministri; essi non hanno cessato che col cessare della luce, quando la tensione della mente non era più propensa ad ascoltare, e non ci volle che la potenza d'ingegno dell'onorevole Petruccelli per richiamare l'attenzione della Camera sul discorso da lui pronunziato. Io domando adunque all'onorevole nostro presidente se nel progresso di questa discussione, quando i signori ministri prenderanno la parola, dovranno i loro discorsi essere calcolati fra i prò. Ciò essendo, dovrà cessar di parlare uno dei loro difensori; questo è fuori di dubbio; altrimenti ognuno comprende di leggieri che non vi potrebbe più essere luogo per gli oratori di questa parte della Camera. Alfieri. Domando la parola per un fatto personale.

PRESIDENTE. Prima è meglio discutere questo incidente.

Siccome il deputato Mellana mi ha mossa in proposito una interpellazione, debbo dichiarare che l'ordine delle iscrizioni con questa vicenda: contro, in merito, in favore, è stabilito dal regolamento della Camera.

180 - CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1801

Quanto poi al diritto dei ministri di parlare quando il vogliano ad ogni punto della discussione, questo diritto è sancito dall'articolo 66 dello Statuto il quale è cosi concepito: «I ministri hanno sempre l'ingresso nell'una e nell'altra Camera, e debbono essere sentiti sempre che lo richieggono.»

Siccome il deputato Mellana avverte che parecchi ministri han parlalo, com'era naturale, in proprio favore, così qualora la Camera credesse che, per questo motivo, si debba sentire più d'uno degli oratori inscritti contro, essa non ha che ad esprimere il voto suo, ed il presidente ottempererà alle sue deliberazioni.

Il deputato D'Ondes vuole la parola sopra quest'incidente?

D'ONDES REGGIO. Desidero parlare per un altro incidente.

PRESIDENTE. Discutiamone uno alla volta.

Se nessuno domanda di parlare sull'incidente proposto dal deputato Mellana, interrogherò la Camera...

RICCIARDI. Chiedo di parlare sull'ordine della discussione.

PRESIDENTE. Anche l'incidente sollevato dal deputato Mellana è relativo all'ordine della discussione. Il deputato Ricciardi non intende parlare sopra quell'incidente! (Segni di diniego del deputato Ricciardi) Porrò ai voti la proposta dell'onorevole Mellana.

MINGHETTI. Desidererei conoscere da quelli che da più lungo tempo fanno parte del Parlamento quali sieno i precedenti a questo riguardo

PRESIDENTE. Non è mai stata fatta, per quanto io ricordi, alcuna questione in proposito, né quindi venne mai il caso di deliberare sopra una proposta eguale o analoga a quella del deputato Mellana. I ministri hanno parlalo sempre quando l'hanno richiesto, senza clic perciò siasi alterato l'ordine degli oratori inscritti.

MINGHETTI. ministro di grazia e giustizia. Chieggo di parlare.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il signor ministro di grazia e giustizia.

Biglietti, ministro di grazia e giustizia. Farò una semplice avvertenza.

Il desiderio dell'onorevole Mellana non potrebbe venire esaudito, senza che la maggioranza della Camera venisse privata del diritto di esporre le proprie idee.

Egli vuole che, quando un ministro parla, si calcoli il suo discorso nel numero dei discorsi in favore. Ma, secondo questo sistema, perché i deputati della maggioranza avessero mezzo di parlare, bisognerebbe che i deputati dell'opposizione parlassero laute volte quanto i ministri, ed inoltre altrettante volle quante coloro che vogliono appoggiare il Ministero.

Vede dunque la Camera che questo sistema, oltreché porterebbe forzatamente troppo in lungo la discussione, porterebbe ancora alla conseguenza che coloro, i quali vogliono parlare in favore del Ministero, non potrebbero sempre aver la parola.

È dunque opportuno di attenersi a quel sistema che fu sempre fin qui mantenuto, che, cioè, i ministri parlino quando credano conveniente di dare delle spiegazioni, senza che però i loro discorsi siano computati nel numero dei discorsi in favore.

MELLANA. Domando di fare ancora un'osservazione.

L'onorevole guardasigilli dice che noi torremmo alla maggioranza la facoltà di esporre i suoi pensieri.

Non è vero ciò. La maggioranza, appunto perché maggioranza, può far continuare la discussione quanto essa crede, e non è certo noi che vorremmo,

né potremmo impedire ad essa, quando alcuno de' suoi membri (e di ciò sarà giudice la stessa maggioranza) non creda che il Ministero si sia sufficientemente difeso, di aggiungere una nuova difesa a quella da esso fatta, e così avranno sempre il diritto di parlare. Ma se si continuasse in questo sistema, che i ministri parlassero a loro difesa e non fossero calcolati nel numero degli oratori iscritti a difesa, con nove ministri che potrebbero parlare quando vorrebbero, domando io che cosa resterebbe all'opposizione.

Infatti, o signori, noi ci avviciniamo al fine di questa discussione; i ministri hanno aspettato a parlare tutti in una volta, e ciò contro il sistema parlamentare sinora seguito.

L'onorevole Minghetti saprà che fu sempre costante principio che i ministri parlassero interpolatamente e volta per volta. (No! No! Sì! Sì!)

LANZA. Domando la parola.

MELLANA. Noi ci troviamo a fronte di tutta la difesa ministeriale e ridotti agli ultimi momenti di questa discussione; e se ancora dopo la difesa di tutti i ministri si seguisse questo sistema, potrebbe venire il caso che si chiudesse la discussione senza che si potesse rispondere agli onorevoli signori ministri.

LANZA G. Io debbo dichiarare, per quanto la memoria me lo suggerisce, che in tutte le altre Sessioni del Parlamento subalpino si è sempre lasciato ai ministri la facoltà di prendere la parola quando credevano, e che nessuno mai sorse a fare osservazioni di tal natura, le quali tenderebbero a violare i diritti che lo Statuto ed il regolamento stabiliscono riguardo alle nostre discussioni.

Nel caso particolare poi non si può dire che ognuno dei ministri abbia pronunciato un discorso relativo alla questione che si agita, ma si può dire che fu un discorso solo, nel quale più ministri presero parte per quanto riguarda il proprio dicastero.

Ogni deputato ha il diritto in un sol discorso di fare appunti a ciascun ministro, e quindi a tutto il Ministero. Questo invece, trattandosi di questioni circostanziale, ha credulo di lasciare ad ognuno dei suoi membri la facoltà di esporre partitamente le ragioni che riguardavano la propria amministrazione.

In conseguenza io dico che, anche considerata la quistione dal punto di vista dal quale la volle considerare l'onorevole Mellana, si può asserire che non si sono pronunciali Unii discorsi distinti sopra l'intera quistione che si agita da ciascun ministro, ma ognuno non fece altro che esporre la parte che riflette la propria amministrazione, mentre i deputati hanno il diritto in un sol discorso di criticare o di difendere gli atti di tutti i ministri, per conseguenza dell'intero Ministero, così mi pare che le parti della difesa, come dell'attacco, furono affatto uguali.

Quindi io prego la Camera a dichiarare che si lasci ai ministri la piena libertà di prendere la parola quando essi lo credano. Fin qui non è accaduto che i ministri ne abbiano abusato; non parlo soltanto di questo Ministero, ina di tutti i Ministeri precedenti.

Mi pare perciò allatto superflua la proposta dell'onorevole Mellana. Se la si volesse volare, proporrei l'ordine del giorno.

PRESIDENTE. Mi rincresce, ma io non posso mettere ai voti la proposta del deputato Lanza, se, cioè, la Camera intenda di lasciare ai ministri la facoltà di parlare quando essi lo credano, lo non posso mettere né in discussione, né in deliberazione ciò che è stabilito dallo Statuto.

181 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

Cinque dei signori ministri hanno parlato. Oggi il signor presidente del Consiglio ha domandato di parlare di nuovo, e gli fu accordata, come era di diritto, la parola. Se i suoi colleghi vogliono parlare, ne hanno il diritto sempre. Ciò, lo ripeto, è scritto nello Statuto; né a niuno è lecito d'invitare la Camera a confermare o disdire un articolo dello Statolo.

Qui si tratta solamente di una materia, di regolamento. È di fatto, e lo ha pure dichiarato il deputato Lanza, che nelle precedenti Legislature non vi ebbe mai questione se, attesa la maggiore o minor parte che i ministri prendevano alle discussioni, si dovesse mutare la vicenda degli oratori inscritti.

Ora è sorto il deputato Mellana a chiedere che, avendo cinque ministri parlato in loro favore, si debba concedere la parola ad altrettanti deputati che parlino iu senso contrario. Questa proposta riguarda l'ordine della discussione; essa non viola per niente lo Statuto; è evidente che la si debbe porre a partito.

MELLANA. Io non ho inteso di dire che cinque deputati debbano rispondere ai cinque ministri che hanno parlato; ho detto che i cinque discorsi dei ministri sieno almeno considerali come un discorso. Ora tocca a parlare all'onorevole signor Carutti...

PRESIDENTE. (Interrompendo) Perdoni, l'onorevole Mellana; dopo che i signori ministri hanno parlalo per loro medesimi, ha parlato un deputato contro, e questi è l'onorevole Petruccelli.

MELLANA. Non era iscritto contro, era sopra, (ilarità prolungata)

PRESIDENTE. Il signor Petruccelli era inscritto in merito; la Camera sa quali siano state le sue conclusioni.

MELLANA. Io credeva che fosse cosa facilmente ammessibile dalla maggioranza quello che dicevo, e che tendeva a che non fosse esautorata la minoranza; quindi io abbandono ogni proposta, e credo che la Camera, prima di venire alla chiusura di questa discussione, vorrà che anche l'opposizione possa farsi sentire.

Molte voci. Si! Sì!

PRESIDENTE. Il deputato Mellana ha ritirata la sua proposta. L'onorevole Lanza ha facoltà di parlare.

LANZA GIOVANNI. Mi rincresce che l'onorevole presidente non abbia comprese le mie parole. Io non ho inteso dire che la Camera debba deliberare che i ministri possano sempre rendere la parola quando desiderano, giacché so benissimo che questo è già stabilito nello Statolo, e che lo Statuto non può essere posto in discussione.

lo ho dello che sperava che si sarebbe continuato come per il passato, vale a dire che i ministri avrebbero sempre il diritto di prendere la parola quando lo stimino, e che si sarebbe dovuto respingere la proposta dell'onorevole deputato Mellana, la quale tendeva ad intervenire quest'ordine. Io soggiungo poi che nel caso che il deputato Mellana volesse mantenere la sua proposta, avrei chiesto che si passasse all'ordine del giorno.

PRESIDENTE. Il deputato Mellana ha già ritirata la sua proposta.

La parola è al deputato Ricciardi sull'ordine della discussione.

RICCIARDI. Affinché le interpellanze non riescano a vana mostra d'ingegno oratorio è mestieri che i signori ministri rispondano alle domande degl'interpellanti.

Ora io credo che abbiano lascialo senza risposta molte dimande importanti, per esempio, il mio onorevole amico Brofferio ha parlato dell'invio in Sardegna del giovane Pederzolli, ma non ebbe risposta.

Lo stesso oratore ha parlalo delle detenzioni arbitrarie di Napoli, e specialmente di quella di selle mesi del duca di Caianello. Nessuno ha risposto a questa importante dimanda; al quale proposito dirò che nelle sole carceri di Basilicata un mese fa esistevano 1009 ditenuti, a giudicare i quali non vi erano che quattro magistrati.

Io ho avuto l'onore di fare le seguenti dimande all'onorevole ministro della guerra: in primo luogo sulle condizioni dei 3684 ufficiali dell'ex-esercito delle Due Sicilie, e segnatamente sulla capitolazione di Gaeta, che alcuni fra quegli ufficiali pretendono violata a loro riguardo, mentre per gli uffiziali bavaresi e svizzeri fu mantenuta assai fedelmente.

Pregai l'onorevole ministro della guerra di rammentarsi delle reliquie del 1821, dei vecchi ufficiali di quell'epoca, i quali si lagnano di essere stati obliati; ma insistetti principalmente sulle finanze, perché nella questione finanziaria è riposta, secondo me, in gran parte la quistione italiana.

Per conseguenza io dimando che prima d'ogni cosa l'onorevole ministro delle finanze faccia alla Camera quell'esposizione delle finanze che ha promesso, ed insisto specialmente, affinché egli risponda in ispecie al capo gravissimo delle spese maggiori, poiché io veggo le finanze italiane andar difilato alla bancarotta... (Oli! ohi a destra)

PRESIDENTE. Avverto l'onorevole oratore di non entrare nel merito, e di tenersi strettamente sull'ordine della discussione.

RICCIARDI. Appunto in dico che, se i ministri vogliono da noi un voto coscienzioso, dobbiamo conoscere per bene le loro intenzioni, e avere risposte precise alle dimande che abbiam lor fatte.

PRESIDENTE. Il deputato D'Ondes-Reggio ha la parola anch'egli sull'ordine della discussione.

D'ONDES-REGGIO. La discussione è già bastantemente lunga, e ancora si prolungherà: io non aveva l'intenzione di incomodare la Camera col venire a fare un discorso dopo tanti oratori, ognuno di diverse opinioni; e, sebbene io dovessi sommetterle qualche cosa secondo la mia speciale idea, vi avea rinunziato. Ma il presidente del Consiglio ha toccalo un argomento tale che io non posso affatto tacere, cioè l'abolizione della luogotenenza in Sicilia. Questo non è affare di poco momento, e mi permetterà l'onorevole presidente del Consiglio di dire che forse non vi era bisogno di mettere anche quest'altra questione fra le tante gravissime che già si agitano. Ma ora il fatto è fallo; quindi io prego la Camera che prima di chiudere la discussione mi accordi la parola per aggiungere qualche cosa. Dimostrerò come questo fatto importantissimo ha ancora del nesso con tutto il reste, del quali; noi ci occupiamo; ma specialmente dimostrerò ciò che è più importante in questa materia, cioè (poiché mi trovo d'aver la parola, spero che la Camera mi concederà d'accennarlo) quello che può toccare a un privilegio grandissimo della Sicilia, voglio dire la cosi della Levuzia apostolica o Monarchia.

lo naturalmente parlando di questo, parlerò anche di qualche altra cosa. (Si ride)

Questa è la preghiera che io voleva fare alla Camera

PRESIDENTE. Ella fa preghiera alla Camera che le conceda di parlare prima della chiusura della discussione.

D'ONDES-REGGIO. Io domando che non si chiuda la discussione prima di essere sentito.

PRESIDENTE. Ma nessuno ha chiesto la chiusura della discussione.

182 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

La parola è al deputato Alfieri per un fatto personale.

Alfieri. Ieri l'onorevole presidente del Consiglio, facendomi l'onore di rispondere particolarmente alle osservazioni che io aveva sottoposte alla Camera, mi incolpò di una opinione che non crederei avrebbe dovuto essere espressa in questo Parlamento.

Io ho bensì detto che riteneva che ai primi tempi dell'amministrazione sua l'odierno Gabinetto avesse negletto di troppo la materia dell'ordinamento interno; ma avendo detto che io approvava il nuovo indirizzo che oramai pare abbia seguito il Ministero, il quale indirizzo era di occuparsi principalmente dell'ordinamento interno, io mi sono bene guardato dal dire che questo ordinamento interno dovesse far trascurare la questione romana. Che anzi ho protestato che per me la questione di andare a Roma non poteva più essere discussa in questa Camera.

Il Parlamento, l'Italia si sono pronunciati; non vi ha alcun Ministero che possa legalmente abbandonare un sol giorno la questione di Roma; perciò, se io approvo l'indirizzo attuale del Governo, se io desidero che perduri, egli è perché io considero l'ordinamento interno come la miglior via di giungere più presto a Roma.

In secondo luogo, io prego la Camera di permettermi che (approfittando di quanto disse l'onorevolissimo signor presidente del Consiglio, ch'egli desiderava, nel caso si fosse dimenticato di rispondere ad alcuna interpellanza, questa gli fosse ricordata) io rammenti che, rivolgendomi a lui ed al suo onorevole collega il ministro della guerra, loro chiesi se il Governo poteva dare qualche assicurazione che gl'inconvenienti ch'erano risultati per la leva nelle provincie dell'Umbria e delle Marche non fossero per riprodursi in Sicilia ed in Napoli.

A questa interpellanza sulla leva il presidente del Consiglio ed il ministro della guerra non hanno risposto; la Camera vorrà essere informata a questo riguardo, giacché tutti sanno come gl'inconvenienti che risultarono furono principalmente dovuti a che non si era provveduto, secondo il desiderio manifestato da molti amministratori e da molti cittadini, che i soldati, una volta chiamati alla leva, non ritornassero più per parecchi mesi alle loro case. Poiché, essendo tornati alle loro case, fu quando successivamente furono chiamati sotto le armi ch'essi si resero refrattari, mentre al momento di estrarre il numero erano accorsi in gran numero e festosi alle località dove quest'estrazione si operava.

Io credo che il Ministero stesso non avrà rincrescimento che io abbia ricordala quest'interpellanza mia, giacché è già stata accennala in un altro recinto, ed ebbe a lodarsi della occasione che gli si presentò di farvi risposta.

PRESIDENTE. 11 ministro delle finanze ha la parola.

BASTOGI, ministro per le finanze. Nella prossima settimana io spero che sarò in grado di sciogliere la promessa che feci alla Camera, quella, cioè, di esporre in quali condizioni si trovino le finanze del regno, e con quali provvedimenti e con quali principii abbia inteso di procedere il Ministero della finanza.

Intanto mi sembra opportuno, prima che si chiuda questa importante discussione, che io rettifichi alcuni fatti citati da un onorevole deputato, la cui parola è di grande autorità fra noi ed in Europa. Spero che, per l'amore stesso ch'egli porta alle cose italiane ed alla prosperità del regno, riesciranno queste rettificazioni gradite a lui, come riesciranno pur gradite al Parlamento. Egli osservò come i bilanci delle varie Provincie al momento della riunione si pareggiassero.

Una voce. Quasi.

BASTOGI, ministro per le finanze. O quasi si pareggiassero. Egli diceva che dall'unione delle varie provincie in Od solo Stato dovessero derivare dei grandi vantaggi ed una diminuzione di spese. Soggiungeva quindi come, non essendo ciò avvenuto, vi dovesse essere un vizio nell'amministrazione.

Mi permetterò di osservare che i bilanci dei varii Stati non si pareggiavano. Il bilancio del Piemonte pel 1860 (prima che si rompesse la guerra coll'Austria), che fu presentato dall'onorevole Lanza, allora ministro delle finanze, dimostrava un disavanzo nelle spese ordinarie e straordinarie di 8, 461, 000 lire, più 3, 221, 000 circa per interessi per l'imprestito di 50 milioni, con legge del 21 febbraio 1859: in tutto dodici milioni circa di deficienza. La Lombardia presentava un avanzo di 30 milioni. Essa provvedeva alle sue spese, tranne a quelle della guerra, della marina e ad altre dette spese comuni. Conviene però non dimenticare che per rivendicare la Lombardia, quella nobilissima terra all'Italia, occorse dare all'Austria 123 milioni nominali, e 60 milioni pure nominali alla Francia, e cento milioni effettivi dovemmo contrarre d'imprestito per le spese di quella guerra. Cosicché questi imprestiti portarono un aggravio al bilancio di oltre 15 milioni annui. Se oggi si tiene a calcolo la quota delle spese per la guerra, per la marina, ecc. , alle quali deve concorrere la Lombardia, si vede come il bilancio della Lombardia stessa, anziché presentare un avanzo, presenta un disavanzo dei suddetti 15 milioni almeno. Addizionate queste due somme, noi abbiamo già un disavanzo di oltre 26 milioni pel bilancio del Piemonte e della Lombardia nell'alto della loro unione.

Passiamo all'Italia centrale.

Il bilancio di questa parte d'Italia presentava quaranta milioni di sopravanzo. Da questo devono essere detratte lire 13, 600, 000 circa per prezzo d'imprestito, non ancora in quel tempo incassato, 15 milioni circa per beni demaniali, calcolati nel bilancio nell'ipotesi che si vendessero, e più una diminuzione (e questa non era cosa facile a prevedere, anzi è, sorprendente che gli uomini che per la prima volta facevano il bilancio dell'Emilia incorressero in cosi piccolo errore), una diminuzione, dico, di L. 2, 500, 000 negli incassi delle entrate ordinarie; tutto sommato, il bilancio dell'Emilia presenterebbe un avanzo di 9 milioni. Ma giova rammentare che quella Commissione provvisoria della guerra di quelle Provincie previde per le sole spese ordinarie della guerra per l'Emilia 25 milioni, cosicché nell'alto dell'unione anche quel bilancio dell'Emilia entrava nel bilancio generale dello Stato con un disavanzo di circa 16 milioni.

Dirò ora della Toscana due sole parole.

Il suo bilancio, per gli effetti della rivoluzione e per altre cause, presentava un disavanzo di lire 16, 800, 000.

In questo modo noi abbiamo un disavanzo totale di oltre 59 milioni.

Andiamo a Napoli.

Il Governo borbonico nel preparare il suo bilancio per il 1860 prevedeva già un disavanzo di 25 milioni. Alla fine del mese di giugno si era già verificato un disavanzo di oltre sette milioni e mezzo di ducati; cosi alla metà dell'anno il deficit del bilancio napolitano oltrepassava i 30 milioni di lire; e per provvedere a questo disavanzo, e all'altro maggiore che si prevedeva per l'esercizio dell'anno, fu contratto un imprestito, prima di 150, 000 ducati di rendita, poi di 200, 000. Ora, se questo disavanzo non fosse stato aumentato, sarebbe stato pur sempre di 26, 500, 000 lire. Noti dunque la Camera che lo sbilancio ascendeva, al momento in cui le varie Provincie del regno si riunivano, a 87 milioni.

TORNATA DEL 7 DICEMBRE

In seguito abbiamo abolito, e giustamente abolito, in Lombardia la sopratassa del 33 per cento, il che porta una differenza in meno da sei a sette milioni. Mi limito ora a queste semplici citazioni, riserbandomi di produrre poi a suo tempo più ampi svolgimenti su questo argomento.

Abbiamo ceduto alla città di Napoli il dazio di consumo ed abbiamo ribassato H prezzo del sale per le Provincie napolitane, e l'una e l'altra cosa portano una diminuzione nelle entrate di otto milioni.

E stato abolito in Sicilia il dazio sul macinato, e con esso furono pure soppresse alcune tasse speciali per la somma di circa 18 milioni.

Ora, cumulate le somme per l'abolizione e le diminuzioni di alcune imposte, e tenuto a calcolo la deficienza che presentavano I vari bilanci, si vede che all'atto dell'unione delle varie provincie, o poco dopo, vi era un disavanzo negli speciali loro bilanci di 120 milioni.

Non è dunque vero che i bilanci pareggiassero.

Io dico questo, perché credo torni a conforto di tutto il Parlamento, allorquando si vede uno sbilancio di 300 milioni fra spese ordinarie e straordinarie nel bilancio generale dello Stato, il poter assicurare che non tutto questo sbilancio è un effetto dell'amministrazione presente, o una conseguenza prodotta dalle ultime nostre gloriose vicende.

Osservava poi l'onorevole Rattazzi che non abbiamo conseguiti tutti i vantaggi dall'unione, che pur si debbono conseguire. A dir vero, io convengo nella sua opinione, perché, in tesi generale, l'unione deve inevitabilmente arrecare molti vantaggi; ma, se ciò è vero in tesi generale, conviene prendere anche ad esame le condizioni nelle quali noi siamo.

Né io ho bisogno di dire il perché non abbiamo ancora diminuite molte delle nostre spese.

I passati Governi non avevano bisogno di avere armate formidabili per difendersi, perché avevano, quasi direi, un'armata nelle armate nemiche (Braco!); ma oggi questo non è più; noi vogliamo un'armata nostra, un'armata nazionale che difenda i nostri diritti e respinga qualunque aggressione, quindi abbiamo necessità assoluta di maggiori spese che non i passati Governi.

Ed io qui non ho bisogno di dilungarmi su questo argomento, perché, non solo avete ascoltata la lucida esposizione colla quale il ministro per la guerra ci palesava quali apparecchi si fanno per costituirci in nazione forte, perché nessun insulto venga mai ad offendere l'Italia, perché ci troviamo preparati a qualunque guerra potesse sopravvenire; ma avete altresì sentito dal ministro per la marina quale copioso naviglio egli apparecchi a questa bella Italia. Voi avete già ascoltato a quali imprese, direi quasi, ardimentose, ma pur sempre utili, si accinga il ministro dei lavori pubblici. Molte di queste spese già erano inserite nel bilancio dell'anno passato, molte altre Io saranno nel bilancio prossimo; se queste spese si accrescono, non nego però che in massima generale noi dobbiamo assottigliarne molte altre; e queste saranno certo diminuite, come dimostrerò nell'esposizione che sarò per farvi della condizione delle nostre finanze.

Il ministro per le finanze, mirando sempre all'unificazione, perché l'unità porta la semplicità, e perché la semplicità porta il risparmio di spesa, non ha sottoposto all'approvazione del Parlamento alcun progetto di legge,

il quale non abbia anche in mira il risparmio nelle spese. Lo dimostrerò a suo tempo. Parmi intanto avervi dimostrato che i fatti accennati dall'onorevole Rattazzi non sono esatti, ed io credo che egli stesso sarà lieto se mi sono fatto un dovere di dimostrare che il peso che oggi gravita sulle finanze italiane non è l'effetto del nuovo ordinamento di questo regno, ma è un'eredità che dovemmo accettare senza benefizio d'inventario.

Ho accennato come dall'unione debbano derivare molti vantaggi, ma come non tutti si possano conseguire immediatamente. Allorquando io mi accingerò a minutamente esporre tutto ciò che ha fatto il Governo, con quali principii ha proceduto, a quale scopo miri, darò allora le più minute notizie intorno all'amministrazione delle finanze. Oggi mi soffermo soltanto a queste poche osservazioni da me fatte, perché una parola autorevole come quella dell'onorevole Rattazzi non rechi il menomo danno al credito dell'Italia, poiché in ogni tempo, e specialmente nei tempi presenti, noi non dobbiamo dimenticare che il credito sarà una delle grandi leve per portare all'altezza a cui a buon diritto aspira il regno d'Italia. (Bravo! Bene!)

PRESIDENTE. Il deputato Carutti ha facoltà di parlare.

CARUTTI. Al punto a cui siamo giunti, sento il bisogno di ricordare a me stesso quale sia l'oggetto della presente discussione, per circoscriverla entro i più stretti limiti.

Noi stiamo facendo una grande inchiesta sopra ciò che venne operato dal Governo dal giorno in cui cessarono le nostre adunanze insino al giorno d'oggi. Quest'inchiesta spogliata delle sue parti accessorie e minori, trovasi ridotta a due capi essenziali: la questione romana e la questione napoletana. Ma la nostra indagine non raggiungerebbe pienamente il suo fine, se badasse semplicemente al passato e non avesse anche l'occhio all'avvenire. Ciò non è mai inutile; ma ciò è diventato necessario oggi specialmente dopo il discorso che ha chiuso la tornata di ieri. Dopo quel discorso cosi netto, cosi chiaro, cosi preciso, è necessario che dai banchi della maggioranza sorga una voce, la quale colla stessa chiarezza, colla stessa precisione dichiari il suo programma e dica con quali idee si vuol procedere da chi sostiene il Governo. Io quindi toccherò alcune cose intorno alla questione di Roma; sarò brevissimo in quella di Napoli, ed insisterò con qualche maggiore larghezza sopra la questione politica, sopra ciò che si dee da noi volere, sopra ciò che si dee fare da noi. Le mie parole saranno senza ambagi, senza restrizioni, senza reticenze. Ho sempre conceduto rispettosa attenzione ai discorsi di coloro le cui idee sono più aliene dalle mie; spero perciò che quegli stessi signori mi saranno cortesi della loro tolleranza, imperocché, se le cose che sono per dire non debbono ottenere il loro suffragio, non torneranno per altro ad offesa di alcuno, e daranno a di vedere che sono mosso a parlare da un profondo amore dell'unità italiana, di quell'unità che è nell'animo tanto degli onorevoli colleghi che seggono da quel lato, quanto di me che seggo e sederò sugli estremi lembi di questa estrema destra, finché almeno sarà popolata dagli attuali suoi abitatori. (A sinistra: Bene!)

L'inchiesta sopra la questione romana compendiasi nel ricercare se il Ministero abbia osservate le prescrizioni della Camera, prescrizioni formolate nell'ordine del giorno del 517 di marzo.

Quell'ordine del giorno, voi lo rammentate, recava che il Governo del Re dovesse promuovere la soluzione della questione romana d'accordo colla Francia; recava che la dovesse promuovere non colla violenza, ma coll'assicurare al pontefice vera indipendenza, alla Chiesa intiera libertà;


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184 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

quella libertà che non ha forse riscontro negli altri Stati d'Europa, e il cui modello dobbiamo rintracciarlo negli Stati Uniti di America.

Ciò aveva ordinato la Camera. Aveva fatto bene, aveva fatto meno benet Las ciò per ora cotesta quistione in disparte; mi basta stabilire il fatto e cavarne la conseguenza che, se il Ministero si fosse appigliato ad un altro partito, se avesse eletta un'altra via, egli avrebbe impugnata la volontà della Camera, egli avrebbe contraffatto agli ordini del Parlamento, egli insomma avrebbe peccato come Governo parlamentare. Né qui voglio tralasciar di dire che quell'ordine del giorno non fu mica un voto di semplice maggioranza, ma, come voi tutti ricordate, fu un voto di tutte le parti della Camera, fu voto concorde della maggioranza e dell'opposizione. Egli è per ciò che io contesto a quei banchi che mi stanno di fronte il diritto di venirci dicendo: se voi ci aveste credulo, non ci troveremmo oggi nelle presenti delusioni.

No, o signori, questo diritto voi non l'avete; voi non potete usurpare la parte lagrimabile di Cassandra:

Verace sempre e non creduta mai;

no, o signori, perché voi avete votato con noi.

RICCIARDI. (Interrompendo) Noi abbiamo votato contro.

PRESIDENTE. Non è permesso d'interrompere l'oratore.

CARUTTI. Può essere che l'onorevole deputato che mi ha interrotto abbia votato contro la maggioranza, ma è certissimo che allora il voto fu quasi unanime; cosi risulta dalle deliberazioni della Camera.

Voi dunque non avete il diritto di affermare che avete preveduto; voi potete bensì confessare che vi siete ingannati con noi, ma che ora vi siete ricreduti. Voi avete questo diritto, e non più; perché, se avete votato senza assoluto, pieno convincimento, se avete votato con restrizioni mentali...

Voci a sinistra. No! no!

CARUTTI. Si può dare un voto politico con restrizioni mentali senza mancare in nulla alla schiettezza, all'onestà. Ciò accade ogni giorno, ciò può accadere a tutti.

Io dico adunque che, se ciò fosse stato, voi avreste avuto torto come partito politico, in quanto che un partito politico debba mantenere alta e spiegata la propria bandiera, e non abbassarla mai. Essere e non parere, parere e non essere è cosa da lasciarsi a cbi è incerto, a chi dubita di sé, a quei partiti mezzani, a cui accennava il Machiavelli parlando dei provvedimenti di Stato, a quei partiti mezzani i quali riescono perniciosissimi quando prendono vita nel sistema costituzionale; partili che, se si appigliano alle minoranze, le annullano; se durano nello maggioranze, le snervano dapprima, le scindono dappoi.

Io dunque dico e sostengo che voi, avendo votato con noi in quel giorno, voi dovete confessare che vi siete ingannati.

Voci a sinistra. No! no!

CARUTTI. Risponderanno. Il Ministero ci comunicò i documenti che trasmise al Gabinetto francese; egli ci spiegò per quali ragioni non siano giunti al loro indirizzo. Quei documenti io non voglio chiamarli a disamina, né quanto alla forma, né quanto ai particolari. Non quanto alla forma, imperocché questa, in materia di tanta importanza, scompare dinanzi allo sguardo dell'uomo politico. Non quanto ai particolari, in quanto che essi ci trarrebbero in un campo troppo vasto, ci condurrebbero in disputazioni le quali non avrebbero altro limite fuorché quello della pazienza.

Dirò bensì senza esitanza che quei capitoli contengono non solamente i concetti espressi nella memorabile tornata del marzo, ma racchiudono sostanzialmente i veri principi! che dovranno un giorno informare l'applicazione del sistema della libera Chiesa nel libero stato, se pure è vero che questa teoria da voi raccomandata, da voi proclamata, debba un giorno essere praticala in Italia.

Quindi è che s'ingannano a partito coloro i quali lasciarono intendere che il Governo attribuisse leggera importanza all'opera sua, perché, non appena incontrò qualche obbiezione presso il Gabinetto francese, più non mosse alcun passo, né fece altra istanza, e venne incontanente a presentarci que' suoi documenti quasi carte da riporsi negli archivi, quasi monumenti da essere consegnati alla storia patria.

Ciò non è, o signori, ciò non poteva essere. Perocché il Governo ben sapeva che la composizione della Santa Sede coll'Italia non è impresa di forza, ma di ragione. Il Governo non ignorava che sarebbe stata ingenuità soverchia lo sperare di vincere la resistenza e i pregiudizi della Curia romana, nel giro di poche settimane, con note diplomatiche e con protocolli. Ma il Governo era altresì convinto che colla ragione e colla lealtà dei procedimenti si giungerà a persuadere gli intelletti e ad acquetare le coscienze de' cattolici. E per me credo che, quando gl'intelletti fossero convinti e le coscienze acquetate, la quistione romana sarebbe risolta, giacché la convinzione della cattolicità batterebbe alle porte di Roma, e Roma sarebbe costretta a piegare dinanzi all'opinione della cattolicità.

Niun mezzo migliore impertanto. a mio avviso, per vincere questa battaglia, che, lo ripeterò anch'io, è forse la più grande del secolo decimonono; niun mezzo più opportuno di quello della pubblicità.

Il Ministero non ha fatto, né poteva, né voleva fare un atto puramente diplomatico; il Ministero ha voluto fare un grande alto politico, e voi dovete giudicarlo sotto questo aspetto.

Senonché gli avversari ci tagliano il discorso dicendo: voi non siete riuscili; avrete obbedito al voto del 27 di marzo, se cosi vi piace; avrete fatto come avete saputo meglio, ma non siete riusciti; dunque è il sistema che pecca, il vizio sta nell'indirizzo politico, nell'indirizzo dato, nell'indirizzo seguito; è l'indirizzo che si dee mutare. Questa agli occhi miei è la sola questione importante, questa è la sola questione di cui ci dobbiamo occupare, e che dobbiamo risolvere.

Dobbiamo rinunciare a Roma? Dobbiamo andarci contro la Francia? Dobbiamo andarci malgrado la Francia, cioè a costo dell'alleanza francese?

Ognuno di questi tre inviameli!i cambierebbe radicalmente l'attuale indirizzo politico. Esaminiamoli di volo.

Quando dico rinunziare a Roma, non intendo parlare di una rinuncia assoluta, perché in quest'Assemblea nessuno introdurrebbe una tale proposta; e se alcuno la introducesse, certo noi tutti invocheremmo la questione pregiudiziale.

lo intendo di parlare di una mezza rinuncia, quella cioè di non affaticarci più intorno a questa difficoltà, ora segnatamente che delle difficoltà ne abbiamo tante sulle braccia; di lasciar correre l'acqua alla china, commettendo la soluzione dell'arduo problema a quel gran logico di cui ci parlava l'onorevole BonCompagni, al tempo.

Rinunziare cosi alla questione di Roma è più facile a dirsi che ad effettuarsi; né io veggo, nello stato degli animi in Italia e nelle circostanze attuali della Penisola, come potrebbe sorgere, e meno poi durare, un Ministero il quale dichiarasse tale essere il suo divisamento; né so dove troverebbe sostenimento un'amministrazione la quale dicesse: occupiamoci d'altro, a Roma ci penseremo poi.

185 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

o non sosterrei quel Governo, perché sono certo che le discordie municipali, ora di sé stesse vergognose, leverebbero le creste e ridurrebbero l'Italia a stato miserando. Or sono alcuni giorni, l'onorevole Ricciardi chiedeva licenza al Presidente e alla Camera di pronunziare una parola, la quale pronunziata, egli diceva che forse la volta di quest'aula sarebbe crollata: pronunziò quella parola, e la volta non è crollata; niuno anzi l'interruppe, ma niuno pure confortò finora la sua sentenza. E perché, o signori? perché il trasportare la sede del Governo, che ora provvisoriamente sta qui, trasportarla, provvisoriamente pure, in altra città, è tale proposizione che si confuta da sé stessa. Ma il giorno in cui Roma ci fosse vietata non per forza di eventi transeunti e di noi maggiori, non per un tempo più o meno indeterminato, ma per deliberazione nostra, per fiacchezza dei nostri voleri, quel giorno tale proposizione troverebbe sostenitori ed oppositori, e forse sorgerebbero altre proposizioni, a cui terrebbero dietro altre resistenze, ed allora, o signori, comincierebbero esosi dissidi, che uscirebbero in luttuose catastrofi.

Innanzi a Roma, o signori, tutte le gare si placano; Roma capitale d'Italia è una meta che ci darà ricovero nell'avvenire; ma intanto, e fin d'ora, Roma capitale d'Italia ci assicura la pace. (Bene!)

A Roma inoltre noi dobbiamo pensarci, perché essa non riguarda solamente la sede del Governo, ma abbraccia la quistione religiosa, comprende l'accordo della Chiesa e dello Stato, del Pontificato e dell'Italia; ed io non crederò mai né veramente consolidato, né intimamente pacificato il regno, insino a che questo accordo non sia compiuto.

L'onorevole deputato Petruccelli diceva iersera che, sotto questo aspetto, la quistione romana non esiste; ed io non sarei alieno dall'accostarmi alla sua opinione, ma ad una condizione, cioè, quand'egli od altri potesse accertarmi di un fatto, vale a dire che non esiste cattolicismo.

Se egli di ciò mi rassicurasse, io terrei seco che quistione religiosa non vi è; ma se il cattolicismo vive, la quistione religiosa esiste, ed esiste non solo pell'uomo cattolico, esiste eziandio per l'uomo politico. (Bravo! a destra)

La persona del papa, come principe, non è più importante di quella del duca di Modena o del duca di Parma, e il dissidio tra lui e i Romani tardi o tosto finirebbe o colla fuga o coll'esilio del principe spodestato, e l'Italia e l'Europa e il mondo non si curerebbero forse del principe caduto con sollecitudine maggiore di quella con cui seguono ora i passi erranti di Francesco d'Este o di Ferdinando di Lorena. (Segni di adesione)

Ma non così della persona del pontefice nell'opinione dei cattolici. Voi potete cacciare il papa da Roma; ma voi non avrete distrutto il pontefice; il pontefice sopravvive alla cacciata del principe di Roma. Ed io, dico in verità, temerei assai più il pontefice esulante, abbandonato e misero in qualche angolo d'Europa, che io non paventi il pontefice a Roma sotto la protezione francese, o a Verona sotto il cannone del l'Austria. (Sensazione)

Voi citate la storia, voi raccontate le umiliazioni inflitte al papa da principi, dare, da imperatori; voi avete rammentato Napoleone I, e la cattura e la prigionia d'un pontefice a tempi suoi. Ma, signori, la storia, quando la si vuol citare, bisogna citarla tutta, non troncarla a metà.

Quell'imperatore che arrestava Pio VII, quell'imperatore stesso, poco dopo, pregava Pio VII di ritornare a Roma, e ve lo ricollocava.

Ora, io che non vorrei che l'Italia dovesse rinnovare per conto proprio questa seconda pagina di storia, non voglio neppure la prima; non voglio i mezzi della violenza, quei mezzi che la storia ha di già giudicati. (Segni di approvazione)

Possiamo noi tentare la via di Roma contro la Francia, contro la bandiera che sventola sul Tevere? Mi contento di formolare il quesito, e non ho bisogno di discuterlo innanzi a voi, innanzi ad uomini di retto senso.

Dobbiamo noi andarvi malgrado la Francia, a costo dell'alleanza francese?

Io risponderò qui non colle mie parole, ma con parole che furono pronunziate in quest'aula, e che voi non avete per fermo dimenticate.

Il grande ministro, il cui nome fu spesso ricordato in questa discussione, e il cui nome non avrebbe potuto esser taciuto senza affettazione, il conte Di Cavour diceva:

«Sarebbe follia sperare, nelle attuali condizioni d'Europa, di voler andar a Roma malgrado l'opposizione della Francia. Ma dirò di più; quand'anche, per eventi che credo non siano probabili e nemmeno possibili, la Francia si trovasse ridotta in condizioni tali da non potere materialmente opporsi alla nostra andata a Roma, noi non dovremmo tuttavia compiere l'unione di essa al resto d'Italia, se ciò dovesse recare grave danno ai nostri alleati.»

E soggiungeva: «Quando noi abbiamo invocato nel 1859 l'aiuto della Francia; quando l'Imperatore acconsenti a scendere in Italia a capo delle bellicose sue schiere, egli non ci dissimulò quali impegni ritenesse di avere rispetto alla Corte di Roma. Noi abbiamo accettato il suo aiuto senza protestare contro gl'impegni che ci dichiarava di avere assunti; ora, dopo avere ricavati tanti benefizi dall'accordata alleanza, non possiamo protestare contro impegni che sino ad un certo punto abbiamo ammessi.

Questi ammonimenti noi non li respingeremo oggi.

Se non che qui si presenta naturalmente la questione dell'alleanza francese.

L'onorevole Musolino, il quale è fortunato di conoscere tutti i segreti delle Cancellerie e dei Gabinetti, il deputato Musolino ci ha esposto lungamente i mali passati, presenti e futuri dell'amicizia francese, e lo fece con una schiettezza che io onoro, lo fece con una buona fede che io rispetto, perché non velò la sua opinione colla solita distinzione tra la Francia e il suo Governo. Egli avversa l'alleanza sotto tutte le sue forme, la impugna come un principio e non bada ai fatti particolari; ed anche là dove può sembrare che ci abbia recato qualche benefizio, egli si affretta di gridare: Timeo Danaos et dona ferente».

L'onorevole deputato e presidente nostro Rattazzi ha cosi acconciamente difesa l'alleanza francese, che io non ho nulla da soggiungervi; perciò metterò da banda volentieri quelle osservazioni che mi proponeva di contrapporre all'onorevole deputato Musolino. Pur nulladimeno non tralascierò di muovergli un rimprovero, per un'accusa, o dirò meglio, per un timore ch'egli ha manifestato.

Egli ha affermato che la Francia voglia cambiare l'alleanza in signoria, il che non credo; ma soggiunse che il Governo italiano avrebbe piegato il capo, se già non lo piegava, a questa pretensione francese.

Di questo dubbio io lo rimprovero altamente, non per difendere il Ministero attuale, che non ne ha mestieri, ma perché questo dubbio è un oltraggio alla nazione italiana, la quale non sopporterebbe siffatta umiliazione. Questo dubbio è inoltre un'offesa, non dirò alla persona del principe, che non deve mai entrare nei nostri dibattimenti, ma alla dinastia, di Savoia.

186 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Si, o signori, i Reali nostri, o duchi, o conti di Savoia, o re di Sardegna, non piegarono mai il capo alle pretensioni straniere; essi si ruppero, non piegarono. I Reali di Savoia, Re d'Italia, non ripudieranno questo nobile loro retaggio. E quanto ai ministri, io sono anticipatamente sicuro che in Italia non trovereste un uomo, il quale volesse governare col vassallaggio e col beneplacito dello straniero. In questo vecchio e fiero Piemonte, a cui appartengo, sono certo che un uomo tale non è nato ancora. (Bene!)

Passo alla questione delle provincie napolitane.

Il capo del Gabinetto ci ba narrati i provvedimenti dati, ed ba ridotto alle vere sue proporzioni quel flagello, del quale, se dobbiamo addolorarci, non dobbiamo peraltro spaventarci.

Due cose ha dovuto proporsi il Governo: reprimere con energia e senza esitazioni le bande devastatrici, ed impedire il loro rinnovamento. Negherebbe l'evidenza chi negasse che il brigantaggio è diminuito notevolmente, e non consentisse che sarebbe di già compiutamente estinto, se non avesse trovato aiuto d'uomini, di danaro e di munizioni dalla frontiera vicina, se oltre la frontiera pontificia non avesse trovalo preparalo rifugio dopo le disfalle, come prima aveva trovato tutte le agevolezze per l'invasione.

11 Governo doveva chiedere alla Francia che nel territorio protetto dalle sue armi non si tollerassero né gli attentati, né gli apparecchi del brigantaggio e che a tal fine si convenisse dei modi di reprimerlo ciascuno entro il suo territorio. Questa domanda era giusta, non solo secondo i principii del diritto assoluto, ma secondo le regole stesse del diritto internazionale. Imperocché sia cosa nota che un Governo il quale non impedisce sopra un territorio da lui occupato l'invasione armata contro un altro stato, quel Governo si rende complice o connivente delle aggressioni, tanto più quando abbia la forza d'impedirle.

La Francia, come ci annunziò l'onorevole presidente del Consiglio, ha riconosciuta la giustizia della nostra domanda. Cosi il desiderio dell'onorevole Rattazzi è stato antivenuto ed è già soddisfatto; ond'egli deve sperare con noi che il brigantaggio non riceverà più da quella parte né aiuto, né protezione.

Napoli, o signori, è una grande quistione italiana; ma Napoli non è tutta la quistione italiana. Estirpato il brigantaggio dalle provincie napolitane, il regno sarà pacificato, ma non perciò rassodato.

Il regno non sarà rassodato, se non colla continuazione di una saggia e prudente politica all'interno ed all'estero.

Il Ministero ci ha divisato tutto quanto egli ha fin qui operato; solo il signor ministro per le finanze si è riserbato di dare, in occasione più appropriata, quelle spiegazioni che non poteano trovare opportuna sede nella presente discussione, perché l'avrebbero di troppo divertita dall'oggetto che l'ha provocata.

Il Ministero non ci ha taciute le difficoltà che ne circondano; non le hanno taciutegli oratori della maggioranza, non quelli dell'opposizione. Le difficoltà sono molteplici e gravi, ma non superiori alle forze della nazione.

Vogliamo noi affrontarle e nel presente e nell'avvenire colle idee che il Ministero ci ha esposte? Oppure vogliamo noi affrontarle con un altro programma, con quel programma che ci ha significato l'opposizione?

Questa è la questione.

Quale è, o signori, il programma dell'opposizione? Io ho ascoltato religiosamente, come è mio costume, tutti gli oratori che arringarono da quella parte della Camera; ho scorto in tutti amore di patria, carità cittadina; ho ammirato nella maggior parte fuoco d'eloquenza, splendore d'immagini, vivacità di stile, pregi e qualità a cui io non sono punto insensibile. Ma i discorsi politici, dopo averli ammirati come opera d'arte, io li spoglio della veste festiva, li stringo, li spremo, e domando a me stesso: che cosa contengono? Quale idea pratica, quale idea applicabile ci presentano? Che fine vogliono conseguire? Dove vogliono andare? In quali vie ci sospingono, a quali consigli c'invitano? Ora debbo confessare candidamente, e i miei avversari non se l'abbiano a male, debbo confessare che fino a ieri sera non seppi ravvisare nei loro discorsi un vero programma di governo. Soltanto ieri sera, sul chiudersi della tornata, ho sentito mettere innanzi un sistema politico, un programma, di cui è stato organo l'onorevole Petruccelli lo non so se egli abbia interpretato i sentimenti della sua parte politica, o se abbia solamente parlalo per conto suo, come faccio io in questo momento; ma per me è fuor di dubbio che il programma dell'opposizione, quando dalle generalità volesse discendere sul campo della pratica, sul campo dell'azione, non potrebbe ridursi ad altri principii, fuorché a quelli esposti dal deputato Petruccelli.

In che consiste questo programma? Il deputato Petruccelli ci disse: innanzi tutto è mestieri abbandonare la via battuta fin qui; la nostra è una politica d'assideramento, di consunzione, di tisi; noi abbiamo fermato il moto della vita italiana; questo moto bisogna ristabilirlo; per ristabilirlo bisogna agitarsi, agitare la nazione, agitare il mondo. Egli soggiunge: bando ai mezzi termini, bando alle mezze misure, riconosciamo la nostra origine, siamo logici, siamo conseguenti; la nostra origine è la rivoluzione; dobbiamo essere rivoluzionari, innalzare, spiegare ai quattro venti la bandiera della rivoluzione, ma della vera rivoluzione. La libertà, continua egli, è talvolta omicida; dunque lo stato d'assedio dovunque sorga turbatone alcuna. La nazione basti a sé stessa; dunque un moschetto ad ogni braccio valido, dunque ad ogni traditore un patibolo. E quasi queste parole non fossero abbastanza chiare, egli le commentò gridando: voi dovete imitare, emulare la l'ancia del 1793.

Questo programma non è nuovo. Lo conosciamo da un pezzo, e quindi possiamo ragionare coi lumi dell'esperienza. È un sistema nato e provalo in Francia; noi possiamo chiedere alla Francia utili insegnamenti sopra i suoi finali risultamenti. Interroghiamo, la storia.

Il programma del 1795 non lo voglio considerare né sotto l'aspetto della moralità, né sotto l'aspetto dell'onestà, sentimenti e principii che l'uomo può dimenticare un istante nella tempesta delle passioni, non violare per freddo e premeditato sistema, senza che la natura sua, la natura umana si tramuti nella natura delle belve. Non considererò il programma sotto quest'aspetto; Io chiamerò a disamina sotto l'aspetto del fatto brutale del risultato, del successo.

Ebbene, o signori, quale è stato il successo del 1793? Ha coperto la Francia di rovine, l'ha annegala nel sangue. Ciò sarebbe poco. Ma, o signori, quelle rovine, quel sangue generarono la reazione; fecero della libertà uno spettro pauroso, abborrito; e quella reazione, quelle paure, quegli abborrimenti infiacchirono la fibra cittadina, condussero la Francia sull'orlo dell'abisso, poi la gettarono nelle braccia del 18 brumaio, e ogni libertà disparve e sorse il dispotismo del primo impero; glorioso dispotismo che fini coll'invasione straniera due volte rinnovatasi sulla faccia della nobile terra francese. (Bisbigli a sinistra)

187 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

Ecco il risultato del vostro programma: libertà manomessa, invasione straniera.

Questo programma io lo rifiuto per l'Italia; lo rifiuto perché ci condurrebbe o nell'antico servaggio, od in un altro servaggio non molto dissimile dall'antico. (Bene!)

Signori, noi dobbiamo respingerlo per un'altra ragione ancora, dobbiamo respingerlo perché esso ci torrèbbe ogni riputazione, ci torrèbbe ogni credito dinanzi all'Europa.

Sarebbe inutile l'illuderci e il dissimularlo.

È sorto e si è diffuso al di fuori una specie di sconforto, un principio di sfiducia, perché si è dubitato non che noi, maggioranza, fossimo per essere poco fedeli alle nostre convinzioni, ma che queste convinzioni siano per modificarsi in cospetto delle attuali contingenze.

Ebbene, o signori, è necessario far cessare questo timore; è necessario trasfondere e rinvigorire la fiducia nella stabilita della politica che ha fondato il regno d'Italia; in quella politica che sola può mantenerlo, che sola può consolidarlo; è necessario che il Governo e la maggioranza tengano ferma la propria bandiera; è necessario che non vi siano o non durino incertezze e ambiguità né quanto alle persone, né quanto ai principii. Io ammetto la conciliazione colle persone, non la confusione dei sistemi; questa è fatale. Noi dobbiamo essere tolleranti della discussione legale, dobbiamo anzi provocarla; ma vi è un'opinione che scalza le basi di ogni autorità costituzionale, che disconosce Governo e Parlamento, che vorrebbe costituirsi essa stessa in Governo o rivale o nemico; questa è fellonia; con questa né tregua, né pace.

Usciamo dalle ambagi. Governo e maggioranza debbono dichiarare che non solo lo Statuto è cosa sacra ed inviolabile, ma anche quelle leggi organiche che sono per cosi dire il complemento dello Statuto, quelle leggi organiche, alla cui modificazione già preludeva l'altro giorno un onorevole deputato della sinistra. Quelle leggi noi dobbiamo mantenerle, e dichiarare chele manterremo. No, noi non smantelleremo la monarchia di quei ripari, di quella forza conservatrice, senza coi essa sarebbe una larva, e disparirebbe come dispaiono le larve. No, o signori, qualunque contingenza racchiuda l'avvenire, noi non esporremo la patria ai sogni di menti inferme, non esporremo la libertà, l'indipendenza, l'essere di 22 milioni d'Italiani ai delirii di temerarie esperienze.

Sappiano gli amici e sappiano i nemici che tale è il nostro fermo volere, ed allora crescerà la nostra forza morale, allora l'Europa avrà fede più certa nei nostri destini. Consolidiamo il regno con questi mezzi, consolidiamolo con quelle leggi che devono unificarlo, giacché finora abbiamo piuttosto aggregazione che vera unità. Allora non si dirà più quella parola che io avrei sperato di non udire in questa discussione, e che pure è stata ripetuta: questa è che a Torino si voglia tutto piemontizzare.

DI SAN DONATO. Chi ha detto questo?

PRESIDENTE. Prego di non interrompere.

CARUTTI. Signori, è oggimai tempo che questa accusa cessi. Questa è divenuta l'arma dei nostri nemici.

DI SAN DONATO. Ma nessuno lo ha detto.

CARUTTI. Fu detto. No, il Piemonte non impone sé stesso, il Piemonte fu conquistato dall'Italia. Esso non vuole conservare che tre sole cose: la Monarchia, lo Statuto e l'Esercito. E sapete, signori, perché il Piemonte non vuole rinunziare? perché se cadesse una sola di queste pietre angolari dell'edifizio, cadrebbe l'unità italiana, cadrebbe l'Italia. (Bene)

Signori, una parola ancora ed ho finito.

Questa parola mi è suggerita dal discorso dell'onorevole BonCompagni. Egli ci disse che la nazionalità italiana deve costituirsi mediante la libertà, o morire. Io accetto la prima parte del dilemma, perché ho fiducia nella libertà, e non pavento la seconda. Non la pavento, perché credo che le nazioni moderne non muoiono. Io credo nella vita della nazione italiana, e sono persuaso, che se sopra di noi dovesse pesare ancora un giorno la mano della sventura, o la vendetta di nuovi errori, il retaggio delle nostre aspirazioni e dei nostri diritti sarebbe raccolto da altre mani, e da altre mani condotto al finale trionfo.

Io ho fede nell'avvenire d'Italia, ma per la patria mia posso temere un altro pericolo, posso temere il supplizio di Sisifo. Signori, scongiuriamo questo pericolo, scongiuriamolo! Il nostro sasso è già vicino alla vetta del monte: uno sforzo ancora, e il vertice è superato; questo sforzo noi possiamo farlo, e farlo felicemente, ma ad una condizione: che siano concordi i voleri, unanimi le forze.

Signori, egli è con quest'augurio che io termino, con quest'augurio che io saluto il sogno della mia gioventù, ora realtà degli anni virili, l'Italia libera, libera a Roma, libera dappertutto. (Applausi)

PRESIDENTE. Il deputato Bertani ha facoltà di parlare.

BERTANI. Signori, sono scorsi quattordici mesi dacché io innanzi il Parlamento profferii parole e proposi mezzi di intelligenza e concordia fra le due opinioni militanti che allora dividevano gl'Italiani.

Erano quelli giorni di profonda commozione, di forte entusiasmo in tutto il paese. La rivoluzione, in coi soltanto io aveva riposta la mia fede, poteva tutto sommuovere per progredire nella gloriosa sua carriera di fare l'Italia.

Io poteva, suo milite e credente, tenere altro discorso e fare altra proposta, avvegnaché, nella personificazione ch'io feci delle due opinioni e nella desiderata intesa fra i due suoi rappresentanti, parve che menomassi la grave importanza del dissenso, che si basava sopra diversità di principii.

M'ebbi rimprovero da molti amici politici di incauto ed illuso, non ho rossore di dirlo; ma la mia fiducia, amo solennemente ripeterlo, era tutta in quei momenti basata sulla conciliazione dei due sistemi che allora trovavansi in ardente letta.

Il voto solenne del Parlamento e l'invocazione del forte nome d'Italia furono i mezzi proposti ed adottati per la conciliazione. Quei mezzi erano potenti, epperò vediamone i risultati ottenuti.

Messa da parte e respinta la rivoluzione, il Parlamento ed il Ministero dichiararono che, accettando i frutti suoi, dovesse continuarsi nel sistema governativo che si gloriava di averci condotti da Villafranca ad Ancona, e ci affidava di ottenere Venezia e Roma.

La rivoluzione, che fu tanto sobria e tanto devota alla monarchia, dopo avere offerto ogni via di transazione, si ritrasse in aspettativa dell'avvenire e lasciò il campo larghissimo e senza contrasti a quel sistema.

Ma poco andò che i due sistemi, sempre più incalzati dagli eventi, si trovarono l'uno di fronte all'altro ogni giorno più ostili.

lo farò brevi riscontri fra di essi. I quattordici mesi che sono trascorsi e lo zelo che vi misero i più validi suoi propugnatori mi forniscono i mezzi e la misura per giudicare il sistema dal Governo seguito.

Un autorevole oratore ci dissuadeva ieri l'altro dal rimescolare il passato; esso appartiene alla storia, ci disse; occupiamoci invece del presente, dell'avvenire.

188 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Parlando io non di uomini, ma di un sistema che guida la politica odierna, come guidò quella dei mesi trascorsi, io penso che col riguardar al passato, sia prossimo o remoto, noi riguardiamo al presente immutato ed all'avvenire che tutti, io spero, e l'oratore citato più che mai, desideriamo ed invochiamo migliore.

E tanto più, o signori, dobbiamo adesso riguardar nel passato, dacché l'onorevole presidente del Consiglio dei ministri ci assicurò che la convinzione, l'indirizzo, il sistema di governo sarà quello stesso che guidò finora il Ministero.

Impenitenti, come ben disse il signor Petruccelli, e arditamente tranquilli, noi siamo a chiedervi chi ha ragione, chi s'illuse. Se chi si duole, o chi non vede e confida? Donde mai dunque traeste motivo di lamento voi, onorevoli colleghi, che veniste dalle vostre provincie. Come scambiaste i gridi di dolore cogli accenti di gioia? Come mai le vostre accuse al Ministero eran vere fra i vostri elettori, e sono contraddette dal Ministero a Torino? Io ciò non comprendo.

Ma ben comprendo che il pubblico gridò, che può, come suol dirsi, esser talvolta l'organo dell'errore, è troppo spesso il fedele interprete della volontà generale, e questa sta contro l'attuale indirizzo del Governo.

É dunque obbligo nostro, finché ci è concessa la parola entro quest'aula, ed in ogni modo ammonire il Governo stesso che i liberali italiani pei fatti trascorsi lo condannano e che non si rassegnano pertanto nella persistenza in esso che il presidente del Consiglio ci assicura.

Dopo tanti oratori poco mi rimane a dire; ma quel poco verserà su fatti e considerazioni in ordine al liberalismo del Governo, alle interne libertà ed allo scopo precipuo di questa discussione su Napoli e Roma.

Non userò reticenze, perché soffrimmo già troppi equivoci ormai, e perché, apertamente dichiarati i preliminari, non sarà possibile illuderci sui risultati.

Non è inutile ricordare qui come quel sistema fosse nell'ottobre dell'anno passato, quando votossi la legge per l'annessione delle provincie meridionali, largamente sviluppato dai suoi più forti campioni, perché in esso tutta si confidasse la sapienza del Parlamento.

Io non distinguo le persone, che tutte rispetto, le quali fecero parte dei successivi Ministeri da quell'epoca fin qui, ma tutti ritengo solidari del sistema adattalo, e che non è né respinto, né mutato dai signori ministri attuali.

Io scelgo fra le tante promesse d'allora quelle che fecero il presidente del Consiglio e l'onorevole Minghetti, il quale ebbe poscia, finché la pubblica opinione lo consenti, facoltà di attuarlo nel Ministero dell'interno.

E perciò prendo a prestito pressoché le testuali loro parole.

Quel sistema dovea soffocare nel suo nascere il germe di discordia che era apparso nelle provincie meridionali.

Dovea impedire ogni pericolo d'anarchia minacciata in quelle provincie, anarchia nella truppa, nella finanza, negli uffici.

Dall'anarchia alla reazione era a prevedersi breve e facile il passo; epperò il sistema dovea preservarne quelle terre.

Quel sistema doveva accrescere le forze regolari, tutelare la pubblica sicurezza, consolidare il credito minacciato, propiziarsi quell'opinione cattolica ed europea, la quale ci avrebbe aperte le porte di Roma, e creata quella forza tutta nostra, che ci permettesse la guerra all'Austria, e ci meritasse il favore delle potenze e della nazione germanica, la quale ci avrebbe consentito la ripresa della Venezia in epoca allora indefinita.

Quel sistema doveva avviarci a quella unità italiana, la quale ci accreditasse al cospetto dell'Europa, non solo come restitutori del diritto nazionale, ma come conservatori dell'ordine; non solo preparati a resistere ad ogni attacco ed impavidi ad ogni offesa, ma eziandio come disposti alla pace. L'Europa allora soltanto avrebbe sancito il nuovo diritto italiano.

Quel sistema infine doveva proteggere l'Italia dai funesti effetti dei rivolgimenti del 18481-849 e dalle mene dei rappresentanti la rivoluzione universale, raccolti allora a conciliabolo in Napoli, i quali all'onnipotenza dello Stato, coi mezzo di Comitati di salute pubblica, avrebbero immolalo l'individuo, la famiglia, la nazione.

Cosi l'onorevole Minghetti, che di questo sogno serbò e e serba forse ancora un'immensurabile paura.

Il ministro allora in pectore, presagendo la massima potenza di quel sistema, ci annunciava, nell'ottobre del 1860, che l'istinto popolare voleva appunto con esso costituito il forte regno, e che la sola presenza del Re in Napoli avrebbe bastato a sciogliere tutte le quistioni e mostrare quale veramente fosse la volontà di quei popoli.

Quel futuro ministro, una delle incarnazioni ed uno degli atleti di quel sistema, trovava altresì che l'istesso istinto popolare fu diverso dal concetto di uomini onorandi, i quali reputavano doversi far sosta nella redenzione dell'Italia quando eravamo appena undici milioni riuniti, per dare con forti ordinamenti il buon esempio alle altre provincie, che gli onorevoli avrebbero per prudenza aspettato chi sa quanto nel consorzio nazionale; come sono disposti, ora che siamo ventidue milioni, ad aspettare tuttavia Roma e Venezia; e però io credo sono dispostissimi ad accettarle quando che sia da altri slanci di quel sublime popolare istinto.

Tali furono le promesse di quel sistema che venne completamente sostituito alla rivoluzione, che la combatté con ogni arme, e non tutte di buona guerra.

La Camera fu dai precedenti oratori a sufficienza informata dei disordini nelle provincie meridionali, del malcontento in quelle ed in altre, e lo sarà, spero, da altri oratori circa la Sicilia; fu informata dei lamenti per la poca tutela della pubblica sicurezza.

La Camera ha udito lo rivelazioni delle persistenti difficoltà per le leve in molte provincie, ed ha apprezzato le menomate simpatie o le dichiarate avversioni di qualche potenza europea per l'attuale ordine nostro di cose; gli allarmi per le nostre strettezze finanziarie, per il credito pubblico scosso, per la fiducia nazionale diminuita, per il dubbio fatale che serpeggia e si spande intorno alla nostra potenza di raggiungere la meta prefissa, e scompone e paralizza le forze del paese.

Io non ricorderò, come ho detto, che taluni atti i quali offesero le intere libertà, fanno il sistema governativo deplorabile pei liberali italiani e diedero nuova misura del liberalismo ministeriale.

Io veggo ogni giorno la dolorosa continuazione delle male accoglienze, delle ripulse che si danne da moltiuffici governativi ai petenti i quali ebbero la sfortunata generosità di militare volontari con Garibaldi.

Ricordo ancora un corpo di militi appartenenti all'intendenza militare meridionale che sono tuttavia incerti di essere assunti in servizio fisso, se dovranno andare in aspettativa, e non possono quindi contare sull'impiego che tengono, né provvedersi per un altro.

Ricordo e vidi dei valenti fra i mille di Marsala che non trovarono lavoro offrendosi a tutte le pubbliche amministrazioni, da tutti ripulsi e mendicano un pane; ed altri ricordo, fra di essi, Veneti distinti per educazione e famiglia, che, senza colpa e riguardi, furono arrestati, incarcerati e tradotti da Ferrara a Torino.

189 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

Ricordo i Veneti esali in terra italiana che militarono numerosi più che di altre provincie nelle passate battaglie per l'unità della patria, essere respinti dalle prescelte dimore, confinali in Aosta od in Sardegna; e coi giovani robusti veggo un gentiluomo trevigiano, sciancato e tribolato da ogni malanno, dalla miseria e dalla vecchiaia, trasportato per volere della polizia da Torino, dove campava da anni scarsamente la vita dando lezioni di belle lettere, in Aosta, e di là in Sardegna.

E, mentre si fa in Firenze con sollecita pompa un'esposizione nazionale di tatti i prodotti italiani in segno di politica unita, veggo mantenuto l'iniquo arbitrio coll'emigrazione.

Ricorderò anch'io che poche settimane or sono, un valente giovane trentino fu tolto ai suoi studi, strappato ai compagni che Io stimavano ed amavano, e cacciato in %k ore da Pavia in Sardegna, senza giudizio e difesa, per aver osato, evocando nel camposanto la memoria e l'esempio dei nostri martiri a conforto ed a stimolo dei viventi, desiderava un Go verno più forte, un sistema di politica più generosa e nazionale. (Bravo t Bene! a sinistra)

E ricordo, o signori, che questo atto di sciacallaggio fu riprovato da tutti i giornali liberali e da alcuni ministeriali.

Rammenterò gli impiegati dipendenti dal Ministero delle finanze dimessi o traslocati perché membri di un comitato, che non era della società nazionale, in Modena, e tutti i segni di diffidenza e la minaccia di scioglimento della patriottica, laboriosa congregazione dei comitati di provvedimento,

Per la logica rigorosa di quel sistema un ministro dell'interno ingiunse ai suoi dipendenti di opporsi alla diffusione ed alla firma della protesta contro l'occupazione francese in Roma; ed un luogotenente del Re tentò impedire colla sua autorità la firma, punì arbitrariamente impiegati, uno dei quali siede in mezzo a noi, che in nome della speranza e dei diritti dell'Italia l'avevano apposta, e invocò il nome e la calma di Garibaldi per dissuaderne i Siciliani, mentre Garibaldi, nella gravità della sua coscienza, aveva appunto firmata quella protesta pel primo.

Per conseguenza inevitabile di quell'iniziativa del Governo, e per lo zelo degli altri impiegati, il quale cresce sempre in proporzione inversa del loro grado, si venne da taluni di essi persino a minaccie, ad atti inqualificabili di violenza contro chi procurava quelle firme, offendendo cosi libertà e Statuto.

Per quel sistema di sospetto organizzato e di presuntuoso potere un già ministro del nuovo regno d'Italia osava aprire, sviare, sottrarre le lettere d'altri, forse con predilezione le mie, e le faceva copiare nel Ministero dell'interno. Nuovissima vergogna del forte si: tema. (Movimenti a destra ed al centro. Vivi segni d'approvazione a sinistra) Vergogna maggiore in faccia all'Austria, dove nel Consiglio dell'impero si statujsce per legge il mantenimento del segreto delle lettere. (Bravo! Bene! a sinistra; rumori a destra)

Per questo sistema diffidente ed esclusivo, in ogni via di fortuna e d'onorificenze furono accettati e spesso preferiti i satelliti del Borbone, del papa, dei duchi, arciduchi e imperatori, e cosi fu tesa intorno al potere ed alle amministrazioni una rete di tradimento, e furono preferiti stranieri speculatori, i cui interessi sono intrecciati con quelli di tutti i nostri nemici.

Per questo sistema d'intolleranza e di sospetto del liberalismo nell'interno e di consueta accondiscendenza ad una volontà straniera il presidente del Consigliò si assunse l'iniziativa di respingere l'urgenza della petizione per l'amnistia di Giuseppe Mazzini ora languente per malanno forse esiziale in terra straniera e con vergogna del Governo italiano. (Sensazione a sinistra) E ciò in omaggio della polizia, non della politica francese. (Bravo! a sinistra Rumori)

Avvegnaché io non pensi che siavi stato allora in questa Assemblea un Italiano che potesse o possa tuttavia credere che la presenza di Mazzini in Italia fosse da tanto di compromettere le nostre politiche condizioni o sturbare l'ordine pubblico. E non credo davvero che alcuno fra di noi volesse altrimenti col proprio voto approvare l'ostracismo e la condanna di colui che fu maestro in Italia di fede, di sacrifizi, di devozione alla patria, e fu collega nell'opra od amico di tanti che qui siedono, a costituire quell'unità nazionale per cui ha tanto lottato e, sfinito, ora si consuma. (Segni di approvazione dalle gallerie)

Per questo sistema di antica diffidenza nell'armamento popolare fu sciolto, checché ne dica in contrario il signor ministro di guerra, l'esercito meridionale; e fu sciolto colla mostra di tale intolleranza e con tanta seduzione di mezzi, cui non avrebbero resistito i soldati passionati per Federico II o per Napoleone I. (Bravo! Bene! a sinistra)

Per questo sistema sono trascurate le milizie cittadine, e nulla si conta per la nostra guerra, che è la rivoluzione nazionale, l'entusiasmo che crea le armate; e il Governo lascia dire ai giornali officiosi che esso ha bensì 500 mila fucili da distribuire, ma non sa trovare i 500 mila Italiani che li maneggino.

Questo è il sistema che, da it mesi annunciato, applicato e difeso, governa e vuol fare l'Italia libera ed una.

lo riconosco l'alta rappresentanza che qui è riunita; ma dopo tali e tant'altri fatti liberali mi rimane il dubbio che la voce del popolo non sia quanto conviensi in questi difficili tempi ascoltata e compresa.

Una soverchia fede nei propri propositi e nelle proprie speranze è possibile che tragga molti in inganno ed in questa aula faccia risuonare, a nome dell'Italia addolorata, un vano eco soltanto dalla propria voce, la quale, ripetuta di provincia in provincia per cento giornali officiosi, assumendo autorità di numero, giunge a scoraggiare i vigilanti e rendere vani ed inascoltati i gridi dei pochi che hanno il presentimento, se cosi si prosegue, delle nostre sventure.

Ed io non so difendermi, lo confesso con profondo dolore, da si triste preoccupazione; e mi pesa e mi urge ad un tempo di dire tutti innanzi a voi i miei timori e, dove stimo, le mie speranze.

Da più che un anno il Governo è libero dispositore d'ogni ordine politico, militare ed amministrativo nelle Provincie meridionali.

La dittatura aveva lasciato quelle provincie concordi, pressoché tutte tranquille, entusiaste al grido d'Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele suo Re e Roma capitale. Ed alle grida dell'entusiasmo avevano aggiunte prove luminose di virili e grandi propositi, ed invero Garibaldi, nel consegnare quelle provincie al Re d'Italia, gli disse: «Voi troverete in queste contrade un popolo docile quanto intelligente, amico dell'ordine quanto desideroso di libertà, pronto ai maggiori sagrifizi qualora gli sieno richiesti nell'interesse della patria da un sovrano nazionale.» (Bravo! Bene!)

E Garibaldi disse tutta la verità, nessuno può dire altrimenti.

Qual frutto ha colto il sistema attuale di Governo da quella concordia, da quell'entusiasmo? Dica l'onorevole Minghetti, quand'è che venne il malcontento, quand'è che venne il brigantaggio o la reazione, che dovea essere frutto dell'anarchia da lui tanto temuta quattordici mesi or sono o durante l'esercizio del fatale sistema che fece suo e che tuttora prosegue?

190 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Io non voglio e non debbo ripetere qui quanto dissero già con accenti di profonda convinzione i miei colleghi da questi scanni. Ve n'ha già di troppo per convincere chicchessia che il sistema dell'attuale Governo dispiace, irrita e non soddisfa alle più gravi esigenze di quelle popolazioni; e tanto ba incoraggilo i nemici nostri, che vennero ordinati e più forti a collocarsi in posizioni centrali e sono disposti alla guerra offensiva.

Ho udito l'onorevole Pisanelli lamentare la debolezza, la incertezza del Governo centrale come cagione della paralisi di cui sono colpite in Napoli tanto l'amministrazione civile, come la giudicatura.

Egli lamentava i precipitati cambiamenti nelle leggi, nelle disposizioni, nel personale, e la poca parte fatta nei maggiori uffici all'intelligenza ed alla pratica degli uomini di quelle Provincie, ed aveva ragione.

E col signor Pisanelli udii il deputato Brofferio lamentare a sua volta che la riforma del personale della giudicatura non fosse ancor fatta e si avesse tuttora lo scandalo di vedere colà sedere ministri della giustizia quegli uomini che abusarono del loro ministero per servire un sovrano riprovato dall'opinione del mondo civile, e cacciato dall'indignazione popolare.

Ma il signor Pisanelli, che a ragione si duole di tanta tolleranza, ricorderà, neson certo, come nei primi giorni della dittatura, chiamato egli da Garibaldi, per proposta del signor Liborio Romano, a governare il Ministero di grazia e giustizia, fosse per mio mezzo con quotidiana insistenza sollecitato e pregato di proporre le riforme a farsi appunto nel personale della magistratura. E ricorderanno altri che qui siedono deputati, e fra di essi ne appello alla memoria degli onorevoli Lazzaro, San Donato, Libertini, come fosse stata proposta e raccomandata la formazione di una Commissione di generale scrutinio per tutti gli impiegali, la quale se non riuscì a comporsi quand'io era in Napoli, non fu certo per mancanza d'iniziativa od insistenza mia; perché non riuscisse dappoi lo può rivelare il sistema governativo.

Certamente la dittatura non poteva per sé sola, nuova o troppo poco informala degli uomini e degli affari di quel paese, meglio affidarli che a quegli uomini, i quali, avendo accettato un alto ufficio da essa, dovevano ed erano in grado di comprendere che quello era il momento opportuno di abbattere il vecchio e rapidamente edificare il nuovo. Garibaldi, ad ogni proposta di nomina che io gli recava, dicevami concitato: portatemi dimissioni a firmare e non promozioni. Sbarazziamo dapprima il terreno dei nostri nemici in armi ed in toga e poi edificheremo con uomini che vogliano la giustizia, l'unità, la libertà della patria. (Bene! a sinistra)

Così voleva la rivoluzione, e così fosse stato possibile ad essa di fare, ed i postumi rimpianti non sarebbero adesso novella prova dell'insufficienza del sistema adottato dal governante partito.

Ma quel sistema, quel partito era già pronto, organizzato, dispositore in Napoli di molti mezzi prima che entrasse Garibaldi, per impedire appunto che la dittatura sorgesse e, sorgendo, a combatterla, e tentò od almeno sperò di tentare la sua prova il 5 settembre.

Io non dirò, ne importa, né conviene, come si potesse allora definire quel partito, o con quale denominazione provinciale fossero appellati quegli uomini.

Questo solo dirò, che quel partito e quegli uomini erano avversi alla rivoluzione, la quale aveva per sé un programma applaudito, un popolo entusiasta ed in armi, e le vittorie per nomi e per segni delle sue giornate.

Il malcontento del popolo napolitano, ammesso dal signor Pisanelli, la paralisi onde sono colpite le amministrazioni civili e della giustizia stanno sì, in parte, come egli disse, negli appunti e negli inesauditi reclami ordinativi e personali di quelle provincie; ma io scorgo, o signori, una ragione più alta di tutto ciò per quel popolo meno che altri materiale ed interessato. Esso non è soddisfatto nelle più generose sue aspirazioni, esso non vede che astrattamente ed in nebbia troppo incerta ancora propugnata l'unità dell'Italia, per cui è pronto a spendere ogni sua forza. Esso vede ancora in Roma accarezzato e polente il suo più feroce tiranno.

È l'incertezza, è la debolezza nella condotta politica del Governo, ben oltre quella nella amministrativa; è nella sua avversione dichiarata e provata al partito largamente liberale immenso in Napoli; è la sua importanza nelle armi; è la sua timidezza nella parola all'estero; è la sua eccessiva deferenza ad interessi d'altro potere.

Sono queste le gravissime condizioni che paralizzano quei popoli, e quelle intelligenze, che hanno tutto rovesciato un passato e provocalo tante vendette e non si sentono né avviati, né sostenuti, né spinti dal nuovo potere nella creazione dell'avvenire; diffidenti, per resistenza si immobilizzano.

Io sommamente mi compiaccio dell'appoggio che il signor Pisanelli diede colle sue forti parole e colle sode sue argomentazioni ai reclami ed alle ragioni di lamento che hanno le provincie meridionali per la condotta del Governo centrale. Se la sua eloquenza fosse intervenuta ad impedire la precipitosa annessione, lo sfasciamento di due eserciti e l'armamento delle milizie cittadine mobili come propose Garibaldi, di certo egli avrebbe grandemente contribuito ad evitare gravi danni al paese ed a scongiurare i pericoli che adesso ci sovrastano. Il suo valido aiuto è ad ogni modo ormai assicurato alla riforma governativa, e bene vorrei augurarmene per la patria, quand'egli consentisse meco, che ancora per poco bisogna ritornare all'entusiasmo ed alla potenza creatrice di quattordici mesi or sono. E perché il suo efficace concorso non fosse sturbato e paralizzato a sua volta da preoccupazioni del nostro avvenire politico, io vorrei dirgli, a nome di tutti i nostri uomini rivoluzionari, che la rivoluzione italiana non è né il disordine per tema e per sistema, né l'anarchia o il socialismo, né vuol sedere in permanenza; che la buona fama e la maschia volontà del senno politico italiano e della sua temperanza nei trionfi non ha origine dal 1859, ma dalle splendide prove del popolo italiano nel 1848 e 1849. E vorrei dirgli però che la rivoluzione altamente invoca l'aiuto di tutti i patriotti per distruggere a tempo e per edificare con sapienza, e li difende quando stanno con lei; ma quando suona l'ora e fa l'appello, ha bisogno di sentirsi rispondere da tutti: presente.

Epperò noi rivoluzionari accoglieremo il signor Pisanelli respinto da (ante braccia, giacché, come all'ingresso nella vigna evangelica, la rivoluzione essa pure riceve i ritardatari e dice loro: benedictus ille. (Ilarità generale)

Nel mutamento instancabile di ordini governativi e di persone in quelle provincie, io non odo e non iscorgo che persistenza di mali e di lamenti d'ogni parte, in ogni modo formulati, con ogni tono ripetuti da ogni classe di cittadini ed uno sconforto che tutti accuora e convince che così non si va avanti e si preparano nuove difficoltà o sventure.

Nelle provincie meridionali i primi bisogni sono: la libertà e la guarentigia contro qualsiasi pressione di dovunque loro giunga; la pubblica sicurezza eia giustizia che attendono per secolari patimenti, ed invocano per la persona e per le cose come guida del nuovo Governo, e la fiducia sopratutto negli uomini e nei provvedimenti popolari e liberali.


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191 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

Mantenuta invece la depressione degli elementi liberali per quattordici mesi, e suscitata l'esaltazione dei retrivi, il Governo

È impreteribile necessità far ragione a quei reclami, giacché nessun mezzo serve maggiormente i rendere un popolo dignitosamente tranquillo e generoso, che quello di riconoscere i suoi reclami.

Non temete, o uomini del Governo, quel popolo, che coll'intelligenza dell'avvenire, colla passiva resistenza, in gran parte ha rovesciato il trono della tirannia per elevare quello della libertà. Guai se temesse il popolo del plebiscito! Ricordate però che la sua infaticabile tolleranza, spinta troppo oltre, comprende talora che, per resistere, basta essere immobile. Per carità di patria non arrestate quel moto progressivo e fecondo; e, per rassicurare i tementi, dite loro con un grande politico: che gli uomini, gl'Italiani sovra gli altri, sono più inchini alla servilità della riconoscenza, che agli eccessi della licenza.

E innanzi tutto date ordini ed armi ai popolani che si offrono in difesa della pubblica sicurezza. La diffidenza irrita i ripudiali e li sconforta.

Quando il generale Cialdini, meglio avvisato dei suoi antecessori in Napoli, nel timore di gravi eventi, ebbe per poche ore il proposito di armare in 'guardie mobili i popolani di Napoli, e ne concesse l'arrolamento a Giovanni Nicotera in cui essi avevano fede, in quelle poche ore si offrirono migliaia di volontari; ma non appena furono iscritti, dissipato forse lo instante pericolo, il permesso fu tolto, i volontari furono licenziati, ed il rinvio li offese.

Non mancano dunque gli uomini alla difesa della patria, o per combattere il né debbo credere che manchino le armi; manca solamente la fiducia del Governo, e persiste la sua ripulsione da ogni aiuto popolare.

Citandovi Garibaldi, io non m'appoggio all'autorità del suo nome, ma vi cito un modo assennato di vedere e giudicare le cose, che ebbe per riprova di sua giustezza il successo.

Quando nei primi fiacchi ed incomposti conati di reazione taluni delle provincie andavano chiedendo al dittatore soccorso, ei rispondeva loro: «Prendetevi delle armi; e, se la maggioranza è liberale, com'io tengo per certo, giacché qui venni per opera loro fra di voi, che mai temete? Sterminate i nemici, o fate di meglio; e, mostrandovi uniti, forti e decisi, perdonate loro, ed avrete dei nuovi fratelli nella libertà. Se voi siete in minoranza, locchè non credo, combattete come sanno combattere i soldati della libertà, e vincerete come i mille di Marsala.

Ripeta il Governo le parole di Garibaldi, e siano dati ordinamenti ed armi e capi accetti, senza distinzione di classe, a quei popoli valorosi posti nell'ultimo cimento per la sostanza e per la vita, ed io sono convinto che colle armi cittadine, e con esse soltanto, il e la reazione, che di esse si giovano, spariranno per incanto.

L'esercito, per quanto paziente, può stancarsi in una guerra che non è guerra; per quanto attivo e coraggioso, non giunge o non trova dove il brigante si nasconda; ed alla fine l'esercito non può in colai guerra moralmente guadagnare. L'esercito è una scuola, ed i nostri bravi soldati non possono nulla imparare dall'assassino, dal ladro. (Bene! a sinistra)

Il , sempre vittorioso contro le truppe francesi, spari per mano dei Còrsi stessi. In Sardegna la forza che più fu rispettata ed efficace, ed in tempi difficili, fu quella dei cavalleggeri sardi.

E un recente esempio addita la via salutare al Governo, quello della Basilicata, dove tutti i liberali, rotti gl'impicci della lenta ed inetta burocrazia, e della diffidenza governativa, sorsero, presero i capi a loro cari, vinsero i briganti, e costituirono comitati di pubblica sicurezza in ogni comune.

È un anno e più che il sistema del Governo dà battaglia alla rivoluzione e la rivoluzione reclama insistentemente e il malcontento la ispira e può farla trascendere.

Alle stragi compiute, all'eccidio delle famiglie non si ripara. Molle fortune sono in rovina, il popolo è infelice. Gli odii accesi, le vendette sicurate hanno rotto quel magico accordo, hanno sviato quei fecondo entusiasmo che crea le nazioni.

Ed ora perché la pace ritorni in quelle contrade, e non sia l'opra della forza, perché ogni passione si elevi e convenga al grande scopo dell'unità e libertà d'Italia, perché sorgano di là armati le migliaia e migliaia d'uomini che ci abbisognano; perché ritornino i bei giorni della fede nei destini d'Italia, io non veggo che un mezzo, che le speranze della patria salvezza tutte comprende e coll'amore di un popolo feconda:

Mandate Garibaldi a Napoli.

Egli, invocato da un popolo intero, e testé pregato da migliaia di persone d'ogni classe, d'ogni ufficio, da Consigli comunali e provinciali, da battaglioni di guardie nazionali che apposero la loro firma all'indirizzo che lo chiama in Napoli, vi porterà l'obbedienza, l'entusiasmo, l'amore.

Garibaldi farà presto di quelle popolazioni una sola volontà, un solo braccio per la difesa dei nazionali diritti, dei vantaggi per la nuova Corona d'Italia e il si dissolverà innanzi il popolo entusiasta ed in armi; e senza lo stato d'assedio che i liberali italiani, sicuri nel loro diritto e nella loro forza, non proclameranno mai.

Le provincie napoletane tranquille, la nazione respira liberamente e fortemente confida. E Napoli, rivedendo il suo liberatore in momento di tanto smarrimento e sconforto, rintonerà il suo grido di guerra: Italia e littorio Emanuele, e rinnoverà i patti di concordia e d'amore che ci condurranno all'unità italiana.

Nessuna monarchia, o signori, ebbe mai una rivoluzione di tutto un popolo più ancella e devota ai suoi interessi. Giammai ebbe un intermediario ed un moderatore più leale, più disinteressato, più amato di Garibaldi. Affidatevi all'una ed all'altro; e dissipati così gli spettri dei paurosi e rassodati i vincoli di concordia fra le due forze che sospingono in oggi i destini d'Italia, noi avremo ben presto con minori sacrifizi e maggior dignità nazionale Venezia e Roma.

Le tristi condizioni delle provincie napolitane, reputate, dal presidente del Consiglio croniche ed irrimediabili fuorché dal tempo, hanno la loro ragione d'essere nella questione romana, come splendidamente dimostrò il signor Petruccelli nella questione italiana in Roma.

Difficili condizioni d'Italia! Essa ha nel suo seno il papato, due imperi che si contendono l'influenza su di essa ed un pretendente armato alla porta del regno lungamente posseduto e recentemente perduto.

Il pontefice protegge Francesco II; la Francia il pontefice. E i briganti trovano amici, uomini e danaro per volere del re decaduto, per assenso del papa e per il nonintervento dell'imperatore di Francia. I briganti possono irrompere da Roma nelle provincie napoletane, e non possono essere seguitati dai vincitori in Roma. (Bravo! a sinistra)

192 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Questa è la semplice, quanto la dura verità d'oggi.

La questione italiana in Roma consta quindi di tre forti elementi: il papa, Francesco II e l'imperatore dei Francesi.

Il papa è logico, franco, risoluto. Principe e pontefice si collegano e resistono al mondo.

Dopo l'occupazione dell'Umbria e delle Marche il papa fu più che mai intrattabile colla Francia e col nuovo regno. Colla rivoluzione però che non riconosce il nen possumus scese continuamente a patti; e quando il conciliarsi con essa fu toccato per impossibile, le lasciò libero il campo e parti. II papa partito, la rivoluzione ha vinto, e il solo cattolicismo non lo ricondurrebbe contro l'Italia libera in Roma.

Col sistema attuale di governo che rinnega la rivoluzione, col voto universale non eretto a principio, coll'invocazione di un regno per la grazia di Dio, egli vi rimarrà saldo.

E tenendo in sua mano la testa di questa povera Italia, coprendola col suo triregno, irride alle lezioni che si pretende di fargli, di diritto, di morale, di vangelo, di mansuetudine, di generosità, e grida al mondo cattolico contro di noi: profani io là, che questo è il regno eminente per la grazia di Dio.

Una voce dalla tribuna delle signore. È un anticristo!

Voci generali dalla Camera. Fuori! fuori!

PRESIDENTE. (Scuotendo con forza il campanello, e rivolgendosi alla tribuna delle signore) L'usciere è incaricato di adempiere all'articolo del regolamento che lo riguarda.

La medesima voce dalla tribuna delle signore. Chiedo perdono, signori.

Moltissimi deputati si levano gridando: Fuori di questo recinto!

PRESIDENTE. Ho dati gli ordini opportuni all'usciere e questi saranno eseguiti.

BERTANI. Col papa io non credo, non ammetto possibile transazione alcuna; né il papato è per noi adesso ostacolo serio per entrare in Roma.

Francesco II è il necessario alleato ed il protetto del papa. Intorno ad esso, militante e tenace, si rannodano tutti i pretendenti della scaduta legittimità, del diritto divino, dei nemici della libertà. La lega è grande e potente, ma la Coblenza sul Tevere non isgomenta la Francia come già quella sul Reno.

Francesco II comprenderà che il suo regno è decisamente finito solo allorquando vegga dovunque escluso ogni suo partigiano dalle pubbliche faccende, ed il popolo in armi contro i suoi. Allora soltanto egli abbandonerà Roma per rifugiarsi nella fanatica Corte di Spagna.

Di lui non curiamoci per ora; egli non è che passeggiero impiccio, e veniamo all'imperatore dei Francesi.

Questo è il vero, il solo ostacolo che noi abbiamo per ottenere la nostra Roma, ed il nostro Governo ci disse le tante volte che noi dobbiamo andare a Roma coll'accordo della Francia. Faccio osservare all'onorevole deputato Carutti che l'opposizione votò contro l'ordine del giorno 27 marzo.

Io riconosco ed ammiro la somma abilità dell'imperatore nella statica politica, ed ammetto che l'istinto ed il diritto di sua conservazione gl'impongano mezzi e sistemi che spesso si contraddicono ed escludono. Fra questi ammetto l'odio antico di Francia al papato e la protezione che essa gli accorda.

Nella risultanza degli urti destramente preveduti e difesi egli sa trovare l'equilibrio; e dall'ngitarsi costante dei vari partiti in Francia, egli, veggente ed esperto, sa più che quant'altri lo precedettero su quel trono intendere e governarvi la pubblica opinione.

L'imperatore dei Francesi rappresenta in Francia e nel mondo politico un'istituzione: l'imperialismo, cioè, o il buonapartismo, che non è né la rivoluzione, né la legittimità.

Esso sta da dodici anni in Roma, non per esclusivo vantaggio della religione cattolica, che non corre serii pericoli; non per potenza del partito clericale in Francia, cui egli non può né subitamente annientare, né lungamente sostenere, che non ama né teme; ma vi sta per interessi dell'istituzione che rappresenta, più immediati e mondani. Il cattolicismo e il clericato non sono che possenti mezzi in mano sua mirabilmente congegnati ed usati a suo vantaggio.

Se Napoleone III non fosse a Roma da dodici anni, sarebbe forzato dagli avvenimenti attuali ad accamparmi adesso, per quistione di preponderanza, per quistione rivoluzionaria, per eventualità propizia all'imperialismo.

Convinciamoci, o signori, di questa verità storica e di fatto attuale, e vedremo al di là dello abilissimo intreccio l'immutabile principio che ci deva guidare sulla via della nostra salute, e troveremo la forza in noi per raggiungere il nostro splendido avvenire.

L'impero in Francia è un dispotismo più o meno dissimulato all'interno, ed una tendenza ad aggregazioni di Provincie similari al di fuori.

Ma l'impero non poté risorgere in Francia, farsi forte, che rinascendo dalle fonti del suffragio universale, e non può mantenersi una pressa di continue concessioni al principio di autorità popolare. Ciò per l'interno.

Per l'estero, come già il primo utilizzò i principi liberali del 1789, il secondo impero sa maestrévolmente adoperare in suo prò le rivoluzioni delle nazionalità; e però sa abilmente piegarsi alle impreteribili loro esigenze.

Con questa leva, che suona speranze e scontenti di popoli, egli si è bensì fatto pressoché arbitro potente fra le pretese conservatrici dei sovrani del diritto divino, ed i reclami della libertà e del voto universale; ma egli stesso, cauto e previdente quant'è, riconosce di non poter eludere le conseguenze di fatti per rivoluzione compiuti, ineluttabili per lui, come rigidamente logiche per noi. Non può quindi abbandonare codesti mezzi possenti senza disarmarsi.

La rivoluzione, largamente compresa, fu per noi, ed è tuttavia, checché se ne pensi, la sola forza che può fare la nostra unità e la nostra libertà;se essa s'arresta, perisce, uè il popolo italiano è rassegnato al proprio suicidio. E Napoleone lo sa quanto noi.

Egli scese nel 1859 le Alpi per combattere l'Austria, sua antica rivale, e la rivoluzione; scese in nome d'Italia, e non per l'unità italiana. Nessuno v'ha che lo nieghi.

Fu il popolo italiano che seppe trarre dalla guerra la forza e l'occasione per adempiere al gran voto dell'unità nazionale e ne gettò le indistruttibili basi col voto e colle armi.

Napoleone tentò, ma, fatto prudente dal rifiuto inglese, non volle portare la sua avversione alla rivoluzione fino alle estreme sue conseguenze, perché avrebbe offeso il suffragio universale, sua vita, avrebbe cancellato Magenta e Solferino, e così stretto fra un articolo del trattato del 1813 ed il fascino irruente della Marsigliese, avrebbe distrutto lo stesso bonapartismo.

Qui stanno i cardini della quistione romana; qui sta nascosto il possibile accordo fra le necessità imperiali e le nostre; fra i diversi e reciproci interessi.

L'onorevole deputato Rattazzi ci diceva che la Francia medesima ha interesse ed impazienza di abbandonare Roma, perché i Francesi liberali non vogliono prolungata quell'occupazione, perché i retrivi non sono abbastanza contenti di quell'occupazione limitata e vorrebbero riacquistate al papa le Provincie perdute; perché il pontefice è ingrato e subisce ordini da Vienna, e non accetta i consigli di Francia,

193 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

perché

All'opposizione dei cattolici, che chiamerò temporali, egli aggiunse anche quella dei protestanti, dei volteriani, di cui è sparsa la Francia.

Per un motivo dunque o per l'altro, per chi vuole e per chi non vuole quell'occupazione, l'imperatore dei Francesi, impaziente di evacuar Roma, vi rimane e si rinforza.

Sarei dolente di dover contraddire l'onorevole deputato Rattazzi, se non fossi certo che egli vorrà considerare le osservazioni che vengono facili ai suoi argomenti e contro il suo quiescere ed expectare.

Se i liberali francesi non vogliono prolungata l'occupazione di Roma, perché riconoscono l'errore francese del 18'i9 e le giuste esigenze italiane del 1861, noi, contando sul valido aiuto della loro opinione in Francia, dobbiamo appunto maggiormente insistere, ed insistere con ogni mezzo rivoluzionario per aver Roma, e l'imperatore certamente non vorrà troppo a lungo contrariare tutti i liberali di Francia, che non son pochi.

Se i retrivi e clericali non sono abbastanza contenti della occupazione limitala all'attuale Stato pontificio e vorrebbero riavere il perduto, ragione di più di evacuare presto Roma e far loro perdere ogni speranza; e i retrivi non costituiscono la maggioranza in Francia.

Se il papa è ingrato colla Francia, di cui non ascolta i consigli e da cui è protetta, ed obbedisce all'Austria che gli fu infedele nell'armi, ciò significa apertamente che il papa, accorto, non vede da secoli una causa comune possibile fra lui e la Francia, giacché la Francia è da lungo tempo volteriana, protestante o indifferente cattolica e tiepida papista, e l'imperialismo di Francia ha nella sua famiglia, quantunque nella tomba, un re di Roma; mentre l'Austria non l'ha, e difendendo il papa ed il cattolicismo, difende l'assolutismo, antica fede per lei, dissimulata per la Francia napoleonica, e si serba costante nella formola: papato ed impero.

Ecco perché il papa, logico e diffidente ad un tempo, obbedisce all'Austria, la quale rimane ferma nel suo principio, complice col papato e fiduciosa nel suo trionfo e trascura i consigli dell'imperialismo, di cui conosce i vezzi e la miscredenza e le intenzioni.

I cattolici ed i volteriani di Francia, ci disse l'onorevole deputato Rattazzi, per diversa via si oppongono alla evacuazione delle truppe francesi da Roma e perciò all'unità italiana.

Ma giova osservare che vi hanno cattolici devoti e cattolici indifferenti, e pochi sono certamente in Francia i fanatici per una crociata.

I protestanti, i volteriani in Francia rappresentano là i liberi pensatori, e questi non sono già contro l'unità italiana e sostenitori del papato, ma sono centro le imprese dell'impero e il suo predominio in Italia che gli darebbe forza e durata maggiore.

Io quindi, ammettendo ogni rassegnazione dell'impero pel nostro ingrandimento, anzi ogni suo buon volere per l'unità d'Italia, vorrei che noi da parte nostra gli facilitassimo la via a tanta buona intenzione, a tant'opera buona, premunendoci contro ogni pericolo di ingannare la sua aspettativa e quindi armandoci per essere degni alleati della bellicosa nazione. (Bene! a sinistra)

L'onorevole Rattazzi parlò anch'egli della nostra riconoscenza per il sangue sparso sui campi lombardi. La riconoscenza è un sentimento che non può contrastare i diritti di una nazione. E se noi Italiani vogliamo fare della politica di sentimento, perché non sentiamo in noi stessi la vergogna ed il dolore di lasciare nell'orribile stato in cui sono le popolazioni di Viterbo e di Roma?

I rapporti di debito e di riconoscenza per l'Italia e la Francia non cominciano dal 1859. Ci conoscemmo, ci amammo, ci battemmo assieme e contro altre volte, e per il sentimento più sacro ed inviolabile dell'uomo, quello della difesa della propria casa, della propria libertà; e questa e quella invase ed offese l'occupazione di Francia nel 1849.

Nessuno pensa nulladimeno in Italia a muover guerra alla Francia. Ma nessun Italiano d'altra parte è disposto, ed i Romani e quei di Viterbo a gran diritto ancor meno degli altri, ad attendere la liberazione della capitale, finché i cattolici della Francia e di Spagna siano persuasi nella loro coscienza religiosa di dar Roma all' Italia, o finché Napoleone trovi nell'incerto avvenire un'occasione, a lui propizia od avversa, per partir con onore o rimanervi con maggior potere.

l'armi, in conseguenza, di poter affermare che gl'Italiani sono tanto lontani dal muover guerra all'impero per ottener Roma, quanto l'impero è lontano dal resistere coll'armi al popolo per conservarla, allorachè l'Italia abbia dato guarentigia di bastare a sé stessa e di deciso volere per compire la sua unità.

I soldati francesi morti sui campi lombardi sono abbracciati nelle tombe coi nostri. L'Italia, che non li scorda, sparge fiori di riconoscenza e d'affetto sovr'esse e v'innnalza monumenti. Ed io non so ancora se i soldati francesi morti in Crimea accanto ai Turchi per sostegno d'una dinastia e d'una religione condannata a perire, abbiano fiori e lagrime d'affetto e monumenti dai Musulmani.

Ed allora il politico, che, come suol dirsi, non ha cuore, è indotto a presumere che il generoso sangue francese, che ha bagnato tanta terra in Europa, si spande sempre per l'interesse di Francia.

Ma vediamo ora, o signori, brevemente come il Governo del regno d'Italia abbia intese ed usate le necessità imperiali di rimanere in Roma, e le nostre di andarvi.

lo non ripeterò le cose già abbondantemente e sotto ogni aspetto esposte dai precedenti oratori; chiederò soltanto al Ministero con quale forza di cose, con quale mostra di tenace volontà, con quali forti propositi parlò al papare ed al fortissimo imperatore in nome del regno e del popolo d'Italia.

Con una lettera canonica e con dei patti, contro i quali protestano i liberali italiani, perché fortificano il dispotismo teocratico, colla pretesa di conciliare la rivoluzione col papa, sottomettendola a lui col sostituire l'abbagliante e fallace principio di libera Chiesa in libero stato al principio vero di libera coscienza in libero Stato.

Gli onorevoli Ferrari e Petruccelli nel medesimo concetto mostrarono l'errore ed i pericoli di tale proclamazione, e poco rimane a dire.

Ma un ministro della rivoluzione italiana, che vuole abolire il papato, che vuole intiera l'autorità dello Stato, e che mira all'avvenire, doveva proclamare la libertà delle coscienze, e non d'una Chiesa.

Con questo progetto, inaccettabile dai liberali italiani, ei presentossi al papa ed all'imperatore.

Ma io m'inganno, o signori; il Governo fece di più; sorprese e catturò una tartana con armi destinate alle sponde pontificie ed a far guerra alla Francia.

194 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Con questi gran mezzi, colla lettera, col capitolato e colla tarlala presentossi a Napoleone III, capo d'una bellicosa nazione, arbitro della guerra

E cotanto imperatore non doveva sorridere di pietà per noi, per un Governo si fiacco, per una gente che tace, che paziente, rassegnata, contemplativa, aspetta?

Tocca al Parlamento italiano a mandare solenne ambasciata a Roma perché legga al papa il suo capitolato in nome del popolo italiano.

Il pontefice l'ascolterà, perché quella sarà voce di Dio. Il re di Roma tremerà innanzi i Romani, i quali, lusingati e stanchi delle vane promesse, sentiranno che alfine i fratelli soccorrono ai fratelli;che Roma è per tutti la capitale d'Italia, e, proclamata col voto, bisogna difenderla colle armi.

E l'imperatore vedrà allora eretto un palco fatale innanzi a Ini e, calata una scure, rotolare il capo di un popolano innocente in mezzo le truppe francesi destinate a far la guardia al palco, e ne avrà rossore... E l'ombra vendicata di Locateli! guiderà allora la nazione italiana in Campidoglio.

Si, il Parlamento, interprete e mandatario del popolo italiano, deve ottener Roma col voto e coll'armamento della nazione.

Ma il voto bisogna procacciarlo, interrogarlo. Non basta, in oggi che i plebisciti dispongono dei regni, che sia nel cuore, sulla bocca di tutti; deve essere palese, scritto, cantato; ed è debito del Parlamento promoverlo.

La protesta contro l'occupazione francese in Roma è un modo efficace e solenne per esprimere il voto popolare.

E le ostilità che il Governo mosse contro di essa, furono, a mio avviso, la più malaccorta adulazione politica e inescusahile fiacchezza che un Governo italiano potesse usare.

Quella protesta, mite e dignitosa nei termini, quanto giusta ed incensurabile nel diritto, è un nobile appello alla generosa nazione francese, la quale ha già espresso nei modi che le sono dati la sua disapprovazione per la prolungata dimora delle sue truppe, a' danni d'Italia, in Roma.

Quella protesta è altresì una nuova espressione di quel Voto popolare che è base del diritto pubblico attuale in Francia ed in Italia, e che questo Governo e Napoleone non possono respingere.

Un'altra espressione del voto popolare delle Provincie meridionali contro quell'occupazione noi l'abbiamo, o signori, nell'indirizzo al generale Garibaldi con più che trenta mila firme, che gli dice: fenile a Napoli per condurci a Roma.

Faccia tesoro il Parlamento di codeste manifestazioni nazionali e pensi che gli uomini, i quali posero le cento mila firme alla protesta e le trentacinquemila per l'indirizzo a Garibaldi, sono uomini convinti della suprema necessità d'aver Roma; e che quelle mani usarono della penna per chiedere ragione di un diritto che sono pronte a sostenere colla spada.

E l'armi nostre regolari e cittadine sono una guarentigia indispensabile anche all'imperatore, perché ritiri le sue truppe, perché abbia una giusta e sicura guarenzia contro una nuova preponderanza straniera in Italia. E quali guarentigie di forza ha dato il regno d'Italia all'imperatore, perché lo riconosca in grado di domare da sé la reazione o il gantaggio, di accontentare tutte le diverse popolazioni, di fare insomma dell'Italia un tutto compatto e forte che possa resistere, assalire e vincere quando che sia l'Austria da solo?

Finché il nuovo regno d'Italia non abbia dato alla Francia queste guarentigie, Napoleone terrà le sue truppe a Roma. per la stessa ragione per la quale gli Inglesi tengono la squadra a Napoli.

Armi dunque, o signori, ed armati come e quanti l'Italia può fornire pei bisogni urgenti della patria, per mostrarci capaci di conservare quello che teniamo, di ottenere ciò che ci spetta, di corrispondere colle nostre forze ai nostri destini.

Armi ed armati vi dico, signor ministro di guerra, né intendo che gli eserciti regolari si improvvisino per ciò, ma rammento al Governo che il popolo armato fa miracoli di tempo e valore.

Alla volontà, alle armi del popolo italiano l'Europa consente ogni diritto, ogni successo; ma all'influenza ed alle armi napoleoniche in Italia opporrà la volontà e le armi delle altre nazioni che noi desideriamo invece libere e sorelle.

A Roma, vi ripeto, o signori, colla più profonda convinzione, stanno i destini d'Italia, sta il viluppo e lo scioglimento delle nostre questioni; e guai se non l'attendiamo che dal beneplacito altrui! Guai! se la rivoluzione fa sosta, dirò anch'io, in questo solo concorde col presidente del Consiglio, l'Italia è perduta. E guai al Governo che ne raffredda l'entusiasmo e ne arresta il moto e non riscalda il cuore di Roma.

La Venezia, indomabile nella sventura e intelligente dell'avvenire, comprenderà i pericoli dell'unità italiana se un cannone straniero tuoni sulle sue lagune, e attenderà l'immancabile sua liberazione, quando l'Italia, fattasi con Roma autonoma e forte, salverà se stessa.

E l'Ungheria che invoca il nostro aiuto, la nostra iniziativa, avrà immancabilmente soccorso da noi, allorachè l'Italia libera ed in armi combatterà davvero là dov'è una causa giusta da difendere, una nazione oppressa da aiutare.

Conchiudo io, o signori, che dopo le grandi promesse fallite, dopo i fatti di questi quattordici mesi, la nazione non può più avere fede nell'attuale indirizzo e nel decantato sistema del Governo, il quale si riassume in una negazione di principii e nell'impotenza di fatto; e noi dobbiamo col nostro voto inaugurarne un altro che meglio provegga alla dignità, alle esigenze ed ai pericoli della patria. (Bene! a sinistra)

MINGHETTI. Io non mi trovava nella Camera durante il lungo discorso dell'onorevole deputato Bertani. Ma, entrando or ora, mi fu da taluni amici riferito come egli, dopo aver combattuto molte opinioni da me espresse e censurato molti alti della mia amministrazione, accennasse ad un già ministro dell'interno che si compiaceva di violare il segreto delle lettere e con predilezione di quelle a lui dirette, e soggiungesse poi che, durante l'epoca nella quale io era ministro dell'interno, era nato il nelle provincie napolitane.

Non rispondo, né vorrei rispondere alle confutazioni ch'egli ha fatto delle mie opinioni, né alle critiche de' miei atti politici.

Quanto alla insinuazione rispetto alle lettere, se questa fosse a me diretta (Con forza), io la respingo ricisamente, assolutamente, conscio di non aver mai ordinato cosa che fosse contraria alla legge ed al mio dovere. (Bravo! Bene!) Quanto poi al io lo prego di ricordare che fino dal 18 agosto 1860 era sorto nella Capitanata il Lo prego di ricordare i movimenti del settembre in Matera, e come il giorno dopo che il generale Garibaldi entrò in Napoli dovette mandare il generale Turr per sedarli. Lo prego di ricordarsi i moti di Nola, quelli di Volturara, di Avezzano, di Lanciano e le sventure d'Isernia, delle quali la Camera, fin dal suo primo riunirsi, udì la dolorosa descrizione.

Ecco qual è la storia secondo il metodo del signor Bertani. (Applausi)

Una voce a sinistra. Quelli erano i moti della reazione, non era

195 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

PRESIDENTE. La parola è al deputato Pisanelli per un fatto personale.

PISANELLI. Risponderò a tre soli degli appunti che mi ha rivolti il deputato Bertani e che io non posso passare sotto silenzio.

Egli ha detto che io, ministro di grazia e giustizia durante la dittatura, trascurai di operare quelle riforme nell'amministrazione della giustizia che ora invoco.

Signori, io non mi aspettava questo rimprovero dall'onorevole Bertani, che era in quel tempo il segretario della dittatura.

Io rimasi 52 giorni in quel Ministero, ed egli meglio d'ogni altro conosce che in quel breve periodo di tempo fu l'opera dei ministri consumata in un inutile conflitto, in un'amara lotta colla segreteria del dittatore (Bene!); si voleva usare dei nostri nomi come di un Governo apparente, e mantenerne un altro io realtà (Bene!) diverso da quello che appariva e che io suppongo ed ho supposto sempre anche alieno dal corrispondere alle intenzioni del dittatore (Bene! Bravo! al centro e a destra)

Signori, io mi meraviglio come il deputato Bertani mi rivolga il rimprovero di non aver provveduto alla magistratura in quei ventidue giorni, quando, non ostante quell'acerbo conflitto, io pure molli decreti per mezzo suo sottoponeva alla firma del dittatore, e questi decreti non vennero mai in luce (Segni d'approvazione), e invece si pubblicavano decreti i quali non erano proposti dal Ministero, i quali non erano dai ministri contrassegnali. (Bene!)

Signori, c'è un decreto della dittatura che contiene una riforma del personale, ed è da me contrassegnato.

Ebbene, quest'alto fu il solo firmato, e fu sottoscritto dall'illustre generale Sirtori in un giorno in cui ottenemmo dal dittatore che almeno il prodittatore venisse nel Consiglio dei ministri per udire le nostre proposte e per sanzionarle.

lo dunque non ho la responsabilità che mi appone il signor Bertani, e certo meno di tutti il deputato Bertani potrebbe affermarlo.

L'onorevole deputato Bertani ha soggiunto che io aveva mutato proposito, e che se io avessi spesa la mia debole voce per impedire il plebiscito, certo avrei giovato all'Italia.

CRISPI. E l'armamento?

PISANELLI. Non ho rancore di aver affrettato il plebiscito, e sono lietissimo dell'opposizione che in quel tempo ho potuto fare ai poteri del deputato Bertani, e credo che il paese intero applaudiva alla mia voce e ne era altamente lieto e soddisfatto. (Bravo! Bene!)

L'onorevole deputato Crispi mi ricorda ora di un voto dato per l'armamento nazionale.

Io prego l'onorevole deputato Crispi di rileggere il giornale in cui si contiene l'espressa motivazione del mio voto, e vedrà che le ragioni che mi consigliavano a promuovere l'armamento nazionale nei termini in cui la Commissione Io proponeva erano gravi e sufficienti. Esse tali parvero almeno alla mia coscienza; e certamente non debbo qui dar ragione ulteriore di un voto precedentemente emesso, e dalla Camera sanzionato.

L'onorevole deputato Bertani suppone che io abbia mutato parere. Ma per verità nel mio discorso io bo segnalato come uno degli errori, che corrono in alcune menti, il concetto di coloro che sperano tutto e si promettono ogni bene dalla rivoluzione permanente. Ho combattuto questo concetto nel mio discorso, e non bo mestieri di ripetere le ragioni che bo' già arrecate.

Noi, o signori, siamo in uno stato in cui nessun popolo si è trovato; noi abbiamo riunite alcune provincie, e dobbiamo conquistarne alcune altre.

La politica nostra adunque deve avere un doppio scopo: quello di consolidare le parli già riunite, riordinandole, organizzandole; quello di guardare alle parti da acquistare con forte e coraggiosa aspettazione. Ma a questo duplice scopo contrasterebbe grandemente il sistema di una rivoluzione permanente, che tiene scompigliati gl'interessi, accesi gli animi, in flagrante conflitto tutte le passioni, e non si concilia né le simpatie della gran maggioranza degl'Italiani, né quelle della gran maggioranza dell'Europa. (Bravissimo! Bene! a destra ed al centro)

Inspirato da questa politica, ieri sera l'onorevole deputato Petruccelli, con elegante discorso, il primo ne poneva schiettamente il programma in quest'Assemblea: la rivoluzione inesorabile, i moschetti, i patiboli, lo stato d'assedio, lo scioglimento della Camera; programma a cui (Con forza) io sarò avverso sempre, che combatterò con tutte le forze dell'animo, senza guardare se abbia compagni a destra od a sinistra, ma guardando solo alla mia coscienza, (applausi al centro)

Da ultimo l'onorevole deputato Bertani pronosticava dal mio discorso il mio voto. Io spero ch'egli voglia essere sincero, e dire francamente se non sapesse prima quale fosse il mio voto. 11 mio voto (Con calore) era conosciuto prima della discussione da' miei avversari stessi politici, perché io' aveva dichiarato altamente che non avrei mai dato un voto di censura al Ministero, parendomi che una crisi in questo momento sarebbe stata funesta all'Italia. Ciò però non m'impediva, ho creduto anzi che fosse mio dovere, di esporre a quel Ministero, che voleva sostenere, le condizioni delle provincie napoletane per illuminare il Governo, per illuminare l'animo di tutti quanti sono in questa Camera, non m'impediva di additare i mali del Napoletano. E quei mali io ripeteva in gran parte dagli eventi straordinari, invincibili, innanzi a cui ogni accorgimento umano sarebbe stato rotto e sfatato; io ripeteva anche in parte dai rettori del Governo, ma per tenue parte applicabili alla presente amministrazione. E quali erano i reggitori? Coloro che reggevano il Governo centrale, o quelli a cui era delegalo il Governo locale? E da quante difficoltà non erano tutti attraversali? Io, in verità, non riconosco pienamente, moralmente responsabile la presente amministrazione, se non dal primo giorno di novembre, quando, cioè, cessarono quegl'incagli e quelle difficoltà, innanzi a cui sarebbe stato un miracolo se ogni buon volere ed ogni accorgimento non si fosse rotto e sfatato.

Su questo punto dunque non poteva aver dubbio il deputato Bertani; se lo avesse avuto, ora non è più mestieri che per chiarirlo attenda il momento della votazione. (Bravissimo! Benissimo! al centro e a destra)

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il deputato Bertani per un fallo personale.

BERTANI. Io ho detto, riguardo al deputato Pisanelli, come egli fosse da me più volte in Napoli sollecitato a proporre ed operare la riforma nel personale della magistratura. Quello che ha fatto non lo ignoro; ma io insisteva perché ne facesse maggiormente, come era urgente il fare, e ne aveva facoltà, ed io sollecitava, perché reclamato dalla pubblica opinione; e questo ei non potrà negare. Ripeto adunque che, se ha fatto qualche cosa, non ha fallo tutto quello che aveva debito ed era in suo potere di fare.

Quanto alla sua opposizione al plebiscito io non l'ho accennata.

Egli sa che il plebiscito fu proposto e votato quand'io già da alcune settimane mi trovava lontano da Napoli; ed egli

196 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

Quanto all'onorevole Minghetti, risponderò che i fatti cui egli accenna, occorsi nelle vicinanze di Napoli appena partito il generale Garibaldi, erano fatti di vera e semplice reazione e non già di (Interruzione; il presidente scuote il campanello)

Non bo detto che il fosse esclusivamente sorto sotto l'amministrazione Minghetti; ma che era venuto durante l'applicazione del sistema ch'egli appoggiava e difendeva, e che ebbe il maggior vigore dal mese di ottobre fino ad oggi.

Quanto alla spinosa questione del segreto delle lettere, la Camera comprenderà che, se ho avuto il dispiacevole dovere di accennarla, ei fu perché io ne sono certo e convinto; e dinanzi alla Camera non posso dir altro. La Camera apprezzerà i riguardi che debbo a...

Voci. No! no! A nessuno!

PERUZZI, ministro pel lavori pubblici. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Lascino parlare; poi risponderanno.

BERTANI. Se c'è altra spiegazione a dare, io potrei comunicarla personalmente al signor Minghetti.

MINGHETTI. Domando la parola.

GALLENGA. Il signor deputato Bertani è obbligato o a ritrattare o a dire di chi è la colpa.

PRESIDENTE. Permetta; ella non ha la parola.

Il ministro dei lavori pubblici ha facoltà di parlare.

PERUZZI, ministro dei lavori pubblici. Io devo dichiarare alla Camera che il ministro dei lavori pubblici, dal quale dipendono le amministrazioni delle poste, non può in nessun modo accettare le reticenze che l'onorevole Bertani si vuol permettere. (Bravo!)

Io dichiaro altamente che mai una volta è giunto a mia notizia qualche diceria sparsa nei giornali intorno alla violazione delle lettere, senza che io abbia ordinato una inchiesta; ed assicuro la Camera, sull'onor mio, che mi terrei grandemente disonorato, mi terrei reo di delitto, se permettessi che il segreto delle lettere fosse violalo in onta alla legge che sta scritta solennemente nei nostri Codici, in onta alla morale, dalla quale io credo non debba mai andar disgiunto il pubblico reggimento. (Applausi a destra)

PRESIDENTE. La parola spetta al deputato Crispi per un fatto personale.

CRISPI. Io non so come il deputato Pisanelli abbia potuto far entrare il mio nome nel suo reclamo contro gli appunti fatti dall'onorevole mio amico signor Bertani...

PISANELLI. Se permette...

CRISPI. Il signor Pisanelli credette che da me fosse partita una parola, la quale non venne da me, né fu a lui diretta. (Interruzione a destra)

Mi permettano, rispettino il regolamento... E poiché ho il diritto di parlare, e che il signor Pisanelli discorse della segreteria della dittatura, alla quale anche io presi parte, e che credo onorevolmente aver esercitato, mi lascino rettificare alcune sue asserzioni.

Farò conoscere alla Camera che la lotta, alla quale egli accennava, non parti mai dalla segreteria della dittatura, ma piuttosto dai Ministeri, i quali agivano spesso contrariamente ai voleri del generale Garibaldi. Ricorderò che in molte occasioni i ministri si presentavano al dittatore, nell'assenza del segretario, il quale era l'organo di trasmissione degli ordini del capo dello Stato, ed aveva diritto ad intervenire e a prender parte ai Consigli governativi.

Ricorderò che molti atti della dittatura, quando andavano ai rispettivi Ministeri, non erano eseguiti...

PISANELLI. Domando la parola.

CRISPI... che molti atti restarono sepolti; ricorderò finalmente che più volte, nell'interesse della patria, per la quale avevamo combattuto, nell'interesse dell'Italia, la cui unità era la nostra religione, la nostra fede, io il primo dissi ai ministri d'allora di volersi mettere d'accordo; dissi parole di conciliazione; osservai ai medesimi che ogni discordia nel seno dei Consigli della dittatura avrebbe portato risultati deplorabili. Ed ora ho il dolore di dire che cotesti risultati oggi ci danno materia da piangere. Quindi non era dalla segreteria della dittatura che veniva l'opposizione ai ministri; era dal Ministero che dessa veniva alla dittatura. (Rumori)

I ministri d'allora pensavano che la dittatura fosse un Governo costituzionale; che Garibaldi non avesse i pieni poteri nell'esercizio delle sue funzioni; che ogni atto che partisse dalla volontà dell'uomo che aveva redento 9 milioni d'Italiani doveva controllarsi, allorché essi non avessero preso parte nei momenti in cui quegli atti si compivano.

Spero che né il signor Pisanelli, né qualunque altri che abbia preso parte al Governo d'allora, non vorrà chiamarmi a discussioni che io non vorrei giammai fare; non vorrà chiamarmi a ricordi che io vorrei seppelliti per l'interesse della concordia, per l'interesse della patria, per l'amore d'Italia, la quale si trova in condizioni cosi difficili, che ha bisogno di tutti gli animi, di tutte le intelligenze, di tutta la gente onesta, di tutti i patriotti, senza di che i pericoli non saranno scongiurati.

PRESIDENTE. La parola spelta al signor Pisanelli per un fatto personale.

PISANELLI. Io dirò una sola parola.

Non posso rimanere sotto l'accusa di non aver eseguito, come ministro della dittatura, i voleri del dittatore; e dal canto mio sfido il deputato Crispi e qualunque altro ad indicarmi un solo atto nel quale io sia venuto meno all'adempimento di questo mio dovere.

Aggiungerò poi che tutto il discorso del signor Crispi non riguarda punto me; imperocché il signor Crispi non è venuto alla dittatura, dove io non ho avuto l'onore di conoscerlo come segretario, che quando io era già uscito dal Ministero.

DI SAN DONATO. Propongo l'ordine del giorno puro e semplice; queste discussioni non mi paiono opportune

PRESIDENTE. Permetta, la parola spelta al deputato Jacini per un fatto personale.

JACINI. Avendo io avuto l'onore di dirigere il Ministero, da cui dipende il servizio della posta, per più di un anno, cioè dal gennaio 1860 sino al febbraio 1861, la Camera troverà ben naturale che io mi associ con tutto animo alla protesta e alla domanda fatte dall'onorevole signor Peruzzi, per il tempo che ebbi l'onore di tenere quel portafoglio.

Voci. Torniamo alla discussione!

CONFORTI. Domando la parola per un fatto personale.

Voci. No! no! Basta!

PRESIDENTE. Quanto ai fatti personali io non posso chiudere la bocca a nessuno; io non posso far altro che pregar i signori deputati a rimanersi nei limiti del fatto personale; ma è troppo evidente che ciascuno ha diritto di difendere la propria dignità; diritto che il regolamento guarentisce. (Bravo! Bene!) Il deputato Conforti ha la parola.

CONFORTI. L'onorevole deputato Crispi certamente ha voluto parlare di me, perocché egli dalla Sicilia venne a Napoli

197 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

Il generale Garibaldi volle che io mi incaricassi di formare un nuovo Ministero. Nei diversi abboccamenti che io ebbi con l'illustre generale perorai la causa dei ministri dimissionari, affinché fossero mantenuti in ufficio; ma, essendo riuscita vana l'opera mia, accettai il gravissimo carico, a ciò confortato specialmente dall'onorevole deputato Scialoia, già ministro della dittatura, per motivi che non accade rimemorare.

La segreteria era un potere, il quale funzionava indipendentemente dal Ministero per mezzo di decreti firmati dal generale e dall'onorevole deputato Bertani, segretario della dittatura. Era cosa straordinaria che il paese si reggesse da due poteri, i quali non potevano essere d'accordo tra loro; dei quali l'uno era risponsabile, e l'altro non l'era punto.

Posso assicurare che il paese era orribilmente contrastato da questo dualismo, perocché, ripeto, era impossibile che l'amministrazione della cosa pubblica potesse bene e rapidamente procedere, quando era retto da due poteri i quali erano continuamente in conflitto.

Per questo conflitto e per questo dualismo il primo Ministero, che chiedeva l'abolizione della segreteria, diede la dimissione.

Allorché accettai definitivamente l'incarico di comporre la nuova amministrazione, io ebbi in Maddaloni un abboccamento, in presenza dell'onorevole Bertani, col generale Garibaldi. In quel colloquio io dissi che accettava a condizione che dovesse abolirsi la segreteria. II generale acconsentiva.

Venuto al potere, io insistetti per questa abolizione, e in realtà dopo pochi giorni la segreteria venne abolita. E ciò fu non per ostilità di persone, ma pel bene del paese.

Quando l'abolizione della segreteria fu sottoscritta dal dittatore e conosciuta dal pubblico vi fu una letizia grandissima... (Ilarità) Se credete che queste spiegazioni siano sufficienti

Voci. Sì! sì! Basta!

PRESIDENTE. Avverto la Camera che sono pervenuti al banco della Presidenza due ordini del giorno. Darò lettura d'entrambi, sebbene sembri che si corrispondano.

Ecco il primo:

La Camera conferma il voto del 87 marzo che dichiara Roma capitale d'Italia, e confida che il Governo darà opera alacremente a compiere l'armamento nazionale e l'ordinamento del regno.

Essa prende pure atto delle dichiarazioni del Ministero intorno alla sicurezza pubblica, alla scelta del personale sinceramente patriottico, al riordinamento della magistratura, al maggiore sviluppo dei lavori pubblici e della guardia nazionale, ed a tutti gli altri provvedimenti efficaci a procurare il benessere delle Provincie meridionali, e passa all'ordine del giorno.

«Sono firmati: Raffaele Conforti - Ippolito Amicarelli - Caso - Cesare Correnti-Gennaro De Filippo - Nicola Nisco - Pietro Palomba - P. A. Romeo - Stefano Romeo - Augusto Plutino.

L'altro ordine del giorno è cosi concepito:

«La Camera conferma, sulla questione romana, il voto espresso nella sua tornata del 27 marzo, e confida che il Ministero proseguirà alacremente l'opera del riordinamento del regna e dell'armamento nazionale.

Rispetto alle provincie meridionali, la Camera prende atto delle dichiarazioni del Ministero, e, confidando che i provvedimenti annunziati, massime per la scelta del personale, la pubblica sicurezza, la magistratura, la guardia nazionale ed i lavori pubblici varranno a migliorarne le condizioni, passa all'ordine del giorno.

«Firmati: C. BonCompagni - Vacca - Carlo Alfieri- Audinot - Lacaita - De Vincenzi - G. Lanza - A. Zanolini- Saverio Baldacchini- Jacini - Spaventa - De Cesare - Pisanelli - E. Cugia - Caracciolo - P. E. lmbriani - Carlo Gallozzi - Boidoni - Bonghi - G. Vergili - G. Arconati - G. Borromeo - Guglianetti -Giuseppe Massari - Leopoldo Cempini - Chiavarina - Grixoni - Cagnola - Farini - Carlo Poerio -G. B. Cassinis - Rorà.»

CRISPI. Domando la parola.

PRESIDENTE. In questo momento è pervenuto al banco della Presidenza un emendamento all'ordine del giorno; qui è scritto della maggioranza.

Non so se il proponente, signor Mancini, intenda del primo o del secondo ordine del giorno.

Esso è cosi concepito:

«La Camera, confermando il suo voto del 37 marzo, ed apprezzando gli sforzi del Governo acciò l'Italia abbia la sua capitale in Roma, e vengano migliorate le condizioni delle Provincie napolitane, confida che esso proseguirà ad intendere a questo doppio scopo co' più efficaci mezzi, compiendo operosamente l'armamento nazionale e la restaurazione della sicurezza e dell'amministrazione pubblica, conciliando l'unificazione politica e legislativa col minor sacrifizio degl'interessi, accettando il concorso leale di tutte le oneste frazioni della parte liberale, ed imprendendo una imparziale revisione de' principali alti governativi riguardanti le Provincie napolitane dal 7 settembre 1860, e passa all'ordine del giorno.

Non credo d'aver bisogno di chiedere se questi ordini del giorno sono appoggiati, poiché il numero dei sottoscritti eccede quello di cinque, voluto dal regolamento.

La parola spetta al deputato Mancini, a cui l'ha ceduta il deputato Boggio.

PERUZZI, ministro pei lavori pubblici. Domando la parola.

PRESIDENTE. Il ministro dei lavori pubblici ha la parola.

PERUZZI, ministro pei lavori pubblici. Perdoni la Camera la mia insistenza, ma in un affare di una importanza cosi grande per tutti i cittadini, quale è il segreto delle lettere, io intendo che l'incidente abbia il suo pieno esaurimento. Io intendo assolutissimamente che una volta che un'accusa formale contro la pubblica amministrazione è stata pronunciala in questa Camera, quest'accusa o sia palesamente sviluppata, in modo che ai ministri sia dato adito a di scoprirne i colpevoli e punirli, oppure sia francamente dichiarato che la pubblica amministrazione non vi ha niente che fare. (Con calore) Perdoni la Camera, ma io son troppo interessato nel fatto in questione. (Segni d'approvazione)

CRISPI. Domando la parola per l'ordine della discussione.

PRESIDENTE. Il deputato Crispi ba la parola sull'ordine della discussione.

CRISPI. Abbiamo l'incidente che l'onorevole ministro dei lavori pubblici vorrebbe chiarire, abbiamo gli ordini del giorno che sono stati proposti sul banco della Presidenza. (Rumori)

Mi lascino spiegare.

Per gli ordini del giorno, io credo che non sia ancora il momento, giacché la discussione sulle interpellanze per Roma e Napoli non è ancor finita. (Rumori)


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198 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

PRESIDENTE. La presentazione degli ordini del giorno non importa la chiusura della discussione; finché la discussione non sia dichiarata chiusa, s'intende che continua.

CRISPI. Benissimo. Per rischiarimento mio proprio ho voluto chiedere, se la Camera debba passare alla discussione dell'ordine del giorno, o se continua la discussione generale.

PRESIDENTE. Avrà sentilo che ho detto che la parola spettava al deputato Mancini,

CRISPI. Per quanto riguarda l'incidente della violazione del segreto delle lettere, anch'io credo che non bisogna lasciarla cosi senza soluzione. Ma la Camera capisce benissimo che, trattandosi di nomi, trattandosi di fatti che si possono affermare e negare dalle due parti, ci vorrebbe... (Rumori al centro)

Mi lascino spiegare.

PRESIDENTE. Spieghi la sua opinione.

CRISPI trattandosi di nomi e di fatti che da un lato e dall'altro si possono affermare e negare, la Camera non potrebbe certamente uscire con un verdetto quale conviene ad un simile incidente.

In non sarei contrario, laddove il ministro dei lavori pubblici non dissenta, che si ordinasse una inchiesta (Rumori a destra e assenso a sinistra), una Commissione d'inchiesta (No! no!), nella quale si potranno dire quei fatti, rilevare quei nomi che a questo momento la delicatezza dei deputati non permetterà di declinare. (Rumori - Molte voci: No! no!)

Io quindi opino che la Camera nomini una Commissione d'inchiesta, laddove creda che, per la riverenza dovuta alle leggi fondamentali dello stato e pel rispetto dovuto ai funzionari, ai quali interessa il fatto imputato, quest'incidente non debba rimanere sospeso, ma si faccia tutto quello che è necessario perché venga alla luce la verità, e, ove ci siano dei colpevoli, vengano puniti.

PERUZZI, ministro pei lavori pubblici. Io confesso ingenuamente che sono assai più duro verso gl'impiegati postali di quello che sia l'onorevole CRISPI. Io non ho nessun timore che siano pronunziati dei nomi. Io credo che, quando si asseriscono dei fatti simili dinanzi ai rappresentanti della nazione, bisogna aver tanto in mano da poterli dimostrare. (Bravo. Bene!)

E quanto al rivelare i colpevoli, o signori, non è ad una Commissione d'inchiesta composta di poche persone che si debbono rivelare; ma, quando vi sia il sospetto che le accuse possano esser vere, al Pubblico Ministero, al rappresentante della legge spetta di deferirle innanzi ai tribunali, i quali sono chiamati a punire i colpevoli a termini delle leggi.

PRESIDENTE. Il deputato Gallenga ha facoltà di parlare sopra questo incidente.

GALLENGA lo credo che il verdetto della Camera sia già stato pronuncialo. Quando un deputato fa un'accusa, deve all'atto stesso aver tanto in mano da poterla sostenere, o, in caso contrario, deve sentire la convenienza di rivocarla onestamente. (Con calore) Questa accusa è stata lanciata, signori, non nel calore di una improvvisazione, ma in un discorso scritto (Bravo! Bene!); è stata fatta nel modo il più deliberato che si possa, epperciò o si vuole rivocare, o si deve sostenere e dimostrare. (Applausi)

CRISPI. Chiedo di parlare.

Voci. Parli Bertani! parli Bertani! (Vivi rumori)

PRESIDENTE. La parola spetta al deputato Bertani sopra questo incidente.

BERTANI. Io non ritratto quello che ho asserito, e ripeto

che sono disposto a conferire coll'onorevole Minghetti.....

(Rumori)

Voci. No! no! Si spieghi alla Camera.

PRESIDENTE. Lascino che parli; risponderanno dopo; egli fa la proposta di dare le prove all'onorevole Minghetti; se la Camera non vorrà (Rumori)

Bertani. Mi è impossibile di portar meco le prove (Ah! ah'. ). Le testimonianze, che sono in grado di presentare quandochessia all'onorevole Minghetti, non posso presentarle dinanzi alla Camera, (l'ivi rumori al centro)

Voci. Le presenti alla Camera!

BERTANI. Noi no!

PRESIDENTE. Il deputato Crispi ha facoltà di parlare sopra questo incidente.

CRISPI. Io spero che la Camera vorrà far giustizia alla mia domanda. Se si trattasse di impiegati dipendenti unicamente dal dicastero dei lavori pubblici, io comprendo che il signor ministro Peruzzi, avrebbe il diritto di chiedere seduta stante una spiegazione. Ma l'amico mio, il deputato Bertani, parlò di fatti che dipendono da un altro Ministero...

MIGLIETTI, ministro. Fa lo stesso.

CRISPI. La Camera deve comprendere che per venire a conoscenza di cotesti fatti... (Rumori; segni d'impazienza)

RICASOLI B, presidente del Consiglio. Chiedo facoltà di parlare.

PRESIDENTE. Prego la Camera a voler lasciare che l'oratore manifesti le sue opinioni; così faremo più presto.

CRISPI. Prego il signor presidente del Consiglio a volermi lasciar terminare.

RICASOLI B. , presidente del Consiglio. Ho chiesto la parola, non per interrompere il suo discorso, ma per parlare dopo ch'ella avrà espresse le sue idee.

PRESIDENTE. Parli il deputato Crispi; dopo parlerà il presidente del Consiglio.

CRISPI. Comprenderà dunque la Camera, che per venire a conoscenza dei fatti enunciati bisognerà ricorrere alla testimonianza d'individui che dipendono dall'amministrazione pubblica, e che il pronunciare i loro nomi in questo momento, in quest'aula, importerebbe la loro destituzione. (No! No! Voci e movimenti diversi)

Voci. Se sono i colpevoli, sarà ancora poco.

CRISPI. Io non parlo degl'impiegati che hanno commesso il reato, parlo di quelli che l'hanno denunziato.

Una voce. E se hanno detto il falso?

CRISPI. Io non credo che il Ministero sia così facilmente pronto a perdonare a qualche impiegalo il quale abbia denunziato un fatlò illecito. (Alt! ah!). Io son certo che la prima cosa che si farebbe sarebbe di destituirlo; e noi, a vece di avere destituiti i veri colpevoli... (Nuovi rumori al centro ed a destra coprono la voce dell'oratore)

Domando che mi sia mantenuto il diritto della parola.

PRESIDENTE. Lo ha.

Voci a sinistra. Si lasci la facoltà di parlare!

Voci. Parli! parli!

CRISPI. I miei oppositori hanno il diritto di domandare la parola e di rispondere alle mie osservazioni, ma non hanno il diritto d'interrompermi quand'io parlo.

Voci. Parli! parli!

CRISPI. Io non ho fede nel Ministero; io non credo che sia così indifferente, cosi impassibile da ritenere nella sua amministrazione individui i quali abbiano dato a conoscere dei falli illeciti commessi nella stessa.

perché la luce sia falla non havvi che un solo rimedio, la inchiesta che io domando.

Da quest'inchiesta, che sono certo tranquillerà la coscienza

199 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

PRESIDENTE. L'onorevole presidente del Consiglio ha facoltà di parlare.

RICASOLI B, presidente del Consiglio. Non potrei abbandonare il desiderio che quest'incidente fosse esaurito colla manifestazione completa di quanto si riferisce al fatto rimproverato agli impiegali del Ministero dei lavori pubblici, in quanto che penso che qualunque cosa, la quale non sia conforme alla probità e che possa fondatamente rimproverarsi ad un Governo, per questo solo fatto questo Governo deve perdere ogni opinione nel pubblico. Quindi l'onorevole Crispi, avendo anco esteso un rimprovero ad impiegati d'altri Ministeri, l'affare qui si fa molto più grave, ed ognuno dei ministri vi è interessato. Per conseguenza io, come presidente, come rappresentante dell'onore e della probità del Governo, il quale regge attualmente gli affari del paese, insisto efficacemente onde la Camera non voglia passar sopra questo fitto ed inviti chiunque abbia da manifestare fatti relativi alla probità in qualunque genere degli impiegali pubblici a farlo, manifestandoli con quell'ardimento il quale egli ha la ragione d'avere pel dovere che è imposto ad ogni cittadino di vigilare al pubblico bene, all'osservanza delle leggi e sopratutto ai principii i quali seno enunciali nella nostra Costituzione. (Segni d'approvazione)

PRESIDENTE. Il deputato Brofferio ha facoltà di parlare su questo incidente.

BROFFERIO. Signori, permettetemi che io porti in questa discussione ardente una parola pacifica e tranquilla. (Ilarità) Non mi vogliono tranquillo e pacifico; mi vogliono dunque irritato e collerico (Partii partii)

Io non conosco né i fatti, né i documenti che ha il deputato Bertani per addurre in appoggio della sua asserzione; ma, di qualunque natura siano queste prove, dinanzi all'Italia e all'Europa è d'uopo che abbiano la sanzione matura e prudente della Camera, costituita in apposita Commissione.

Si vuole che il deputato Bertani riveli qui nomi proprii, forse di amici, forse di compagni, forse di persone che si commisero alla fede sua Cioè impossibile il deputato Bertani avrà, se volete, commessa una imprudenza, ma ciò che voi gli imponete sarebbe una viltà. (Interruzioni)

PRESIDENTE. Non interrompano l'oratore.

BROFFERIO. Un po' di tolleranza, o signori; noi vi abbiamo ascoltati; ascoltateci alla nostra volta.

Il ministro dei lavori pubblici dice che questo è affare da portarsi immediatamente al fisco. Ma come? Ma in qual modo? Volete voi dar querela contro un deputato che è inviolabile p?r le parole qui dette? Ovvero volete voi costringere Bertani a dar querela contro il Ministero? E con quali mezzi potete costringerlo, se egli non vuole? Un processo immediato e senza deliberazione del Parlamento, oltre che sarebbe cosa impossibile, sarebbe anche cosa impolitica e illegale.

In qualunque ipotesi, prima che gli atti passino al fisco, deve il Parlamento stesso essere giudice di ciò che deesi fare o non fare nel santuario della giustizia.

In tutti i giudizi penali, prima che i fatti siano posti alla pubblica luce, si fa sempre precedere un giudizio d'inchiesta.

Nei giudizi militari, prima di aprire la discussione pubblica, ha luogo un giudizio d'inchiesta.

Nei giudizi di Corte d'assisie, prima del dibattimento dinanzi ai giurati, segue la segreta discussione dinanzi ai giurati nella sezione d'accusa. Dinanzi al tribunali di circondario si fa sempre precedere, in via di istruttoria, l'ordinanza dell'avvocato fiscale e del giudice istruttore. E voi, per un fatto politico della, più alta importanza, che dovrà avere spettatrice l'Europa, voi volete avventurare un giudizio criminale senza forme, senza istruttoria, senza legali riguardi, senza giudiziali guarentigie, come se la legge e la giustizia non esistessero?

Noi che qui sediamo legislatori dobbiamo avere noi primi la riverenza delle leggi.

Permettetemi, o signori di rammentarvi un episodio del Parlamento d'Inghilterra, simile affatto al nostro disgustoso incidente.

Un deputato gettava nella Camera inglese il sospetto che un ministro della Corona avesse, al tempo della discesa nelle Calabrie dei fratelli Bandiera, violato il segreto delle lettere, togliendo dalla posta una lettera di Mazzini in cui si parlava di quella famosa cospirazione.

Il Parlamento inglese non si accinse ad alti fiscali; ma ordinò un'inchiesta; e dall'inchiesta risultò che veramente un ministro aveva sottratta la lettera di Mazzini e l'aveva trasmessa al re di Napoli, che, come è noto, fece una orribile vendetta di sangue.

Il ministro allora per iscusarsi trasse dalla polvere, un'antica legge, non so se del re Giacomo o della regina Elisabetta, poiché in Inghilterra delle vecchie leggi ve ne sono per tutti (Si ridi), e se non andò assolto dall'opinione pubblica, poté farsi assolvere dalla facile legalità.

Signori, le parole gettate dal deputato Bertani, torno a dirlo, sono ardite e gravi.

Io conosco Bertani; egli è mio amico e so che è incapace di mentire alla verità; egli non parlò per calunniare; egli è incapace di mentire; io lo proclamo. (Bene!)

Non vi è lecito, o signori, perché siete la maggioranza, di mettere un deputato alle strette o di mancare alla verità o di mancare all'onore. Bertani non mancherà né all'una, né all'altra cosa; ma ha diritto di essere tutelato dalle forme legali che proteggono tutti i liberi cittadini. (Bene bene)

Procedendo diversamente voi otterreste una troppo facile vittoria, che non vi sarebbe proficua, perché lascierebbe supporre che aveste usata la violenza, per paura che si avesse campo a far sapere la verità. (Rumori, e voci: Oh! Oh!)

I. ANZA GIOVANNI. Domando la parola.

BROFFERIO. Io vi dico, o signori, non meno per l'onore del mio amico deputato Bertani, che per l'onore di questa parte a cui appartengo, e per quello di tutta la Camera a cui voi tutti appartenete, che questo sarebbe un giudizio inquisitorio degno del medio evo.

Ordinate un'inchiesta, fate che il deputato Bertani abbia campo a deporre i suoi documenti, a presentare i suoi testimoni, e si conoscerà la verità, e vi sarà giustizia per tutti. (Bene!) Io ve ne scongiuro, o signori, come Italiano, come deputato, per la dignità della Camera e dell'Italia. (Bravo! Bene! Applausi dalle tribune)

PRESIDENTE. Silenzio nelle tribune, altrimenti saranno immediatamente sgombrate. 11 deputato Lanza ha facoltà di parlare.

I. ANZA GIOVANNI. L'onorevole Bertani ha pronunciato un'accusa esplicita, la quale può menomare la confidenza del pubblico in un'amministrazione interna, qual è quella delle poste; anzi dirò di più, ha abbracciato anche altre amministrazioni Egli ha dichiarato di avere le prove in mano, i documenti ed i fatti,

200 - CAMERA DEI DEPUTATI SESSIONE DEL 1861

dai quali risulterebbe evidentemente che si è violato il segreto delle Ir Mere. Ora è impossibile che il Gabinetto e la Camera possano lasciar cadere un'accusa di questa natura, senzachè si supponga che essi hanno timore che il fatto allegato dall'onorevole Bertani sia vero. Dunque dev'essere appurato.

Io convengo che a tale effetto si debba ricorrere ad un meno, il quale sia più conveniente, che sia più decoroso per l'onorevole Bertani, ed anche per le persone, le quali avessero a lui rivelato questo fatto.

Due sono i modi che si possono adottare per appurare questo fatto: o la denuncia ai tribunali; e, quando vi sono le prove in mano, quando vi sono i fatti, quando vi seno i documenti, io credo che non sarebbe necessario di andar tanto per le lunghe per dar luogo ad un giudicio.

Queste mezzo non si vuole accettare dalla sinistra; dunque non vi sarebbe che l'altro mezzo di deporre questi fatti, questi documenti, queste prove sul banco della Presidenza, ed incaricare il presidente della Camera di addivenire alla nomina di una Commissione, la quale esamini queste prove. (Si! si! Bene!)

In questo modo io credo che è salva la delicatezza, è salvo il decoro del Parlamento, del signor Bertani e dei suoi confidenti.

BROFFERIO. Accetto la proposta del deputato Lanza.

LANZA G. In questo modo possiamo venire ad uno scioglimento con appagamento di entrambe le parti.

Propongo quindi che sia nominata dal nostro presidente una Commissione di cinque deputati; quali prenderanno cognizione dei documenti, delle prove e dei fatti che il signor Bertani crede di poter addurre per provare il suo asserto. Questa Commissione avrà la facoltà di poter sentire le persone che crederà opportuno d'interpellare per dilucidare la cosa e ne riferirà poscia il risultato alla Camera.

GALLENGA. Come è possibile che la Camera possa dare un voto di fiducia o di sfiducia al Governo, finché esso si trova sotto l'accusa mossagli dal deputato Bertani? Questa controversia vuol essere sciolta prima della votazione.

PERUZZI, ministro pei lavori pubblici. Io non ho difficoltà di accettare la proposta fatta dall'onorevole Lanza, colla riserva però che non sia preclusa al Governo la via di procedere a termini della legge, dopoché sarà stato esaurito l'incidente davanti alla Camera. (Si! si!)

MINGHETTI. Quanto a me, accetto qualunque forma piaccia alla Camera d'adottare.

CRISPI. Noi accettiamo la Commissione parlamentare, la Commissione d'inchiesta, che d'altronde era stata da me proposta.

Questa Commissione bisogna che sia investita di tutti i poteri necessari per venire all'appuramento della verità; liberò del resto il Governo, nessuno gliene toglie il diritto, di procedere poi davanti ai tribunali.

MIGLIETTI, ministro di grazia e giustizia. perché non debba altra volta farsi parola di questo disgustoso incidente, io crederei opportuno che fosse fissalo il termine entro il quale questi documenti debbano essere presentati.

Voci. Domani!

CRISPI. Non ci sono documenti, ma ci sono testimonianze.

Giammai un tribunale nell'istruzione di un processo ha avuto un termine fisso. (Rumori)

MIGLIETTI, ministro di grazia e giustizia. Domando la parola.

Senza un termine fisso si andrebbe all'infinito.

CRISPI. Domando perdono, siamo del mestiere, e sappiamo come si va nell'istruzione dei processi, i quali non possono improvvisarsi, né inconsideratamente compiersi. Volesse Iddio che i giudici del ministro Mìglietti facessero con la chiesta celerità il loro dovere e che in breve tempo istruissero i processi; io potrei citargli più di 500 individui che marciscono nelle carceri di Palermo e che da due mesi non furono sentiti.

Dunque, io ripeto, nella procedura ordinaria non si dà termine ad modum belli all'appuramento dei fatti. La Commissione si nomini immediatamente, si presentino oggi stesso i testimoni; ma non si determini modo e tempo a questa Commissione. Starà ad essa di studiare con tutti quei mezzi che crederà, affinché la verità venga alla luce.

Io non credo, tanto sono sicuro della sua lealtà, che il signor ministro della grazia e giustizia voglia in questo momento mettere il mio amico Bertani in un letto di Procuste, appunto perché l'inchiesta abbia un risultato forse differente da quello che tutti desideriamo che abbia.

Questo io chiedo, altrimenti non potrei acconsentire alla nomina di questa Commissione, ch'essa sia sovrana; e sceglietela, se volete, d'individui appartenenti alla maggioranza, ma che sia investita di ampi poteri

MIGLIETTI, ministro di grazia e giustizia. O l'onorevole Crispi ha voluto travisare la mia proposta, o io non mi sono bene spiegato.

Io non bo domandato che il giudizio della Commissione dovesse aver luogo entro un termine prefisso; io ho domandato unicamente che dovesse stabilirsi un termine per la presentazione dei documenti e per la indicazione dei testimoni.

Se il signor Bertani pronunciò l'accusa, egli deve aver ciò fatto con fondamento, e deve perciò avere in pronto documenti da presentare od i testimoni da indicare; gli è per ciò che io non voglio che si lasci tempo in mezzo; presenti l'onorevole Bertani i documenti, indichi quali sono le persone che fecero a lui queste relazioni, il giudizio poi lo pronunzie» la Camera con calma, e, se ne sarà il caso, giudicheranno poscia anche i magistrati.

PRESIDENTE. La parola spetta al deputato Bixio su questo incidente.

BIXIO. Questa discussione mi fa un'impressione che io voglio comunicare alla Camera.

Pareva a me che in un affare di questo genere bastasse la citazione del fatto avvenuto in Inghilterra perché la Camera si acquetasse. (Oh! oh! Rumori a destra) Il darà questo fatto un'importanza straordinaria, e portarlo fuori del Parlamento, mi pare che diventi una questione di partito... (Rumori e proteste a destra) E perché fu il signor Bertani ch'è l'autore... (Rumori vivi a destra ed al centro); si faccia una inchiesta parlamentare, in nome di Dio, e si faccia con tutti i modi e con tuttala calma necessaria.

PERUZZI, ministro pei lavori pubblici. Domando la parola.

Io debbo respingere altamente la supposizione dell'onorevole Bixio: la violazione del segreto delle lettere non può essere mai una questione di partilo; è cosa superiore a tutti i partili, a tutte le opinioni politiche; è questione di moralità. (Bravo!)

PRESIDENTE. La parola spetta al deputato Ara...

BIXIO. Signor presidente, vorrei parlare per un fatto personale.

PRESIDENTE. Il fatto personale ha sempre la precedenza, perciò io do la parola all'onorevole Bixio.

BIXIO. Il ministro dei lavori pubblici mi pare non abbia

201 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

PRESIDENTE. La parola spetta al deputato Ara.

ARA. Io credo che l'onorevole Crispi non ba ben compresa la proposta dell'onorevole Lanza: egli non ba proposto un'inchiesta parlamentare, che debba seguire tutte le fasi cui alludeva l'onorevole Crispi. In questo momento si tratta di accordare, oppure di niegare al Ministero un voto di fiducia, e noi non possiamo aspettare un giudizio lunghissimo, quale quello cui l'onorevole Crispi alludeva (Rumori a sinistra)

L'onorevole Bertani mostrò la sua ritrosia a palesare in pubblico alla Camera i nomi delle persone, ed i documenti, sui quali fondava le proprie asserzioni, e quindi s'instava per un'inchiesta parlamentare; allora, a mio senso, l'onorevole Lanza propose una via di mezzo, cioè di nominare una Commissione, che ricevesse dal signor Bertani la comunicazione del nome delle persone, ed i documenti, a cui accennava l'onorevole Bertani.

Qualora si segua questo disimpegno, facilissimamente il signor Bertani, presentando e dando il nome ed i documenti alla Commissione nominala dal presidente, si può andar avanti; in difetto noi andremmo non solo per le lunghe, ma in punto tale, che, quando si debbano decidere le questioni che ci trattengono qui da otto giorni, ciò non possiamo fare, come lo dobbiamo con cuore e con coscienza.

Molte voci. Ai voti! ai voti!

PRESIDENTE. Il ministro d'agricoltura e commercio ha la parola.

Cordova, ministro di agricoltura e commercio. Signori, non dirò che quattro parole; e le dirò per rispondere all'onorevole deputato Ara. Il Ministero non ha mai creduto che questo incidente si complicasse colla questione di fiducia, per questa ragione che l'accusa del deputato Bertani era esplicitamente fatta a un Ministero precedente; sono le sue testuali parole: dunque non si traila qui di vedere se questo incidente implica o non implica l'altro affare della fiducia al Ministero; quello che si traila di vedere nel momento attuale è se un'accusa debba pesare sopra uomini politici, sopra una amministrazione pubblica, qualunque sia l'uomo che l'abbia rappresentata, e questa è tale accusa di cui si debbe venire in chiaro in qualunque termini ella sia.

Si proponevano viri partiti; naturalmente il Governo inclinava a quello di portare la questione davanti l'autorità giudiziaria, poiché innanzi tale autorità v'ha la massima pubblicità; ma nessuno ha giammai disconosciuto che la Camera, la quale è sovrana in ciò che la concerne, secondo gli esempi di tutti i Parlamenti di Europa, può deliberare se debba farne oggetto d'una inchiesta parlamentare.

Ora si traila di vedere se la questione debba mandarsi ai tribunali, oppure se debba trattarla la Camera stessa.

La Commissione proposta dall'onorevole Lanza, se io ben penso, non è già una Commissione d'inchiesta, come crede l'onorevole Crispi, ragion per cui voleva che non venisse data una restrizione di termine.

Nominare in questo momento una Commissione d'inchiesta, sarebbe troncare quella questione, che non si può decidere se prima non si ba una certa idea dell'affare, della quantità degl'indizi, della qualità delle prove che sono nelle mani del deputato Bertani.

Se il Parlamento in questo momento nominasse la Commissione d'inchiesta, avrebbe deciso che non rimanda l'affare all'autorità giudiziaria.

Io credo che per un incidente sorto improvvisamente, che si discute, per così dire, sul tamburo, la Commissione proposta dall'onorevole Lanza non può avere altro scopo, se non quello di ricevere le comunicazioni del deputato Bertani e farne rapporto alla Camera, acciò la Camera freddamente determini quale sia la via che preferisce, se un'inchiesta parlamentare, oppure mandar l'affare all'autorità giudiziaria.

PRESIDENTE. Il deputato Lanza ba la parola.

PETRUCCELLI. Domando la chiusura. (Rumori)

PRESIDENTE. Bisogna che il deputato Lanza chiarisca prima la sua proposta.

LANZA GIOVANNI. Come osservava testé l'onorevole ministro d'agricoltura e commercio, il fatto a cui alludeva l'onorevole Bertani sarebbe accaduto sotto un altro Ministero.

Da ciò solo risulta evidentemente che non può essere nell'intenzione di nissuno di farne quistione di fiducia ai ministri presenti.

Mi pare che il solo buon senso suggerisce che qui si tratta di moralità pubblica, di fede pubblica violala, che perciò e destra e sinistra, e quelli che sono in questa Camera, e quelli che sono fuori, tutti sono interessati a farle rispettare.

Dunque non so comprendere come l'onorevole deputato Bixio possa scambiare così i termini della quistione, da attribuire altri fini ed altri intendimenti al Ministero ed alla maggioranza della Camera.

Egli disse che si vuol fare di questo malaugurato incidente una quistione dipartito; ma ciò non può in nessun modo sostenersi.

Infatti si osservò al deputato Bertani che aveva due mezzi per poter provare la sua accusa; uno dei quali era di ricorrere ai tribunali. Nessuno vorrà supporre che i tribunali, nel dare una decisione, si lascino influenzare dal Ministero. Ma il deputato Bertani ed i suoi amici respingono questo mezzo di ricorrere ai tribunali. Non rimaneva che l'altro mezzo di fare esaminare la questione dalla Camera medesima, mezzo d'altronde che venne anche suggerito da altri colleghi del deputato Bertani, come il più conveniente e decoroso nel caso di cui si tratta, e perciò io non feci che concretare la proposta fatta dall'onorevole Brofferio e da altri della Sinistra. l'armi quindi che il partilo da me suggerito non abbia alcun carattere di ostilità o di spirito di parte.

La Commissione dovendo essere composta di deputati scelti dal presidente della Camera, il sospetto di parzialità e di passione politica non può affacciarsi senza recare offesa alla Camera stessa.

I poteri di questa Commissione io credo che non si possano sin d'ora definire. Ciò dipenderà dalla natura dei documenti che verranno presentati, dipenderà dalle prove che l'onorevole Bertani deporrà sul banco della Presidenza, e che verranno esaminate dalla Commissione medesima.

Se le prove sono tali da poter veramente persuadere la Commissione, come hanno persuaso l'onorevole Bertani, sull'esistenza di questo reato, la Commissione potrà presto decidere e presentarne un rapporto alla Camera; se poi sono queste prove assolutamente infondate, oppure questi documenti sono di così poco momento da non poter farne fondamento di accusa, la questione sarà parimenti risolta. In caso poi di grave dubbiezza, la Camera avviserà.

202 - CAMERA DEI DEPUTATI - SESSIONE DEL 1861

PRESIDENTE. Il deputato Bixio ba facoltà di parlare per un fatto personale.

BIXIO. Mi rincresce che l'onorevole Lanza abbia compreso cosi male, mi scusi, il mio pensiero, lo ho detto precisamente che desiderava la Commissione d'inchiesta parlamentare, come aveva proposto l'onorevole Lanza. Io sono l'uomo più lontano di questo mondo dal supporre nel signor Lanza, in particolare che stimo altamente, un uomo di partito. Non sarò stato compreso; ma io ho detto che, secondo me, bastava l'aver accennato il fatto precedente delle Camere inglesi, messo innanzi dal deputato Brofferio, perché la cosa avesse un esito. Il dire poi che, appena nominata questa Commissione dalla Presidenza, si dovesse immediatamente, secondo la proposta del guardasigilli, depositare presso la medesima i documenti, mi parve questa cosa vestire un carattere che poteva, fuori della Camera, essere riguardato come un fatto di partito. Ecco che cosa voleva dire.

Del resto in tutte le questioni pubbliche io desidero sempre le inchieste, ed avrò occasione di domandarne più d'una.

PRESIDENTE. 11 deputato Lanza ha fatto questa proposta: che sia eletta dal presidente della Camera una Commissione di cinque deputati incaricata di ricevere le comunicazioni, le prove, i documenti che verranno forniti dal deputato Bertani, e quindi farne relazione alla Camera stessa per le sue deliberazioni in proposito.

Pongo ai voti... Cordova, ministro d'agricoltura e commercio. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

CORDOVA. , ministro di agricoltura e commercio. Signori, per gli stessi motivi che esposi poco fa alla Camera, io la prego di rendersi ragione di ciò che le si propone, appunto perché gli effetti corrispondano poi a' suoi desiderii.

Se le parole della mozione del deputato Lanza, quando dice che il presidente nomini una Commissione di cinque deputati, alla quale il deputato Bertani farà le sue comunicazioni, e darà le prove e i documenti, si devono intendere nel senso che il deputato Bertani debba a questa Commissione dar comunicazione delle prove che egli possiede, e depositare i documenti che sono nelle sue mani, allora è quella tale Commissione alla quale la Camera mi pare che inclini, vale a dire non già la Commissione d'inchiesta, ma la Commissione che proporrà più tardi alla Camera il partito da prendersi...

Voci. Si! si!

Cordova, ministro di agricoltura e commercio. Poteva dubitarsi, perché la parola prove si potrebbe intendere nel senso che questa Commissione debba essa stessa ricevere le prove nel senso di aprire un'istruzione. ... (No! no!)

È bene che si chiarisca questo prima, perché la questione del tempo dipende poi da ciò evidentemente.

Se la Commissione non deve ricevere che semplici comunicazioni, il deputato Bertani non ha nessuna ragione di cercare un tempo, non badie da addurre alla Commissione ciò che conosce; se però si debbono ricevere anche delle prove, allora naturalmente ci vuole del tempo.

PRESIDENTE. La proposta del deputato Lanza è cosi formolata:

«Nominare una Commissione di cinque deputati incaricati di ricevere dal deputato Bertani le comunicazioni, le prove e i documenti che da lui le verranno forniti, e quindi lame relazione alla Camera.

Alcune voci. E il termine?

PRESIDENTE. Postochè siamo d'accordo su questa forinola, voliamo questa proposta; poi parleremo del tempo.

Pongo dunque ai voti questa proposta

Voci. No! No!

(Vari deputati, tra cui Sella e Susani, domandano la parola. )

PRESIDENTE. Mi pareva che la Camera volesse procedere ai voti: altrimenti il deputato Crispi è iscritto il primo per parlare; poi

Voci. La chiusura! la chiusura!

PRESIDENTE. Essendosi chiesta la chiusura, domando se sia appoggiata.

(È appoggiata. )

Pepoli Gioachino, lo chiedo facoltà di parlare per appoggiare la chiusura.

Io credo che noi ci siamo abbastanza intrattenuti sopra quest'argomento; d'altronde mi pare che il prolungare questa discussione potrebbe fare un pessimo effetto nell'interno, ed anche all'estero. (Movimenti diversi)

Quindi io chiedo che si chiuda questa discussione e che consentiamo tutti nella proposta dell'onorevole Lanza, che mi pare concilii l'interesse ed il decoro di tutti. (Si! Si!)

PRESIDENTE. La chiusura essendo appoggiata, la pongo ai voti.

SELLA. Chiedo di parlare contro la chiusura.

SUSANI. Domando la parola contro la chiusura.

PRESIDENTE. Il deputato Sella ha facoltà di parlare centro la chiusura.

SELLA. L'onorevole ministro di grazia e giustizia, poscia quello per l'agricoltura ed il commercio hanno proposto, se ho bene inteso, che fosse determinato il tempo entro il quale il deputato Bertani dovesse fare le sue comunicazioni relativamente all'accusa che ha lanciata.

Voci. Si vedrà poi dopo, (tumori)

SELLA. Ora di questo limite di tempo nella mozione di cui si è data lettura non è fatto cenno. Io domando quindi che sia aggiunta una parola che limiti questo tempo, e propongo, per conto mio, la parola di domani. (Oh! oh! a sinistra) Si tratta di uà nostro collega che siede in banchi diametralmente opposti a quelli su cui io seggo, è vero; ma io debbo essere tenero dell'onor suo, come del mio. (Bene! al centro)

Ora, è evidente che la proposta della Commissione non ba altro mandato che di udire dal deputato Bertani la nozione di un fatto che la sua delicatezza, e non glie ne faccio appunto, gli vieta di comunicare alla Camera.

Certamente l'onorevole Berlani, non domani, ma questa sera, ma oggi, ma adesso potrebbe narrare questo fallo; ora, se egli non accettasse la proposta che io faccio di comunicare questo fatto domani, potrebbe pensare taluno che egli non abbia le prove in pronto, ed io ripeto che sono geloso dell'onore del deputato Bertani come del mio, e non posso ammettere questo dubbio.

Propongo quindi che sia aggiunta alla proposta falla la parola domani.

CORDOVA, ministro di agricoltura e commercio. Chiedo il permesso di dire due sole parole.

Il deputato Bertani non può avere nessuna difficoltà di tempo, dal momento che la Commissione non deve ricevere che delle comunicazioni e nient'altro. Egli deve comunicare quello che sa e nulla più

Se si vuote imporre un termine, desidererei che la Camera, rispettando sé medesima nella persona del deputato Bertani, che è collega di tutti noi, non abbia l'aria d'imporre on ter

203 - TORNATA DEL 7 DICEMBRE

Presidente Ho già fatto osservare alla Camera che, quanto al termine da (issarsi, se ne parlerebbe dopo adottata la proposta.

Comincierò ora a porre ai voti la proposta falla e appoggiata di chiudere questa discussione.

Chi intende che sia chiusa la discussione su questo incidente, è pregato di levarsi. (La chiusura è approvata. )

Pongo ora ai voti la proposta dell'onorevole Lanza, che cioè sia eletta una Commissione composta di cinque deputati incaricali di ricevere da! deputato Bertani le comunicazioni, le prove, i documenti che da lui le verranno forniti, e quindi ne faccia relazione alla Camera nel termine da fissarsi in seguito.

Quelli che accettano questa proposta, tono pregati di alzarsi. (La proposta è adottata all'unanimità. )

Si tratta ora di stabilire il tempo nel quale

Voci. È inutile! No! no!

Altre voci. Sì! si!

PRESIDENTE. Il presidente deve fare il suo dovere. Fu proposto che si indichi un tempo; debbo dunque porre ai voti la proposta se la Camera intenda fissare in qual tempo la Commissione debba fare la sua relazione.

Il deputato Chiaves ha facoltà di parlare.

CHIAVES. Il signor ministro d'agricoltura e commercio mi ha prevenuto. Credo che la dignità della Camera non sopporti che sia fissato un termine ad un deputato per provare ciò ch'egli abbia asserito, tanto più quando trattasi di un fatto d'alta importanza, come quello che venne allegato dall'onorevole Bertani. Ciascuno, credo, dovrebbe tenersi offeso che ad un suo collega in quest'aula si venisse à dire: voi non indugiente oltre quanto l'onore e la moralità vi delta per dare la prova di un fatto che voi avete enuncialo; quindi credo che la proposta del signor ministro d'agricoltura e commercio verrà accettata, e l'onorevole Bertani saprà provvedere al suo onore quanto basta per non metter tempo in meno alla produzione delle prove. (Bravo!)

SELLA. Non ho difficoltà d'accettare la proposta fatta dal ministro d'agricoltura e commercio, e di ritirare la mia, in coi si stabilisce un termine alla presentazione dei documenti. PRESIDENTE. Il ministro d'agricoltura e commercio ha proposto che il tempo sia prefinito, non già al deputato Bertani, ma bensì alla Commissione, per fare alla Camera la sua relazione; ma né il ministro d'agricoltura e commercio, né alcun altro ha designato il numero di giorni da prefiggersi alla Commissione stessa.

Chiave». Propongo l'ordine del giorno puro e semplice sulla quistione del tempo. Voci. No! no! (Rumori)

PETRUCCELLI. La Commissione, dopo udito il signor Bertani, giudicherà anche intorno a questa questione. Voci. No! no!

PETRUCCELLI. Avete investilo del vostro potere la Commissione; quindi questa si metterà d'accordo col deputato Bertani per istabilire l'epoca della presentazione dei documenti.

CORDOVA, ministro d'agricoltura e commercio. Il presidente della Camera potrebbe egli indicare il giorno in cui la Commissione farà la sua relazione. Può farlo anche un altro deputato.

VALERIO. Faccio la proposta che la Commissione debba riferire alla Camera nel giorno di martedì venturo.

Voci. No! no!

LANZA GIOVANNI. Signor presidente, ho chiesto facoltà di parlare.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il signor deputato Lanza.

LANZA GIOVANNI. lo credo debbasi lasciar giudice del tempo il signor Bertani, il quale è interessato quanto noi, e più di noi, a provare il più presto ciò che ba asserito; giacché, o signori, fissare tassativamente il tempo per giustificare l'accusa, o per riferire, è un mostrarsi diffidenti o verso il deputato Bertani o verso la Commissione, e noi dobbiamo mostrare la massima fiducia verso il nostro collega Bertani, persuasi che egli vi corrisponderà, presentandoli più presto possibile questi documenti; la Commissione dal canto suo non sarà meno sollecita.

Del resto, quando si facesse attendere per 15 o 20 giorni la relazione di questa Commissione, chiunque di noi potrebbe muovere interpellanza per sapere a qual punto sia questo esame; e quando si vedesse che la Commissione è nell'impossibilità di poter conchiudere per mancanza di prove, la causa è giudicata irremissibilmente.

Quindi io propongo che non sia fissato un termine.

Voci. L'ordine del giorno!

PRESIDENTE. Fu proposto l'ordine del giorno puro e semplice sulla questione del tempo; quelli che lo accettano sono pregati di levarsi.

(È adottato. )

La Commissione è composta come segue:

I deputati Lanza, Mellana, Restelli, Depretis e Zanolini; pregato quest'ultimo di far le parti di PRESIDENTE.

Il deputato Ricciardi ha la parola per una questione d'ordine. (Gran parie dei deputati lasciano i loro statli)

RICCIARDI, lo propongo (Le conversazioni coprono la voce dell'oratore) che, stante l'urgenza degli affari, si tenga seduta domani, domenica. (No! no! Si! si!)

PRESIDENTE. Favoriscano di stare ai loro posti, perché si deve votare sulla proposta del deputato Ricciardi, che è di tener seduta domani.

Quelli che l'accettano sono pregali di alzarsi. (Rumori e conversazioni: A posto! a posto!)

(La Camera approva. )

La seduta è levala alle ore 6 1|4.

Ordine del giorno per la seduta di domenica;

Seguito delle interpellanze al Ministero intorno alla quistione delle provincie napoletane.






















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