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DELLE
RECENTI AVVENTURE
D'ITALIA
PER
IL CONTE ERNESTO RAVVITTI.
"La violenza distrugge e non edifica"
CAVOUR, 1848.
GLI EFFETTI.
VENEZIA,
TIPOGRAFIA EMILIANA.

1865.
Vol. 02C
01_A - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_B - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_C - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
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La Civiltà Cattolica, 1866 - Delle recenti avventure d'italia di Ernesto Ravvitti HTML ODT PDF


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CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Pace di Villafranca.

Il quadrilatero. - Condizioni dell'esercito alleato. -L'Imperatore de' Francesi pensa alla pace. - Programma napoleonico inviato a Pietroburgo e Londra. - Wiilisen a Vienna. - Procedimenti prussiani. - Missione di Windischgratz a Berlino. - Motivi di por fine alla guerra.- l'Imperatore Napoleone propone sospensione d'ostilità; questa accordata offre la pace. - II principe Alessandro d'Assia a Valeggio. - Francesco Giuseppe rifiuta l'abboccamento chiestogli dall'Imperatore dei Francesi - Nuove basi proposte per la pace. - L'11 luglio i due Imperatori convengono in Villafranca. - Preliminari di pace compilati da Napoleone III. - II principe rosso a Verona. - II voto dei popoli ed il ricorso alle armi. - Un nato morto. - Cavour al campo. - L'arancio spremuto. - Sfoghi dei burlati. - Compiremo la tragicommedia in due Atti. - Napoleone III. a Saint-cloud. - Ciò che si diceva, ciò ch'era in fatto. - Epilogo.

S

in qui l'Imperatore de' Francesi, tutto, in complesso, avea veduto andare a suo grado; era sulle sponde del Mincio che le difficoltà vere per lui incominciavano, difficoltà militari e politiche. Per chi a traverso i facili piani lombardi muove dal Ticino ad offendere, i grandi ostacoli non si appresentano sinché non giunga a fronte di quel nodo di fortezze che costituiscono il quadrilatero: Verona, Mantova, Peschiera, Legnago. In questo sistema di difesa, Verona, posta a cavalcione dell'Adige, forma il punto pili importante, immenso campo trincierato, di cui niuno poteva valutare al giusto il grado di resistenza, non mai peranco venutane occasione di grandi prove. Mantova sul Mincio è in posizione affatto speciale, inaccessibile dappresso a cagione dei laghi e dei terreni inondabili che le danno grande forza difensiva, soventi volte sperimentata. Legnago era ben poca cosa. Di Peschiera speravasi presto sarebbe caduta sotto il cannone de' Sardi, che da terra doveano investirla, mentre cannoniere francesi, trasportate a pezzo a pezzo sulla strada ferrata, l'avrebbero assalita dalla parte del lago di Garda. Si diceva che Mantova non desse grande apprensione agli assalitori, che invece s'impensierivano moltissimo di Verona.

210 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Inevitabile dunque cingere d'assedio queste due fortezze, al che facea d'uopo di assai ricco corredo di artiglierie. Or mancavano pressoché affatto i grandi parchi di assedio, che l'Imperatore de' Francesi così avrebbe dovuto con molta perdita di tempo far venire di Francia, ed il non aver preso sino a quel momento proporzionate disposizioni a quest'uopo, era altro degli argomenti che si potevano addurre a sostegno di quello singolarissimo vaticinio, rivelazione secondo taluni, fatto dal Mazzini già dal dicembre 1858; che, cioè, gli Austriaci non ripasserebbero le Alpi, Venezia essere statuita sino d'allora pegno di pace coll'Austria, una pace sùbita troncherebbe a mezzo la guerra, e, non appena raggiunto l intento, Napoleone costringerebbe Re Vittorio Emanuele a desistere, concedendogli una zona di territorio, ed abbandonando all'Austria le provincie venete e parte delle lombarde (1).

Per istringere da vicino Manto va e Verona era d'uopo dare ancora almeno un'altra grande battaglia. Ma a ciò le forze impiegate sino a quel momento dagli alleati non erano più sufficienti. L'esercito francese aveva sofferto moltissimo; l'influenza del clima e degli eccessivi calori, che avevano grandemente in

(1) «Per l'Italia, una pace sùbita, rovinosa, fatale agli insorti, a mezzo la guerra; un Campoformio. Non appena Luigi Napoleone avrà conquistato l'intento, accetterà la prima proposta dell'Austria, costringerà il monarca sardo a desistere, concedendogli una zona di territorio, e abbandonerà tradite le provincie venete e parte delle lombarde.» - Parole pubblicate da Mazzini nel suo Giornale Pensiero ed Azione, numero del 15 dicembre 1858.

«Una impresa ispirata e appoggiata da Luigi Napoleone non può avere per mira una Italia; non può estendersi al di là d'un rimaneggiamento, d'un rimpasto territoriale; non può prefiggersi a intento fuorché l'emancipazione dell'Austria, per certi fini, d'una piccola zona di territorio. Ed essi lo sanno. Perché mentono? Perché ciarlano d'Italia alle popolazioni corrive a credere? Perché sommovono colle loro agitazioni la povera Venezia, già freddamente, deliberatamente abbandonata al nemico?» - Parole di Mazzini nel Pensiero ed Azione del giorno primo gennaio 1859.

«La Monarchia sarda non s'accinge a combattere che per un limitato ingrandimento territoriale. Il matrimonio della principessa Clotilde e di Napoleone Bonaparte è il pegno dell'accettazione. Gli Austriaci non ripasseranno le Alpi. Venezia è statuita sin d'ora pegno di pace coll'Austria. L'Italia non è contemplata nella questione.» - Parole di Mazzini nel Pensiero ed Azione del di 15 gennaio 1859.

PACE DI VILLAFRANCA. 211

cagliate le operazioni, erasi fatta sentire sulle truppe in modo fuor del comune; gli ospitali da campo riboccavano di febbricitanti, la dissenteria ed il tifo mietevano vittime ognor più numerose; in particolare i corpi scelti, spinti di continuo nei maggiori combattimenti, avevano subito perdite gravissime; e lo spirito generale dell'esercito, che non mai era stato favorevole alla Sardegna, aveva preso nel corso della guerra un carattere d'avversione che toccava omai ad animosità non celata verso le truppe piemontesi. Le forze dell'Austria non erano rotte per nulla. Gli alleati aveano ancora a combattere un esercito che non la cedeva a nessun altro per disciplina e prodezza; quell'esercito doveva esser attaccato alla fronte, che appoggiavasi ad una linea di fortezze, ciò che veniva presupposto pressoché impossibile. Si poteva pensare d'essere vittoriosi solo irrompendo in Tirolo, passando per Rovereto ed attaccando gli Austriaci alle spalle. E quando pure fosse riescito, senza un attacco alle spalle, sforzare la fronte, isolare Mantova da Verona, invadere il Veneto, obbligare gli Austriaci a rinchiudersi nelle fortezze, diveniva suprema necessità pegli assedianti interrompere ogni comunicazione colle altre province dell'Austria, ciò che non era ancora possibile se non con tagliare la via che nel suo fianco destro lega Verona al Tirolo.

Nell'uno come nell'altro caso adunque bisognava por piede in Tirolo. Il Tirolo però è territorio appartenente alla Confederazione germanica; altro inciampo e gravissimo, che ad ogni patto era mestieri evitare. Certissima cosa era che se un lembo di suolo tedesco gli alleati avessero tocco, Alemagna tutta sarebbe accorsa a difenderlo; altrettanto certissimo che eserciti germanici sarebbero già scesi a soccorso dell'Austria se la Prussia non avesse saputo sin allora destreggiare per guisa da trattenerli. In Alemagna erasi profondamente radicato il convincimento che la linea del Mincio e le fortezze del quadrilatero fossero difese indispensabili pella sicurezza della Germania medesima; ufficiali prussiani, inviati sui luoghi ad istudiare accuratamente la questione, aveano rapportato al Governo di Berlino la stessa opinione. E l'Imperatore de' Francesi aveva bensì, in particolare per le missioni del La-Roncierè (1), avuto buono in mano per vivere tranquillo che

(1) Dal principio del novembre 1858 tre volte in tre mesi il barone

212 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

la Prussia avrebbe serbata la spada nella guaina sinché si trattasse della sola Lombardia, ed era sicuramente persuaso che ned essa avrebbe così facilmente preso parte alla guerra in favore dell'Austria, né, quando si fosse trovata costretta di farlo, non sarebbe scesa in lizza senza suo proprio vantaggio; tuttavia, nulla essendo più agevole che il riconoscere come la politica prussiana, non mai punto ferma in quanto a positive tendenze, si sarebbe lasciata guidare principalmente dagli avvenimenti del giorno e regolare a seconda dei successi, ei non poteva pensare di tenere guarentigie sufficienti sino a quando la Prussia si sarebbe astenuta.

Era difficile, ma pur poteva accadere, che la Germania con impeto irresistibile travolgesse alla sua volta il Governo di Berlino; ovvero, spossata dalla lunghezza di una guerra accanita, l'Austria per avventura poteva un bel giorno accertarsi del soccorso della Prussia con concessioni da questa lungamente ambite in Alemagna. Ed anche indipendentemente da codeste eventualità, vi avea altro pericolo possibile e prossimo. AH estrema ala sinistra degli alleati gli avamposti sardi già toccavano quasi alle frontiere germaniche. Garibaldi, condotta nelle Alpi la piccola guerra con vivacità, per la Valtellina e la Valcamonica si andava dì per dì avvicinando ai confini del Tirolo, che il supremo comando dell'esercito alleato aveva bensì severissimamente ingiunto di rispettare, ma che nullameno, forse eziandio per quella velleità d'indipendenza che Vittorio Emanuele affettava talora di assumere anche in cose guerresche, da un colpo di testa dell'avventuriero o dell'alleato potevan benissimo essere violati. Così quinci e quindi niuno darebbe stato in caso di guarentire che non sopravverrebbe un avvenimento di tal natura da trascinare inevitabilmente, presto forse, la Prussia nella guerra.

Quanto poi dianzi gli era stato a cuore di assicurarsi il concorso della Russia, altrettanto ora l'Imperatore Napoleone sentiva vivissimo il desiderio di 9 posare le armi prima che la Russia, con intervenire nella lotta, potesse schiudersi l'opportunità

La Roncière le Noury, capitano di vascello francese, erasi da Parigi recato per Berlino a Pietroburgo con segretissimi incarichi presso lo Czar ed 11 Principe Reggente di Prussia.

PACE DI VILLAFRANCA. 213

di dar mano a conseguire in Oriente que' compensi, che a mal in cuore egli aveva dovuto prometterle per aversela amica in Italia. Gli sapea duro, infatti, quel dover disfare colle sue mani medesime in parte opere proprie di pochi anni addietro. Né lo Czar nulla avrebbe, pensava, potuto trovare a ridire, se, raggiunto da per sé in Italia quanto stimasse bastevole al suo scopo, avesse, a fronte di una prossima minaccia di guerra generale, conchiusa nell'interesse della Francia una pace onorevole, prima che la Russia pe' suoi particolari interessi si fosse trovata in condizione di sparare un cannone. Lasciare la Russia col naso all'aria prima che fosse stata in caso di nulla intraprendere; tagliare la strada alla Prussia prima che avesse potuto venire innanzi a cinguettare, come sperava, quale grande Potenza europea; impedire ogni intervento dell'Alemagna, che si avrebbe tratto dietro quello dell'Inghilterra, prima ancora che avesse potuto dar fuori; aizzare l'Austria contro la Prussia, e spargere diffidenze e rancori nel seno della Confederazione germanica; abbarbagliare l'Europa cogli aspetti della moderazione e conseguire in Italia a mezzo della pace più di quanto si avrebbe forse potuto ottenere a mezzo della guerra; se tutto questo si avesse potuto raggiungere, erano risultamenti siffatti che ben avrebbero avuto importanza migliore di qualsivoglia più splendida vittoria campale. Tutta la difficoltà stava nel condurre a tempo opportuno l'Austria sul terreno dei sacrifìcii e della pace. Or come la Russia servi vasi delle minacce verso la Germania per incalzare la guerra, ei poteva valersi dei volteggiamenti della Prussia per affrettare la pace.

Quando l'Imperatore de' Francesi vide che la battaglia di Magenta gli ebbe dischiusa la via a Milano, ben deciso, che che ne pensassero coloro cui poteva interessare questo appunto avvenisse, a non provocare certamente per cagione d'Italia una grossa guerra europea, aveva già rivolto l'animo a concertare un programma delle condizioni alle quali, allorché avesse stimato meglio di deporre le armi, ei sarebbe venuto ad assentire la pace; un programma che, se accolto dalla Russia amica, si potesse con assai di probabilità sperare accettato eziandio dal nuovo Ministero inglese, né seriamente rifiutato in tali circostanze dalla Prussia, la quale al più si sarebbe limitata a trame un qualche

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profitto, in ispecialità se la Francia dopo grandi successi guerreschi avesse dimostrata una straordinaria apparente moderazione. Codesto programma era: - L'Italia resa a sé stessa, nazione libera ed indipendente. Una Confederazione di tutti gli Stati italiani. Aggrandimento del Regno di Sardegna mediante la Lombardia ed il Ducato di Parma. Creazione d'uno Stato indipendente dall'Austria, formato delle province venete e del Ducato di Modena, sotto un Arciduca austriaco. La Toscana data alla Duchessa di Parma (1). Un Vicereame con amministrazione laica nelle Legazioni. Un Congresso sarebbesi ragunato per riordinare l'Italia sopra queste basi, tenendo conto dei giusti desiderii e dei voti dei popoli.

Con tale programma l'Austria sarebbe, stata esclusa affatto dalla Penisola, e la frase dell'Imperatore de' Francesi nel proclama di Milano: l Italia libera dalle Alpi ali Adriatico, fatta udire ne' giorni medesimi in cui lo stesso Imperatore volgeva la mente a codesto disegno di pacificazione,

(1) Il trasferimento dei Borboni di Parma a Firenze era esso medesimo, nel senso napoleonico, una rivendicazione e protesta contro i Trattati del 1815.1 Borboni di Spagna si erano già accostati alla Francia nel tempo della Convenzione. Nell'agosto 1800, inviato a Madrid il Berthier, questi vi soscrisse un Trattato eventuale, in forza del quale il primo Console obbligavasi di procurare al Duca di Parma un'ampliazione di Stati in Italia, che fosse di un milione e dugentomila anime incirca, accertargli il titolo di Re, e farlo riconoscere da tutti i sovrani d'Europa al tempo della pace generale: in ricambio doveva la Spagna, tostoché parte di queste condizioni fosse adempita, cedere alla Francia la Luisiana integralmente com'era allorquando fu data da Luigi XV. a Carlo III., ed aggiungervi sei vascelli di linea, armati di tutto punto e di ogni cosa forniti. Il Trattato di Lunèville pose termine alla guerra della seconda Lega, e per la seconda volta concesse alla Francia un collocamento da signoreggiare in Italia. Fra le essenziali disposizioni di quello era la cessione della Toscana, promessone al Granduca un compenso in Alemagna. Trovatosi in tal modo il Bonaparte in condizione di poter adempiere i suoi obblighi contenuti nella stipulazione di Madrid, il Granducato di Toscana, col Trattato d'Aranjuez del 21 marzo 1801, fu eretto in Reame col nome di Regno di Etruria. Al giovane Re Lodovico, morto il 27 maggio 1803 in Firenze, succedette il figlio, Lodovico IL, sinché, il 23 novembre 1807, il Regno etrusco fu aggregato all'Impero francese. L'Atto finale del Congresso di Vienna, segnato il 9 giugno 1815, confermò la sovranità sul Granducato di Toscana all'Arciduca Ferdinando d'Austria.

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quella frase poteva appieno, nel senso napoleonico, essere una verità. L'Arciduca austriaco, che avrebbero chiamato ad occupare il trono del nuovo Regno veneto, e nella mente dell'Imperatore de' Francesi era il cessato Governatore del Lombardo-veneto, Arciduca Ferdinando Massimiliano, diverrebbe pe' suoi interessi principe italiano. Casa Savoia coll'acquisto della ricchissima Lombardia e del Ducato di Parma si sarebbe trovata signora del più potente reame della Penisola; mentre, ricinta intorno intorno dal Regno etrusco e dal veneto, alla incolume esistenza de' quali avrebbe sopravvegghiato la Confederazione, sarebbonsi elevate barriere durevoli alle sue crescenti ambizioni di più vasto dominio. Colla erezione di un Vicereame laico nelle Legazioni, sotto l'alta sovranità nominale del Papa, l'Imperatore de' Francesi poteva tenersi prosciolto da' segreti impegni contratti, e ad un tempo schiudeva con un precedente riconosciuto dall'Europa la via alla separazione futura di altre parti dello Stato della Chiesa. Poi, allorché il Congresso si sarebbe adunato, si avrebbe rimessa in campo la richiesta formale al Pontefice di accordare liberali riforme ne' suoi residui dominii, e la lettera ad Edgardo Nev sarebbe tornata ancora una volta alla luce. E l'obbligo, che si voleva avesse il Congresso, di prendere in considerazione i voti dei popoli, non impediva guari che a miglior momento si procurassero convenevoli dimostrazioni, e per arti e violenze i Borboni di Napoli si vedessero nel frattempo soppiantati da Luciano Murat nelle province di terraferma, ed in Sicilia o da una secondogenitura di Casa Savoia, o dal principe Napoleone, che non peranco, in onta a' disinganni patiti, avevansi perdute tutte affatto speranze di trapiantare a Firenze.

In sostanza non correa gran divario tra codesto progetto ed i primitivi disegni di Napoleone III. sulla Penisola (1). Costituita questa a tal modo, esclusane del tutto l'Austria, Napoleone nullameno raggiungeva nella sua essenza lo scopo di un'Italia francese, un'Italia che, a guiderdone della sua indipendenza, dovesse con lieto animo portare il basto sovrappostole dalla Francia. L'Austria rispinta, in sostanza, al di là delle Alpi; la Lombardia e Parma per sé; la Sicilia per la sua secondogenitura;

(1) Vedi; Le cause, Vol. I., pag. 133.

CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Le Legazioni, al cui governo, sinché fosse venuto tempo più propizio per annetterle definitivamente, Sarebbe stato chiamato un principe sabaudo; erano doni sì fatti che ben avrebber dovuto astringere i Beali di Sardegna a fare onore alle promesse di Plombières con cedere Savoia e Nizza alla Francia. Che se all'acquisto di codeste due province fosse stato di ostacolo la incompleta esecuzione dell'impegno, preso dall'Imperatore de' Francesi, di costituire per Gasa di Savoia uno Stato d'intorno a dodici milioni d'abitanti, il voto dei popoli avrebbe accomodato ogni cosa coll'annessione del Ducato di Modena o qualche altro territorio al Piemonte.

Questo disegno di pace, comunicato a Pietroburgo, eravi stato accolto con indifferenza, che potea credersi né opposizione, né approvazione, il solo mutamento di dinastia a Firenze parendovi più schiettamente avversato (1). Il principe Gortschakoff da Pietroburgo e lord Russell da Londra facendolo pervenire confidenzialmente a conoscenza del Ministro austriaco alle cose esterne, il conte di Rechberg, allora in Verona presso l'Imperatore, Russia e Gran-Bretagna, trasmettendo quel disegno, avvertivano non esser cosa propria, ma della Francia, ed inviarlo per preghiera di questa. Se non che dal momento in cui il Bonaparte lo avea fermato in mente e fatto viaggiare a Pietroburgo ed a Londra, sopraggiunti altri avvenimenti, nell'animo suo eransi radicati ognor più fermi propositi.

Infrattanto la Prussia, che non avea avuto parte allo scoppio della guerra, s'introduceva destramente, non come membro della Confederazione germanica, ma come grande Potenza europea, per accampare la pretensione che la guerra non potesse finire senza di lei. E questo, come non poteva riescire gradito alla Germania,

(1) Per quanto si riferisce alla voce che in quel momento correva su pe' Giornali, essere stata la Corte di Pietroburgo ostile alla restaurazione del Granduca di Toscana, potrebbe dar norma il seguente dispaccio, inserito nel Blue-Book, (The affaires of Italy, 1859, pag. 105).

«Lord Cowley al conte di Malmesbury.

» Parigi, 7 giugno 1859.

» L'Ambasciatore di Russia ha formalmente notificato al Governo» francese, che l'Imperatore di Russia non riconoscerà punto il Governo» provvisorio di Toscana, atteso che Sua Maestà Imperiale considera il» Granduca come legittimo sovrano di questo Ducato.»

PACE DI VILLAFRANCA. 217

non doveva neppure convenire all'Imperatore Napoleone. Per la gloria della Francia, e, quantunque in segreto, per il suo vantaggio materiale eziandio, ei già avea fatto abbastanza, e dopo i successi brillanti ottenuti in guerra gli era permesso di modificare alquanto il suo primitivo programma, senza dover temere di offuscare lo splendore delle armi francesi. Condotte le cose a quel punto, una pace ch'egli avesse conchiuso direttamente coll'Austria, senza intervento di chicchessia, mentre mandava a male eziandio tutti i progetti della Corte di Berlino, poteva disunire completamente da questa l'Austria, che tanti motivi a suo riguardo già aveva di malumore e sospetto, e schiudeva larga via ad uno scisma nella Confederazione germanica, forse assoluto, incurabile, che avrebbe potuto porgere in appresso all'Imperatore Napoleone la più favorevole occasione d'intraprendere una nuova guerra localizzata contro l'uno o l'altro degli Stati germanici.

La possibilità di conseguire questo grande successo politico insieme a quegli alti scopi, cui colla sollecita posa delle armi confidava ornai di raggiungere, stava principalmente nello spediente che si avrebbe dovuto adoprare per indurre l'Austria ad accettare una pace evidentemente precoce e dannosa. Or questo spediente offeriva in buon punto la Prussia medesima col suo progetto di mediazione. Il dispaccio del 24 giugno, con cui la Prussia invitava Inghilterra e Russia ad accedere alla mediazione armata, collegato all'altro nello stesso giorno spedito da Berlino agli Inviati delle Potenze germaniche, doveva inasprire vie più l'Austria contro la Prussia, divenuta a' suoi occhi amica e confederata più che sospetta; ed in tale disposizione dell'animo, l'Austria che teneva da Londra e da Pietroburgo quel foglio di carta su cui erano scritte le condizioni alle quali sarebbele stata assentita la pace, con tutta probabilità avrebbe dato miglioro ascolto a proposte direttamente offertele da Napoleone, quando queste fossero per lei sembrate di minor danno che quelle sulle quali appoggerebbesi l'armata mediazione, intorno a cui si affaccendava la Prussia.

Per fermo nulla di più naturale che la Corte di Vienna avesse guardato e guardasse con crescente diffidenza i procedimenti del Governo prussiano a suo riguardo.

218 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Dapprima una lunga serie di piccole ostilità avea dovuto ingenerare nell'Austria un dubbio sospettoso; accesa la guerra, il suo contegno erasi fatto ognor più equivoco. Allorché l'Annover, il 13 maggio, presentò alla Dieta germanica la proposta di riunire nell'Alemagna meridionale un corpo di osservazione rinforzato da contingenti austriaci, la Prussia non solamente protestò contro questa misura, che dichiarava dannosa, ma ben anco mise in campo la pretensione di avere essa il diritto d'iniziativa per tutte quelle questioni politico-militari che nelle soprastanti condizioni potevano sorgere per la Con federazione e nella Dieta stessa. Quest'incidente, ed il malumore palese che ne conseguitò, determinarono il Principe Reggente ad inviare a Vienna il generale Willisen per combinare, diceasi, una reciproca spiegazione. Willisen partì con istruzioni, la cui parte più determinata poteasi compendiare nella frase: non fare per parte della Prussia alcuna dichiarazione positiva.

Giunto a Vienna, le sue prime parole bastarono a chiarire che la Prussia voleva conservare sempre l'antica sua posizione: rimanere una grande Potenza per la quale tanto l'Austria quanto la Francia avevano lo stesso significato, con che l'Austria non aveva maggiori ragioni per l'amicizia o la nimistà della Prussia che la Francia stessa. La Prussia, avendo da principio cercata la mediazione, pensava di riproporla anche più tardi; solamente che a guerra incominciata voleva a sé riservata piena libertà per la scelta del momento che più stimasse opportuno. Una volta que sto arrivato, la Prussia, diceva, potrà porsi d'accordo colle altre Potenze neutrali, o quasi neutrali, sulle basi della mediazione. Secondo il suo modo di vedere, doveva essa considerare la conservazione dei possedimenti austriaci in Italia come la più essenziale di queste basi; quanto ai Trattati speciali dell'Austria in Italia, la Prussia essere del parere che l'Austria vi debba rinunciare. Rispetto alla sua posizione verso la Confederazione germanica, essere opinione della Prussia, che per la Confederazione non siavi caso di guerra sino a che i confini dell'Alemagna non sieno attaccati. Spettare alla Prussia come grande Potenza europea il compiere l'opera della mediazione. La Dieta ed i singoli Stati germanici non dovervi comparire che come Potenze militari ausiliarie della Prussia. Questa le dirige; ad essa soltanto competere la scelta del momento di rompere la guerra, quando ciò essa


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PACE DI VILLAFRANCA. 219

credesse necessario. L'Austria non potere aver voce nella Dieta, trovandosi già impegnata.

In allora il progetto di mediazione prussiana formò la base delle ulteriori trattative: L'Austria l'accettò. Ad essa naturalmente premeva di sapere anzi tutto sopra quali basi la Prussia intendesse procedere nella sua mediazione. Willisen non era al caso di nulla rispondere di concreto. Allorché l'Austria parlò del postamelo dell'esercito della Prussia e della Confederazione germanica sul Reno, Willisen replicava essere necessario, prima di prendere una risoluzione in proposito, di attendere che fosse avvenuto in Italia un grande fatto d'armi. Egli faceva specialmente risaltare che la Prussia con quel suo contegno di aspettazione costringeva la Russia a tenersi lontana dal campo di azione; e la Prussia, da una parte proteggendo i confini del Reno, dall'altra tenendo in iscacco la Russia, permetteva all'Austria di gettare tutte le sue forze in Italia, mentre di tal maniera astringeva nello stesso tempo la Francia a concentrare verso i confini della Germania forze considerevoli. In sostanza la Prussia voleva comparire quale mediatrice col desiderio ben espresso che l'Austria lasciasse a lei campo libero in Germania e nella Confederazione. L'Austria ben a ragione doveva adombrarsi principalmente su questo punto. La Prussia come Potenza egemone, dovettero forzatamente pensare a Vienna, vorrebbe spingerci fuori della Confederazione, ma appunto questo non possiamo accordare né volere. Ai dubbii ed ai sospetti venivano così a sostituirsi i rancori.

Willisen ritornò a Berlino il 29 maggio. L'Austria desiderava ora che si avesse da constatare il risultato delle trattative avvenute con Willisen, ed in ispecie la data assicurazione, che la Prussia voglia considerare la conservazione dei possedimenti austriaci in Italia, come base principale della sua mediazione. Intanto avveniva la battaglia di Magenta, e, cominciato lo sgombro della Lombardia, il possesso di fatto mutavasi realmente in grave danno dell'Austria. Questa assicurazione, rispose allora il Governo di Berlino, somiglierebbe ad una guarentigia della Lombardia, e la Prussia, assumendola, escirebbe dalla sua posizione di mediatrice; in quella vece scrisse a Vienna (1),

(1) Dispaccio del conte di Schleinitz, Ministro aprii affari esteri, al conte di Arnim, Ambasciatore di Prussia a Vienna, del 14 giugno 1859.

220 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

in termini assai vaghi, che avrebbe fatto tutto il possibile per conservare all'Austria i suoi possedimenti, ed il Governo prussiano attendersi di presente che l'Austria volesse corrispondere alla sua con altrettanta fiducia, dandone un pegno alla Prussia col suo contegno verso la Confederazione. Questo linguaggio, in cui si compendiava tutto il risultato della missione Willisen e in realtà nulla stabiliva, molto meno la guarentigia per la conservazione della Lombardia, contentò poco, e si comprese che la Prussia per intanto non avrebbe preso parte attiva alla guerra, e fatto poi dipendere il modo della sua mediazione dal possesso reale esistente al momento in cui avrebbe dato principio alla mediazione medesima.

Quando poi per, la ritirata degli Austriaci dalla Lombardia, il popolo tedesco inasprito fé temere che la Confederazione si staccasse dalia Prussia per unirsi all'Austria, il Gabinetto di Berlino, mentre invitava Inghilterra e Russia di farsi a lui compagne mediatrici armate, decideva subitamente di por l'esercito in assetto di guerra, e proponeva alla Dieta germanica l'entrata in campo d'una gran parte dell'esercito federale lungo il Reno superiore, mentre i corpi prussiani mobilizzati si sarebbero messi in ischiera sul Reno centrale ed inferiore. Questa richiesta della Prussia fu approvata dalla Dieta di Francfort il 2 luglio. S'ingannavano a vicenda: la Germania credendo di muovere i suoi eserciti per accorrere questa volta davvero in soccorso dell'Austria sul Reno, mentre il Governo di Berlino non altro avea in mira che di spalleggiare colla vana mostra di grandi forze militari il suo progetto di mediazione, col proprio esercito in assetto di guerra contenere gli altri Stati tedeschi, ed imporre all'Austria quelle condizioni di pace che, scritte dall'Imperatore de' Francesi, Inghilterra e Russia non aveano avversate; il Governo di Prussia credendo di aver trovata a buon mercato l'occasione di effettuare i suoi disegni e di profittare degli impacci dell'Austria per fare la Prussia padrona dell'Alemagna, mentre la Germania pensava che, una volta condotto l'esercito prussiano sui confini della Francia, il partito di Gotha, dominante nel Ministero in Berlino, sarebbe stato suo malgrado alla perfine trascinato nella guerra, impotente più a lungo a resistere allo slancio prevalente della pubblica opinione.

PACE DI VILLAFRANCA. 221

Chiedendo a Francfort per sé il comando di tutti i contingenti federali mobilizzati e da mobilitare, non come membro della Confederazione, bensì come Potenza europea, senz'obbligo di giuramento da prestare o d'istruzioni da ricevere, una vera dittatura militare; neanche in questo caso il Gabinetto di Berlino non diede nessuna spiegazione chiara ed ufficiale sopra lo scopo degli armamenti ed i proprii propositi, che anzi la Prussia fece dichiarare a Parigi, a Pietroburgo ed a Londra, che le sue intenzioni erano pacifiche, ch'essa era ferma nel voler continuare nella sua politica d'aspettativa, e se si facevano armaménti, ciò era per quietare i mali umori popolari e tutelare la Confederazione.

In sostanza, come prima del? apertura delle ostilità, quando l'ardor guerriero era grande nel popolo tedesco e la pubblica opinione tale che non avrebbe permesso a nessun governo alemanno e neanche al prussiano di conservarsi neutrale, ma tutti sarebbero stati sforzati di far causa comune coll'Austria, il Gabinetto di Berlino pel desiderio di vedere l'Austria indebolita ed umiliata non avea voluto rendere la guerra impossibile, non parendo probabile che si volesse andare contro la Germania intera; così ora, rotta la guerra, dopo che, invece di unirsi schiettamente colla Confederazione e senza secondi fini capitanarla a difesa dell'Austria, il che gli sarebbe valuta senza dubbio quell'egemonia in Germania ch'esso agognava da tanto tempo, avea preferito di continuare a farla da mediatore con una mediazione senza nessuna base determinata, ancor nell'ultimo istante il Governo di Prussia, in opposizione ai voti della grande maggioranza del popolo e dell'esercito prussiano, giudicava più conforme ai suoi interessi di nulla fare di veramente chiaro e fermo, e di aspettare, per prendere una risoluzione definitiva, ciò che sarebbe accaduto, checché dovesse accadere. Ancorché si dicesse che la Prussia era ormai per operare secondo il testamento di Federico Guglielmo III., il quale aveva caldamente raccomandato a' suoi succe% sori di restar fedeli all'alleanza dell'Austria, e si pensasse ch'era giunto il momento in cui il patriottismo tedesco dovea trionfare dell'egoismo privato; ancorché si buccinasse che il Principe Reggente, il suo primo Ministro ed il Ministro della Guerra desideravano ciò da un pezzo, ed il linguaggio misterioso, ambiguo, riservato e pacifico dei documenti ufficiali non era che cautela e

222 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

prudenza, i fatti intanto attestavano per lo contrario che si ripigliava la politica del conte di Haugwitz, seguita già nel 1805 ai tempi della battaglia d'Austerlitz, quando la Prussia, senza al" learsi con alcuno, ottenne per sé vantaggi e aggrandì menti.

L'Austria non poteva rimanere pia a lungo in cotanta incertezza, il peggiore di tutti mali; ed al principe Alfredo di Windischgratz fu dato l'incarico di recarsi a Berlino per cavare di bocca finalmente quali fossero le vere intenzioni della Prussia. Windischgratz giunse in Berlino al 3 di luglio. Intanto l'Austria proponeva alla Dieta di Francfort di mobilitare l'intero esercito della Confederazione, compresovi il contingente austriaco, e di affidare il comando supremo dell'esercito federale al Principe Reggente di Prussia, non come a Potenza europea, ma come a membro della Confederazione. Contro quest'ultima proposta, era il 7 luglio, la Prussia protestò. Fu sprazzo di luce che illuminava i più riposti angoli della scena. A Berlino Windischgratz insisteva per la cooperazione attiva della Confederazione; a Franca fort la Prussia rispondeva con una protesta. Il dubbio non era più possibile; le male disposizioni del Gabinetto prussiano per l'Austria, conservate sino all'ultimo istante, e l'inutilità della chiamata alle armi di tante truppe, e con tanto fracasso, erano messe allo scoperto. Prussia e Germania andavano bensì ad un tempo sul Reno, ma eran diversissimi gli scopi; la Germania vi andava per la nazione, la Prussia per sé, e per contenere intanto col suo esercito l'Annover, la Sassonia, la Baviera, il Wurtemberg e gli altri, ch'erano pronti a difendere l'Austria. In quel mentre, sulle sponde del Mincio, un colpo di fulmine a ciel sereno turbava tutte le menti, tutti i disegni, tutte le speranze e tutti i timori.

L'Imperatore de' Francesi aveva già varcato il Mincio; era ornai a' piedi di quel quadrilatero, dietro a cui stava l'Austria, flava la Germania, stava, volere o non volere, la Prussia medesima, stava colla Germania alla fin fine l'Inghilterra, stava a così dire l'Europa. Conquistata a prezzo di torrenti di sangue l'aureola di Solferino gli brillava in capo. La Lombardia era sua; mezza Italia in fiamme, il resto come nave senza nocchiero in gran tempesta. La Russia, dopo che le avea sì inopinatamente mandato quel pezzuolo di carta perché lo passasse all'Austria,

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guarda vaio alquanto arcigno, quasi a modo di chi si senta burlato e in gran silenzio parea piuttosto scostarsi da lui, qual che dicesse: chi la fa, l'aspetti. La circostanza che appunto corpi d'esercito prussiani, stanziati lungo il confine russo, non erano stati mobilitati, accennava già ad un buon accordo fra Pietroburgo e Berlino. L'Inghilterra gli faceva il viso dell'arme; come la Russia, neppur essa era entrata nello spirito della mediazione prussiana, ma questo poteva forse mutarne affatto la direzione. La Prussia bonariamente cullatasi nell'illusione di poter guadagnar molto senz'aver arrischiato nulla. La Germania, fermamente decisa a far da senno, si apprestava a provare che la lealtà vale in politica quanto in qualsivoglia altro negozio, e che anche a' minori è dato talora di far la lezione a' maggiori, se questi vengano meno all'onore e agl'interessi veri de' popoli. Il 15 luglio appressava: il giorno in cui tutte le strade ferrate della Germania verso il Reno avrebbero cominciato a trasportare senza interruzione sulle frontiere francesi duecentocinquanta mila Prussiani e centocinquanta mila uomini degli altri Stati tedeschi, già in marcia.

Ai rancori verso la Prussia Napoleone doveva pensare subentrata nel cuore dell'Austria l'animosità; ormai l'Austria potendo, senza timore d'essere contraddetta, chiedere alla Prussia se sarebbe essa contenta dell'Austria nel caso che, essendo le sue provincie prussiane o quella di Posen invase dal nemico, l'Austria si contentasse d'impedire che l'Alemagna l'aiutasse, ed offrisse però la sua mediazione, pregando umilmente il nemico di concedere le provincie prussiane e di Posen a qualche principe secondogenito di Casa di Prussia. Quanto il monarca francese aveva sperato raggiungere, gli era riescito. D'or innanzi per lui la guerra, anche nell'ipotesi la più fortunata, veniva a mancare di opportunità, né certamente poteva procurargli compensi adeguati. Per desiderare la pace, di presente, avea motivo importante tanto per lui quanto per l'Austria: impedire la Prussia di pesca» re nel torbido. E mentre le probabilità della vittoria erano ancora sottosopra eguali per l'esercito francosardo come per l'austriaco, per questa Prussia ei si trovava alla vigilia di ritirare le sue truppe dall'Adige per guidarle sul Reno; a vece di aiutare l'Italia, stava per essere costretto a difendere la Francia.

Ben ferma era la risoluzione di Napoleone III. di non entrare

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personalmente in quel fatale quadrilatero, cui fanno cornice Mantova e Peschiera sul Mincio, Verona e Legnago sull'Adige, che Napoleone I. chiamava una trappola per ogni poco accorto capitano. Già il 7 giugno, un giorno prima di mandare pel mondo la frase: Italia libera dall'Alpi all'Adriatico, aveva inviato a Parigi ordine di apprestare grandi cacce, che, nella peggiore ipotesi, il maresciallo Pélissier, come uomo del mestiere nell'atterrar muraglie, lo avrebbe sostituito in Italia. All'alba del 24 giugno, divorando lo spazio per accorrere sul campo di battaglia, egli era appieno deciso di conchiuder la pace tosto che avesse potuto ottenere un grande successo guerresco; la sera la sua determinazione era irremovibile. Qual avversario aveva avuto a combattere! Più che mai convinto, che la guerra è un giuoco serio nel quale si compromette la propria riputazione, le proprie truppe ed il proprio paese (1), di voler pace il primo segnale palese diede nella sera del 28 (2), allorché fece richiedere al Re di Sardegna: «Se l'Italia avrebbe avuto forze militari e morali bastanti por fare da sé, quand'egli credesse di non poter più fare per lei.»

(1) Lettere di Napoleone I. al principe Eugenio. - Thiers (Le Consulatet l'Empire.)

(2)

L'asserzione, mille volte ripetuta, che l'armistizio e la pace fossero avvenimenti sopraggiunti a perfetta inscienza del Re di Sardegna, dessa pare fandonia di partito. Vittorio Emanuele aveva conoscenza certa degl'intendimenti dell'Imperatore de Francesi, di conchiudere una sospensione d'armi, sino dal 28 di giugno. Allorché, il 6 luglio, il generale Fleury fu inviato da Valeggio a Verona, l'incarico gliene fu dato da Napoleone in presenza del Re di Sardegna, dopo che l'Imperatore aveva dato a leggere al Re la lettera che Fleury doveva portare all'Imperatore d'Austria in Verona, contenente la richiesta di sospensione d'ostilità. «Mio caro generale,» disse Napoleone a Fleury, presente Vittorio Emanuele,» (2) ho bisogno in questo momento d'un generale diplomatico, mi occorre un uomo conciliativo ed amabile; ho pensato a Vol. Eccovi una lettera che indirizzo all'Imperatore d'Austria; voi la porterete subito a Verona.Leggetela, ponderatene il senso. Domando una sospensione d'armi; è d'uopo che l'Imperatore d'Austria l accetti. Faccio assegnamento sulla vostra intelligenza per isvolgere le idee che sono in germe in questa lettera. Segnata la tregua, l'Imperatore de' Francesi non nascose al Re di Sardegna la necessità della pace. Vittorio Emanuele «non volle in modo alcuno influire sulle decisioni del suo alleato. Ei comprese che i più gravi interessi della Francia erano in giuoco. Egli stesso abbracciava

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II principe Carlo di Windischgratz, colonnello austriaco, era rimasto ucciso nella battaglia di Solferino; solamente due giorni appresso il suo cadavere essendosi potuto rinvenire sotto un monte di estinti, l'Imperatore de' Francesi, allorché gliene fu dato l'annunzio, aveva esclamato: Tal tomba hanno soltanto gli eroi. La famiglia del principe desiderava di averne la salma. Il 2 luglio, un capitano austriaco fu per ciò inviato al quartiere-generale francese. Si. colse la palla al balzo, ed accordatogli quanto chiedeva, Napoleone, fattoselo venire innanzi sotto pretesto d'incaricarlo di ringraziare da parte sua l'Imperatore d'Austria pel modo cavalleresco con cui sapeva trattati i prigionieri francesi, lasciò noncurantemente cadere alcune parole che sembravano accennare a desiderio di sospensione d'ostilità. Il 6 luglio a dieci ore di notte una carrozza colle armi imperiali di Francia e bandiera parlamentare, scortata da ulani austriaci, attraversava le vie di Verona. Portava il generale Fleury, aiutante di campo dell'Imperatore de' Francesi, incaricato di rimettere all'Imperatore Francesco Giuseppe una lettera del suo sovrano contenente formale proposta di armistizio. L'Imperatore era a letto e dormiva; svegliato e vestitosi in fretta, alcuni minuti dopo, Fleury stava alla sua presenza, ed esprimeva, in nome di Napoleone, il sincero suo desiderio di veder cessare una guerra in cui la vittoria medesima era acquistata a sì caro prezzo. - La proposta, dissegli Francesco Giuseppe, di cui voi, o generale, mi sviluppate i motivi, è gravissima e richiede la più seria riflessione. Potete attendere sino a domani mattina la mia risposta? - Sono agli ordini di Vostra Maestà, replicò Fleury. Mi permetto però di osservare quanto sia urgente che questa risposta sia pronta. La flotta francese, Vostra Maestà forse lo ignora, occupa in questo momento l'isola di Lussin, ed ha ricevuto l'ordine di attaccare immediata

» dall'alto la questione, quale essa si presentava a fronte delle manifestazioni di tutte le Potenze.» (Bazancourt, Champagne d'Italie, II. Part., pag. 355). l'11 luglio, ancor prima che fosse scritta una sillaba dei Patti di Villafranca, Vittorio Emanuele diceva all'Imperatore dei Francesi: «Qualunque sia, In ultimo appello, la decisione di Vostra Maestà, Le sarò eternamente riconoscente di quanto Ella fece per la causa dell'indipendenza italiana, e in qualsiasi circostanza Ella può contare sulla mia intera fedeltà.»

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mente Venezia. Potrebbe adunque sopravvenire qualche atto d'ostilità che l'Imperatore Napoleone deplorerebbe infinitamente. - Seppi la presenza dei Francesi a Lussin, ripigliava il monarca, e ben vivamente mi duole di non aver occupata quell'isola. A domani dunque, generale.

Il mattino appresso Fleury diceva al principe Riccardo di Mettermeli, confidente dell'Imperatore d'Austria, non essere punto dubbioso il successo dell'attacco di Venezia, e per ciò pure essere sommamente desiderabile che i due Imperatori potessero personalmente vedersi, convinto com' era che in un colloquio tra essi sarebbero gettate senza dubbio alcuno le basi fondamentali della pace. A nove ore Fleury si allontanava da Verona, apportatore dello scritto di Francesco Giuseppe al suo sovrano. La tregua era assentita. Da Verona Fleury aveva spedito ordine all'ammiraglio francese di sospendere qualsivoglia operazione ostile contro Venezia (1) Il giorno 8 in Villafranca, dichiarata terreno neutrale, furono regolate le condizioni dell'armistizio, determinatane la durata al 15 agosto seguente.

Convenuta appena la sospensione d'armi, Napoleone,

(1) La flotta innanzi Venezia era un artificio di guerra, non una grande operazione di guerra. Riunita ad Antivavi, il primo di luglio ne dipartiva per impadronirsi dell'isola austriaca di Lussin, air entrata del Quarnero. L'isola era affetto sguarnita di truppe, e la flotta se ne impadronì agevolmente. Fu detto che la flotta portasse a bordo molte truppe da sbarco» senza delle quali, infatti, la sua azione sarebbe stata circoscritta a sterili cannoneggiamenti delle opere fortificate lungo la costa. Si giunse a parlare sino di quaranta mila uomini. Prette fiabe. Non si pensò mai a fare sbarchi di molta forza alle spalle del quadrilatero. Per abbonire l'Inghilterra nulla si avrebbe fatto a danno di Trieste, che del resto non si poteva toccare, essendo territorio della Confederazione germanica. Solamente il 6 luglio giunsero a Lussin tre mila uomini d'infanteria di linea, le sole truppe da sbarco che quella flotta abbia mai avute con sé (Rapporto del viceammiraglio Romain Desfossés al Ministro della Marina, del 23 luglio 1859, inserito nel Moniteur del giorno 5 agosto 1859). Il giorno appresso, 9 luglio, giunse all'ammiraglio l'ordine di muovere verso Venezia, le cui opere di difesa esteriore sarebbero state attaccate, disse l'ammiraglio nel suo Rapporto del 23, il giorno 10. L'8, la flotta, incominciava a partire da Lussin, allorché giunse l'ordine di Fleury di non far più nulla. L'attacco andò in fumo; ma eran tutte mostre, solamente intese ad esercitare pressione sull'animo dell'Imperatore d'Austria, se questi fosse rimasto nell'incertezza ad assentire subitamente la pace.

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lo stesso giorno 7, indirizzava all'Imperatore d'Austria una seconda lettera. Essa conteneva proposte di pace e l'invito di spedire a lui persona, di sua confidenza. Fu incaricato il principe Alessandro d'Assia; e giunto questi, nell'8, a Valeggio, Napoleone gli manifesta il desiderio di conferire di persona col monarca austriaco. Riassumendo, dal suo punto di vista, la posizione reciproca dei belligeranti, l'Imperatore de' Francesi insisteva nello stabilire quanto la pace, che offriva, si raccomandasse all'accettazione dell'Imperatore d'Austria, così sotto l'aspetto politico, come sotto quello strategico. - La prolungazione della guerra, egli disse, creerebbe senza dubbio alcuno i più gravi pericoli nell'interno della monarchia austriaca, minacciata ad un tempo da' movimenti de' popoli slavi e magiari. Egli stesso, continuando la guerra, sarebbe obbligato di appoggiarsi apertamente sul concorso della rivoluzione. Russia, Inghilterra e Prussia essere ormai concordi nel riconoscere la necessità dell'indipendenza italiana assicurata a mezzo d'una Confederazione, della cessione della Lombardia e del Parmigiano alla Sardegna, della erezione delle provincie venete in uno Stato indipendente dall'Austria; né la creazione di questo nuovo Regno potersi pensare in niun modo offendente l'onore, la dignità e la sicurezza dell'Austria, quando anzi un principe austriaco sarebbe chiamato a cingere la novella corona. La mediazione armata della Prussia, e forse eziandio dell'Inghilterra e della Russia, essere diretta a conseguire dall'Austria l'abbandono del Veneto ad un Arciduca, a conseguire dalla Francia che si appaghi dell'ottenuto. Se la Francia rifiuta, si volgeranno contro essa; se rifiuta l'Austria, si volgeran contro l'Austria. Una pace diretta, ora, sollecita, convenire meglio ad entrambi; con essa l'Austria potere anzi ottenere condizioni migliori di quelle che aveano stabilito d'imporle colla mediazione in armi. Francia ed Austria, combattutesi lealmente in libero campo, possono oggi conchiuder la pace di lor propria volontà, mentre domani sarebbero costrette di lasciarsela dettare da Potenze che in parte assistettero alla lotta come ad uno spettacolo piacevole. - Permettetemi, Sire, rispose il principe, di ridurre con alcune riflessioni al giusto loro valore i pericoli che Vostra Maestà intravede nelle aspirazioni di una parte de' popoli austriaci. Non mai, né in più splendida guisa,

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come in accagione della guerra presente il patriottismo e la devozione al trono manifestaronsi in tutta l'estensione dell'Impero e nella stessa Ungheria. - Quanto alle proposte condizioni di pace, il principe dichiarò di non credersi abbastanza autorizzato a discuterle senza averne in precedenza riferito all'Imperatore d'Austria.

Di ritorno a Verona, il principe d'Àssia scriveva nell'indomani a Napoleone, che, essendosi provato di presentire le disposizioni dell'Imperatore Francesco Giuseppe, ei non aveva osato comunicargli nel loro vero tenore le proposte di pace, quali erano state da lui formulate in Valeggio; considerate con maturo riflesso, averle il principe dovuto tenere siccome incompatibili colla dignità dell'Imperatore d'Austria, né potere in conseguenza attendersi se non che di vederle perentoriamente respinte. Nello stesso tempo Francesco Giuseppe scrisse al monarca francese: «Non avendo sguainata la spada che per difesa de' suoi legittimi diritti, guarentiti per mezzo di solenni Trattati dall'Europa intera, apprezzare egli troppo i beneficii della pace per non associarsi di tutto cuore alle pacifiche disposizioni da esso manifestate al principe Alessandro d'Assia. Per attestare la sincerità de suoi sentimenti, per non versare inutilmente il sangue de' suoi soldati e non imporre novelli sacrificii a' suoi popoli, dichiararsi disposto a subire le conseguenze d'una guerra disgraziata, semprechè resti intatta la dignità della sua corona, irremovibilmente deciso di non sottoscrivere veruna concessione che agli occhi del mondo potesse fare scadere l'Austria dal grado elevato, che da tanti secoli occupava nella storia de' popoli. Ancor egli desiderare vivamente d'incontrarsi col sovrano cui la Francia aveva confidati i proprii destini; col più grande suo dispiacere vedersi però astretto a rinunziare pel momento a codesto convegno, dappoiché sarebbegli troppo penoso, dopo di avere stretta la mano dell'Imperatore de' Francesi, di trovarsi nuovamente a fronte di lui sul campo di battaglia, ciò che diverrebbe inevitabile se la Francia non facesse all'Austria condizioni migliori.»

Dopo una dichiarazione sì chiara e sì ferma, non più potea avere speranza alcuna di successo qualsivoglia tentativo di riannodare le aperture di pace sulle basi del programma che l'Imperatore de' Francesi affermava essere volontà delle Potenze

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neutrali d'imporre a' belligeranti, ed era, come sappiamo, opera dello stesso Imperatore. Strette le fila a tal punto, ornai per lui tutta la questione si riduceva a scegliere tra due progetti, il progetto che avea ideato e spedito a Pietroburgo ed a Londra, e un progetto più ristretto da lui medesimo imaginato del pari tra un progetto francese ed un progetto francese. La notte dello stesso dì 9 luglio il principe d'Assia ricevette in Verona la risposta dell'Imperatore Napoleone. Era una lunga lettera motivata, in cui, modificate essenzialmente le primitive proposte, passava in rivista i motivi che doveano nel suo pensiero necessariamente impegnare l'Austria a conchiudere quella pace, di cui la Francia dichiarava voler agevolare il ristabilimento con tanto di moderazione quanto di condiscendenza. L'essenza delle nuove proposizioni era: l'Austria ceda la Lombardia, conservi la Venezia. Conchiudeva con porre innanzi quattro questioni: la prima, di sapere se l'Austria cederebbe per Trattato il territorio conquistato; la seconda, se abbandonerebbe francamente la supremazia acquistata nella Penisola; se riconoscerebbe il principio d'una nazionalità italiana, ammettendo un sistema federativo; se finalmente consentirebbe a dotare il Veneto d'istituzioni, che ne facessero una vera provincia italiana.

Comunicata codesta lettera, nel mattino del 10, dal principe d'Assia all'Imperatore d'Austria, senza indugio questi faceva conoscere a Napoleone la sua soddisfazione di potere incontrarsi con lui onde trattare direttamente delle basi preliminari di pace. Di reciproco accordo statuito l'abboccamento per l'indomani, nel mattino dell'11, in Villafranca convennero a colloquio i due Imperatori, testimonii Dio e la loro coscienza. Francesco Giuseppe e Napoleone III. erano entrambi ascesi al trono il due dicembre; entrambi, salendovi, aveanvi trovate a' gradini le mine della rivoluzione, l'ordine sociale da restaurare; tutti e due aveano consociate le armi per riconquistare al Pontefice gli aviti domini. Ed ora trovavansi faccia a faccia, prima e forse ultima volta in lor vita, unici attori in codesto, che dovea essere il più singolare fra' più singolari esempi di fragilità d'internazionali Trattati.

«Questa pace», disse l'Imperatore d'Austria, sin dalle prime parole entrando con grande schiettezza in questione,» questa pace io la desidero, e voglio dare a Vostra Maestà una prova della mia confidenza,

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» con indicarle il limite delle concessioni che posso fare.» Le quattro proposizioni, formulate nella lettera scritta nel 9 da Napoleone al principe d'Assia, costituivano naturalmente il perno del negoziato. - La sorte delle armi, continuò Francesco Giuseppe, mi fu contraria; ne subirò le conseguenze. Vi do la Lombardia, conservando alla corona d'Austria le fortezze di Mantova e Peschiera, ed il Veneto. Son pronto a confermarne per Trattato la cessione; e voi, Sire, ne disporrete come meglio vi piacerà. Dovete nullameno comprendere i motivi imperiosi che mi vietano d'intervenire direttamente nella cessione, se, come sembra certo, è vostro divisamento farne dono al Piemonte. - La vivace insistenza di Napoleone, che Mantova e Peschiera seguissero il destino della residua Lombardia, non giunse a smuovere l'Imperatore d'Austria, a ragione protestante essere concessione incompatibile coll'onore delle sue armi, ed avendo egli ammesso in favore della Francia il principio dell'uti possidetis, essere equo d'invocarne alla sua volta i beneficii rispetto a territorii che l'esercito francese non avea punto occupati.

Napoleone parlò d'una Confederazione degli Stati italiani, sotto la presidenza del Papa. Protestando della sua sincera intenzione di concorrere ad ogni tentativo serio ed efficace, che avesse ad oggetto di ricondurre e consolidare la pacificazione dell'Italia, l'Imperatore d'Austria, non che obbiettarvi, propose che, riguardo alle province venete, l'Impero austriaco si avesse a trovare rimpetto all'Italia in posizione analoga a quella del Re di Olanda verso la Confederazione germanica come membro pel Granducato di Lussemburgo. A tale offerta, che aveva una sì alta importanza, e andava più in là di quanto si avesse potuto sperare, comunque l'Imperatore d'Austria insistesse vivamente affinché fosse presa decisione immediata, Napoleone dichiarò di riservare il suo assenso, affermando aver d'uopo di maturamente riflettere sopra tutte le eventualità che poteano avervi attinenza.

Fermato il discorso sul pensiero d'una Confederazione, Napoleone avea detto che opera solida non avrebbe potuto fondarsi se non a patto di assoluto divorzio dalla rivoluzione, sulla quale, affermava, se la guerra avesse dovuto continuare, egli medesimo si sarebbe veduto costretto ad allearsi apertamente. - A questo proposito, replicava Francesco Giuseppe,

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permettetemi di esprimere la mia convinzione senza giri. Se l'alleanza colla rivoluzione è pericolosa per ogni monarca, lo è ben più per il fondatore d'una nuova dinastia. Voi ed io siamo tutti e due padri; preoccupiamoci meno dei nostri interessi personali, che dell'avvenire che lascieremo in retaggio a' nostri eredi, «ci troveremo ben più facilmente d'accordo. La restaurazione delle antiche case sovrane, sbalzate in conseguenza della guerra, era, agli occhi dell'Austria, una misura indispensabile per elevare una diga contro la rivoluzione che minacciava d'invadere tutta l'Italia. Poi l'Imperatore Francesco Giuseppe, nella doppia sua qualità di capo della Casa di Absburgo e di antico alleato del Granduca di Toscana e del Duca di Modena, risguardava siccome affare d'onore il ricoprire d'una protezione efficace i principi compromessi per sua cagione. - Posso, diss'egli, rinunziare alla Lombardia, perché la mi appartiene; ma non posso, né devo ad alcun prezzo, abbandonare alla mercé dei partiti i diritti legittimi dei membri della mia famiglia, diritti che l'Europa intera ha guarentiti, e che io stesso, salendo al trono, giurai di tutelare e difendere. Della loro restaurazione deggio farne, Sire, condizione sine qua non. - Napoleone, non opposta alcuna obbiezione al ristabilimento della Casa di Lorena, verso la quale protestava di professare sincera gratitudine per l'ospitalità generosa che av èva accordato in addietro alla sua propria famiglia durante le dure prove dell'esiglio, si limitò ad osservare l'impossibilità, in cui si trovava, di rivolgere le armi della Francia contro il Governo provvisorio di Toscana, divenuto suo alleato di fatto per la parte che avea preso alla guerra. Quest'ultima circostanza, soggiunse, l'impediva egualmente di consentire che il Granduca di Toscana fosse ricondotto nei suoi Stati da una forza straniera. - In quest'ora, osservò Francesco Giuseppe, si tratta meno di concertare misure di esecuzione, che di regolare la questione di diritto e di stabilire un principio. - II ritorno de' due principi spodestati fu assentito come condizione senza la quale la pace non sarebbe stata conchiusa; convenuto che l'Imperatore d'Austria userebbe della sua personale influenza per indurre il Granduca Leopoldo di Toscana ad abdicaro la corona in favore del principe ereditario, l'Arciduca Ferdinando, nel divisamente di strappare in precedenza dalle mani del partito liberale toscano qualsivoglia eventuale appiglio o pretesto.

232 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

La discussione intorno a quattro punti, che avevano servito di base alla negoziazione, era esaurita; allorché l'Imperatore di Austria, ripigliando la parola, di suo proprio impulso dichiarò che sarebbe accordata amnistia generale a tutti coloro i quali si fossero compromessi in occasione degli avvenimenti recenti, e nella qualità di capo della Casa di Asburgo prendeva eguale impegno in nome del Granduca di Toscana e del Duca di Modena. Sembrava che nulla più restasse a dirsi, quando l'Imperatore de' Francesi manifestò, parergli essere necessario che si aggiungesse ne Preliminari di pace un'altra condizione; quella, cioè, che le due grandi Potenze cattoliche dovessero indirizzare alla Santa Sede consigli collettivi relativamente alle riforme, che affermava indispensabili, da introdursi negli Stati della Chiesa. La questione era delle più delicate; nullameno Francesco Giuseppe non mosse ostacoli, non a torto parendogli, che se di tal maniera i due Imperatori scambiavano tra loro la solenne promessa di adoperare insieme la propria influenza a Roma per conseguire riforme nell'interna amministrazione dello Stato pontificio, questa promessa reciproca costituiva nella realtà, da parte dell'uno come dell'altro, l'impegno tacito di mantenere il Santo Padre nell'intatto possesso di tutti i territorii assicuratigli dai Trattati.

Durante il colloquio non una parola era stata scritta (1).

(1) Sull'abboccamento di Villafranca, come su' principali avvenimenti che vi si rattaccano, la stampa periodica di quel tempo spese assai parole, raccogliendo le informazioni dalla bocca di ufficiali addetti ai grandi Quartieri generali dei tre eserciti, nei quali soltanto alcuni pochissimi erano esattamente informati, ed eran quelli appunto che per la posizione più elevata voleano e doveano tacere. Poi vennero in luce tre opere storione, nelle quali quell'episodio venne diffusamente trattato, e per le condizioni de' loro autori parvero generalmente meritevoli della maggior fede: la Guerra d'Italia del colonnello Rustow, Commissario militare prussiano presso l'esercito austriaco in Lombardia durante la guerra del 1859; La Pace di Villafranca e le Conferenze di Zurigo del cavaliere Debrauz, addetto al Consolato generale d'Austria in Parigi; e la Campagna d'Italia del 1859, del barone di Bazancourt, chiamato d'ordine dell'Imperatore Napoleone presso l'esercito francese in Italia, onde esserne lo storico, opera esclusivamente desunta da fonti ufficiali. È a codeste tre fonti che vennero unicamente ad attingere tutti gli scrittori venuti a dire in appresso alcun che, sia sul colloquio fra i due Imperatori a Villafranca, sia sugli avvenimenti che lo precedettero ed accompagnarono.

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Restava ora a redigere il documento che contenesse l'essenza del convenuto. A quattr'ore del pomeriggio dello stesso dì 11, Francesco Giuseppe fu raggiunto in Verona dal principe Napoleone, latore di una lettera con cui l'Imperatore de' Francesi gli richiedeva approvazione di un testo, da sé compilato, dei Preliminari di pace. N'era questo il tenore: «I. I due Sovrani favoreggieranno la formazione d'una Confederazione italiana. - II. Questa Confederazione sarà sotto la presidenza onoraria del Santo Padre. -

Quei fatti appartengono alla storia, cui essendo dovere e mansione d'essere scritta colla più franca e rigorosa esattezza, esce dal campo della critica, per rientrare in quello del dovere, ogni investiga zione coscienziosa, che dal vero separi l'errore ove esista. Di questi errori importa indicare i più essenziali.

Presso il Rustow il lungo discorso ch'ei pone in bocca a Napoleone III. nell'abboccamento di Villafranca, è pretta invenzione dalla prima all'ultima parola. Tutto il resto, che vi ha attinenza, non è conforme a verità. Delle relazioni in cui ebbero parte il principe d'Assia ed il principe Napoleone, del testo primitivo dei Preliminari proposto dall'Imperatore dei Francesi non è detto verbo. È la parte più erronea di tutto il libro, assai rimarchevole sott'altri aspetti.

Appo Debrauz è affatto inesatto il racconto della missione Fleury, il tenore delle basi primitive di pace proposte dall'Imperatore de' Francesi a mezzo del principe d'Àssia, il cenno, dato in due parole, della gita del principe Napoleone a Verona, Specialmente sulla sua fede fu quasi da tutti gli scrittori detto e ripetuto che Napoleone III. teneva nella conferenza di Villafranca la penna in mapo, annotava successivamente i punti sui quali i due sovrani cadevano d'accordo, e col dito segnava la linea dei futuri confini austriaci sopra una carta geografica. Niun appunto in iscritto fu esteso durante il colloquio, niuna carta del Lombardo-veneto stava sotto a' lor occhi. Non fu Napoleone III. a Villafranca che tracciasse i limiti dell'Impero austriaco e li imponesse a Francesco Giuseppe; fu Francesco Giuseppe che li precisava sulla carta geografica in Verona nella conferenza col principe Napoleone, dichiarandogli: o la Francia accetta questi limiti, o accetti la continuazione della guerra.

Bazancourt è, in generale, molto più esatto, molto più diffuso. A parte alcune ommissioni importanti e le impronte d'una parzialità, che, se incompatibili colla storia veritiera, riescono sino ad un certo punto scusabili per la posizione eccezionale dello scrittore, narra con molta precisione la missione Fleury, il colloquio di Villafranca, e quello tra l'Imperatore d'Austria ed il principe Napoleone. Salta poi a piè pari le relazioni corse a mezzo del principe d'Assia, avvertendo però essere codeste questioni politiche, che non potevano entrare nel quadro del suo lavoro.


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234 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

» III. L'Imperatore d'Austria cede i suoi diritti sulla Lombardia all'Imperatore de' Francesi, che, secondo il voto delle popolazioni, la rimette al Re di Sardegna. - IV. La Venezia fa parte alla Confederazione italiana, rimanendo sotto la corona dell'Imperatore d'Austria. - V. I due Sovrani faranno ogni loro sforzo, ad eccezione del ricorso alle armi, affinché i Duchi di Toscana e di Modena rientrino nei loro Stati, dando un'amnistia generale ed una Costituzione. - VI. I due Sovrani domanderanno al Santo Padre d'introdurre ne' suoi Stati le riforme necessarie, e di separare amministrativamente le Legazioni dal resto degli Stati della Chiesa. - VII. Amnistia piena ed intiera è accordata da una parte e dall'altra alle persone compromesse in occasione degli ultimi avvenimenti nei territorii delle parti belligeranti.»

La missione del principe era formale; egli doveva tentare ogni mezzo per far accettare in questi termini i Preliminari, e, se non poteva riuscirvi, riportare a Napoleone le proposte definitive sottoscritte dall'Imperatore d'Austria. Alla prima lettura del documento presentatogli dal principe, Francesco Giuseppe senza esitanza gli disse: avere abbastanza gravi osservazioni a fare sulla redazione arrecatagli. Vivacissima s'impegnò la discussione, non meno grave che franca. - l'Imperatore, disse il principe, desidera sinceramente la conchiusione d'una pace accettabile per ambedue le parti. Il momento è unico per giungere a codesto risultato, che l'Europa invoca con tutti i suoi voti. L'onore dell'esercito austriaco è intatto; il valore, con cui ha combattuto, cancella le sue sventure sul campo di battaglia. Allo spirare dell'armistizio, quando non sia stipulata ora la pace, gli alleati spingeranno la guerra colla più grande e la più assoluta energia, spiegheranno forze ben più formidabili che quelle sino ad ora messe in linea, accetteranno francamente nelle lor fila tutti gli alleati che verranno ad essi. - Il principe eminentemente rivoluzionario faceva appello aperto, per persuadere, alla rivoluzione. Egli aveva pronunziate quest'ultime parole con gran fuoco. Il contegno affabile dell'Imperatore d'Austria erasi ad un tempo mutato in grave. Se ne accorse il principe, e si affrettò a soggiungere: Avanti tutto però prego Vostra Maestà di non vedere nella mia franchezza, un po' brusca forse,

PACE DI VILLAFRANCA. 235

che il desiderio eccessivo di parlare senza veli e dire tutto il mio pensiero, al di fuori delle forme di linguaggio abituali alla diplomazia. - Aneli io, rispose Francesco Giuseppe, ne diedi l'esempio questa mattina all'Imperatore Napoleone, dicendogli schiettamente quanto io poteva fare, e quali erano i limiti delle concessioni compatibili col mio onore e cogl'interessi della mia corona. Ma se voi, principe, avete un'opinione pubblica a curare, io pure ne ho una dal mio canto, ed essa è tanto più esigente, che sono io quegli che sostiene tutti i sacrificii. - Per semplificare la discussione, riprese tosto il principe, propongo a Vostra Maestà di esaminare uno ad uno gli articoli di questi Preliminari.

Il primo paragrafo non sollevava obbiezioni. Al secondo, l'Imperatore d'Austria domandò che la parola onoraria, relativa alla presidenza del Papa, fosse cassata. - Appellando il Santo Padre a capo della Federazione italiana, disse il principe, l'Imperatore Napoleone non voleva, istituendolo presidente reale, aumentare le difficoltà senza numero che esistevano relativamente alla potestà temporale de' Pontefici. - Al terzo paragrafo Francesco Giuseppe chiese al principe che cosa egli intendesse colle parole: secondo il voto delle popolazioni. - Il voto delle popolazioni, rispose il principe, significa che la Lombardia tutta intera aspirava ad affrancarsi dal giogo dell'Austria. - Quanto a me, replicava con voce animata l'Imperatore, non conosco che il diritto scritto sopra i Trattati. Per essi possedo la Lombardia. Tradito dalle armi, ben posso cedere questa provincia all'Imperatore Napoleone, ma non riconoscere punto il voto dei popoli, che io chiamo, io, il diritto rivoluzionario. Usate queste parole nei vostro Trattato col Re di Sardegna, e nelle proclamazioni che indirizzerete ai popoli italiani; non me ne impiccio, ma non posso associarmi a Vol. Quanto alle fortezze di Mantova e Peschiera, non posso, già il dissi, fare sgomberare dal mio esercito le piazze che tiene e conservò in suo possesso; l'onore me lo proibisce. Se gli alleati si fossero impadroniti di Peschiera, comprenderei che l'Imperatore domandasse di conservare questa piazza, ma le mie truppe vi sono ancora. - Una carta geografica stava aperta sul tavolo, e Francesco Giuseppe indicava col dito una linea retta a limite delle sue concessioni. La discussione si prolungava senza condurre a risultamento.

236 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

- Poiché non posso, conchiuse il principe, cadere d'accordo con Vostra Maestà, sottoporrò le sue osservazioni al mio sovrano, cui devo, in questa circostanza, riservare tutta la libertà di decidere, senza impegnare in niun modo la sua parola. - Sia, riprese il monarca; che l'Imperatore decida. Ma ditegli bene, quand'anche personalmente il volessi, non potrei cedere veruna delle mie fortezze.

Nella redazione del paragrafo quarto, concernente la Venezia, Napoleone non avea fatto alcun cenno della generosa proposta fattogli da Francesco Giuseppe, che l'Austria prendesse parte pel Veneto nella Confederazione italiana a quel modo medesimo che il Re d'Olanda era membro della Confederazione germanica pel Lussemburgo. Non accettata nel documento di pace la profferta, l'Austria a pienissimo dritto potea tenersi del tutto prosciolta da qualsivoglia obbligo, che da codesta proposizione fosse venuto a derivare. Riguardo ai Ducati, l'Imperatore d'Austria dichiarò di non volere né potere accettare la frase: ad eccezione del ricorso alle armi. - Il ritorno del Granduca di Toscana e del Duca di Modena ne loro Stati, diss'egli al principe con grande fermezza, è condizione già assentita dall'Imperatore Napoleone. La frase, che ora mi proponete, è un appello indiretto alla rivolta ed alla resistenza de popoli. Posso bensì, il ripeto, sottostare a sacrifizii personali, cedere miei diritti, ma non mai abbandonare i miei parenti, ed alleati che mi rimasero fedeli.

Questa nuova e non attendibile insorgenza, l'inserzione o no delle parole: ad eccezione del ricorso alle armi, costituiva, infatti, il vero nodo della questione. Ammesse una volta nell'istromento di pace quelle parole, era riconoscere senza restrizione il principio di non intervento, e con esso il valore del gran mezzo rivoluzionario, la teorica del fatto compiuto; era distruggere per sempre qualsivoglia legittima influenza dell'Austria nell'Italia centrale: escluse, la restaurazione de' principi sbalzati dalla rivoluzione non era in niun modo abbandonata alle incertezze dell'avvenire, dappoiché, impegnata la solenne promessa della Francia di ricondurli su' loro troni, sarebbe stato codardo e sanguinoso oltraggio il dubitare che per ignobili sofismi e mendaci pretesti potesse la Francia venir meno alla parola dell'uomo onesto,

LA PACE DI VILLAFRANCA. 237

alla lealtà, all'onore; sarebbe stato ingiuria mortale il sospettare che chi ornai avea veramente in mano i destini d'Italia, e innanzi a Dio ed agli uomini legava la sua fede, non avrebbe più tardi fatta udir quella voce che sola bastava perché non fosse fatto divorzio dalla lealtà. Ammesse, ciò equivaleva al respingere la condizione che l'Imperatore d'Austria aveva dal suo canto dichiarato essere condizione di pace sine qua non; escluse, ciò equivaleva alla guarentigia che il promesso ritorno de' Duchi non mai avrebbe potuto essere una menzogna.

La Francia, continuò il principe, non intervenendo, non poteva permettere che alcun'altra nazione intervenisse. Le truppe alleate occuparono Parma, Modena e Toscana. Per Modena e Toscana l'Imperatore Napoleone ed il Re di Sardegna non porranno alcun ostacolo materiale al ritorno di questi sovrani (1). Ma, conoscendo le disposizioni dei popoli, non dissimulerò a Vostra Maestà, essere illusorio di ammettere la possibilità d'una restaurazione che verun intervento venisse a proteggere. - Il Duca di Modena, replicò Francesco Giuseppe, ha alcuni battaglioni di truppe italiane che gli sono rimaste fedeli, e colle quali spera di rientrare al possesso del suo Stato. Quanto al Granduca di Toscana, credo fermamente ch'egli non sia s lungi da non potersi intendere col suo popolo. - II principe non insistette ulteriormente. Non restava che il sesto paragrafo a discutere. Francesco Giuseppe rifiutò recisamente il suo assenso che nei Preliminari fosse fatta richiesta di separare amministrativamente le Legazioni dal resto degli Stati della Chiesa; e volle che alle parole riforme necessarie si sostituissero quelle riforme indispensabili.

Fu convenuto che nella città di Zurigo si adunerebbero i plenipotenziarii, cui sarebbe demandato l'incarico di estendere il Trattato definitivo di pace. - Sire, ripigliò allora il principe, sono le sei e un quarto. A dieci ore al più tardi devo essere,

(1) «Pour Modène et Fa Toscane l'Empereur Napolóon et le Roi de Sardaigne ne mettront ancun obetacle matériel à la rentrée de ces souverains.» (Bazancourt; Campagne d'Italie, II. Pari, pag. 368). - Rimosso l'ostacolo materiale, veniva a cessare, onestamente operando, l'ostacolo morale conseguente dalla pressione artificiosa esercitata dal Piemonte sui luoghi. Senz'alcun dubbio il Duca di Modena sarebbe rientrato da per so colle sue truppe, mentre l'esercito toscano medesimo avrebbe rialzato gli stemmi del Granduca.

238 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

secondo gli ordini dell'Imperatore, a Valeggio. Posso così, restando a Verona fino alle otto e un quarto, attendere ancora due ore la risposta di Vostra Maestà. Sarebbe con vivo dolore, se questa risposta fosse negativa, che l'Imperatore Napoleone si vedrebbe nella necessità di ricominciare la guerra allo spirare dell'armistizio. - Bene, rispose Francesco Giuseppe alzandosi, avrete la mia risposta. - A sette ore e mezzo il principe vide l'Imperatore d'Austria entrare nella sua stanza. - Vi porto, gli disse, la mia risposta. Ma devo avvertirvi che non posso modificare in nulla le mie prime proposte; e sporse al Bonaparte la carta che teneva in mano. - Allora, Sire, replicava il principe, io sono un ben cattivo avvocato. - Lesse; poi soggiunse: È ciò definitivo, Sire? - Sì. - Se è così, pregherò Vostra Maestà di volere sottoscrivere questa carta. - La sottoscriverete voi pure a nome dell'Imperatore de' Francesi? - Sire, rispose il principe, non mi credo autorizzato a farlo. Le modificazioni che Vostra Maestà ha creduto dover introdurre nel progetto, che le sottoposi, sono di tal natura, che devo riservare intera libertà al mio sovrano. - Io però non posso, ribadì l'Imperatore, impegnarmi, se l'Imperatore Napoleone non è da sua parte egualmente impegnato. - Allora il principe: Do a Vostra Maestà la mia parola di galantuomo che domani mattina ella riceverà questa medesima carta con o senza la firma dell'Imperatore de' Francesi. - Francesco Giuseppe fissò il principe in viso, prese la penna, e senza aprir bocca sottoscrisse. - Temo assai, disse il principe intascando il foglio, che questi Preliminari siano insufficienti per giungere allo scopo cui Vostra Maestà mirava. - Francesco Giuseppe non rispose verbo. Scoccavano le otto che il Bonaparte usciva di Verona. Il mattino appresso, l'Imperatore Napoleone inviava all'Imperatore d'Austria un esemplare dei Preliminari (1) munito della

(1) Testo originale dei Preliminari di pace fermati a Villafranca.

Tra S. M. l'Imperatore d'Austria e S. M. l'Imperatore de' Francesi fu convenuto quanto segue:

I due Sovrani favoreggeranno la creazione d'una Confederazione italiana.

Questa Confederazione sarà sotto la presidenza onoraria del Santo Padre.

L'Imperatore d'Austria cede all'Imperatore de' Francesi i suoi diritti sulla Lombardia,

PACE DI VILLAFRANCA. 239

sua sottoscrizione, copia fedele del testo redatto da Francesco Giuseppe. Sotto la firma dell'Imperatore de' Francesi il Re di Sardegna aveavi scritto: «Accepté en ce qui me regarde. Victor Emanuel.» Tutto quanto il monarca austriaco aveva voluto, era stato assentito. Assentita la conservazione delle fortezze di Mantova e Peschiera; assentiti i confini come li aveva tracciati l'Imperatore d'Austria; assentito che all'equivoca locuzione: «I due Sovrani faranno ogni loro sforzo, ad eccezione del ricorso alle armi, affinché i Duchi di Toscana e di Modena rientrino nei loro Stati»; fosse sostituita la pattuizione chiarissima: «Il Granduca di Toscana ed il Duca di Modena rientrano nei loro Stati.» La questione, lungamente discussa dal principe Napoleone a Verona, se o no fosse possibile un intervento per ripristinare i due legittimi prenci sul trono, Re Vittorio Emanuele aveva risolto colla sua segnatura. Non la era più, infatti, questione d'intervento o non intervento; puramente e semplicemente, chi aveva usurpato, si obbligava a restituire il mal tolto; sicché a tutta ragione poté il Governo britannico rammentare (1): «Il Re di Sardegna era libero di non accettare i Preliminari di Villafranca ed il Trattato di Zurigo; ma avendo egli rinunciato alla continuazione della guerra, ed impegnata la sua regale parola, non

eccettuate le fortezze di Mantova e di Peschiera, in guisa che la frontiera dei possedimenti austriaci partirà dal raggio estremo della fortezza di Peschiera e si stenderà in linea retta lungo il Mincio sino alle Grazie; di là a Scorzarolo e Luzzara al Po, dove le frontiere attuali continueranno a formare i confini austriaci. L'Imperatore de' Francesi rimetterà il territorio cedutogli al Re di Sardegna.

La Venezia farà parte della Confederazione italiana, rimanendo sotto la corona dell'Imperatore d'Austria.

Il Granduca di Toscana ed il Duca di Modena rientrano nei loro Stati, dando un'amnistia generale.

I due Imperatori domanderanno al Santo Padre d'introdurre ne' suoi Stati le riforme indispensabili.

Amnistia piena ed intera è accordata da una parte e dall'altra alle persone compromesse in occasione degli ultimi avvenimenti nei territorii delle parti belligeranti.

Fatto a Villafranca, l'11 luglio 1859.

Sottoscritti: FRANCESCO GIUSEPPE, m. p.; NAPOLEONE, m. p.

(1) Dispaccio di lord John Russell, Ministro inglese pegli Esteri, a sir James Hudson, Ministro d'Inghilterra in Torino, del 31 agosto 1860.

240 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

» era più libero di prosciogliersi da quest'obbligo, e di procedere ad un inonesto attacco contro un principe suo vicino.»

Quel medesimo giorno 12, il conte di Rechberg giungeva da Verona in Valeggio per sottoporre all'Imperatore Napoleone, in una Memoria motivata, le questioni secondarie che i due monarchi non aveano potuto prendere in considerazione a Villafranca. Le principali erano: la parte del debito pubblico austriaco, che la Sardegna doveva assumere in seguito alla cessione della Lombardia; la restituzione dei navigli di commercio catturati dagli incrociatori francesi durante la guerra; la messa in libertà degli equipaggi di queste navi e di tutti i prigionieri di guerra; il rinvio de' soldati lombardi che si trovavano al servizio dell'Austria; le condizioni alle quali facoltà di emigrare sarebbe stata concessa agli abitanti del ceduto territorio lombardo; la libera navigazione del Po. L'etichetta non permettendo che un sovrano, trattando col mandatario d'un altro sovrano, apponesse alla Memoria del conte di Rechberg il suo parafo, siccome è costume tra agenti diplomatici, Napoleone III. scrisse in margine ad ognuno de' punti svolti in quello scritto, in segno d'adesione, alcuni appunti sommarii.

Bizzaria del destino! A quest'antica infermità dell'Italia, la disunione, sempremai favorita da differenze di civiltà, di costumi, di consuetudini, d'usi, di privilegi, di leggi, di costituzioni, di dialetti, di tutto, afforzata da vecchie prevenzioni, cementata da secoli, pareva ornai trovato il rimedio; eppure si mostrava la fiala, nella certezza che la pozione non avrebbe assaggiata. Per la prima volta, con atto solenne d'internazionale diritto, eransi gettate le basi d'un Patto federale italiano; e tuttavia, da quell'istante medesimo, una generale Confederazione nella Penisola era una chimera ed un impossibile. Sino a Villafranca stava la possibilità d'una Federazione italiana, dopo Villafranca non più. I Preliminari di pace, certificato di nascita, attestazione di vita, erano a un tempo testimonianza di morte. Surta a Villafranca, la Confederazione, prodotto di ripiego, fantastico, innaturale, era aborto che avea cessato d'esistere prima ancora di nascere. Rimasto il Veneto in potere dell'Austria, con due principi austriaci a Firenze ed a Modena, Napoleone non potea pia volere una Federazione, in cui l'Austria per diritto riconosciuto avrebbe avuto parte, voce, influenza legittima;

PACE DI VILLAFRANCA 241

in cui la Francia non avrebbe potuto avere compartecipazione diretta, voto, predominio, padronanza. Convertito il cardine della Confederazione in balocco da perditempo, che la Federazione si volesse, si potea ben dirlo, si doveva anzi dirlo, non mai però egli poteva volerlo. Per lui una Confederazione italiana non ritornava possibile se non nel caso che nel mezzogiorno d'Italia avesse signoria un principe francese, e nel centro della Penisola potesse costituirsi un forte Regno in mano d'un altro principe francese. Allora con Luciano Murat a Napoli e Napoleone-Girolamo a Firenze, colle chiavi delle Alpi in podestà della Francia, l'influenza dell'Austria sarebbesi trovata affatto distrutta, quella di Casa Savoia sovrabbondantemente contrappesata.

Segnato appena l'armistizio, un dispaccio telegrafico del Re chiamava Cavour al campo. «La presenza di Cavour agli affari, aveva detto l'Imperatore de' Francesi a Vittorio Emmanuele, sarebbe oggidì un imbarazzo. Ora bisogna tranquillare l'Europa, non allarmarla. Il suo ritiro diventa al presente una necessita. A Valeggio Cavour trova che l'abboccamento coll'Imperatore d'Anstria era già deciso. Non ricevuto amichevolmente da Napoleone, invano pose in opra ogni mezzo per ismuoverlo dal suo divisamente. Una scena violenta ebbe luogo tra loro. Fuor di sé per l'amarezza del disappunto, Cavour, coll'eterno sarcastico risolino sul labbro, giunse ad essere irriverente, comunque il monarca francese volesse ammansarlo col zuccherino: «Conseguiremo più colla pace che colla guerra.- Colla pace, rispondeva Cavour, Vostra Maestà vien meno al proclama di Milano. - È la recente vostra politica che mi obbliga pure alla pace, replicò l'Imperatore. - E Venezia? - Gl'Italiani stessi comprenderanno che la Francia non può in loro favore pretendere ciò che non ha conquistato. - l'altro vie più accalorandosi, Napoleone, punto al vivo, troncava il diverbio. «Ho fatta la guerra, disse, bensì per l'Italia, ma la ho fatta pure, non dimenticatelo mai, conte di Cavour, prima per la Francia. Considerate la situazione dell'Italia a quel modo che vi piace, niente più che come Ministro del Re di Sardegna; io la considero, io, come Imperatore de' Francesi.» E gli volse con assai mal garbo le spalle. Il tentativo di persuadere Re Vittorio Emmanuele, ch'ei non

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poteva ratificare i Preliminari di pace e che il farlo sarebbe equivaluto per lui ad un suicidio morale, fu vano del pari. - Cavour se ne va adunque, disse il Re all'Imperatore; chi mettere a suo luogo? - «Chiamate il conte Arese;» aveva risposto Napoleone. «Date a lui l'incarico di formare un nuovo Ministero. È l'uomo del momento (1)».

Lo stesso giorno 12 la dimissione di Cavour era un fatto. A succedergli fu chiamato il conte Arese. Così il cavallo, che, troppo fidente nella sua forza e nel suo ardire, trovava gusto a prendere il morso tra' denti, si vedeva d'un colpo atterrato dalla robusta mano del destrissimo cavalcatore. Semplice stromento nelle mani dell'Imperatore Napoleone, Cavour, infatti, erasi talora dimenticato di soverchio chi fosse il padrone, chi il soggetto; quale l' esecutore, quale l'ordinatore; chi l'artefice e il maestro. Egli pareva obbliare che quest'uomo, stando a capo di un gran popolo, avea doveri da compiere d'un ordine superiore; ch'ei doveva avere una politica francese ed una politica europea, a fronte delle quali la sua propria politica italiana rientrava ne' più ristretti ma più veri suoi limiti di una politica d'interesse personale; ch'ei non poteva accettare le parti di cavaliere errante

(1) Il conte Francesco Arese era uno de' più antichi e più fidi amici di Napoleone III., che al tempo del suo esilio avea per devozione accompagnato sino in America. Poi seguirono vie diverse. Salito il Bonaparte alla presidenza, l'Arese s'era ingannato sull'uomo, che sa nascondere sotto un velo impenetrabile i proprii pensieri e le proprie risoluzioni. Il 2 dicembre accrebbe la disunione. Più tardi l'abile e delicata mano della donna li riconciliò. L'Arese ebbe il coraggio di rammemorare l'antica, e, come credeva, da lungo tempo obbliata promessa di liberare l'Italia. La risposta gli provò quanto si fosse mal apposto. «Penso all'Italia,» gli disse,» tra non molto te ne convincerai.» Dopo l'ingresso dei Francesi a Milano, l'Imperatore aveva ricusato di aderire alla nomina di Rattazzi a Governatore della Lombardia. Cavour offerse allora il conte Arese. Napoleone non aderì, dicendo che aveva altre viste sopra di lui. Era l'uomo che intendeva sostituire a Cavonr, quando questi sarebbe stato forzato a ritirarsi dal Ministero; l'uomo su cui calcolava pel secondo Atto. Segnata la Pace di Villafranca, Cavour lanciò la parola d'ordine; sì che, quando Vittorio Emmanuele diede all'Arese il carico di ricomporre il Gabinetto, l'amico del Bonaparte non poté riuscire neppure ad accozzare una lista di nomi. Il 19 di luglio Re Vittorio Emmanuele chiamava alla presidenza del Ministero il generale La Marmora, agl'Interni Rattazzi; durarono sino al ritorno di Cavour al governo, il 21 gennaio 1860.

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per una questione italiana, parte per lui di ben più vasta questione. Ci conviene però, ad essere giusti con tutti, non dimenticare d'altro canto, che se il cavallo prendeva il morso, era ben lungi dall'essere scevro di colpa H cavaliere, che di tanto gli avea allentate sul collo le redini. Alla fin fine Cavour era a quel momento più che altro vittima sporta in olocausto alla mutata politica dell'imperiale signore. In Sardegna, nei Ducati, in Toscana, nello Stato pontificio, Cavour non aveva preso verun grande provvedimento che non avesse avuto in sostanza l'approvazione dell'Imperatore de' Francesi, o approvazione esplicita in precedenza, o approvazione con lasciar correre dappoi. Nulla, neppure la nomina del Governo provvisorio di Bologna, era stato fatto senza il consenso di Napoleone III.; lo stesso Pepoli non avea accettata la promossa sua elezione, se non quando il sovrano congiunto l'ebbe autorizzato. Nei paesi rivoltati tutto era stato disposto appuntino secondo le prescrizioni dell'Imperatore, ed il Pietri, il vero suo plenipotenziario su' luoghi, avea l'occhio da per tutto. I colpi di testa di Cavour non erano, a paragone, se non piccole libertà, sino ad un certo grado scusabili, e conseguenti piuttosto dalla posizione che l'Imperatore de' Francesi medesimo aveva fatta al Piemonte (1).

Quelli, che nella pace vedeano affogati gli ulteriori loro disegni e le speranze di un regno solo dalle Alpi all'Adriatico, assai se ne dolsero, risentendone l'effetto quale il dovette provare la contadinella della favola, quando vide rovescio a terra quel secchiello del latte ch'ella si recava in sul capo al mercato, considerandolo

(1) Sgombrando dalla scena, Cavour, rassicurato alquanto dalle parole rivelatrici che Napoleone avea dette a Pepoli e Rattazzi in Torino, «non tardò molto ad apprezzare le vantaggiose condizioni fatte all'Italia dalla pace di Villafranca» (Berti; Il Conte di Cavour, pag. 72), né si ritrasse dal teatro. Giudicando della condizione delle cose coll'abituale lucidezza della sua mente, il 24 luglio ei scriveva: «Sono profondamente persuaso che la mia partecipazione alla politica in questo momento sarebbe dannosa al mio paese. I suoi destini furono rimessi nella mano della diplomazia. Ora io sono in cattivo odore presso i diplomatici. La mia dimissione è loro gradita. Vi sono circostanze in cui uno statista non saprebbe mettersi abbastanza in vista; ve ne sono altre in cui l'interesse della causa cui serve, richiede ch'ei si ritragga nell'ombra. Questo è ciò che da me esigono le presenti condizioni. Uomo d'azione, mi do in balìa del riposo per il benessere del mio paese.»

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quale inconcusso fondamento di sua ricchezza futura. I diarii italiani che stavano alle dipendenze del Cavour, o parteggiavano pe repubblicani, non posero tempo in mezzo a strimpellare altamente. Chi disse (1), «l'annunzio della pace essere stato un colpo di fulmine, una grave sventura!» Chi (2) deplorò le aberrazioni della diplomazia, dichiarò «che la pace non sarà che una tregua, che il Piemonte non è complice, ma vittima di questa seconda edizione del Trattato di Campoformio.» Chi esclamava (3): «La pace stipulata sarà il principio di nuove e grandi lotte in Italia; il periodo della guerra attuale è finito, noi entriamo ora nel periodo delle lotte politiche.» Quasi più ancora, se possibile, si scatenarono contro l'idea della Confederazione, che diceano voluta da Napoleone. L'Unione caldissimamente raccomandava agli organi della pubblica opinione «d'insistere affinché la Confederazione italiana non abbia vita.» Altri gridava (4): «Sventura all'Italia se la Confederazione combinata da Napoleone e dall'Imperatore d'Austria venisse a tradursi in un fatto politico! L'Italia sarebbe caduta nella più intollerabile inerzia de circoli viziosi.» Ed altri ancora (5): «In Italia si potrà fare una Confederazione, quando venga imposta da prepotente autorità straniera, ma sarà una Confederazione straniera e non italiana.» I ritratti di Felice Orsini, che dopo la venuta de' Francesi erano scomparsi dai pubblici ritrovi, riapparvero d'un tratto, e lo scandalo giunse a tale che gendarmi francesi, che si trovavano in Torino, andarono essi medesimi a strappare e lacerare i ritratti dell'assassino. Fu d'uopo che la Polizia ordinasse di tenere esposti come prima i ritratti di Napoleone III., che intanto l'Italia di Torino ed altri giornali non più chiamavano né Imperatore Napoleone, ma semplicemente e per dispetto Luigi Bonaparte. L'eccesso della sorpresa e del dolore accecava per un istante le menti, e conduceva avvenimenti che la più vulgare prudenza avrebbe dovuto sconsigliare nell'interesse medesimo degli addolorati.

Riconfermata al cospetto dell'esercito quella promessa che

(1)

l'Unione, la Stufetta, ed altri giornali simili.

(2)

L'Indipendente, numero del 13 di luglio 1859.

(3)

II Diritto, del giorno 14 luglio 1859.

(4)

La Sentinella delle Alpi, del 21 luglio 1859, numero 170.

(5)

L'Opinione, numero del di 22 luglio 1859.

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costituiva il perno delle promesse da sua parte un momento prima scambiate col capo della Casa di Asburgo, l'impegno preso rispetto a' principi richiamati sopra i lor troni (1), nel medesimo giorno 12 l'Imperatore Napoleone si allontanava da Valeggio per rientrare in Francia. Il suo esercito si apprestava a seguirlo al di là delle Alpi, lasciando in Italia un cinquanta mila uomini, acquartierati nella Lombardia e nel Parmense. Raggiunto, il 15, in Torino dal marchese Pepoli, a costui, che non sapea darsi pace come nei Preliminari di Villafranca le Legazioni nemmeno fossero nominate, Napoleone III. rispose (2): «Cugino mio, compiremo la tragicommedia in due Atti; il primo fu fatto coll'intervento, il secondo si farà col grande principio del nonintervento.» Pepoli gli chiedeva se sarebbe rispettato il voto di annessione alla Sardegna. «Purché l'ordine attuale non sia turbato, io ti prometto che non vi sarà intervento,» replicava l'Imperatore (3). - Intanto che cosa posso dire a Bologna?, insisteva il marchese. - Telegrafa che ti ho risposto (4): «Ho» scritto al Papa per impegnarlo ad una nuova organizzazione» degli Stati romani. Frattanto né la Francia né l'Austria interverranno nelle Legazioni, se l'ordine pubblico non è turbato.

(1) «I Governi, che Don presero parte al movimento, o richiamati ne loro possedimenti, comprenderanno la necessità di salutari riforme.» (Ordine del giorno dell'Imperatore Napoleone all'esercito francese, del 12 luglio 1859).

(2)

Non appena s'ebbe contezza della lettera che l'Imperatore dei Francesi scrisse a Pio IX., il 31 dicembre 1859, con cui lo consigliava di rinunziare alle Legazioni, Pepoli non tenne più in bocca il turacciolo, ed un diario milanese, il Pungolo (Num. 11, del 12 gennaio 1860), quelle parole riportò testualmente. A Parigi parve cosa suonata un po' fuori di tempo. Allorché l'articolo del Pungolo fu sporto a leggere all'Imperatore, per udire se si dovesse smentire, rispose ridendo: Bavardl, e voltò discorso.

(3)

Lo stesso Gioacchino Napoleone Pepoli, il 22 di novembre 1862, diceva alla Camera dei Deputati in Torino: «L'Imperatore, quando lo vidi» qui dopo la pace di Villafranca, e gli chiesi se sarebbe rispettato il voto» del mio paese, mi rispose: Purché l'ordine attuale non sia turbato, io ti prometto che non vi sarà intervento» (Atti Ufficiali del Parlamento, num.906, pag. 3523).

(4)

Dispaccio telegrafico del Pepoli a Bologna, da Torino il 15, inserito nel Monitore Bolognese, foglio ufficiale del Governo provvisorio delle Romagne, numero del dì 16 luglio 1859.

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Se il Papa rifiuta, la questione sarà sottomessa al Congresso.» Un momento appresso, quella sera medesima, a Rattazzi che, dopo i vani sforzi dell'Arese assentendo ad essere l'anima del nuovo Ministero, s'industriava di conoscere in quali acque veramente avrebbe dovuto navigare, Napoleone III. replicava (1): Je ferai l'affaire en deux actes, soyez tranquille!

A dì 17 l'Imperatore de' Francesi era già di ritorno a Saint-Cloud, ove, due giorni appresso, recatisi i grandi Corpi dello Stato a felicitarlo, si udiva da Troplong, presidente del Senato, paragonato a Scipione, «che, vinto Annibale a Zama, avrebbe potuto distruggere Cartagine, e non volle, poiché egli sapeva che, spesse volte, ò perdere sé stesso volendo perder troppo il suo nemico.» - Quando gli eserciti di Francia e di Sardegna, loro rispose Napoleone III., giunsero sotto le mura di Verona, la lotta stava inevitabilmente per mutare di natura, tanto sotto il rapporto militare, che sotto il rapporto politico. Io era fatalmente obbligato ad assalire di fronte un nemico trincierato dietro grandi fortezze, protetto contro ogni diversione sui fianchi dalla neutralità dei territorii che 1' attorniavano, e, cominciando la lunga e sterile guerra degli assedii, io mi vedeva di fronte l'Europa in arme, pronta, o a disputare i nostri trionfi o ad aggravare i nostri rovesci. Tuttavia le difficoltà dell'impresa non avrebbero scrollata la mia risoluzione, né fermato lo slancio del mio esercito, se i mezzi non fossero stati fuor di proporzione coi risultati da raggiungere. Bisognava risolversi a spezzare arditamente gli ostacoli opposti dai territorii neutri, ed allora accettare la lotta sul Reno come sull'Adige. Bisognava dovunque farsi forti sinceramente del concorso della rivoluzione. In una parola, per trionfare, bisognava arrischiare ciò che ad un sovrano non è permesso di perigliare se non per l'indipendenza del proprio paese. Se mi sono fermato, non fu dunque per istanchezza, o per isfinimento, né per abbandono della nobile causa ch'io voleva servire; ma perché nel mio cuore qualche cosa parlava ancora più altamente: l'interesse della Francia. Per servire l'indipendenza italiana feci la

(1) Rattazzi serbò il silenzio meno ancora che Pepoli, sì che una corrispondenza da Torino, in data 18 luglio, nella Gazzetta di Colonia, numero del 22 luglio 1859, spiattellava tosto il responso imperiale.

PACE DI VILLAFRANCA. 247

guerra contro il beneplacito dell'Europa; non appena i destini del mio paese poterono correre pericolo, ho fatta la pace. - In vero ei poteva aggiungere, senza timore che alcun lo smentisse, di avere fatta la guerra contro il beneplacito della Francia medesima. Ora però che la guerra era finita, l'entusiasmo era grande, non per l'Italia, bensì per la gloria militare soddisfatta. Il vero Francese, vano e leggiero, cui il successo è legge morale suprema, così nella vita civile, come nella politica, di presente andava superbo del suo Imperatore. Ciò che si ammirava maggiormente in lui era la sua abilità politica. Il a joué tout le monde, dicevano gli uni, fregandosi contenti le mani. Altri, che non mai aveano avuto simpatie per nulla coll'Imperialismo, dicevano: II est une force qui nous fait baisser la téte!

Per fermo si poteva a lui replicare, che, quand'egli sapeva come sì grandi ostacoli lo attendessero sulle rive dell'Adige, perché aveva sì altamente proclamato di volere spazzare gli Austriaci dall'Alpi all'Adriatico? Se ogni diversione sui fianchi del quadrilatero eragli impedita dalla neutralità dei territorii che l'attorniavano, questi territorii si sapean pure intangibili ben prima di dar di piglio alle armi. Si confessava l'attacco contro Venezia insufficiente, illusorio; che se fosse stato cosa sì liscia, come millanta vasi, non punto era d'uopo di pigliarsela con que' territorii, che appunto non si poteano toccare. 0 ancor prima di sguainare la spada, egli era certo di trovare, giunto al quadrilatero, l'Europa in arme, pronta a disputargli i trionfi o ad aggravarne i rovesci, e allora perché cominciare ciò che si sapeva di non poter finire? Od era caduto in errore, ed ora i neutrali gli faceano le castagne. Follia il pensare che per egoismo prussiano la Germania non avesse difese al Reno le sue barriere sul fianco. Incontrastabile che al di qua delle Alpi, Napoleone s'era appoggiato sul concorso della rivoluzione; puerile lo sforzo di voler distinguere in Italia tra rivoluzione regia, capitanata da Cavour all'ombra del Re di Sardegna, e rivoluzione popolana, capitanata politicamente da Mazzini, militarmente da Garibaldi. Se stava nel vero che, per trionfare, bisognava arrischiare quanto ad un sovrano non è permesso di porre a repentaglio se non per l'indipendenza del proprio paese, perché non riflettervi meglio da prima, perché proclamare l'Italia libera dall'Alpi all'Adriatico,

248 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

perché con ciò dare a credere che si pensasse a Venezia? Era la perspicacia di Mazzini che avea colto nel segno, o la coalizione europea che risorgeva contro il Bonapartismo?

La verità era: che il nuovo Ministero britannico, gli stessi amici del Bonaparte, pur sempre romorosamente dicendo, anche per mezzo di dichiarazioni ufficiali fatte nelle Camere da que' medesimi Ministri, di non volersi mescolare per ora in negoziati, aveano invece negoziato, negoziato talmente da far nascere, ancorché contro lor voglia, una sùbita pace; pronti a disputare colle armi il predominio che la Francia napoleonica muoveva a conquistare in Italia sull'Europa, guidati, come tutti gli statisti inglesi a qualunque frazione appartengano, dallo stesso principio fondamentale di politica, essere resistenza di un'Austria non di soverchio indebolita, questione essenziale per la Gran-Bretagna, spezzata senza quell'Austria la diga contro le macchinazioni della Russia in Oriente, senza quell'Austria l'Adriatico essere sulla via di divenire un lago francese. La verità era che predominio si fatto non lo volea neppure la Russia, ancorché avversa all'Austria; non lo volea neppure la Prussia, ancorché all'Austria rivale. Coalizione vera non peranco esisteva, ma i tre egoismi avrebbe alla fin fine allivellato la grandezza di un supremo interesse comune. La verità era che, comunque grandemente discordi i sentimenti, dietro le mura di Verona e di Mantova stava l'Europa risorgente contro il Napoleonismo; e per attraversare questo, ben avrebbero potuto esigere dall'Austria più duri sacrificii che quelli cui sottostava da per sé a Villafranca.

La coalizione diplomatica ed armata, che vedea prepararsi, erasi ordita però con accortezza tale da dover ottenere l'esito a rovescio. Perché, infatti, una mediazione armata potesse conseguire d'imporre a' belligeranti condizioni care a niuno, fuorché a chi le proponeva, si richiedeva che gli avversarii avessero nei loro amici neutrali quella fiducia che lasciasse loro sperare, benché falsamente, un qualche aiuto ai loro disegni. Loro cura fu invece di far intendere anche ai semplici mortali, modesti leggitori dei giornali di provincia, che Prussia e Inghilterra aspettavano di vedere ben indeboliti i combattenti, per poi imporre loro le condizioni della pace. Per far andare a monte questi disegni, null'altro ci voleva che il conoscerli.

PACE DI VILLAFRANCA. 249

I due Imperatori li conobbero con grande facilità e con maggiore li sventarono, ottenendo l'uno dall'altro quello che i due neutrali non voleano né per l'uno né per l'altro, ma per sé, a spese dei due belligeranti. Con che fu reso possibile di vedere, curiosa cosa veramente, nella pace concordata tra i due Imperatori l'Austria ottenere dal suo nemico più che non intendeva concederle per grazia la Prussia sua confederata, e la Francia avere qualche cosa dall'Austria che non avrebbero voluto concederle l'Inghilterra e la Prussia.

Intanto un'altra lesione al pubblico dritto, che da quarantaquattr'anni avea regolata l'Europa, erasi andata operando. Gettata ogni colpa sull'Austria, capro espiatorio, le si avea fatta la guerra per istrappare una pagina agli abborriti assettamenti del 1815. l'Europa, che aveva lasciato dar di piglio alle armi, le vedeva or deposte senz' aversene essa impicciato. Prima della guerra, Inghilterra e Prussia a gran parole protestavano dell'incolume rispetto che si doveva ai Trattati. Per entrambe la pace era venuta troppo presto, accolta da entrambe con grande dispetto, dacché conchiusa senza il concorso de' lor politici. Mentre l'Inghilterra, austriaca prima della guerra, neutrale durante la guerra, dopo la guerra, allontanato il pericolo, stimerà più utile al proprio interesse mercantile, questa stregua de' suoi interessi, mutare vie e mezzi, farsi italianissima; dopo la pace, la Prussia, che avea creduto acquistare il dominio della Germania con procacciarsi infrattanto il diritto di disporre liberamente ed assolutamente degli eserciti alemanni, si faceva piccina, piccina, si dava a biasciare scuse, a fantasticare sutterfugi (1).

(1) Annunciando la pace conchiusa all'esercito, nell'Ordine del giorno del 12 luglio, Francesco Giuseppe disse: «Appoggiato al mio buon diritto, ho impegnata la lotta per la santità dei Trattati, fidando sull'entusiasmo de miei popoli, sul valore del mio esercito, e sugli alleati naturali dell'Austria. Senza alleati, non cedo che alle circostanze disgraziate della politica.» Rientrato in Austria, in un proclama ai suoi popoli, aggiunse: «Essere stato si amaramente deluso nella legittima speranza che non sarebbe rimasto isolato in una lotta, la quale non era stata intrapresa nell'isolato interesse del buon diritto dell'Austria. Malgrado la calorosa e commovente simpatia che la nostra giusta causa incontrò nella più parte dell'Alemagna, presso Governi e popoli, i nostri confederati più naturali si sono ostinatamente rifiutati a riconoscere l'alta significazione che rinchiudeva la questione del giorno.


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250 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Ad ogni modo l'intervento della Prussia scemava alla Francia i frutti della vittoria, distruggeva i progetti fondati su quella vittoria dalla Russia. Prima della guerra, allorché Austria, Inghilterra, Prussia e Germania insistevano sull'intangibilità dei Trattati del 1815, la Russia erasi collocata invece sul terreno del Trattato di Parigi del 1856. Dopo la guerra, per la Russia non esistevano più. né i Trattati del 1815, né quello del 1856. Come prima della guerra, dopo di questa la Russia non dimenticava Sebastopoli, né la Prussia Neuchatel, con questo solo divario che, dopo Villafranca, l'Austria non poteva dimenticare la Lombardia.

La carta d'Europa sostanzialmente non era stata cangiata. l'enormità, mai più veduta, che una guerra avrebbe tratto con sé lo spogliamento d'una Potenza dichiarata neutrale dai belligeranti e posta dal vincitore sotto la sua particolare protezione, pareva dovesse essere riparata colla Pace stessa di Villafranca, L'Austria aveva ceduto una provincia, perché le Potenze dichiararono che la guerra localizzata non le interessava. La pace localizzata non dava loro del pari alcun diritto d'immischiarsene. Prima della guerra, come durante la guerra, l'Europa, sbalordita, fatta passare di sorpresa in sorpresa, sospinta a giudicare de gli avvenimenti che le si faceano vedere a traverso di un prisma, erasi trovata in condizione di non poter discendere vera luce e colori; ed ora, deposte le armi, era chiamata ad assistere allo spettacolo d'una colossale ludifìcazione.

L'onore dell'Austria essendo salvo, per l'eroico coraggio dell'esercito sul campo di battaglia, ho obbedito a considerazioni politiche, consentendo alla pace; dopo avere acquistato la convinzione che, con un'intelligenza diretta coll'Imperatore de' Francesi, e senza intervento d'un terzo, otterrei in ogni caso condizioni meno sfavorevoli, ch'io non potessi attendermi dall'intervento nelle conferenze delle tre grandi Potenze che non presero parte alla guerra.» Di queste parole, e non meno di altre a suo riguardo contenute in un Dispaccio circolare del Ministro austriaco pegli Esteri, la Prussia mostrò adontarsi. Ne conseguitò uno scambio di Note diplomatiche, di documenti contraddittorii, da cui, comunque il Gabinetto di Berlino si desse ogni studio per persuadere che le ipotesi, dalle quali esso era partito nelle sue comunicazioni colle altre Potenze, erano anzi di una qualità molto più favorevole all'Austria che non i Preliminari di pace segnati a Villafranca, ned avere la Prussia formulate condizioni di mediazione di alcuna specie, fur poste in piena luce le ambagi della sua politica, l'ostilità sua all'Austria, le recondite mire.

PACE DI VILLAFRANCA. 251

A quel modo che si avea voluto condurla a credere incominciata in maggio 1859 sul Ticino la guerra, che aveva avuto principio in aprile 1856 a Parigi, più propriamente in agosto 1849 a Roma; al presente le si diceva chiusa questa guerra, e non si avea fatto che spostarla. Come dapprima la guerra d'intrighi erasi mutata in guerra di cannoni, ora la guerra di cannoni muta vasi alla sua volta in guerra d'intrighi. Dinanzi alla libera storia, testimonianza solenne, sovrana, immortale, la Pace di Villafranca nella realtà non era che un mazzo di carte abilissimamente scambiato nella mano dell'espertissimo giocoliere. Si era mutato il metodo, era rimasto il fine.

LIBRO QUARTO.

IL NON INTERVENTO

DALLA PACE DI VILLAFRANCA SINO ALLA CESSIONE

DI SAVOIA E NIZZA ALLA FRANCIA.

SOMMARIO.

XXIV. Diritto Nuovo. - XXV. Trattati di Zurigo. - XXVI. Guerra al Papato. - XXVII. Savoia e Nizza. - Epilogo e conclusione.

CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

Diritto Nuovo.

Il non intervento. - Dottrina ed applicazione. - II fatto compiuto. - Teorie del progresso, dei consigli, delle riforme, della conciliazione. - L'epigrafe del secondo Atto. - Due generazioni di combattere, l'uomo e la bestia, la volpe e il leone, secondo Machiavelli. - Richiamo dei Commissarii sardi dall'Italia centrale. - Luigi Carlo Farini. - Nascita del Dittatore a Modena. - Quattro assemblee convocate. - I candidati alle Deputazioni. - Leggi elettorali. - Le libere votazioni. - Decadenze in coro. - Filippo Curletti in missione. - II colonnello Anviti a Parma. - La notte del 5 ottobre 1859. - Gli assassini guiderdonati. - Un appartenente alla stirpe di Cam. - Punizione della rea colonna della Piazza grande di Parma.

G

ran forza che hanno le parole pei tempi correnti! Con un vocabolo si fabbrica una dottrina: fabbricata questa, si applica alla società, e la società si vede d'un tratto scompigliata da cuna a fondo in nome di un vocabolo, di cui niuno sa al giusto definire il valore, di cui veruno sa precisare a che obblighi, da cui ognuno può nei fatti trarre applicazioni totalmente diverse, talora affatto contraddittorie. Stando alla naturale significanza del vocabolo non intervento, lo si crederebbe il diritto che ha ciascun popolo di fare da sé liberamente i fatti suoi, cotalchè sarebbe pei popoli ciò che sono per gl'individui la libertà

254 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

e la proprietà; n dubbio alcuno è possibile che la libertà d'un popolo dee rispettarsi, sicché veruno vi s'ingerisca non chiamato da chi n è legittimo governante. Stando alla pratica applicazione, il non intervento mena ad abolire la proprietà e la libertà, a sciogliere la società. La società umana è società di esseri specificamente eguali. Il fine, il principio essenziale, per cui fu voluta ed è attuata dall'uomo, è il mutuo sussidio, reso necessario dalle personali disuguaglianze; come il bene personale è lo scopo della proprietà, con cui si posseggono le cose materiali. A quel modo che la proprietà viene distrutta se al proprietario si tolga l'uso della cosa sua, distrutta viene la società quando avvenga che i socii siano impediti dall'uso del mutuo soccorso. Togliere il diritto di scambievole aiuto, è togliere il diritto di libera volontà dell'uomo. Vietare al povero, sia esso una persona, una famiglia, una comunità, un popolo, di ricevere il sussidio del ricco, è scelleratezza. Interporsi a trattenere la mano benefica, che accorre a soccorso del l'amico, è colmo di nequizia, colmo di spietatezza.

Nel consorzio del mondo universo i Governi sono come una grande società, dove ogni singolo individuo ha diritti e doveri: doveri di cooperare a vantaggio, a soccorso, a difesa dei fratelli; diritti di tutelare sé, le proprie famiglie, le proprie cose, di essere alla occorrenza assistito dai parenti, dagli amici, dalla pubblica giustizia. La dottrina del non intervento è la rinnegazione del diritto inalienabile che ha all'altrui aiuto il debole conculcato; è l'egoismo elevato a sistema. Il Cristianesimo congiunge nell'amore de' simili tutte le genti; il nonintervento vorrebbe isolarle, disgiungerle. Applicato alle relazioni tra gl'individui, condurrebbe ognuno a considerare sé stesso come solo al mondo, senza relazioni coi vicini, senza legami di dovere coi congiunti e cogli amici, senza vincolo alcuno né morale né fisico con persona di questo o dell'altro mondo. Il mio vicino affoga, e mi scongiura d'aitarlo. «Amico mio, gli dirò, aiutati che Dio t'aiuterà. Sempr'ebbi e sento gran simpatia per te: ma nell'acqua, vedi bene, non vi sono mica caduto io. Se riesci di salvarti da te, ne avrò gran piacere. Ma aiutarti non mi é possibile; io sto pel grande principio del non intervento.»

Se in verun caso non si potrà intervenire nello Stato altrui, in verun caso non si potrà neppure intervenire nella casa altrui.

DIRITTO NUOVO. 255

Entrando in casa vostra ladri e assassini a domandarvi la borsa o la vita, e, quella avuta, a togliervi forse dopo anche questa, non potranno entrarvi soldati. Peggio per voi se gridaste, probabilmente ne avreste il danno e le beffe. Le vostre grida chiamerebbero genti all'intorno, chi vi riderà in faccia e sarà il meno, chi vi aiuterà col conforto: Bravi! Dalli, dalli Buon per voi se poteste andarvene col corpo sano. l'unica cosa, che vi han lasciato addosso, è la camicia. Sul limitar della porta vorranno anche questa. In quello scorgete un omenone, vostro antichissimo amico che stava a vedere. «Di grazia, gli dite, dammi una mano, che almeno mi lascino la camicia!» - Che ho ad intervenire io, vi risponderà, tra rubatori e rubati? Le son queste faccende domestiche nelle quali gli stranieri non debbono intervenire. Io sto pel gran principio del non intervento. - Di tal guisa libertà per tutti vorrà dire libertà degli audaci, dei furbi, dei prepotenti, libertà per chi ha il pugno più saldo o lo stocco più lungo; vorrà dire oppressione dei deboli, dei timidi, degli onesti.

Ogni partito assume nome di popolo e si arroga parlare in nome del popolo. Menatagli buona codesta pretensione, si crede buonamente di lasciare libertà al popolo, quando si toglie ogni freno ai partiti; e sotto pretesto di lasciare che il popolo si governi da sé, si vieta a tutti i vicini di accorrere a liberare dagli oppressori. Una piccola fazione, ma ardimentosa, un pugno d'uomini ambiziosi ed astuti, atterrisce e incatena col suo dispotismo ogni altro partito, e all'ombra d'un assurdo s'assassina la nazione, forzandola a rimanere vittima indifesa del Regno della minoranza, il quale, pel manco assoluto d'ogni diritto che ne abbia, si dichiara di per sé stesso tirannico nella prima sua radice, colla quasi necessaria illazione che abbia ad esserlo non meno nell'esercizio del potere arruffato. Così il non intervento si mostra per quello che è veramente, una macchina di guerra, arme di circostanza, un tranello ad uso di quella fazione, la quale, quando spera insignorirsi d'un paese, sente il bisogno di premunirsi contro }' esercizio di quel diritto, o piuttosto di quel dovere internazionale, ch'è il mutuo sussidio.

Applicata alle nazioni tra loro, la dottrina non è meno feconda di risultamenti stupendi. Si ribellano o piuttosto si fanno ribellare i sudditi di un sovrano confinante.

256 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

«Vicino mio, aiutami, dice questo; se non mi aiuti perirò.» - «Vostra Maestà, risponde il vicino, mi è carissimo, sinceramente sento per lei la più viva amicizia ed affezione, mi è stretto parente. Dunque se può, vinca da sé; io sarò il primo a provarne la più grande consolazione. Ma se non può, vede bene, questo è affare da sbrigarsi in famiglia, senza intervento forestiero. Tolga Iddio ch'io mi prenda la libertà d'intervenire in casa d'altri.» Un sovrano muore di voglia di beccarsi lo Stato d'altro sovrano. Non potendo andar lui, assolda qualche migliaio d'avventurieri cosmopoliti, e li manda ad invadere lo Stato desiderato. L'assalito domanda soccorso a' vicini. «II mio esercito è infiltrato di settarii e di felloni. I generali mi tradiscono; i soldati sono fedeli, ma non sanno a chi ubbidire. I miei Ministri medesimi se la intendono col mio nemico. Se non mi si aiuta, il mio Stato verrà alle mani di predoni e di assassini.» Gli si risponde: «Vostra Maestà mi sta molto a cuore. In casa mia io sono tranquillo, le mie truppe sono leali, i miei generali fedelissimi, e i miei Ministri sono tutti oro da coppella. Contento io, contenti tutti. Caschi il mondo, ma sia salvo il grande principio del non intervento.»

Poi que' medesimi, che più forte schiamazzano contro l'intervento, son essi i primi a chiederlo ed a praticarlo; perocché, la dottrina del non intervento, allungandosi, scorciandosi, allàrgansi, stringendosi con mirabile elasticità a comodo di chi se ne dee servire, non impedisce punto d'intervenire quando si crede e come si crede, eì che, per quanto ci abbiano studiato sopra, fu sinora impossibile di ritrovare la formola che regoli e spieghi la mutabilità sua. Chi accomoda ogni cosa è sempre il proprio interesse. Al principio della guerra d'Italia Napoleone III. professava che la spada della Francia accorrerebbe dovunque fosse un grido di giustizia da secondare, un diritto di civiltà da mantenere, un'idea generosa da difendere, e già si sa che, dove vi ha un'idea generosa, là è la Francia. Regalata la Lombardia al Piemonte, torna in Francia contento di aver salvato il principio del non intervento, e di aver guadagnato Savoia e Nizza; ed un suo Ministro dichiara ch'era intervenuto nella Penisola perché gli era tornato a conto (1). Pel suo interesse Napoleone III. era intervenuto in Crimea a

(1) «Si le gouvernement de l'Empereur est lui méme intervenu,

DIRITTO NUOVO. 257

assicurare il predominio del gran principio del non intervento; era intervenuto in Grecia, interveniva altrove. Al Congresso di Parigi il Piemonte colle famose Note all'Inghilterra e alla Francia lamentava a parole l'intervento, a fatti preparava l'intervento futuro in Italia, dopo di essere per suo interesse intervenuto colle armi egli pure in Crimea. Nel discorso della Corona, quando si diceva commosso dalle grida de' popoli che gli chiedeano soccorso, Vittorio Emanuele, predicando non intervento, prometteva intervento Allora il Piemonte, protestando contro l'intervento straniero, in nome del non intervento intendeva dire all'Austria: «Togliti di là, che mi vo' metter io.»

Il grande principio del non intervento è dichiarato sacro e inviolabile in ogni caso, in ogni luogo, in ogni tempo, ogni qual volta non si crede bene di farvi qualche eccezione e violarlo. Quando si voglia intervenire, affermando di non voler appunto intervenire, s'interviene senza bandiera, con Ministri e Deputati alla tribuna, con Ambasciatori e Consoli, con Note diplomatiche, con flotte insidiose, con società clandestine, con emissarii, con danari, con armi introdotte di nascosto, con libelli famosi, con giornali pagati a un tanto la linea. Lecito a chiunque l'intervento straniero ogni qualvolta trattasi di accendere o secondare la rivoluzione in qualsivoglia paese del mondo; se si tratterà di spegnerla, il gran principio del non intervento sarà mai sempre scrupolosamente e rigorosamente osservato e fatto osservare. Nel primo caso l'intervento è idea generosa, magnanima, santa; nel secondo è ingenerosa, immorale, infame, iniquissima, è delitto. Per quello gli onori degli altari, per questo il palco della gogna.

Lecito d'intervenire in Asia per difendere l'integrità del patrimonio di Maometto; vietato d'intervenire in Europa per difendere l'integrità del patrimonio del Papa. Lecito l'intervento in Italia di Francesi, d'Inglesi, d'Ungheri, di Polacchi, di Americani, di qualsivoglia straniero, quando si tratti di togliere a' legittimi prenci gli Stati ed annetterli a quelli del Re di Sardegna:

» il ne l'a fait qu' en códant à des?circonstances impórieuses, parce que, dans l'état des cboses en Italie, ses intéréts Ini en imposaient la nécessité.» Dispaccio del Ministro Thouvenel al conte di Persigny, Ambasciatore francese in Londra, del 30 gennaio 1860.

258 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

vietato d'intervenirvi a chiunque quando si tratti di togliere quell'intervento straniero, vietato con suo infinito rammarico insino alla Francia, che pure vi ha idee generose da difendere, promesse da mantenere. Se si tratti degli Stati pontificii, la Francia non può intervenire. No, cioè sì. Interviene per difendere a Roma la persona del Santo Padre; farà di meglio, interverrà per confessare la sua impotenza, e dire al Papa: «Vostra Santità ha ragione, il Piemonte ha torto; non ho mancato di farglielo sapere più volte e sempre chiaramente. Ho fatto quel che ho potuto, e Vostra Santità può vedere la mia impotenza. Che cosa vuole che le dica? Il Piemonte intende fare a modo suo. Intervenire coi fatti non si può, non concedendolo il sacro principio del non intervento. Piuttosto sa ella, Santissimo Padre, come Vostra Santità può fare per acconciare ogni cosa? Ceda al Piemonte le province che questi possiede coll'autorità del fatto compiuto. Vittorio Emanuele sarà contento, e Vostra Santità lo sarà più ancora di lui, perché più lo Stato sarà piccolo, pili il Sovrano sarà grande. Per ottenere lo scopo sublime di questa conciliazione, tanto e tanto io mi sentirei d'intervenire, e guarentirei poi a Vostra Santità il resto de' suoi Stati, ben inteso che li guarentirei salvo sempre il gran principio del non intervento». Si proclama questa gran dottrina del non intervento la base del diritto pubblico europeo; e s'interviene in ogni tempo, in cento luoghi, in mille modi. Non li sembra proprio un'antifrasi o un'ironia? Non diversamente l'Assemblea nazionale della Rivoluzione francese stanziò la celebre legge, con cui si disse abolita la confisca; ed incominciando dalla rinunzia dei diritti feudali nella famosa notte fanatica degli 8 agosto, e proseguendo per tutta quella serie di spogliamenti di terre, di rendite, di capitali, di titoli, di stemmi e persino di nomi, formò a quella legge un sì curioso contrasto, o commento che dir si voglia.

Bai principio di non intervento direttamente consegue, quale figliazione naturale e legittima, l'altra dottrina del fatto compiuto, il gran mezzo rivoluzionario. Fu detto (1): il fatto compiuto essere nel diritto pubblico ciò che è la prescrizione nel diritto

(1) Du Boys; Dei principii della rivoluzione politica considerati come principii generatori del Socialismo e del Comunismo (Versione italiana, pag. 177. - 1857).

DIRITTO NUOTO. 259

civile, e volersi però talvolta rispettare per timore di un più grande disordine. È radicalmente erroneo. Per fermo, rispetto alla società innocente il fatto compiuto può talora produrre effetti analoghi a quelli della prescrizione civile, dappoiché l'avere un principio d'ordine è un bene reale del quale non deve per altrui colpa spogliarsi la società, a quel modo che la legittimità del possesso è un bene di cui non deve spogliarsi il privato di buona fede Però la prescrizione salvando la coscienza del possidente, il fatto compiuto salvando tutt'al più l'obbedienza e l'ordine della società, rispetto a chi usurpa può bensì il fatto compiuto sino a tal qual grado rassomigliare alla prescrizione, ma non è in niun modo ciò ché la prescrizione. La prescrizione è la perdita di un diritto non esercitato entro un tempo determinato; che se alcuno s'impadronisce d'una cosa con violenza o con dolo, s'intrude nel possesso clandestinamente, e quella cosa soltanto precariamente possiede, la prescrizione, non che potersi invocare, nemmeno esiste.

Le ristorazioni sociali non sono rimosse né rendute impossibili dalla durata ancor non breve d'una rivoluzione. A questa legge, spada di Damocle sospesa senza posa sopra il suo capo, la rivoluzione si studiò di contrapporre un principio, che per lei facesse le veci di diritto, od almeno legittimasse alla meglio la propria origine; e s'inventò il principio del fatto compiuto. Ma per dare ad un principio forza di convincere, e molto meno ancora di obbligare, non basta annunziarlo a parole. Il fatto compiuto è la ragione del più forte o del più fortunato, è togliere all'atto umano ogni interiore moralità per considerarne soltanto l'esterna materialità, è togliere alla società di esseri ragionevoli ogni vincolo fondato sopra la ragione per sostituirvi le catene che solo può imporre la forza; ned esso, come non fu mai, non mai potrà essere un principio, se non per una società che rinneghi ogni giustizia ed ogni diritto. Invocare il fatto compiuto siccome fondamento e ragione della propria esistenza, è confessare un'esistenza senza ragione e senza fondamento, è confessare che si riconosce il fatto stesso destituito d'ogni diritto.

Or si conosceva la violenza del fatto compiuto, non peranco l'autorità del fatto medesimo, scoperta venutaci non ha molto di Francia; l'autorità, questa grande e santa cosa, ch'è fondata sul

260 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

diritto, ch'è il diritto stesso. Così di sofisma in sofisma. La dottrina del fatto compiuto essendo la legittimazione dell'uso della forza brutale, l'autorità del fatto compiuto sarebbe il diritto di quest'uso, il diritto del delitto. Ciò almeno è logico. Togliete all'uomo che gettaste nel fiume, e s'annega, la speranza d'essere da veruno soccorso, toglietegli la facoltà inalienabile d'invocarlo, dategli la certezza che niuno verrà in suo aiuto e che a niuno sarà permesso di assisterlo, quel fatto, compiuto che sia, avrà in vero un autorità, l'autorità della morte!

Ferace di scoperte è la scienza. Nuovi sistemi di diritto pubblico s'incalzano senza posa, stranamente imbrogliando idee e cose. Chi ha, abbia, e gli altri stiano a vedere: questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria dei fatti compiuti. Chi non ha, prenda, e sarà lasciato fare: questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria del progresso. Chi non darà quanto gli è domandato, mal gli avvenga; questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria dei consigli. Chi fu derubato di una parte, ceda anche l'altra: questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria delle riforme. Chi fu derubato debba essere il migliore amico del suo derubatore: questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria della conciliazione.

Je ferai l'affaire en deux actes, sovez tranquilles! «Cugino» mio, compiremo la tragicommedia in due Atti; il primo fu» fatto coll'intervento, il secondo si farà col noninteevento». Questo avea detto l'eccelso direttore di scena, chiuso appena a Villafranca il primo Atto, l'Atto dell'intervento. Però, a quella guisa che certi farmachi amministrati a piccole quantità e a più riprese avvantaggiano, mentre a più elevate e in una sol fiata nuocono, a ragione fu detto che la verità dee dirsi a sorsi, e rivelata intera e d'un tratto fa male. Come il medico rinforza grado a grado le dosi onde assuefare lo stomaco del paziente alla tolleranza di quella dose massima cui pensa di poter pervenire, piace meglio e a chi narra e a chi legge scrivere e udire verità a centellini secondochè comporti il progresso del racconto, per poi, giunto alla fine di questo il momento di riassumere le sparse fila, toccare la verità tutta intera, senza reticenze e senza veli. Cosi lo storico che dee parlare di una serie di fatti, aventi sembianze di significazione diversissima dalla realtà, non può liberarsi da

DIRITTO NUOVO. 261

un tal quale disgusto allorché gli avvenga d'essere costretto, prima ancora di arrivare alla narrazione di que' fatti, a rivelare senza orpelli questa nuda realtà, chiave di molti enigmi apparenti.

Il secondo Atto H farà col nonintervento: era codesta adunque l'epigrafe che l'autore cesareo avea posto in fronte a quest'altra parte del libretto del dramma. Nel vero, a che concordassero fatti e parole, nulla più abbisognava che non intervento. Il 3 di maggio si aveva proclamato di non andare in Italia per fomentare il disordine, né per iscrollare il potere del Santo Padre; e tre sovrani facennsi balzare di seggio, ed al Pontefice aveansi fatte rivoltare le Legazioni, e le Marche, e l'Umbria eziandio, con qualche altra terra se si avesse potuto. l'11 luglio si avea promesso che il Granduca di Toscana ed il Duca di Modena rientrano nei loro Stati; e perché vi rientrassero bastava appunto, e più che bastava, solo non intervento. Bastava cessare l'intervento de' Commissarii del Re di Sardegna, de' Governatori, de' Prefetti, de' generali, de' colonnelli, degli agenti civili e militari, palesi e mascherati, rivestiti di cento titoli, camuffati di mille vesti, insediati dal Piemonte ne' paesi padroneggiati dalla rivoluzione; bastava togliere l'intervento delle milizie piemontesi, dell'oro piemontese, delle promesse piemontesi, delle minacce piemontesi, l'intervento della cricca; e i popoli, resi liberi dalla prepotente pressione, si sarebbero senza dubbiezza alcuna volti di per loro precisamente all'opposto di quanto voleva e avrebbe permesso la cricca. Predicando non intervento, pretendendo non intervento, bastava applicarlo e farlo osservare.

Di presente conveniva dare l'ultima mano alle rivolte condotte a bene nell'Italia centrale. Sino allora era prevaluto il metodo della guerra, toccava adesso il metodo della pace; ma, guerra o pace, sempre il fine lo stesso, come il valente nocchiere, che a seconda del vento spiega od ammaina le vele, orza o poggia, ma sempre intento coll'occhio alla meta del viaggio. Or dunque si dovea fare guerra alla pace. Ogni mezzo egualmente buono, come la guerra aveva avuto i suoi, i suoi or avrebbe avuto la pace; tutto stando nel coraggio di adoperarli. Su di che, inteso alla pretensione di ridurre a scienza l'arte dell'usurpare ed il governo degli uomini ad un sistema di astuzie, il secretario fiorentino ne avea già insegnato qualcosa.

262 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

«Quanto sia», scrisse (1),» laudabile in un principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimanco, si vede per esperienza ne' nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare i cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere come vi sono due generazioni di combattere; l'una con le leggi, l'altra con la forza. Quel primo modo è proprio dell'uomo, quel secondo delle bestie; ma perché il primo spesse volte non basta, bisogna ricorrere al secondo. Pertanto ad un principe è necessario saper bene usare la bestia e l'uomo. Questa parte è stata insegnata a' principi copertamente dagli antichi scrittori; i quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone Centauro, che sotto la sua disciplina li custodisse. Il che non vuole dire altro, l'avere a precettore un mezzo bestia e mezzo uomo, se nonché bisogna ad un principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una senza l'altra non è durabile.

» Essendo, adunque, un principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe ed il leone;perché il leone non si difende dai lacci: la volpe non si difende dai lupi. Bisogna, dunque, esser volpe a conoscere i lacci, elione a sbigottire i lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono. Non può pertanto un signore prudente, né debbe osservare la fede, quando tale osservanza gli torni contro, e che sono spente le cagioni che lo fecero promettere. E se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non l'osserverebbero a te, tu ancor non l'hai da osservare a loro. Né mai ad un principe mancheranno cagioni di colorare la inosservanza. Di questo se ne potrebbero dare infiniti esempi moderni, e mostrare quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infedeltà dei principi. E quello che ha saputo meglio usare la volpe, é meglio capitato. Ma è necessario questa natura ben saperla colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore.

(1) Machiavelli; Principe, cap. XVIII.

DIRITTO NUOVO. 263

» E sono tanto semplici gli uomini, e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascierà ingannare.

» Ad un principe non è necessario avere tutte queste qualità, pietà, fedeltà, umanità, religiosità, lealtà, ma è ben necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che avendole ed osservandole sempre, sono dannose; e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, religioso, intero, ed essere; ma stare in modo edificato con animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappia mutare il contrario. Deve avere un principe gran cura che non gli esca mai di bocca una parola che non sia piena delle soprascritte qualità, e paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto umanità, tutto integrità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere d'avere che quest'ultima qualità; perché gli uomini inuniversale giudicano più agli occhi che alle mani, perché toccaa vedere a ciascuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione de' molti che abbiano la maestà dello Stato che gli difenda; e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de' principi, dove non è giudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Faccia, adunque, un principe conto di vincere e mantenere lo Stato: i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati; perché il volgo ne va sempre preso con quello che pare, e con l'evento della cosa. E nel mondo non è se non volgo; e i pochi ci hanno luogo quando gli assai non hanno dove appoggiarsi. Alcun principe dei presenti tempi, quale non é bene nominare, non predica mai altro che pace e fede; e dell'una e dell'altra è inimicissimo».

Ad allucinare l'Europa sopravvenissero senza indugio atti che avessero nel miglior modo apparenza di sincera espressione delle volontà popolari, e si potessero credere non mentiti documenti di decisa avversione alle legittime sovranità decadute. Governi, Rappresentanze, Comuni, corporazioni, sbraitassero: «Non li vogliamo». Non a caso essendo stato proclamato il rispetto ai liberi voti, Assemblee speciali si radunassero, e ad assicurare la libera manifestazione de' liberi voti, e perciò la libera elezione delle libere assemblee, le più elevate autorità sarde da que' paesi si allontanassero;

264 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

ciò che potevasi in generale accordare senza pericolo, perocché, messi in cima d'ogni pubblico uffizio uomini interamente devoti al Piemonte, e ad essi dato valersi di tutta la loro autorità, del monopolio della stampa, e di ogni altro mezzo governativo per educare i popoli alla idea della fusione, ad orpello si toglieva il capo, restavano pieni di vitalità il corpo, i piedi, le mani. Ancorché dimissionario sino dal 13, e costituito il nuovo Ministero Lamarmora-Rattazzi, il 21 luglio Cavour inviava a'suoi capi di Governo nell'Italia centrale l'ordine ufficiale che rassegnassero la pubblica cosa e partissero (1), e l'ordine segretissimo di non rassegnarla punto, e star fermi. Ma padron grande a Parigi non la intendendo così, giunta a Torino la Nota del Governo francese con che esigeva l'immediato richiamo dei Commissarii piemontesi, Rattazzi ripeté il comando di andarsene. D'Azeglio, già ritornato in Torino, da colà smise il carico di Commissario straordinario nelle Romagne il 28 luglio. BonCompagni partì da Firenze con pomposo cerimoniale il 3 agosto, passando per la via dei Cerrettani. Pallieri, Governatore negli Stati parmensi, cessò l'8 agosto, e rientrò in Piemonte.

A Modena, giuntovi il 19 di giugno, stava Governatore di quelle province pel Regno sabaudo Luigi Carlo Farini. Nativo di Russi nel Ravennate, figlio d'un Carbonaro, a diciott'anni Carbonaro egli stesso, nel 1831 era stato cogl'insorti delle Romagne; poi medico nelle Legazioni, poi esule in Toscana, eccitatore del moto di Rimini. Nel 1848 Deputato alla Camera in Roma, e sostituto del Ministro Mamiani. Venuta la rivoluzione del novembre 1849, surta la romana Repubblica, erasi dimesso dal carico di Direttore generale della Sanità, per non riassumere l'ufficio che al ripristinamento del Governo pontificio. Allora serviva lietamente il Papa in posto che gli fruttava cento scudi al mese. Improvvisamente destituito, partì da Roma, passò in Piemonte, dove, pieno di livore contro il Governo pontificio, scrisse la Storia dello Stato Romano dal 1815 al 1850. Fattosi corifeo del partito capitanato da Cavour, era colà divenuto Deputato al Parlamento e giornalista.

Nelle Romagne, nella Toscana, nel Parmense, il terreno credeasi

(1) Atti e Documenti del Governo toscano; Pari. I., pag. 896.

DIRITTO NUOVO. 265

bastevolmente disposto perché a Torino non si avessero serie apprensioni sul risultato delle elezioni. Non così a Modena, le cui campagne sovrattutto davano molta inquietudine. I partigiani del Duca essendovi in grandissimo numero e di molta influenza, il Governo di Torino temeva assai, che, abbandonato a sé stesso, il paese gli potesse sfuggire con una controrivoluzione, pella quale il Duca dal finitimo territorio Lombardo-veneto sarebbe senz' altro colle truppe fedeli rientrato ne1 suoi dominii. Ancorché Farini annunciasse alle popolazioni, il 27 luglio, che deponeva i poteri, bisognava adunque ch'ei rimanesse. Con quale artifizio, da quello stesso che imaginé e diresse la commedia, fu narrato.

«Il giorno fissato,» egli scrive (1),» per la partenza di Farini, appostai sul piazzale del palazzo una parte de' miei aderenti: per ingrossarne il numero aveva fatto venire tutti i carabinieri e gli agenti di Polizia che si trovavano a Reggio, Carpi, Mirandola e Pavullo. Appena comparve il Governatore per montare in carrozza, si misero a gridare, secondo la consegna che aveano ricevuta: Viva Farini No, non partirà il comune nostro padre! Seguitarono la carrozza, continuando le loro acclamazioni; io m'era posto col resto de' miei agenti al di fuori della Porta di Sant'Agostino. Al momento in cui arrivò il Governatore, dietro il mio segnale, i miei agenti si misero a gridare: Viva il Dittatore!; si gettarono sulla carrozza da cui staccarono i cavalli, e lo ricondussero in città, sempre colle grida: Viva il Dittatore l'Arrivando al palazzo, ove attendevano i principali membri del Governo commissariale, venne steso senza indugio, in presenza di Farini, un Processo verbale che lo nominava cittadino di Modena e Dittatore. Le prime firme, che si leggono appiedi di questo documento, sono quelle del conte Borromeo, segretario generale di Farini; Carbonieri, Ministro dell'Interno; Chiesi, Ministro dei Culti; Riccardi, capo di Gabinetto e genero di Farini; Visoni, segretario attaccato; Zini Intendente a Modena; Mayr. Intendente a Ferrara. Alla sera da Farini si rise assai della buffonesca scena della Porta di Sant'Agostino. Al momento in cui staccarono i cavalli io era a due passi dal nuovo Dittatore;

(1) La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, § V.

266 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

» lo vedeva a grande stento con» tenersi dalle risa.» Così in un giorno solo, in alcune ore, il Farini fu Governatore sardo, uomo privato e Dittatore modenese. «Tutt'insieme», conchiuse l'ufficiale effemeride del Farini (1), fu una giornata da far diventare Italiano un Croato.»

Quattro assemblee decretaronsi, a Firenze, a Bologna, a Modena, a Parma; e le elezioni avvenissero in Toscana il 7 agosto, negli Stati estensi il 14, nelle Romagne il 28, nelle province parmensi il 4 settembre. Caduta ogni cosa in balia degl'intesi nell'intrigo, insediate in tatti i principali ufficii politici e amministrativi persone tutte d'una risma, intronizzati negli stalli di capi delle Comunità uomini tutti della fazione, dopo che era stato sparso l'oro a piene mani per fare la rivoluzione, che dall'oro appunto si chiamò rivoluzione aurea, in paesi nuovi all'esercizio del suffragio popolare, ed in cui per giunta lo stare indifferente delle maggioranze e l'astenersene servivano meravigliosamente alla frode, doveva riuscire facilissimo procurarsi assemblee foggiate a lor guisa. Il non intervento stando a mo' di sentinella posta a guardia de' sudditi che si facevano accusatori e giudici de' loro sovrani, chi teneva il potere braveggiava, minacciava, protestava impossibile il disfare il già fatto, preoccupava le elezioni dei Deputati, insegnando di quali sentimenti dovessero essere informati i novelli Padri Coscritti. Ma per dormir quieti sonni, che cosa i Deputati dovessero fare, bastava accertarsi chi dovessero essere.

Chi non fosse della combriccola, piemontezzato in carne ed ossa, notissimo per opinioni superlative, naturalmente non sarebbe riescito. Comitati elettorali s'instituirono, con cara di vagliare i nomi degli eligendi Deputati, e poi di attendere alla più sicura elezione de' prescelti. Ai più noti non fu chiesta professione di fede, agli altri sì (2). A Modena il Farini andò più innanzi colle cautele (3): obbligò i candidati a firmare preventivamente due decreti che avea preparati. Il primo pronunciava la decadenza della Casa d'Este, il secondo prorogava indefinitamente

(1) Gazzetta di Modena, numero del 28 luglio 1859.

(2)

Rubieri; Storia intima della Toscana, pag. 200.

(3) La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, § V.

DIRITTO NUOVO. 267

te i poteri del Dittatore. Due uomini soltanto, Amadio Levi, banchiere, ed il professor Puglia, si rifiutarono a firmare; non furono nominati. Alcuni, tentati ne' loro principii, e assicurati della elezione se avessero contrariato il ritorno alla legalità, parlarono aperto, e com'era ovvio, non ebbero i voti. Proclami, affissi ne' luoghi più frequentati, giornali, lettere circolari, mettevano innanzi i nomi de' preferiti, accompagnandoli di altissime raccomandazioni. Chi ambiva essere eletto inviava commendazioni a stampa agli elettori, dove poneva in mostra i proprii sentimenti, che quanto più strani, tanto più accrescevano la probabilità della elezione.

Diedero leggi elettorali, ed in Toscana, richiamata in vigore quella del 1848, questa alterarono, aprendo adito ad una infinità di abusi, di errori, di equivochi, tra' quali il più grave fu che in alcuni luoghi si segui la regola antica ed in altri la nuova, con che s'ebbero Deputati scelti sopra un diritto elettorale diverso (1). Si fecero consegnare i registri delle parrocchie per comporre a loro modo le liste degli elettori. Tutti intesi ad escluderne il maggior novero possibile di avversi al partito signoreggiante, à comprendervi quanti più de' loro fautori potessero, larbitrio andò sopra la legge, e in ciò infiniti dovunque gli arbitrii. Si tralasciò d'inscrivere tra gli elettori moltissimi di coloro che, secondo la legge, dovevano godere del diritto elettorale. A Modena furono esclusi tutti gl'illetterati, e quindi la maggior parte de' contadini, che d'altronde godeano de' diritti civili, ed erano generalmente bene affetti al Duca. In Toscana (2), per far numero, si abilitarono alle elezioni anco i falsarii, i rei di delitti contro la proprietà e i rei di delitti politici, qualunque fosse la pena loro inflitta; e se contro indebite iscrizioni si reclamava, si tenea per non detto.

(1)

Si dichiarò elettore non chi effettivamente pagasse la tassa voluta dalla legge, di lire dieci, ma chi la avrebbe pagata secondo le norme che vigevano nel 1848.

(2)

Il che tutto fu confessato dal Governo stesso nella Circolare del Ministro Poggi ai Presidenti e Procuratori dei Tribunali di Prima Istanza, inserita nell'ufficiale Monitore toscano del 1.° agosto 1859. Vi si legge, tra altro: «Ha voluto il Governo non tener conto delle iscrizioni indebite, che pur davano diritto al ricorso dei terzi.»


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268 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

Dicevano che chi non andasse a votare sarebbe un traditore o uno stolto; e chi eleggesse un rappresentante inetto o cattivo, e questo volea dire un rappresentante che propendesse verso le legittime sovranità, sarebbe «un parricida che volge le armi contro la propria madre.» (1)

Venuto il giorno dello scrutinio, la stampa onesta resa mutola, lo sgomento de buoni ed il terrore incusso al clero, talché per la massima parte si astennero, ogni collegio di città e di campagna conosceva già, prima della votazione, chi sarebbe uscito Deputato. Prima che cominciasse lo spoglio de' voti, agenti di Polizia e carabinieri travestiti ingombravano le sale dello scrutinio e i loro accessi. Quasi sempre di mezzo a loro si sceglievano il presidente dell'ufficio e gli scrutatori. Si tenevano in serbo, preparati in precedenza, bollettini doppi. Ai momento della chiusura delle urne vi gettavano i bollettini, naturalmente nel senso piemontese, di que' che s'erano astenuti (2). In certi collegi questa introduzione in massa de' bollettini degli assenti nell'urna (3) si fece con tale trasandamento, e con sì poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede più votanti che elettori iscritti. Bastò una rettificazione al Processo Verbale. In parecchi collegi, ove migliori cautele parvero necessarie, si usarono urne a doppio fondo. In altri si ebbe ricorso alla sostituzione delle urne; tenute in pronto urne affatto eguali, guernite a dovere di bollettini preparati, nel trasporto delle urne dalla sala dello scrutinio alla stanza degli scrutatori destramente le une alle altre scambiavansi. Con tutto ciò le votazioni non valsero che a dimostrare quanto la volontà de' popoli era diametralmente opposta agl'intendimenti della fazione dominante, e quanto piccina minoranza essa fosse. Fra gli ottantasette collegi elettorali di Toscana, in cinquantasette gli elettori iscritti che si disse avesser votato, furono minori degli elettori iscritti che tralasciarono di votare; ed i votanti in tutto,

(1) Monitore toscano, numero del 6 agosto 1859, pag. 1.

(2) «Non tutti, già s'intende; ne lasciavamo da parte qualche centinaio o qualche migliaio, secondo la popolazione del collegio. Bisognava pur salvare le apparenze, almeno in faccia allo straniero, poi che sopra luogo si sapeva bene a qual partito attenersi.» - La verità sugli uomini e sulle cose del Segno d'Italia, § V.

(3)

«Chiamavamo ciò completare il voto», dice il Curletti.

DIRITTO NUOVO. 269

fra 68, 311 inscritti, non sommarono che a 35, 240, rappresentanti una popolazione di 1, 806, 940 abitanti, un elettore sopra ogni cinquanta abitanti. Nelle Romagne, ascritto tra gli elettori un decimo appena della popolazione, due terzi degl'inscritti rifiutarono di votare, e del terzo dei votanti n'ebbero molti contrarii e molti favorevoli al Papa. Peggio fu nel Ducato di Modena, ove fu provato, che, ad onta de' mille brogli e delle mille soperchierie del Farini, de' 72, 000 elettori, appena 4000 votarono o si disse che avean votato, un votante sopra ogni centocinquanta abitanti. Se è legge dell'Europa costituzionale di accontentarsi del voto della terza parte degl'iscritti, e di applicare a chi non da il voto il proverbio: chi tace, acconsente; veniva a contrapporsi un altro proverbio non men popolare: chi sta zitto, non dice niente, e negli Stati estensi in particolare il fatto che figurava come votante un solo diciottesimo degli elettori. L'unico modo di protestare, che avessero allora i paesi contro l'ingiustizia, era quello di astenersi dal voto: ed il fecero. Havvi una forza d'inerzia contro la quale rompono le rivoluzioni. Quelle votazioni, infatti, misero a nudo che il partito signoreggiante non era nemmeno una fazione, ma si una frazione.

Da assemblee risultanti da votazioni si fatte, da assemblee composte di Deputati a' quali il ritorno de' legittimi principi metteva sgomento, comprendenti la quint'essenza di coloro che aveano preparate e consumate le rivolture su' luoghi, era ben agevole indovinare quali risoluzioni avrebbero pigliato. Il 16 agosto a Firenze l'assemblea votava la decadenza della Casa di Lorena, il 20 l'annessione della Toscana alla Sardegna; lo stesso giorno 20 a Modena decadenza di Casa d'Este, il di appresso annessione del Ducato alla Sardegna; il 6 settembre a Bologna decadenza della Santa Sede, il 7 annessione delle Romagne alla Sardegna; l'11 settembre a Parma decadenza di Casa Borbone, il di 12 annessione dello Stato alla Sardegna. Dovunque le stesse cause, dovunque gli stessi effetti.

Il 5 ottobre 1859 il conte Luigi Anviti, in addietro colonnello al servizio parmense, muoveva colla ferrovia da Bologna per Piacenza. Tanto bastò, perché il Farini, avvertito del passaggio, pensasse di collegare questo a' vaghi rumori, dagli stessi uomini al potere fatti correre ad arte, di alcuna dimostrazione

270 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

che si sarebbe a que' giorni tentata in senso ducale. Bisognava, diceano, dare un esempio; tale da atterrire e rattenere chiunque per avventura avesse davvero voluto osare di farsi iniziatore di moti in favore de' spodestati sovrani. A Modena Filippo Curletti (1) stava a capo della Polizia segreta del dittatore.

(1) Negli anni 1856, 1857 e 1858 i frequentissimi furti, gli stupri, gli assassinii avevano talmente commossa ed impaurita la città di Torino, che nessuno osava più avventurarsi di notte per le vie alquanto solitarie, e molto meno uscire alla campagna; né mai il velo de' reati squarcia vasi. Il caso tuttavia fu più potente dell'altrui malvolere. Un abito di poco valore, rubato nel 31 gennaio 1858 in un albergo di Torino, condusse alla scoperta che nel furto avea avuto parte certo Cibolla; ma qui insorsero nuove difficoltà, giacché costui non era punto conosciuto sotto il vero suo nome. Un locandiere, Tanino Agostino, in addietro carabiniere e poscia agente secreto della Polizia di Torino, si prese l'assunto di far agguantare il Cibolla, il quale, visto Tonino tra le guardie che poi lo arrestarono, ? H disse: Tanino! me la pagherete Cibolla, incarcerato, confessò essere egli sol tanto complice, non autore del furto dell'abito; ma nel tempo stesso palesò 29 reati commessi in Torino: uno stupro con omicidio, otto grassazioni, il resto furti, truffe e falsi, dichiarandone autore so medesimo unitamente al Tanino e ad altri dodici individui. Tanino era il capobanda, aiutanti e manutengoli i rimanenti. Le prove date di tale evidenza, che il Tanino venne tratto in prigione, ed il 80 aprile 1860 la Corte d'Appello in Torino condannò lui ai lavori forzati a vita, Cibolla a 20 anni di galera per ragione d'età»

Da cosa nasce cosa. Cibolla propalò in seguito due altri assassinii commessi in Torino. S'instruirono altri processi e allora fu posto in chiaro, che Tanino alla sua volta non era se non semplice esecutore, e che il vero capo, promotore ed ordinatore degli assassinii era Filippo Curletti, stato capo della Polizia in Torino. Tanino dipendeva dal Curletti, e trasmetteva gli ordini della Polizia agli assassini subalterni. Già, allorquando si era trattato delle accuse al Tanino, avea dato nell'occhio che Curletti avesse posto in opra seduzioni e persino minacce presso il giudice istruttore perché non si facesse il processo al Tanino. D'improvviso il Tanino mori in carcere il 7 agosto 1861, e fu morte misteriosa, parve di veleno. Intanto Curletti, salito in gran favore per il ratto clamoroso d'una ragazza da lui condotta a Moncalieri pel Re, ed il cui fratello poco dopo fu nominato capo d'uffizio alle Poste, da agente secreto del conte di Cavour in Torino era passato a sussidio del BonCompagni per rivoltare Firenze il 27 aprile 1859, poi mandato ad ispiare l'Imperatore dei Francesi dal 12 maggio sino alla sua partenza da Alessandria. Quando il Farini passò Dittatore nell'Emilia, era stato fatto venire in Bologna per riordinarvi la Polizia con uno stipendio di cinquemila franchi. Più tardi, Pepoli lo avea spedito nell'Umbria per organizzarvi le guardie di pubblica sicurezza; ed allorché venne in luce la parte che egli avea presa nei delitti

DIRITTO NUOVO. 271

Udiamolo (1).«Io era nel mio gabinetto, quando Farini giunse correndo: Presto! Presto!.... a Parma! Vi si arresta il colonnello..... Anviti... alla Stazione della ferrovia..... il carnefice de' Borboni. - Queste furono le sue espressioni: non una parola di questa conversazione si è cancellata dalla mia memoria. - Cosa occorre che io faccia?.... Debbo condurvelo? - Oh! no. Non sapremmo che farne! È un uomo pericoloso...... Ma... noi non potremmo toccarlo senza far gridare. Bisognerebbe che la popolazione se ne incaricasse. M'intendete. - Partii».

Rotto da improvvisa piena il ponte sul torrente Enza, antico limite fra i Ducati di Modena e di Parma, facea di mestieri che i treni della ferrovia si soffermassero a scaricare ed a caricare sull'una e sull'altra sponda. Lo sventurato colonnello, sceso cogli altri del convoglio, prende a piedi la traversata del torrente. Alcuni agenti di Polizia, da Modena mandatigli dietro alle poste, fingono di riconoscerlo, lo arrestano; giunto il convoglio alla Stazione di Parma, lo forzano a discendere e percorrere a piedi il tratto che dalla strada ferrata mette alla città. È condotto alla caserma de' carabinieri, donde un ordine misterioso allontanava ad un tempo sotto varii pretesti tutti i soldati, ad eccezione di cinque.

Frattanto un nodo di prezzolati cannibali si accozza alla porta, alle grida: Morte ad Anviti! La porta, robustissima, ma

commessi a Torino, stava in Napoli incaricato dello stesso servizio che a Modena e Bologna.

La Corte d'Assisie di Torino fu chiamata a sentenziare. Curletti comparisce come testimonio citato, e si sente in pubblica udienza ripetere le accuse e dichiarare capo degli assassini insieme con persone ancor più alto locate. Il pubblico si sdegna di vederlo sul banco dei testimonii, anziché degli accusati; si sdegna di non vederlo arrestato seduta stante, e più ancora quando in presenza dell'uditorio, mentre gli altri testimonii si pagano privatamente e ben tardi, tede soddisfatto il Curletti per indennità di viaggio con parecchie centinaia di lire e rimandato in tutta pace. Un grido unanime d'indegnazione si alza da tutta Torino; ed allora è fatta correr voce che verrebbe aperto un processo speciale al Curletti, sorvegliato frattanto, affermavasi, dalla Polizia in guisa da non poterne temere la fuga. Quando fu finalmente spiccato contro di lui un mandato d'arresto, il Curletti, avvertito, aveva già abbandonato Torino, passati i confini e riparato in Svizzera.

(1) La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, § V.

272 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

ad arte lasciata indifesa, è sfondata, né alcuno fa le mostre di neppure voler tentar d'impedirlo. L'orda avvinazzata irrompe, afferra la vittima designata per le vesti, per le braccia, per le gambe. Diciassette punte di ferro si alzavano in un punto a ferire, e diciassette pugnalate trapassavano allo sventurato gli omeri e il petto. Una corda avvinse per i piedi quel corpo da tutte parti grondante sangue; cinque o sei de' più immani cominciarono una corsa sbrigliata a traverso l'atterrita città. D'attorno a quel corpo che sulle aguzze punte del selciato lasciava via via larghe sanguinose traccio e brani di carni, altri danzavano, e le orribili grida ripercosse dagli echi alternavano coi cupi rimbalzi del cranio, che violentemente picchiava sui sassi. Sulla grande piazza presero in braccio quell'informe cosa: due lo tenevan in mezzo a braccetto, un terzo con un colpo di pistola gli fracassava lo stomaco, e l'infelice viveva ancorai Non bastava. Il trassero ad un Caffè, che solea frequentare; fecero sedere quel corpo a desco, comandarono un caffè pel signor colonnello. E il caffè fu recato e all'agonizzante si è voluto farlo trangugiare. Scherzato lung'ora, gittano il cadavere palpitante contro una colonna, con una daga gli spiccano dal busto la testa; e il corpo moveva ancora qualche tratto di vita convulsa.

Allora in due si divise la squadra omicida. Gli uni recano la testa infilzata sopra una picca; gli altri si danno spazzo del tronco mutilato, ne staccano gambe e braccia, e vi ha taluno che strappa dalle mani le dita e ne succhia il sangue. La vasta piazza maggiore era immersa in tetra oscurità; spenti i lumi a gaz, la luna di sbieco gettava alcuni pallidi riflessi sulla cupola della torre. Vennero col teschio in mezzo alla piazza, e il capo sanguinoso fu levato, orrendo trofeo, sulla colonna che sorge sopra di essa. Una torcia, collocata dinanzi, gittava tramezzo un vortice di nero fumo cupa e sinistra luce su quella scena d'inferno, mentre il teschio sulla inclinata superficie del liscio marmo lentamente scivolava come se vivo fosse, e in mezzo al lugubre silenzio si udiva il tonfo del cranio che dalla colonna precipitava sul lastrico. In quel punto quattro ciechi, di quelli che per le vie vanno elemosinando coll'industria degli archetti stuonati, traversano a caso la piazza: son scorti, e loro s'impone che suonino. Ed a quel suono, a quando a quando si unisce la voce feroce, che maledicendo

DIRITTO NUOVO. 273

impone a quel miserabile avanzo della morte di ubbidire a star fermo, ed il canto d'inni patriottici, intuonati dagli assassini, gridanti a cadenza: Viva la libertà! Maledetta la libertà che deve sorgere dal delitto, nutricarsi di delitto. Da ben quattr'ore durava l'opera scellerata: quando alfine, in una città in cui teneano presidio intorno a seimila soldati, alcune pattuglie mossero a raccogliere i miserandi avanzi della vittima.

Da Modena il Farini accorse, atteggiato a sorpresa, a sdegno, a dolore. Con molta pompa annunzio provvedimenti, decretò la consegna di tutte le armi da taglio e da fuoco; ed in città ove il basso popolo nascondeva presso di sé cinque a seimila fucili, rubati allorché la Cittadella era stata saccheggiata nel mese di maggio, e il popolaccio teneva migliaia di pugnali e stili fatti sopra uno stesso modello, una cinquantina di vecchi fucili inservibili ed alcune npade di lusso appartenenti ad impiegati civili furono le sole armi depositate. Si mené grande scalpore, ma non fu mossa una paglia per castigare gli assassini, per lo contrario premiati (1). Ma lasciamo ancora la parola al Curletti: «In conseguenza della mia triste missione ricevei la croce de' Santi Maurizio e Lazzaro. Il Direttore delle carceri, Galletti, che, dietro ordine, s'era lasciato prendere il prigioniero, fu avanzato, e lasciò la direzione delle carceri per quella delle Poste, il cui Direttore fu destituito come duchista. l'uomo, che, dopo avere trascinato per le vie di Parma il cadavere del colonnello Anviti, lo decapitò per come la testa sulla colonna della piazza del Governo, Davidi, fu lo stesso giorno nominato Direttore delle carceri di Parma. Quando, alcuni giorni dopo, il Console francese, Paltrinieri, chiese in nome della Francia, minacciante d'intervenire dalle prossime stanze di Piacenza e Casalmaggiore qualora i colpevoli sfuggissero alla legge, che si punissero gli autori dell'assassinio, si arrestarono con grande fracasso, durante il giorno, ventisette persone per dargli un'apparente soddisfazione.

(1) «L'asserzione, che l'ordine di assassinare lo sventurato colonnello Anviti fu dato dallo stesso Farini, non mai vi fu alcuno, il quale abbia osato sorgere ad attenuare, e molto meno a contraddire. È cosa di fatto che gli esecutori materiali di quell'infame delitto furono dal Farini largamente ricompensati.» (Difesa del Duca di Modena, edizione italiana, pag. 265).

274 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

» La stessa sera il Direttore Davidi ricevette l'ordine di lasciar evadere i prigionieri arrestati, al che si prestò, com'è facile immaginare, colla miglior grazia del mondo». Il più attivo cooperatore del Davidi, un notissimo Baroni, oste a San Lazzaro presso Parma, fu pure impiegato dal Farini nella Postalettere di Parma con grosso stipendio, e poi nominato Ufficiale in un corpo garibaldino.

Fra mezzo al cicaleccio de' diarii pagati, che con rivoltante cinismo facevano il processo alla vittima piuttosto che ai suoi assassini, solo una voce si alzò con onesta franchezza, Massimo d'Azeglio. «Ora la posizione è cambiata, egli scrisse (1), l'Italia ha la fronte macchiata e deve abbassarla con vergogna. Bisogna dirlo con parole che mostrino non essere estinto in Italia il senso morale, il senso d'onore; bisogna chiamare le cose col loro nome, e osservare se non vi fosse una lezione più severa pei governanti presenti. Di questo fatto non sono colpevoli soltanto gli attori, ma tutti coloro che non tentarono d'opporvisi. Ogni giorno che passa, senza che sia vendicato l'orribile delitto, è una nuova vergogna pel Governo.» E Massimo d'Azeglio fu tenuto più reo dei veri rei del misfatto, villanamente insultato, proclamato appartenente alla stirpe di Cam (2). Il Municipio parmense affinché fosse «tolta e cancellata ogni traccia che ricordi al cittadino come Parma fu contaminata dal delitto», decretò (3) che si dovesse atterrare la rea colonna della piazza grande, sopra la quale fu posto e vituperato il capo della vittima. Fu la sola punizione inflitta pel commesso assassinio. Giustizia di Dio! Poco oltre tre anni più tardi (4), il Farini, smarrito il bene dell'intelletto, veniva tradotto nel celebre monastero della Novalesa presso Susa, convertito in manicomio, a quando a quando, come se una memoria molesta ritornasse all'inconscio pensiero, uscendo colla parola: Anviti! Anviti!

(1)

Nella Gazzetta Piemontese del 15 ottobre 1859.

(2) Gazzetta di Parma del 22 ottobre 1859.

(3)

Il Progresso del 18 ottobre 1859. Il Momento di Milano, nel suo numero del 17 di ottobre, dichiarò che, se per avere cuore d'uomo e d'Italiano bisogna sentire come scrisse d'Azeglio, i cuori umani ed italiani son pochi.

(4)

Rimasto a Napoli Luogotenente del Re d'Italia, perduto sul Sebèto prima il genero e poi la sanità, il 9 dicembre 1862 eletto presidente del Ministero, impazzì subitamente addi 24 marzo del 1863.

273

CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

I Trattati dì Zurigo.

Apertura delle Conferenze. - Istruzioni dei plenipotenziarii sardi. - Una doppia storia. - Francia impedisce il ritorno del Duca di Modena ne' suoi dominii. - Intervento toscano nello Stato estense. - Lega armata dell'Italia centrale. - Politica francese di restaurazione in Toscana. - Le mostre pe' citrulli a Firenze. - La Francia dichiara di aver compito in Italia il suo incarico.- Tre Trattati. - Diritti riservati. - Mazzini in Toscana. ~ Un Ministro ed un Prefetto. - Bossini e Dolfi. - Zitto, zitto; o mi castigano. - La repubblica offre alleanza alla monarchia. - Mazzini benedice Vittorio Emanuele. - Il mezzano e Rattazzi. - Angelo Brofferio nella Reggia di Torino. - La Verbanella nel Canton Ticino. - Il Re di Sardegna approva la spedizione di Garibaldi nello Stato pontificio, ordita con Farini. - Creazione del Governo dell'Emilia. - Veto cesareo. - Un'altra promessa regia. - La Reggenza dell'Italia centrale e il Reggente del Reggente.

Il giorno 8 agosto, ad oggetto di stendere il Trattato di pace, eransi aperte in Zurigo le conferenze tra i plenipotenziarii d'Austria, Frauda e Sardegna. Mentre da Torino si faceva con assai insistenza mandare attorno la voce che quelle conferenze sarebbero ite in fumo per ripigliare la guerra, i plenipotenziarii sardi vi erano andati con istruzioni di chiedere: le fortezze di Mantova e Peschiera restassero unite alla Lombardia; colla Lombardia non passasse al Piemonte nessuna parte del debito austriaco; si rispettasse il così detto voto delle popolazioni dell'Italia centrale; la Sardegna avesse la direzione militare e diplomatica nella Confederazione italiana; si consegnasse al Re di Sardegna la Corona di Ferro. L'ordine, che i plenipotenziarii avevano a seguire nell'esaurimento del loro programma, era nettamente tracciato dalla natura e dal carattere degl'impegni presi a Villafranca e del negoziato di Valeggio del 12 luglio. Veruna stipulazione non potendo considerarsi definitiva, se le questioni politiche non fossero state in precedenza risolte, era da queste che si doveva necessariamente pigliare le mosse.

276 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Tra codeste questioni quella attinente al ritorno del Granduca di Toscana e del Duca di Modena su' loro troni, posta a Villafranca siccome condizione di pace sine qua non, primeggiava sopra tutte le altre per guisa, che bastava leggere i Preliminari di pace a convincersi come la non esecuzione di quel patto rendeva affatto superflua la sottoscrizione di un nuovo Trattato a Zurigo. Tolta dai Preliminari la convenuta restaurazione degli Arciduchi, di quelle pattuizioni, in fatti, alla fin fine nulla più rimaneva se non quanto aveva attinenza alla cessione della Lombardia, ai limiti da fissare tra l'Austria e il Piemonte; ciò che, senza provocare di nuovo la guerra tra l'Austria e la Francia, poteva rimanere, come sogliono dire i diplomatici, questione aperta» In tal caso l'Imperatore Francesco Giuseppe avrebbe potuto dire: Ho abbandonato la Lombardia, e non cerco di riprenderla colle armi; solamente che, in luogo di fare del possesso di essa da parte del Piemonte una questione di diritto, resta per me una questione di atto.

Una doppia serie di fatti, una doppia storia, in linee parallele correvano: la serie delle illusioni, la serie delle realtà; la storia di quel che s'è detto, la storia di ciò che s'è fatto; la storia di ciò che s'è detto in secreto, la storia di quel che b' è detto in palese. La serie delle illusioni, de' barbagli, era incominciata a Villafranca l'11 luglio, la serie delle realtà era incominciata del pari a Villafranca quel dì.

Segnati l'11 luglio i Preliminari di pace, il reingresso delle truppe ducali, che aveano seguito Francesco V. sul suolo austriaco, nello Stato estense, poteva essere mandato ad effetto immediatamente, di pieno diritto, per semplice, naturale e legittima conseguenza dell'intenzione, espressa nei Preliminari, di restaurare il Duca ne' suoi dominii. Certo essendo che le truppe estensi, le cui schiere, non appena avessero riposto piede nel Ducato, indubbiamente sarebbero state in breve ora ingrossate dall'accorrere spontaneo dei soldati appartenenti ai preesistenti Reggimenti della Milizia di riserva, avrebbero pia che bastato da per so sole a rovesciare l'intruso Governo provvisorio, e sbarazzare il paese dalla ben poco numerosa consorteria piemontese; per fermo il ristabilimento della legittima autorità non avrebbe incontrato serie difficoltà se lo si avesse posto ad effetto

I TRATTATI DI ZURIGO. 277

immediatamente dopo la segnatura dei Preliminari. Or che questo avvenisse si temeva grandemente a Torino e a Parigi. Ad impedirlo pensarono di far venire a Modena le truppe toscane, che il principe Napoleone aveva condotte con sè in Lombardia, e non si voleva rispedire in patria per timore ben fondato che avrebbero esse medesime restaurato il Granduca.

Il 24 luglio, Peruzzi ed il marchese di Lajatico, inviati dal Governo toscano presso Napoleone III. in Parigi, scrivevano a Firenze (1): La restaurazione del Duca a Modena, essendo di massimo pericolo per Toscana, doversi evitare; 11 intervento delle truppe toscane a Modena non crescerebbe il pericolo d'intervento austriaco. Intanto le truppe estensi, che dal primo di luglio aveano preso stanza nel Padovano, ebbero ordine, nel 26 di quel mese, di riporsi in cammino per raggiungere le frontiere dello Stato di Modena. Ma appena cominciato quel movimento, il Governo francese venne fuori con pressanti rimostranze ch'esso fosse in opposizione coll'armistizio di Villafranca. Ancorché destituita di qualunque fondamento in ordine e in merito l'assurda tesi, dappoiché nella Convenzione d'armistizio tra gli eserciti austriaco e franco-sardo non si conteneva pattuizione alcuna relativa agli Stati estensi, per la semplicissima ragione che a quell'epoca non eranvi in verun luogo di quegli Stati truppe nemiche ed ostilità in corso; ancorché il reingresso delle milizie estensi nel loro paese fosse misura che per verità la ragione e la logica, la lealtà e la giustizia, sottraevano a discussione, gli Estensi si arrestarono a Villa Bartolomea e dintorni, lungo le Valli veronesi. U pericolo però era sospeso, non rimosso. Il pensiero di una Lega armata tra i Governi dell'Italia centrale, discusso e approvato dall'Imperatore de' Francesi, fu allora mandato ad esecuzione. Il 10 agosto la Lega si strinse tra Toscana, Modena e Romagne, cui accedette nel 3 settembre il Governo parmense.

(1) Dispaccio telegrafico al Ministro Ridolfi.

«Restaurazione a Modena massimo pericolo per Toscana; bisogna evitarlo. Crediamo che l'intervento toscano non crescerà il pericolo d'intervento austriaco. Veduto Walewski. Non crede probabili interventi. Domani vedremo l'Imperatore.»

278 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Dieci giorni dopo il convegno di Villafranca, il 21 luglio, Leopoldo II. aveva abdicato la corona di Toscana in favore del figlio, Ferdinando IV. Il 26 di quel mese il Governo francese scriveva a Firenze (1), che sarebbe misura saggiameute politica se prendessero l'iniziativa di richiamare l'Arciduca Ferdinando al trono granducale. «Comprendere questo principe la necessità di porre le istituzioni del suo paese in armonia colle esigenze del progresso del tempo e la nuova situazione dell'Italia; essere gli disposto ad innalzare bandiera italiana e dare ogni desiderabile guarentigia. Un giorno avanti, il 25, Napoleone III. avea però detto al Peruzzi ed al marchese di Lajatico: «Facessero conoscere alla Consulta ed ai Toscani il pieno suo gradimento per i sentimenti espressi nell'Indirizzo trasmessogli (2). Desiderare la restaurazione della Casa di Lorena, ma sentirne le difficoltà. Escludere ogni intervento. Forse potersi ottenere altra dinastia. Consigliare intanto che il Governo di Firenze esponesse all'Assemblea toscana ogni cosa, anche le offerte del Granduca Ferdinando» (3).

Le deliberazioni della Consulta toscana, alle quali si riferir va quell'Indirizzo cui l'Imperatore de Francesi formava risposta, prese nella seduta del 13 luglio, suonavano che bisognava respingere in tutti i modi il ritorno della dinastia lorenese. Attestare il suo gradimento, e volere si sapesse da ognuno, che la Consulta aveva dichiarato di non riconoscere l'impegno contratto dallo stesso Imperatore a Villafranca, equivaleva a porre in piazza quale enorme divario corresse tra quel che si era fermato in iscritto con Francesco Giuseppe, e quel che si era fermato in cuore. Dire che si desiderava la restaurazione della dinastia dei Lorena, e non dire che questa restaurazione doveva avvenire

(1)

Dispaccio del conte Walewski al marchese de Ferrière-le-Vayer, Ministro francese residente in Toscana.

(2) Monitore toscano, numero del 2 agosto 1859, pag. 4.

(3)

Dispaccio telegrafico del cav. Ubaldino Peruzzi al marchese Ridolfi in Firenze.

«Parigi 25 luglio.

» L'Imperatore ben disposto. Desidera dinastia come Walewski, ma sente anche più difficoltà. Esclude interventi. Non da speranze per annessione. Forse altra dinastia. Consiglia esporre all'Assemblea tutto, anche le offerte di Ferdinando.»

I TRATTATI DI ZURIGO 279

perché vi era impegnato l'onore della Francia; dire che verun intervento avrebbe avuto luogo, era incoraggiare, era comandare che colla resistenza disfacessero il patto di Villafranca. Insinuare la possibilità d'altra dinastia, consigliare che l'Assemblea toscana, fra pochi giorni a quest'uopo raccolta, deliberi sulle offerte del legittimo principe del paese, era suggerire ali Assemblea medesima quel che si voleva facesse, era imporle di votare la decadenza della Casa di Lorena. Un Governo che firma un Trattato, e poi vieta l'uso dei mezzi per farlo eseguire, è come un tribunale che dia una sentenza e non si curi che venga adempiuta; un Governo che firma, vieta i mezzi e insegna i modi di render nulla la firma, è come un tribunale che, data la sentenza, non vuole esso medesimo che abbia esecuzione. Nel primo caso il tribunale cade in discredito, nel secondo toglie a sé stesso il diritto che altri gli possa e gli debba prestar fede mai più.

A fronte di tali rivelazioni, di tali fatti, veniano le mostre pe' citrulli. Al Pietri aveano tenuto dietro in Firenze inviati da Parigi, prima il conte di Reiset, poi il principe Poniatowski, con incarico, diceano, di vincere le ritrosie de' Toscani a richiamare il Granduca Ferdinando; ancorché Pietri e Reiset avessero l'incarico segretissimo di ritentare qualche pratica in favore del principe Napoleone. Il 9 settembre la Francia proclama (1): «Il Governo francese lo ha già dichiarato: gli Arciduchi non saranno ricondotti nei loro Stati da una forza straniera; ma una parte delle condizioni della Pace di Villafranca non essendo eseguita, l'Imperatore d'Austria si troverà svincolato da tutti gl'impegni presi a favore della Venezia. Inquietato da dimostrazioni ostili sulla destra del Po, si manterrà in istato di guerra sulla riva sinistra, e in luogo d'una politica di conciliazione e di pace, si vedrà rinascere una politica di diffidenza e di odio. Sembra che si speri molto da un Congresso europeo;lo invochiamo noi pure con tutti i nostri voti, ma dubitiamo forte che un Congresso ottenga migliori condizioni per l'Italia. Un Congresso non domanderà che il giusto, e sarebbe egli mai giusto domandare ad una grande Potenza importanti

(1) Le Moniteur universel, numero del 9 settembre 1859.

280 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

» concessioni, senza offerirle in cambio equi compensi? Il solo» mezzo sarebbe la guerra; ma non ci ha che una sola Potenza» in Europa che faccia la guerra per un'idea: questa è la Fran» eia, e la Francia ha compito in Italia il suo incarico.» Per la Francia, si disse, era compito adunque in Italia anche il carico di mantenere la sua parola?

L'Austria insistendo nel dichiarare di non riconoscere altre basi che i Patti di Villafranca, Napoleone III. scriveva (1): «Mio Signor Fratello. Io scrivo oggi a Vostra Maestà per esporle la condizione presente degli affari, per rammentarle il passato e per mettermi d'accordo con lei sulla condotta, che deve essere tenuta per l'avvenire. Le circostanze sono gravi; è necessario lasciar da parte le illusioni e gli sterili rimpianti, e di esamina»re accuratamente la reale situazione degli affari. Così non si tratta oggi di sapere, se io abbia bene o male operato nel conchiudere la pace a Villafranca, ma piuttosto di ottenere dal Trattato i risultati più favorevoli per la pacificazione dell'Italia e per il riposo dell'Europa,

» Prima di entrare nella discussione di questa questione, io desidero vivamente rammentare ancora una volta a Vostra Maestà gli ostacoli, che resero tanto difficile qualunque negogiazione e qualunque trattato definitivo. Di fatto, la guerra presenta spesso minori complicazioni che la pace. In quella due soli interessi stanno a fronte luno dell'altro: l'attacco e la difesa;in questa al contrario si tratta di conciliare una moltitudine di interessi, sovente di opposto carattere. Questo è precisamente ciò che avvenne al momento della pace. Era necessario conchiudere un trattato, che assicurasse nella miglior possibile maniera la indipendenza dell'Italia, che soddisfacesse il Piemonte ed i voti della popolazione, e che pertanto non ledesse il sentimento cattolico, od i. diritti dei Sovrani, per i quali l'Europa portava un interesse. Io quindi credetti, che, se l'imperatore d'Austria desiderava venire ad un leale accordo con me, allo scopo di ottenere questo importante risultato, le cagioni di antagonismo, che per secoli avevano diviso i due Imperi,

(1) Lettera dell'Imperatore de' Francesi al Re Vittorio Emanuele, da Saint-cloud, il 20 ottobre 1859.

I TRATTATI DI ZURIGO. 281

» sarebbero scomparse, e la rigenerazione d'Italia si sarebbe effettuata di comune accordo e senza nuovo spargimento di sangue.

» Indicherò ora quali, a mio credere, sono le condizioni essenziali di questa rigenerazione. L'Italia dev'essere formata di più Stati indipendenti, uniti da un vincolo federale. Ciascuno di questi Stati deve adottare un particolare sistema rappresentativo e delle riforme salutari. La Confederazione allora ratificherà il principio della nazionalità italiana; avrà una sola bandiera, un solo sistema di dogane ed una sola moneta. Il centro direttivo sarà a Roma, e si comporrà di rappresentanti nominati dai Sovrani sopra una lista preparata dalle Camere, affinché, in questa specie di Dieta, l'influenza delle famiglie regnanti sospette di una inclinazione verso l'Austria venga controbilanciata dall'elemento risultante dall'elezione. coll'accordare al Santo Padre la Presidenza onoraria della Confederazione, il sentimento religioso dell'Europa cattolica sarà soddisfatto, l'influenza morale del Papa sarebbe accresciuta in tutta l'Italia, egli sarebbe permesso di dar concessioni conformi ai voti legittimi delle popolazioni. Ora il disegno, che io ho formato al momento di conchiudere la pace, può ancora essere eseguito, ove Vostra Maestà voglia impiegare la sua influenza a promuoverlo. Inoltre si è già fatto un passo considerevole in questa direzione. La cessione della Lombardia con un debito limitato è un fatto compiuto. l'Austria ha rinunciato al suo diritto di tenere guarnigioni nelle fortezze di Piacenza, Ferrara e Cornacchie». I diritti dei Sovrani furono, è vero, riservati, ma fu pure guarentita l'indipendenza dell'Italia centrale, essendo stata formalmente rigettata ogni idea d'intervento straniero; ed, infine, Venezia dovrà diventare una provincia puramente italiana. È cosa di reale interesse di Vostra Maestà, come pure di quello della Penisola, il secondarmi nello svolgimento di questo disegno allo scopo di ottenere i migliori risultati, perché Vostra Maestà non può dimenticare che io sono legato dal Trattato; e nel Congresso, che sta per aprirsi, io non posso ritirarmi dai miei impegni. La parte della Francia è tracciata già fin d'ora.

» Noi domandiamo che Parma e Piacenza siano unite al Piemonte, perché quel territorio gli è indispensabile dal punto di vista strategico.

282 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Noi domandiamo che la Duchessa di Parma sia chiamata a Modena. Che la Toscana, aumentata, forse, da una porzione di territorio, venga restituita al Granduca Ferdinando. Che un sistema di saggia libertà venga instituito in tutti gli Stati d'Italia. Che l'Austria si sciolga francamente da cagioni incessanti d'imbarazzi per l'avvenire, e consenta a compiere la nazionalità della Venezia, creando non solamente una rappresentanza ed un'amministrazione separata, ma anche un'armata italiana. Noi domandiamo che Mantova e Peschiera debbano essere riconosciute fortezze federali. E, finalmente, che una Confederazione formata sui reali bisogni, come sulle tradizioni della Penisola, ad esclusione di qualunque influenza straniera, abbia a rassodare l'edilizio dell'indipendenza d'Italia.

» Io nulla tralascierò onde ottenere questo grande risultato. Si convinca Vostra Maestà che i miei sentimenti non cangeranno, e che, in quanto non vi si oppongano gl'interessi della Francia, io mi reputerò sempre felice di servire la causa, per la quale noi abbiamo combattuto insieme.»

Napoleone III. aveva ragione. Il giorno in cui l'Austria avesse formato co' suoi soldati veneti un esercito italiano colla bandiera tricolore italiana; che Mantova e Peschiera fossero fortezze federali, e come tali quindi sarebbero state, almeno in parte, presidiate da truppe di altri Stati confederati italiani; il giorno che la Venezia fossesi trovata in tali condizioni militari, e con separata amministrazione, l'Austria non era più, infatti, in Italia che una Potenza veracemente italiana, ed il legame della Venezia coll'Austria nulla più, alla fin fine, che un legame nominale. Tutto questo appunto l'Austria, in sostanza, aveva già accordato a Villafranca.

Venuta meno l'altra parte contraente alle stipulazioni concordate, l'Austria non aveva ornai altra alternativa che o subire la violenza, o ripigliare le armi. Ancor l'Austria poteva dire (1): «Io osservo i Trattati, a condizione che non siano violati contro di me.» Il 10 novembre tre Trattati di pace furono sottoscritti in Zurigo, l'uno tra l'Austria e la Francia, l'altro tra la Francia

(1) Proclamazione dell'Imperatore Napoleone al popolo francese, del 3 di maggio 1859.


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I TRATTATI DI ZURIGO. 283

e la Sardegna, il terzo tra tutte e tre le Potenze. I due ultimi non erano che un accessorio del primo. L'Austria cedeva alla Francia la Lombardia, ad eccezione di Mantova e Peschiera, tracciata più regolare limitazione dei confini. Si stipulò di pagare all'Austria quaranta milioni di fiorini ed inoltre tre quinte parti del debito del Monte Lombardo-veneto, in totale duecento cinquanta milioni di franchi; che i soldati lombardi, formanti parte dell'esercito austriaco saranno rimandati ai loro focolari; e pagate dal nuovo Governo di Lombardia le pensioni concedute e pagate dal precedente Governo lombardo. I due Imperatori s'impegnavano di favorire la formazione d'una Confederazione degli Stati italiani, avente per iscopo di conservare l'indipendenza e l'inviolabilità degli Stati confederati, di assicurare lo sviluppo de' loro interessi morali e materiali, e di guarentire la sicurezza interna ed esterna dell'Italia a mezzo d'un esercito federale.

L'articolo 19 del Trattato tra l'Austria e la Francia suonava: «Le circoscrizioni territoriali degli Stati indipendenti d'Italia che non parteciparono all'ultima guerra, non potendo essere cangiate se non col concorso delle Potenze, che hanno preseduto alla loro formazione e riconosciuto la loro esistenza, restano espressamente riservati tra le alte Parti contraenti i diritti del Granduca di Toscana, del Duca di Modena e del Duca di Parma.» Confermare i diritti de' principi spodestati con solenne Trattato, non era più solamente dichiarare al cospetto dell'Europa che le Potenze contraenti non avrebbero favorita una annessione; ma che anzi spogliavansi della facoltà di riconoscere, se un'annessione avvenisse, la forza del fatto compiuto.

Infrattanto, mentre con una mano la monarchia sabauda sottoscriveva a Zurigo, coll'altra si stringeva alla repubblica. Nel giugno 1859 Mazzini era venuto in Toscana, viaggiatovi incolume, da allora dimoratovi incolume. Alcune lettere di lui, trovate sopra uno de' suoi, il siciliano Rosolino Pilo, misero allo scoperto un progetto mazziniano sopra Perugia. Pilo arrestato in Romagna, propalato che Mazzini se ne vivea quietamente sulle rive dell'Arno, la diplomazia si fé ad accusare presso il Governo toscano il Ministro Ricasoli o di fiacchezza o di connivenza. Il fiero Barone s'irritò dell'accusa, sguinzagliò i suoi bracchi, mandò con ordini severissimi, il 20 agosto 1859, a tutti i Delegati della Toscana

284 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

il ritratto fotografato del Mazzini; dimenticò solamente due cose, di avvertirli che quel ritratto era quello fatto a Mazzini nel 1849, e d'indicare alla Polizia ove questi alloggiava in Firenze. Non potendo battere il cavallo, si batté la sella, cacciati senza pietà da Firenze i più di coloro ch'erano in maggior colore di mazziniani impenitenti.

Due giorni appresso, il 22, Mazzini scriveva a Ricasoli una lunga lettera (1). In essa, sottoscrivendosi di lui obbligatissimo, dicevagli: «La sua proposta di una operazione militare sopra Perugia non minacciare in Toscana né Governo né popolo;persecuzioni e processi per ciò disonorare la Toscana, danneggiare la causa. Proponendo quell'operazione, aver egli inteso proporre l'unica che potesse raggiungere l'intento dell'unità d'Italia come fine del moto attuale, salvare la Toscana da una inevitabile restaurazione. Una rivoluzione o inoltra o retrocede. Le milizie regolari toscane essere minate dal malcontento; tenendole immobili, accetteranno dal Granduca promozioni dall'azione, fermenteranno e già fermentano, e un bel giorno daranno il segnale della guerra civile. un'invasione nello Stato pontificio, Roma eccettuata, che per ora deve rimanersi tranquilla, trascinerebbe Piemonte e Re nell'arena. Tra Perugia e gli Abruzzi non esistere forza capace di resistenza; otto o diecimila uomini, il nome di Garibaldi, il moto di Sicilia preparato di lunga mano, essere l'insurrezione del Regno meridionale. La sua proposta poter essere prematura e tenuta per imprudente, non mai colpevole. Egli e i repubblicani italiani non aver parlato da un anno di repubblica, aver protestato per antiveggenza contro l'alleanza col dispotismo imperiale, ma dichiarando sempre che accettavano la monarchia s'essa voleva l'unità, che avrebbero combattuto con essa e per essa.»

Bettino Ricatoli chiamò a sé il Bossini, Prefetto di Firenze. - Mazzini, gli disse, mi ha scritto. Non accetto tutte le sue idee, ma vi è del vero e del buono in quanto egli dice. Desidero parlargli, e credo e' intenderemo e renderemo un gran servizio al paese. Egli dev'essere in Firenze; trovatelo e fategli sapere quanto vi ho detto.

(1) Pubblicata da Dall'Ongaro nella Biografia di Bettino Ricasoli, seconda edizione, pag. 89-92. (1861).

I TRATTATI DI ZURIGO. 285

- II prefetto ebbe a cader dalle nuvole. - Come? Vostra Eccellenza vuoi parlare col Mazzini? Ma io ho ordine da lei di farlo arrestare. - Voi non lo farete arrestare»e non che quando io ve ne dia l'ordine, ed io parlerò con lai, come vi ho detto. - Ma, Eccellenza, io non so che Mazzini sia in Firenze. - Ciò prova soltanto che la vostra Polizia potrebbe esser fatta meglio, giacché io so quello che dovreste saper Vol. Vi dico dunque che Mazzini è in Firenze. - Ma come trovarlo? - Cercandolo. - Il Prefetto si dava le mani nei capelli. Ricasoli, venne a trarlo d'impaccio. - Del resto, soggiunse, vi aiuterò io di un consiglio. Dirigetevi a Giuseppe Dolfi.

Il Prefetto andò diritto a casa il Dolfi, domandandogli senz'altro, del dove fosse il Mazzini. - Vuoi ella burlarsi di me, signor Prefetto?, rispondeva il Dolfi sorpreso. Come può credere ch'io sappia e le dica, dove Mazzini si trova? - Scusate, caro Dolfi, doveva cominciare in altro modo. Ma che volete, il Barone mi ha detto........ cioè infine.......... il Barone è un galantuomo, io sono un galantuomo, voi siete un galantuomo, e fra tre galantuomini possiamo intenderci. Non si tratta di niente di male. Non è il Prefetto di Firenze che vi parla, è il Barone Bettino Ricasoli che vuole avere un abboccamento con Giuseppe Mazzini. - Quando sia cosi, la cosa è diversa. Farò in modo che Mazzini sappia di questo desiderio del signor Barone. Della risposta m'incarico io. - Ricasoli ricevé Mazzini nel suo Gabinetto (1); ma l'impresa era sembrata al primo prematura e troppo compromettente. Il giorno dopo, Ricasoli diceva al Prefetto (2): «Se arriva a sapersi che io abbia parlato con Mazzini, mi obbligheranno a dare la mia dimissione. Consigliatelo di allontanarsi da Firenze per non compromettermi, ed assicuratelo ch'io lo stimo. Mazzini partì da Firenze, cercando, scriveva poi, come Diogene colla lanterna, un uomo che volesse farsi iniziatore. E Ricasoli, per allontanare da sé ogni sospetto, scriveva in una Circolare ufficiale (3), che, in questo stato di cose,

(1)

Lo stesso Ricasoli il disse, tra gli altri, al conte Pompeo di Campello.

(2)

Pianciani; Dell'andamento delle cose in Italia, pag. 26.

(3) Massime generali da servire di norma alle Autorità politiche e agli Agenti diplomatici del Governo della Toscana, del 1. settembre 1859.

286 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

tutti i partiti, Mazzini stesso, dovrebbero comprendere che mantenere il paese armato, ma tranquillo e concorde, è per il Governo della Toscana una suprema necessità, ed essere quindi costretto ad opporsi con tutti i mezzi ad ogni tentativo, fosse pure in nome di idee più ardite e pia generose.»

Mazzini, in traccia del suo uomo, andò a Torino, tornò a Firenze; e da Firenze, il 20 settembre, mandava per le stampe una lettera all'indirizzo del Re di Sardegna (1). In essa, fra le altre, diceva: «Repubblicano di fede, ogni errore di re dovrebbe, s'io non guardassi che al mio partito, sorridermi come elemento di condanna alla monarchia. Ma, perché amo più del mio partito la patria, e voi potreste, volendo, efficacemente aiutarla a sorgere e vincere, vi scrivo da terra italiana. Sire, voi siete forte: forte, sol che voi vogliate, di quella vita; forte più di qualunque altro principe che or viva in Europa, dacché» nessuno ha in oggi tanto affetto della propria nazione, quanto voi potreste suscitarne con una sola parola: Unità. Nel nome dell'unità noi iniziammo e mantenemmo, privi di mezzi e d'influenza, e perseguitati, e cento volte sconfitti, tale una crescente agitazione in Italia da fare della questione italiana una questione europea, e somministrare a voi, Sire, ed ai vostri, il terreno che oggi vi frutta potenza.

» Una patria, una bandiera nazionale, un sol patto, un seggio fra le nazioni d'Europa, Roma a metropoli: è questo il simbolo. Fummo sistematicamente calunniati presso le moltitudini, noi che insegnammo ad esse in nome dell'unità, unità inevitabilmente regia se il Re la facesse, la virta della lotta e del sacrificio. Sire, volete ancora l'Italia? Osate. Il giorno in cui sarete presto per l'unità nazionale a far getto della vostra corona, quel giorno voi cingerete la corona d'Italia. I padri nostri assumevano la dittatura per salvare la patria dalla minaccia dello straniero; abbiatela purché siate liberatore.

» In nome d'Italia io vi chiamo ad una di quelle imprese nelle quali si numerano gli amici, non i nemici. La diplomazia è come i fantasmi di mezzanotte; minacciosa, gigante agli occhi di chi paventa, si dissolve in nebbia sottile davanti a chi

(1) Diritto, giornale di Torino, del 3 ottobre 1859.

I TRATTATI DI ZURIGO. 287

» le move risolutamente all'incontro. Osate, Sire. Dite a Luigi Napoleone: Io diffidai dell'Italia; accettai una pace non mia. Ma l'Italia non ha difficoltà di me, ed io sento gli obblighi che quella fiducia m'impone. Io ritratto l'accettazione. Farò, libero da ogni vincolo, ciò che Dio e la mia patria m'ispireranno. A voi non chiedo se non una cosa; l'astenervi da ogni intervento nelle cose nostre, e lasciare, come prometteste, l'Italia libera di compiere coll'opera propria l'impresa che inizi aste con me. A quel patto avrete me grato, l'Italia amica sempre alla Francia.

» Dimenticate per poco il Re per non essere che il primo cittadino. Vogliate e ditelo. Avrete tutti, e noi primi, con voi. Io repubblicano, presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta sino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sciamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: Preside o Re, Dio benedica a voi.»

Mazzini desiderava che la lettera di suo pugno pervenisse in mano del Re, e con essa una seconda in cui, riconfermata la promessa di obbedienza e di appoggio, gli proponeva di spingere senza indugio Garibaldi nel mezzogiorno d'Italia, promettendogli, se questo facesse, che i repubblicani della Penisola avrebbero posto a' suoi cenni un mezzo milione di combattenti. In questa seconda lettera il Ministero torinese veniva orrendamente bistrattato. Angelo Brofferio tolse l'incarico di consegnare entrambe a Vittorio Emanuele. Brofferio, colle sue carte in tasca si presenta al Ministro Rattazzi. - Amico, gli disse entrando, vengo a parlarvi in nome della repubblica; fate una riverenza. - II Ministro sorrise; Brofferio continuò: Avete voi letto la lettera di Mazzini al Re? - l'ho letta certo, e ci ho trovato di belle cose. - Che cosa mi direste se io vi pregassi di permettermi di presentarla al Re personalmente? - Sono persuaso che la leggerebbe anch'esso volentieri. Mazzini è repubblicano; ma se egli vuole ad onorate condizioni aiutare vie più col suo partito la monarchia, perché dovremo noi ricusarlo?

La sera stessa Vittorio Emanuele chiamava presso di sé l'avvocato Brofferio. Le due lettere di Mazzini gli furono presentate. Quella del 20 settembre la sapeva già a memoria. Cominciata la lettura dell'altra, quando giunse al suggerimento di spingere

288 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Garibaldi nell'Italia meridionale, rise allegramente, poi disse: Mandarlo? Non è questa, caro Brofferio, la difficoltà; la difficoltà è, dopo averlo mandato, di trattenerlo. - Giunto alla conclusione, Vittorio Emanuele ripigliò: Salutate Mazzini in mio nome. Ditegli che ho letto con piacere i suoi scritti, e che apprezzo molto le sue leali ed oneste intenzioni. Desidererei soltanto una cosa. - Quale, Maestà? - Mazzini mi vuoi dare cinquecentomila uomini. Ditegli che io sono più discreto. Che me ne dia sol tanto duecentocinquantamila, e vedremo. - Vorrebbe Vostra Maestà permettermi di domandare a Mazzini una conferenza per ridurre in atto pratico le sue proposte? - Ma che, interruppe il Re; si trova forse in Piemonte? - La Maestà Vostra non lo farebbe certo arrestare? - Io no certamente, rispose il Re; ma se lo sapesse l'avvocato fiscale? - Ebbene, Sire, perché il Fisco non lo sappia, se Vostra Maestà me lo permette, io inviterò Mazzini alla mia Villa la Verbanella nel Canton Ticino. Ivi tutti e tre metteremo insieme le basi della pace fra la repubblica e la monarchia, senza che una sia divorata dall'altra. - Vittorio Emanuele rise di gran cuore, approvò tutto, accordò tutto. Mezzano Angelo Brofferio, fu stretta la pace fra repubblica e monarchia, contraenti da una parte il figliuolo di Carlo Alberto, dall'altra l'uomo che ventiquattro anni addietro aveva dati mille franchi, un passaporto e un pugnale per ispegnere Re Carlo Alberto. Pegno dell'alleanza, la spedizione di Garibaldi nel mezzogiorno d'Italia era fermata.

Le proposte fatte al Ricasoli Mazzini faceva ripetere da Nicola Fabrizi al Farini Dittatore. Furono accolte. Farini assicurava del suo concorso, prometteva denaro, armi, munizioni, a patto peraltro: che non si parlasse di repubblica; che il nome di Mazzini non figurasse in nessun atto politico, né prendesse egli apertamente parte alcuna nel movimento; che le truppe avessero a spingersi innanzi dall'alto in basso e non dal basso in alto. Le tre condizioni dal Mazzini assentite, non mancava se non chi avesse osato assumere la direzione dell'impresa. Era pronto. Alle prime aperture Garibaldi, che teneva il comando in secondo sulle truppe della Lega armata dell'Italia centrale, standone comandante supremo il generale Fanti, aveva aderito. Due divisioni erano nelle Romagne sotto i suoi ordini immediati.

I TRATTATI DI ZURIGO. 289

Nullameno Garibaldi non ardì accogliere la profferta di porsi a capo della spedizione, se prima non fosse fatto certo dell'esplicito consentimento del Re di Sardegna. Questo avuto per la bocca stessa di Vittorio Emanuele, da Torino Garibaldi ritornava con segreti poteri a Bologna. Senza por tempo in mezzo, da gli ordini opportuni ai comandanti le truppe, si pone d'intelligenza con coloro che dovevano dirigere i moti rivoluzionarii negli Stati pontificii, prepara, dispone, provvede ogni cosa.

Diveniva ornai necessario che il Cipriani abbandonasse Bologna, e vi venisse il Farini. Il 9 novembre Cipriani era costretto a smettere l'ufficio, e l'Assemblea convocata affidava al Farini il Governo delle Romagne, con Modena e Parma costituenti un solo Governo, ch'ebbe nome dell'Emilia. Al Fanti, chiamato poi al Ministero della Guerra in Bologna, era succeduto nel comando in capo dell'esercito della Lega il Garibaldi. D'improvviso tutto muta. Napoleone III. dichiarava a Torino, in termini che non ammettevano replica, che disapprovava assolutamente né permetterebbe a niun patto la spedizione di Garibaldi nel Pontificio. Era troppo presto. Fu forza obbedire, Vittorio Emanuele pel primo. Mentre Garibaldi si apprestava a passare il confine, quando sulle creste dell'Apennino erano già pronte ad accendersi le cataste di legna che dovevano dare infino agli Abruzzi il segnale dell'insurrezione, cui le truppe irrompenti avrebbero fatto sostegno, i capi di corpo ricevevano dal Fanti, Ministro della Guerra, pressantissimi ordini segreti di non obbedire ai comandi del loro generale; e la vigilia del giorno fissato per incominciare il movimento, allorché già i carri de' traini erano in gran parte caricati, un telegramma chiama d'ordine del Re Garibaldi in Torino.

Il 16 novembre Garibaldi, giunto in Torino, andò difilato da Vittorio Emanuele. Uscì dall'udienza colla regia promessa che al primo momento opportuno sarebbe mandato a rivoltare Sicilia. Rassegnate le sue dimissioni, partiva tosto per Nizza, in attesa de' giorni più avventurosi. Poi, venuto a Genova, disfogava la collera contro l'imperiale signore che dalla Senna gli avea attraversato il cammino, il 28 bandendo a' suoi compagni d'arme: «La tregua durerà poco. La vecchia diplomazia sembra poco disposta a vedere le cose quali sono; essa vi considera ancora per quel branco di discordi di una volta, e non sa che germina

290 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

» in voi il seme della rivoluzione del mondo, se non si voglia lasciarci padroni in casa nostra. Per Iddio! Il sonno di chi ci vuole opprimere e manomettere non potrà essere tranquillo!Italiani, non lasciate le armi. Serratevi ora più che mai attorno ai vostri capi; mantenetevi nella disciplina la più severa. Non vi sia uno solo, che non prepari un arme per ottenere forse domani colla forza ciò che si tentenna ora concederci.»

In questo mentre nell'Italia centrale erasi fatto un altro passo verso l'unità governativa e l'annessione a Sardegna. Allorché le Assemblee di Toscana, Romagne, Modena e Parma aveano votato e mandato ad offerire a Re Vittorio Emanuele l'unione dei lor paesi allo Stato sabaudo, il Ministero torinese, dato di mano al dizionario a cercarvi una parola che salvasse capra e cavoli, trovatala, Vittorio Emanuele rispondeva alle Deputazioni: Accolgo i vostri voti. Il Ministero spiegò poi alla diplomazia che questa frase non volea dire accetto e spiegò ai rivoluzionarii che accogliere ed accettare erano perfettamente sinonimi. Guadagnato un po' di tempo con tale ripiego grammaticale, dopoché però la Lega militare, aperta violazione della Pace segnata, a Villafranca, era stata pazientemente subita dall'Austria, chiuse le Conferenze di Zurigo, parve utile salire un altro gradino, e le Assemblee nominarono il principe Eugenio di Savoia-Carignano perché governi l'Italia centrale in nome del Re eletto.

La nomina era calda calda, quando venne di Francia una rimostranza fatta da Napoleone III. al Re Vittorio, e consisteva nel dire che, coll'autorizzare il principe di Carignano ad accettare la Reggenza, il Re perderebbe il concorso della Francia, e creerebbe una situazione pericolosa pel Piemonte e pel resto d'Italia, per cui si dava il consiglio precisissimo di rifiutare. Subito convocata una straordinaria adunanza di Ministri in Torino, chiamati a pigliarvi parte Cavour, Massimo d'Azeglio, BonCompagni e Marco Minghetti, vennero a discutere qual conto s'avesse a fare delle rimostranze e de' consigli del Bonaparte. Rimostranze e consigli erano semplici cerimonie, o solenni intimazioni? Stabilito che contenevano una volontà ben espressa e imperiale, restava il secondo quesito a sciogliere: quale risposta si avesse a dare a codesta volontà dell'Imperatore che imperava in Torino. Cavour parlava altamente d'indipendenza, di dignità

I TRATTATI DI ZURIGO. 291

nazionale, d'autonomia italiana, spingendo appartiti estremi. Rattazzi, La Marmora, gli altri Ministri obiettavano: Napoleone III. avere sessantamila soldati in Piemonte pronti ad appoggiare i suoi consigli; se l'aiuto dell'Imperatore de' Francesi venisse meno, essere bella e spacciata ogni cosa, trovarsi Sardegna nel più perfetto e più ramoso isolamento, con un reame nato appena ieri» non peranco riconosciuto nel diritto internazionale europeo, con di fronte l'Austria offesa e poderosamente accampata sul Po e sul Mincio, privo di qualsivoglia efficace guarentigia da parte dell'Inghilterra contro l'intervento austriaco; moltissima gratitudine doversi al Bonaparte, che aveva servito sì bene prima di Villafranca, aveva continuato a servire da Villafranca a Zurigo, e servirà bene da Zurigo in appresso. Conchiudevano: quando l'opinione di Cavour prevalesse, ed ei si sentisse il coraggio di resistere a Napoleone III., essere prontissimi a smettere i portafogli. Occorreva dunque studiare un mezzo termine che non desse dispiacere all'Imperatore, né ai rivoluzionarii dell'Italia centrale, né a sé medesimi. Allorquando si voleva far passare il Farini Dittatore a Bologna, si avea trovato già un mezzo termine, approvato da Napoleone: il Governo dell'Emilia. Allora Napoleone non voleva che si dicesse, approvar egli l'annessione di Parma, di Modena, delle Romagne, e si sapeva che avrebbe approvata l'annessione dell'Emilia; questione di parole. Orsi rinvenne un altro mezzo termine: il principe di Carignano non risponda né accetto, accolgo: resti in Torino e mandi nell'Italia centrale un altro a governare in sua vece. Napoleone III., che ripudia il Reggente, accetterà, conchiudevano, il Vicario del Vicario, il Reggente del Reggente.

Al principe di Carignano fu solennemente proibito di accettare la Reggenza; e il principe l'accettava di fatto, anzi fe' più che accettare, perocché un semplice Reggente non poteva avere facoltà di rimettere ad altri la Reggenza. Il principe rimase dov'era, e alle Deputazioni di Toscana e d'Emilia si limitò a dire: «Potenti consigli e ragioni di politica convenienza, nel momento in cui ci si annuozia prossima l'apertura del Congresso, mi tolgono di poter recarmi in mezzo a loro per esercitarvi il mandato commessomi. Nondimeno designo il commendatore Carlo BonCompagni, perché assuma la Reggenza».

292 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Diceano le genti: Accettò o no? Se ha accettato, perché non va? Se non ha accettato, perché manda? Napoleone III. si acconciò allo spediente; e le Assemblee, che prima aveano chiesto il Re, poi il Reggente del Re, furono lietissime di ricevere il Reggente del Reggente del Re, in cambio del principe il commendatore. un'altra commedia.

293

CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

Guerra al Papato.

Gli spedienti rispetto al Papato. - Lettera dell'Imperatore de' Francesi al Santo Padre, del 14 luglio 1859. - Secondo discorso napoleonico air Arcivescovo di Bordeaux. - L'opuscolo H Papa ed il Congresso, monumento insigne d'ipocrisia, ignobile quadro di contraddizioni. - Soluzione del problema. - L'imagine del Governo della Chiesa. - Indispensabilità della sovranità temporale del Pontefice. - La conciliazione. Né violentato, né umiliato, né subordinato. - Roma è l'essenziale, il resto non è che secondario. - II Santo Padre sovrano sui generis, salariato dall'Europa. - Un popolo di contemplativi e di antiquarii. - Onnipotenza del Congresso. - L'opera del 1808 e 1809 ripigliata. - Due Bonaparte, raffronti storici. - Napoleone III. scrive al Papa che rinuncii alle Legazioni. - Parole di Pio IX. al generale Govon. - Risposta del Pontefice alla lettera imperiale. - L'Enciclica e l'Univers. - Cicalata per monsignor Sacconi. - Gramont e AntonellL - Corrispondenza tra il Santo Padre e il Re di Sardegna; storia di Nabot ed Acab.

L

a questione della unità o assoluta o federale d'Italia non poteva risolversi senza prima fermare il partito da prendersi rispetto al Papato, supposto che questo si guardi come ostacolo essenziale a codesta unità. Per disfarsene quattro spedienti proposersi; annientarne colla violenza la sovranità; sottoporlo, come già ai tempi della dominazione bizantina, ad ogni maniera di vessazioni, di angherie, di umiliazioni, sicché divenga abbietto e moralmente esautorato; stremarlo d'ogni assistenza e d'ogni presidio straniero, per gittarlo alla balia ed alla mercé della rivoluzione; schiantarlo affatto d'Italia per confinarlo di bel nuovo nella cattività di Avignone, o trasferirlo, esempligrazia, a Gerusalemme, convertita in città libera dello Stato di Cristo. Or vi avea un quinto spediente, sistema di artifizii e di mezzi, i quali son propriamente una ragione composta dei primi tre di que' disegni: la violenza, cioè, dove manifesta e dove coperta, come torna più a conto; l'umiliazione, quando procacciata ad arte, quando imposta come sacrificio doveroso ed inevitabile; ed il non intervento, per cui si legano le mani ai difensori del Papato, si armano per contro

294 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

gli offensori, messa ogni cosa all'arbitrio della rivoluzione. Conquistato lo Stato del Papa, il pallio è nostro, la scena è finita; aveva suggerito Re Federico II. di Prussia a Voltaire (1).

Condotte le cose a tal termine, dei due grandi scopi, che l'imperiale autore dell'opuscolo U Imperatore Napoleone III. e l'Italia si aveva proposti, 1J uno, la guerra all'Austria, era già riescito per bene; l'altro, la guerra al Papato, erasi ornai con prospere sorti avviato a migliori risultamenti. La guerra all'Austria, astretta a rinchiudersi entro a' limiti del Po e del Minciò, la aveva condotta, se non a riconoscere per Trattato il principio Ii non intervento, almeno a tacitamente ammettere per forza maggiore il valore materiale del fatto compiuto. La guerra al Papato era riescita a strappare al Pontefice una delle più importanti e ricche porzioni degli Stati della Chiesa.

Segnata appena la pace, da Desenzano il 14 luglio 1859, ¥ Imperatore de' Francesi aveva senza indugio scritto al Santo Padre, per fargliene conoscere le condizioni. In essa lettera diceva: «In questo nuovo ordine di cose Vostra Santità può esercitare la più grande influenza, e far cessare per l'avvenire qualsiasi causa di commovimenti. Consenta Vostra Santità, o piuttosto de motu proprio voglia accordare alle Legazioni un'amministrazione separata, con un Governo laico nominato da lei, ma appoggiato da un Consiglio formato per mezzo d'elezione; quella provincia paghi al Santo Padre un canone fisso, e Vostra Santità avrà assicurato il riposo de' suoi Stati e potrà non aver bisogno di truppe straniere. Supplico Vostra Santità di ascoltare la voce di un figlio devoto alla Chiesa, ma che comprende le necessità della sua epoca, ed il quale ben Ba che la forza non basta per risolvere le questioni e appianare le difficoltà. Riconosco nella decisione di Vostra Santità o il germe di un avvenire di pace e di tranquillità, ovvero la continuazione di uno stato violento e calamitoso.»

(1) Correspondance; Vol. XI., pag. 99. - «Si penserà alla fucile conquista dello Stato del Papa; ed allora il pallio è nostro, e la scena è finita. Tutti i Potentati dell'Europa, non volendo riconoscere un Vicario di Gesù Cristo soggetto ad un altro sovrano, si creeranno un Patriarca ciascuno nel proprio Stato. Cosi a poco a poco ognuno si allontanerà dall'unità della Chiesa, e finirà coll'avere nel suo regno una religione, come una lingua a parte.»

GUERRA AL PAPATO. 295

Così la richiesta del Vicariato nelle Romagne, fatta fare da Cavour nel 1856 al Congresso di Parigi, per la prima volta era detta per bocca di un Imperatore, minacciante: Santo Padre! 0 questo accettate di buona grazia, o continueranno rispetto a voi violenze e calamità.

Pio IX. rispose quanto doveva rispondere. un'amministrazione separata con Consiglio formato per elezione, con non altra dipendenza dal Pontefice che l'averne un Governo laico e pagargli une redevance, equivarrebbe ad un'abdicazione assoluta, salvo una certa suzemineté, la quale nei tempi attuali non poteva avere effetto veruno. Vanamente da combinazione sì fatta si aspetterebbe la cessazione d'ogni turbamento, la sicurezza del riposo al rimanente dello Stato, il germe di un avvenire di pace e di tranquillità, quando vi sarebbe piuttosto a temere precisamente il contrario. Ad un'abdicazione qualunque non potere il Pontefice consentire. Non poterlo, perché gli Stati pontificii non sono proprietà sua personale, ma appartengono alla Chiesa. Non poterlo, perché con solenni giuramenti ha promesso innanzi a Dio di trasmetterli a' suoi successori, intatti e quali li ricevette. Non poterlo, perché le ragioni di rinunziare alle Romagne, potendosi applicare od anche creare pel rimanente de' suoi Stati, il rinunziare a quelle sarebbe implicitamente rinunziare in certo modo al tutto. Non poterlo, perché, padre comune delle sue ventuno province, o deve a tutte render comune il bene che vedesse necessario per le quattro province delle Romagne, o non deve permettere per queste il danno che non vorrebbe imposto a tette.

Nel settembre, il Re delle Due Sicilie offerse alla Santa Sede i suoi battaglioni per riconquistarle le Romagne; un esercito napoletano si andò. ragunando negli Abruzzi sotto gli ordini del generale Pianelli. Quel disegno si collegava alla restaurazione del Granduca di Toscana per mano degli Austriaci. Ai primi dell'ottobre il Papa assentì (). Ma quando l'Imperatore

(1) Dispacci telegrafici, in cifra e riservatissimi, del Ministro delle Due Sicilie in Roma, commendatore De Martino, al Ministro degli affari esteri in Napoli.

296 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

Napoleone vide come, in onta a tutte le di lui opposizioni, Napoli stava in sull'operare davvero, fece rimettere a Pio IX. una formale dichiarazione, sottoscritta dall'Ambasciatore francese, Duca di Gramont, con cui la Francia disse: No, farò io.

In questo mezzo, a quella guisa che negli annali del secondo Impero francese un discorso, rimasto famoso, pronunziato da Luigi Napoleone ancora presidente della Repubblica, il 9 di ottobre 1852 in Bordeaux, preludeva all'Impero, colle sue dichiarazioni rimovendo gli ostacoli che potesse ancora incontrare, sia da parte de' Francesi, sia da parte della diplomazia; non diversamente un altro discorso egualmente famoso nella storia di Napoleone III., recitato egualmente a Bordeaux, doveva preludere a quella nuova fase della politica francese a Roma, nella quale, ritenendo ancora una parte dell'antico stile di rispettosa e sincera devozione verso il Santo Padre, si avrebbe appianata ed assicurata la via alle violenze e alle frodi. Il 12 ottobre 1859 il Cardinale Arcivescovo di Bordeaux si presentava a capo del clero per dirgli: «Otto anni fa, i miei sacerdoti ed io, noi pregammo per colui che avea ristabilito sulla fronte della Chiesa e del sacerdozio quella onorifica aureola, cui loro volevasi

«Albano, 9 ottobre 1859. - Ritorno in questo punto dall'udienza del» Santo Padre a Castello. Sua Santità mi ha conceduta l'autorizzazione» del passaggio eventuale delle nostre truppe sul territorio romano nella linea parallela al Tronto. Questo accordo rimanga segretissimo.»

«Roma, 15 ottobre 1859. - Ho avuto in questo punto confermata dal Cardinale Antonelli la risposta che Sua Santità m'aveva dato ieri sul passaggio eventuale delle nostre truppe per il territorio pontificio. Sua Eminenza ha dato quindi l'ordine al telegrafo di Ascoli d'intendersi verbalmente su tale assunto col Generale comandante il Regio esercito. Questo accordo verbale deve essere mantenuto segretissimo. All'Eccellenza Vostra non isfuggirà certamente tutto il partito che i rivoluzionarii potrebbero trame.»

Il generale comandante il corpo d'esercito napoletano, quell'Enrico Pianelli che avea presieduto al processo di Agesilao Milano (Vol. I., pag. 202-203), già venduto al Piemonte, non appena ebbe le secrete istruzioni del suo Governo, informò di tutto i suoi padroni di Torino. Fu allora che Napoleone fece dare alla Corte di Roma l'assicurazione: «I Napoletani non si muovano; al riacquisto delle Legazioni provvederebbe la Francia.» Rimosso il pericolo, si dirà (31 dicembre 1859), che i fatti hanno una logica inesorabile, e così tutto resti com'era.

GUERRA AL PAPATO. 297

» togliere, e che avea inaugurato i suoi grandi destini, rendendo al Vicario di Cristo la sua città, il suo popolo, l'integrità del suo potere temporale. Oggi, o Sire, noi preghiamo ancor più con fervore, s'egli è possibile, affinché Dio vi fornisca i mezzi di rimaner fedele a quella politica cristiana, che fece benedire al vostro nome, ed è forse il segreto della prosperità e la sorgente delle glorie del vostro regno. Preghiamo con ostinata confidenza, con una speranza, cui non hanno potuto disanimare eventi deplorabili e sacrileghe violenze. Voi ancor volete esserlo, Sire, figlio primogenito della Chiesa. All'immacolata Patrona di questi luoghi voi scioglierete il debito della riconoscenza, procurando un trionfo al suo figlio nella persona del suo Vicario. Degno di voi è questo trionfo, o Sire; esso porrà un termine alle ansietà del mondo cattolico, che lo saluterà con trasporto.»

La ringrazio, rispondeva Napoleone III., di aver ricordato le mie parole, perché ho ferma speranza che un'èra novella di gloria sorgerà per la Chiesa il giorno in cui tutto il mondo parteciperà alla mia convinzione che il potere temporale del Santo Padre non è opposto alla libertà ed alla indipendenza d'Italia. Il Governo che ha ricondotto il Pontefice sul suo trono non potrebbe suggerirgli altro che consigli ispirati da una sincera e rispettosa divozione a' suoi interessi; ma egli si attrista con ragione del giorno, che pur non è lontano, in cui Roma sarà sgomberata dalle nostre truppe. Poiché l'Europa non può permettere, che l'occupazione, che dura da dieci anni, si prolunghi indefinitamente; quando il nostro esercito si ritirerà, che lascierà egli dopo di sé? L'anarchia, il terrore o la pace? Ecco questioni, la cui importanza non isfugge a persona. Ma, creda pure, nei tempi in cui viviamo, per risolverle bisogna, invece di fare appello alle ardenti passioni, ricercare con calma la verità e pregare la Provvidenza d'illuminare i popoli ed i Re sopra il saggio esercizio de' loro diritti come sopra l'estensione de loro doveri.»

Questo discorso di Napoleone III., osservava alcuni giorni appresso il Morning Post, l'organo di lord Palmerston, della Massoneria e della rivoluzione, «questo discorso dichiara categoricamente che l'Impero è la riforma papale.

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» Il conflitto adunque cangia oggidì d'arena. Non si tratta più d'una lotta tra l'Italia e l'Austria, ma tra la Francia imperiale e Roma papale,» Lotta tra l'agnello e il leone, di cui pensavano non avrebbe potuto rimanere in forse l'esito, dopo che si aveva udito mille volte ripetere da' miscredenti che l'Eglise a fait son temps, che le sue folgori sono spuntate, le sue pergamene tarlate, le sue solennità comparse da teatro, il Papato un cadavere senza vita, una mummia ad uso degli archeologi, il Pontefice una reliquia del medio evo, il suo trono in Vaticano una di quelle bertesche crollanti, che dall'alto dei gotici castelli sembran minacciare al mondo la guerra, e minacciali ruina per so.

Come alla vigilia delle ostilità in Italia si avea mandato pel mondo quell'opuscolo affinché fosse programma politico e manifesto di guerra ad un tempo, alla vigilia della riunione del Congresso, nell'ora stimata opportuna per far prendere pia chiaro aspetto alla questione romana, facea di mestieri che un altro opuscolo, a quella guisa che il libretto si distribuisce innanzi alla rappresentazione del dramma, venisse a mettere all'aperto, senza gergo, i più riposti divisamenti intorno al Pontefice, e di rimbalzo mandasse a monte il Congresso; uno scritto che rivelasse qual fosse il senso vero delle imperiali parole di Bordeaux: «l'era novella di gloria che sarebbe sorta per la Chiesa, i consigli ispirati agl'interessi del Papato, la verità ricercata con calma, la Provvidenza che illumini i Re sopra l'estensione dei loro doveri.» Dopo le violenze i sofismi, cui terranno dietro altre violenze, che più tardi cederanno il posto ad altri sofismi.

L'anno 1859 stava per chiudersi. Pochi giorni prima del Natale, il coro de' portavoce ufficiosi annunciava in Parigi l'arrivo del Messia in un nuovo opuscolo, avente a titolo: Il Papa e il Congresso; né i Profeti dell'antico Testamento usarono mai, per far sapere la venuta del vero Messia, formule più enfatiche. Al pari del precedente il nuovo scritto compariva senza nome di autore, perocché, siccome scrisse il più entusiastico de suoi tubatori (1), i libelli non sogliono essere sottoscritti da nessuno. Or come gli stessi annunzi pomposi aveano lastricata a quel

(1) Il Constitutionnel del dì 4 gennaio 1860.

GUERRA AL PAPATO. 299

primo la via, Il Papa e il Congresso, questa scrittura che in tempi ordinarii non avrebbe eccitato alcun commovimento, neppur destata la pubblica attenzione, sbozzato dalla stessa mente che l'opuscolo L'Imperatore Napoleone III. e l'Italia, incarnato dalla stessa penna, corretto dalla stessa mano, stampato nella stessa officina, aveva avuto col fratello maggiore comuni le origini. II Papa e il Congresso ben vale un esame, che dispenserebbe di molte parole in appresso. Chiave di volta di tutto l'edifizio, egli illumina l'intero sistema, snebbia credute incertezze e simulate oscurità, decifra enigmi apparenti, spiega tutto, insino al fine riposto della sì tanto controversa Convenzione del 15 settembre 1864.

Preludeva con dire: «Vogliamo studiare, come cattolici sinceri, una questione che fu imprudentemente trattata con passione. Fra coloro che, detestando il potere temporale del Papa, invocano a gran voce la sua caduta, e coloro i quali non vogliono che sia toccato, e' è luogo per un'opinione meno esclusiva in un senso o nell'altro, egualmente rispettosa per i diritti dei popoli e per gl'interessi della religione. Il potere temporale del Papa è necessario all'esercizio del suo potere spirituale? La dottrina cattolica e la ragione politica si accordano nel risponde re affermativamente. Secondo il punto di vista religioso, è essenziale che il Papa sia sovrano: secondo il punto di vista politico, è necessario che il capo di duecento milioni di cattolici sia indipendente, che non sia subordinato ad alcuna Potenza. Il potere spirituale, che ha sede in Roma, non può spostarsi senza indebolire le basi del potere politico, non solamente negli Stati cattolici, ma in tutti gli Stati cristiani. Importa all'Inghilterra, alla Russia, alla Prussia, come alla Francia ed all'Austria, che il rappresentante dell'unità del cattolicismo non sia né violentato, né umiliato, né subordinato. Roma è il centro di una potenza morale troppo universale, perché non sia nell'interesse di tutti i governi e di tutti i popoli che ella resti immobile sulla pietra sacra, cui nessuna scossa potrebbe rovesciare. Ma come il Papa sarà nel medesimo tempo Pontefice e Re? Questo è il problema da sciogliere, problema difficile.»

Per l'autore però è facilissimo. «C'è», egli continua», in qualche maniera antagonismo fra il principe ed il pontefice


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300 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» confusi nella medesima persona. Non c'è al mondo una costituzione che possa conciliare esigenze tanto diverse. Questo fine non potrà essere raggiunto né colla monarchia, né colla repubblica, né col dispotismo, né colla libertà. Il potere del Papa non può essere che un potere paterno: deve somigliare piuttosto a quello della famiglia, che a quello dello Stato. Quindi, non solamente non è necessario che il suo territorio sia molto esteso, ma anzi necessario che sia ristretto. Quanto più il territorio sarà piccolo, tanto più il sovrano sarà grande. Infatti un granii de Stato porta seco alcune esigenze cui è impossibile che il Papa soddisfaccia; vorrà vivere politicamente, perfezionare le sue instituzioni, partecipare al movimento generale delle idee, trar partito dalle conquiste delle scienze, dai progressi. Dello spirito umano. Non potrà farlo. Bisognerà che si rassegni a restare immobile, ovvero che si agiti e si rivolti. Il potere temporale del Papa, in queste condizioni, non potrà mantenersi senza una occupazione militare austriaca o francese, che lo protegga. Trista condizione invero, perché ogni potere il quale non vive della confidenza pubblica, non è un'instituzione, è uno spediente. La Chiesa, invece di trovare in questo potere una condizione d'indipendenza, non ci troverebbe che una causa di discredito e d'impotenza. La Francia non può voler questo. Il potere temporale del Papa è dunque necessario e legittimo, ma è incompatibile con uno Stato di qualche estensione. E un governo sui generis, che si avvicina più all'autorità della famiglia, che all'amministrazione di un popolo. Bisogna che il Papa abbia abbastanza territorio per non essere suddito egli stesso, e per essere sovrano nell'ordine temporale, ma non bisogna che questa sovranità l'obblighi a rappresentare una parte politica. Si può ammettere che esista in Europa un cantuccio di terra in cui non penetrino le passioni e gli interessi che agitano gli altri popoli, il quale sia unicamente consacrato alla gloria di Dio. In questo angolo di terra illustrato dalle più grandi memorie storiche, il centro dell'unità cattolica ha preso il posto alla capitale del mondo. Roma ha un destino eccezionale, Roma appartiene al capo della Chiesa. Se ella fuggisse di mano a questo augusto potere, perderebbe subito tutto il suo prestigio; la libertà le torrebbe il suo retaggio.

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» Nulla v'ha di più semplice di pili legittimo e di più essenziale che il Papa seduto in trono a Roma col possedimento di un territorio ristretto. Per soddisfare ad un così alto interesse, ben si ponno sottrarre alcune centinaia di mila anime alla vita delle nazioni, senza però sacrificarle, e dando loro sicure guarentigie di benessere e di protezione sociale. Per noi adunque il governo temporale del Papa non è altro che l'imagine del governo della Chiesa. Una volta che l'ampio sviluppo della vita municipale sciolga la sua responsabilità dagl'interessi amministrativi, egli può mantenersi in una sfera al di sopra della manipolazione degli affari. Membro della Confederazione italiana, lo protegge l'esercito federale. Un esercito pontificio non altro deve essere che un'insegna d'ordine pubblico; ma se avviene che s'abbiano a combattere nemici esterni od interni, non s'addice al capo della Chiesa di sguainare la spada. Insomma vi sarà in Europa un popolo che avrà a capo meno unre che un padre. Questo popolo non avrà rappresentanza nazionale, non esercito, non libera stampa, non magistratura. Tutta la sua vita pubblica sarà come entrata nella sua organizzazione municipale; al di là di quest'angusta cerchia non altro vi sarà per lui che la contemplazione, le arti, il culto delle ruine, e le preghiere. Sarà un governo di pace e di raccogli» mento, una specie d'oasi, a cui le passioni e gl'interessi della» politica non giungeranno, e che solo avrà dinanzi la dolce e tranquilla vista del mondo spirituale.

» Certo che in questa condizione eccezionale v'ha qualche cosa di doloroso per uomini che si vedono condannati all'inerzia. È questo un sacrificio che pur si deve domandare ad essi, mirando ad un interesse di un ordine più elevato, dinanzi al quale gl'interessi privati devono tacere. D'altra parte, se i sudditi del Papa sono sottratti alle faccende della vita politica, ne avranno un compenso in una amministrazione tutta paterna, in alleviamenti d'imposte, nella grandezza morale della loro patria, nella presenza d'una Corte, il cui splendore, necessario alla duplice maestà di pontefice e di principe, sarà sostenuto da tributi che pagheranno generosamente le Potenze cattoliche d'Europa. Il Papa infatti è sovrano spirituale di tutti i fedeli, né sarebbe giusto che le spese necessario alla maestà della Chiesa

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» venissero tutte addossate alle popolazioni de suoi Stati. Così il bilancio del Santo Padre non sarà esclusivamente romano; sarà internazionale, come la sua autorità.

» La Romagna da alcuni mesi è separata di fatto dall'autorità del Papa. Questa separazione adunque ha per sé l'autorità del fatto compiuto. Sarà necessario restituire la Romagna al Papa? Per isciogliere tale questione non vogliamo consultare che l'interesse medesimo del Papato, non cerchiamo altro che quanto può tornar utile alla Chiesa. Non abbiamo ad occuparci del diritto che le popolazioni delle Romagne possono avere di darsi un altro governo. È, o non è utile, alla gloria della Chiesa, all'autorità del suo Capo che la Romagna sia restituita al Santo Padre? Malgrado la cessione fattane nel 1796 dalla Santa Sede, la Romagna è un possedimento più che legittimo del governo pontificio. L'insurrezione di quegli abitanti contro il Papa è adunque una ribellione contro il diritto legale e contro i Trattati. In virtù appunto dei Trattati, la Romagna fu restituita nel 1815 al Papa. Finché questi Trattati sussistono, è incontrastabile il diritto che ha il Papa di rivendicare una parte del suo territorio sottratosi alla sua sovranità. Ma il Papato e la religione sono forse interessati a questa rivendicazione?

» Il distacco delle Romagne non porta detrimento al potere temporale del Papa. Il suo territorio è impicciolito, ma la sua autorità politica non s'affievolisce già, ben s'ingrandisce moralmente. Che cosa fruttano al prestigio, alla dignità, alla grandezza del sovrano Pontefice le leghe quadrate incastrate ne' suoi Stati? Gli abbisogna forse spazio per essere amato e venerato? Forse che le sue benedizioni o i suoi ammaestramenti non sono la più potente manifestazione del suo diritto? Forse ch'egli non ammaestra e non benedice il mondo intero? 0 che comandi a pochi, o che comandi a molti, di ciò non è questione. L'importanza del Papa non risulta dalle ventuna provincia che possiede presentemente. Bologna, Ancona e Ravenna, separate da Roma, per mezzo d'una catena di montagne, nulla aggiungono allo splendore di Roma.

» Poiché l'Austria si fu ritirata da Bologna, ne conseguì la caduta dell'autorità pontificia. Senza dell'Austria questa autorità non può né rilevarsi, né tenersi in piedi. Col rendersi le

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» Romagne al Santo Padre, non gli si darebbero adunque sudditi rispettosi, sommessi ed affezionati, non gli si darebbero che nemici del suo potere, decisi a fargli opposizione, e che la sola forza potrebbe contenere. Con ciò che vi guadagnerebbe la Chiesa? Per qualche centinaio di migliaia di abitanti restituiti all'autorità temporale del Papa, la sua autorità spirituale riceverebbe una offesa mortale.

» Supponiamo che la Chiesa non tema un tal danno, che vogliansi restituire le Romagne al governo pontificio. Che via dovrassi tenere? Forse colla persuasione, coi buoni consigli?Ma questo mezzo è stato esaurito. L'Imperatore de' Francesi ha usato di tutta la sua autorità morale per calmare gli spiriti;egli non ha potuto riuscirvi, e la sua influenza è venuta meno innanzi all'impossibile. Dunque non resta che un mezzo solo:la forza. E se si adopera, chi sarà incaricato dell'esecuzione? É forse la Francia? È forse l'Austria? Vero è che la Francia ha restituito Pio IX. a Roma, ed è già questa una disgrazia per la Chiesa. Ma Roma è in una condizione tutta eccezionale, che mostra a chiarissime note il suo destino. Ella non potrebbe sfuggirlo, la sua sorte è invariabile; così vuole la civiltà, la storia, lo stesso Dio. Ciò che è necessario per Roma, sarebbe possibile per le altre città degli Stati Romani? Chi sarebbe incaricato di operare questa restaurazione forzata? La Francia! Ma essa noi può. Nazione cattolica, non assentirebbe a vulnerare sì gravemente la potenza morale del Cattolicismo;nazione liberale, non saprebbe obbligare i popoli a subire governi ai quali ripugna la loro volontà. Essa ha esauriti i suoi sforzi diplomatici per riconciliare tra loro e principi e popolazioni.

» Ma se la Francia non può intervenire, lo potrebbe l'Austria? Il dominio dell'Austria in Italia è finito. Essa non pretende a ciò. La Francia, non potendo da sé intervenire al ristabilimento dell'autorità temporale del Papa nelle Romagne, non può tampoco permetterlo all'Austria. Quale sarebbe dunque il braccio che sottometterà le Romagne? Non ve ne ha che un solo, cui potrebbe spettare tal parte, ed è Napoli. Ma ciò non sarebbe possibile. Il Regno delle Due Sicilie è profondamente agitato da uno spirito, che non permette al suo governo

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» di tentare diversione alcuna sugli Abruzzi. Esso ha bisogno di tutte le sue forze per iscongiurare i pericoli interni, e si esporrebbe a una rivoluzione. Alla vista del Re di Napoli, campione dell'Assolutismo, leverebbesi il Re di Piemonte, palladio della libertà dei popoli.

» Un solo intervento è regolare, efficace e legittimo: quello dell'Europa intera riunita in Congresso per decidere tutte le questioni relative a rimpasti territoriali ed alle revisioni dei Trattati. Il Congresso di Parigi ha pieni poteri per cangiare quanto fa fatto nel Congresso di Vienna. L'Europa, riunita a Vienna nel 1815, diede le Romagne al Papa; l'Europa, riunita a Parigi nel 1860, può decidere altrimenti. Nel 1815 si disponeva delle Romagne; nel 1860, se non si rendono al Papa, non si farà che sanzionare un fatto compiuto. Si dirà forse che il territorio del Papa è indivisibile. È questo un errore smentito dalla storia. Non vi ha territorio che abbia subiti maggiori cangiamenti quanto il patrimonio di San Pietro. Nel 1796 Pio VI., a Tolentino, cedeva alla Francia le Romagne e i diritti che poteva avere sulle città e i territorii di Avignone e Venaissin, che formano oggi il Dipartimento di Valchiusa. Dunque il territorio degli Stati della Chiesa non è più indivisibile di quello che non sia invariabile l'estensione di esso territorio. Come tutti i possessi, anche questo si estende o si restringe. Sola l'autorità spirituale del Papa è immutabile. L'Europa, che ha potuto sacrificare l'Italia nel 1815, può salvarla nel 1860. Il diritto è lo stesso; trattasi solo di applicarlo meglio.

» Il Congresso riconosca, come un principio essenziale dell'ordine europeo, a necessità del potere temporale del Papa. È questo per noi il punto capitale. Il principio ha maggior valore del possesso territoriale più o meno esteso. Quanto a un tale possesso, la città di Roma ne riassume la maggiore importanza; il resto non è che secondario. È necessario che Roma e il patrimonio di San Pietro siano guarentiti al sovrano Pontefice dalle grandi Potenze con una rendita considerevole, che gli Stati cattolici pagheranno come tributo di rispetto e di protezione al capo della Chiesa. È necessario che una milizia italiana, scelta fra l'esercito federale, assicuri la tranquillità el? inviolabilità della Santa Sede. È necessario che una libertà

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» municipale, larga quanto più è possibile, sciolga il governo pontificio da tutti i particolari della amministrazione, e accordi di tal guisa una parte di vita pubblica locale a coloro che sono privati della vita politica. È devoluta al Congresso quest'opera di trasformazione, resa ornai necessaria per consolidare l'autorità temporale di Roma. Istituzione divina, il Papato nulla ha a temere degli uomini; esso è eterno.

A che illudersi più oltre? Il potere temporale del Papa è seriamente minacciato nelle condizioni in cui oggi si trova. È una grande sventura, che deploriamo dal profondo del cuore;ma è altresì un grande pericolo, che gli uomini religiosi hanno debito di scongiurare per il bene della Chiesa, e gli uomini politici pel bene dell'Europa. La Santa Sede riposa sovra un vulcano, ed il Papa è minacciato incessantemente da una rivoluzione. È questa una situazione deplorabile, che solamente l'accecamento e l'imprevidenza possono voler prolungare, ma che un saggio e rispettoso attaccamento deve cangiare al più presto. Questo cambiamento è necessario, è urgente. Non si tratta d'impicciolire il patrimonio di San Pietro, si tratta di salvarlo. L'Imperatore Napoleone III. ha compreso, che il potere temporale del Papa, ristaurato nel 1849 e protetto dappoi dalle sue armi, era seriamente minacciato nelle condizioni della sua esistenza politica; ha compreso che bisognava salvare il Papato, liberando l'Italia. Dio benedisse il suo disegno; ma la sua gloria rimarrebbe sterile, se non guarentisse alla Chiesa la sua sicurezza e la sua indipendenza. Possa egli avere l'onore di riconciliare il Papa col suo popolo e col suo tempo.»

Ben di rado occorsero pagine in cui i sofismi, le più manifeste contraddizioni, le più palpabili assurdità fossero poste dall'autore come dottrine con maggiore confidenza in so stesso o con una coscienza più sicura della propria destrezza e della semplicità de' suoi lettori. Fra i lenocinii d'una fraseologia artifiziosa proclamava siccome principio fondamentale la necessità, la legittimità ed il possesso riconosciuto della sovranità temporale del Papa; sovranità ammessa come condizione di sicurezza por l'indipendenza della Santa Sede, e per ciò come non vincolata alla libera adesione dei popoli, sicché niuno poteva giustamente costringere il Papa a cedere; ma, convenuto appena che il potere

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temporale del Papa è indispensabile, nel medesimo tempo si studiava provare eh esso è impossibile. Millantandosi cattolico sincero, non parlando se non del suo rispetto e del suo amore per la Chiesa, e di non iscrivere che per salvarla, esaltava il carattere divino del Pontefice, ma per farne un argomento contro il potere del sovrano. Non si poteva confessare più esplicitamente la necessità imperiosa di questo potere per la libertà e per l'onore della Chiesa; ma non si potevano eziandio tentare sforzi maggiori per dimostrarne l'impossibilità sotto ogni aspetto, politico, morale, spirituale; maggiori sforzi per persuadere il lettore esservi antagonismo fra il principe ed il Pontefice confusi nella medesima persona, tale un antagonismo che veruna forma di governo varrebbe a togliere, né monarchia, né repubblica, né dispotismo, né libertà.

Posto codesto assioma della indispensabilità del potere temporale, sponeva dottrine le più ripugnanti tra loro: possibile la conciliazione tra coloro che tatto vorrebbero tolto al Papa, e coloro che tutto vorrebbero conservargli; potere il Papa e dover essere sovrano di Stato piccolo, non di Stato grande, ma sovrano senza parte politica; non dovere il Pontefice essere né violentato, né umiliato, né subordinato. Per conciliare la salvezza del patrimonio colla libertà dei popoli, si tolgano al Pontefice le Romagne perché sono ribelli, le Marche perché sono al di là dell'Appennino, il rimanente perché nessuno vi bada, ed il principato civile della Chiesa si riduca a Roma e un po' di terreno all'intorno; conciliazione ingegnosa, ancorché non abbia il merito della novità. Misurando alla stregua della pertica la capacità al governo de' popoli, pianta una teoria di tutta sua invenzione: esservi esigenze che il Papa sovrano di Stato più esteso non può soddisfare, laddove con Stato ristretto può renderle paghe: melensa menzogna sbugiardata dalla storia, dopo che per dodici e più secoli di governo temporale i Papi fecero meravigliare ed illuminarono l'Europa colla sapienza del loro reggimento, dopo che dalla sede appunto dei Papi, lo ha confessato Voltaire, derivarono all'Europa le migliori sue leggi, quasi tutte le sue scienze e le sue arti, il suo incivilimento. Gettargli sulle spalle uno straccio di porpora, mettergli in pugno uno scettro di canna, e cosi lasciarlo Re, ma da Re da burla, Re che per vivere abbisogna del

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denaro altrui, Re che per difendersi abbisogna dei soldati altrui, Re che non regna e non governa, e sta in Roma retta a repubblica dal Municipio) ecco ciò che tuoi fare del Papa l'autore dell'opuscolo.

Il Pontefice, affermavasi, non dev'essere né violentato, né umiliato, né subordinato. Perché egli non sia violentato, gli si toglierà per violenza una parte de' suoi Stati, lo si assicurerà che per violenza ne perderebbe altri, per violenza a niuno sarebbe permesso di dargli mano a riaverli, per violenza gli cambierebbero in mano lo scettro regale nella canna del Nazareno; e quand'egli non fosse stato pago della bella parte che gli riservavano, gli si farà capire senza gran giri che gli si toglierà a dirittura anche quella insultante finzione di sovranità, che per a tempo gli avrebbero di presente lasciata. Perché non sia umiliato, si comincia con sanzionare i richiami, veri o falsi che fossero, dei sudditi contro il Governo pontificio, con che il Papa resti rimpetto ai sudditi che gli si lasciano, con una promessa di meno ed una debolezza di più, in mezzo agli stessi nemici, agli stessi pericoli fatti più gravi; lo si mette nella posizione di un padre di famiglia, cui i figli fanno interdire come incapace, pagandogli una pensione, senza tribunale però che ve li costringa se mai qualcuno di essi negherà più tardi di pagare la sua parte. Si vuole da lui uno smembramento che non sarebbe una soluzione, ma bensì uno spediente, il quale non salva nulla e fa pericolare ogni cosa; gli s'impone un sacrificio, senza alcun guadagno, di diritti incontestabili e di principii capitali. Si esige da lui, nelle congiunture in cui la si pretende, una decadenza morale, cui ben tosto, vogliasi o no, terrebbe dietro una rovina compiuta ed inevitabile; infine gli si domanda un pegno, non d'ordine e di pace, ma di turbamento e di guerra. Perché non sia subordinato, perché sia indipendente, lo riducete a non essere padrone di nulla; ad essere, per vivere, alla discrezione di tutti. Alla discrezione de' suoi sudditi romani, se si ribellano; alla discrezione del Municipio, se il Papa gli viene in uggia; alla discrezione dell'esercito federale, il quale, se un bel dì la coscienza obbligasse il Papa a contrariare la Federazione, al primo segnale di questa lo metterà in Castel Sant'Angelo; alla discrezione della Francia e di tutte le Potenze che avessero con essa assunto l'obbligo di pagargli la pensione.

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Perché non sia dipendente, se ne fa tal principe che l'ultimo dei sagrestani è al presente ben più assai indipendente.

Per la prima volta si aveva avuto il coraggio di dire tutta intera la parola: Roma è l'essenziale, il resto non è che secondario; Roma coi giardini del Vaticano. Questa parola, pronunziata a fìor di labbro, la si sapeva, la si aspettava. Perocché, dice lepidamente l'imperiale autore del libello: A che servono per la grandezza del Sommo Pontefice le leghe quadrate? Ha forse bisogno di spazio per essere amato e venerato? Più il territorio sarà piccolo, più il sovrano sarà grande. A Roma il Papa regnerà, ben inteso di puro nome, il Comune governerà; così la Chiesa sarà più perfetta ed i Pontefici stessi saranno più santi. Il potere temporale dei Papa è riconosciuto legittimo, è proclamato indispensabile, ma non è possibile se non in quanto porti con sé la rinunzia all'esercizio dei doveri e dei diritti del sovrano; non è possibile se non qualora questo sovrano non tenga in piedi un esercito, non sia che imagine di governo senza codice e senza giustizia, senza giustizia che si trova eziandio nell'inferno, poiché dev'essere governo di padre, poiché deve stare immobile sulla sua pietra sacra. Napoleone I. aveva detto altresì: «11 potere temporale é d'impaccio al Papa;» lo impedisce di occuparsi della salute delle anime, che si perdo» no.» Si sa quel che avvenne. Quanto alla immobilità del Papa, se vi ha l'immobilità del termine che giammai non si muove, vi ha pure la gloriosa immobilità del sole fissato nel centro del mondo, che anima tutto, che tutto rischiara, e intorno al quale si compiono tutti i più splendidi movimenti, intorno al quale il mondò cammina, senza che la luce resti mai indietro; ecco l'imagine del oattolicismo (1).

Il Papa dev'essere sovrano, ma in tutte cose un sovrano sui generis; un sovrano senza esercito. Certamente che senza esercito durò molti secoli, e viveva allora molto onoratamente in Europa e nel mondo; oggidì però che i suoi nemici gli vogliono tutto rubato; e, soffocata ogni nozione del retto e dell'onesto, ogni arte ed ogni mezzo si usano per ispingerne a ribellione i sudditi o per invaderne armata mano i territorii, il diritto di legittima difesa gli si deve negare, negare di tenere un esercito,

(1) Dupanloup; Réponse à la brochure Le Pape et le Congrès.

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non per offendere, ma per ripararsi dalle offese e proteggere l'ordine pubblico. Starà a sua custodia l'esercito federale; burlesca proposizione in momento in cui da ognun si sapeva come la Confederazione, nata morta a Villafranca, era stata sepolta debitamente a Zurigo. L'esercito federale a Roma non altro voleva dire che i soldati di Re Vittorio Emanuele posti a guardia del Vaticano.

Provveduto alla milizia che a segno d'onore gli presenti l'arma quand'esca a passeggio, l'opuscolo conferiva al Papa, quanto al capitolo della pecunia, l'indipendenza del prigioniero. Per coronide del sistema, il Papato sarà salariato dall'Europa, come i curati dello Stato; un salariato che non può nemmeno cangiar padrone, indipendente quanto un gastaldo, un operaio, un famiglio, il quale, avendo da voi di che campare la vita e non lo potendo avere da altri che da voi, può da oggi a domani essere messo sul lastrico con niente più che negargli la consueta mercede. Il Papa sarà trasformato nel primo e grande impiegato del culto cattolico, a cui si potrà a un bisogno, in dato giorno ed in data congiuntura, negare il suo trimestre; un impiegato, il quale al primo atto della Caria romana che ad un Governo straniero non andasse a versi, alla prima pretensione a cui il Pontefice dovesse ricusarsi, si vedrebbe senza più negato ciò che gli si deve in quest'anno, e gettato in viso, a titolo d'ingratitudine, ciò che fu dato negli anni precedenti.

Poi, il Papa dovendo essere un sovrano affatto sui generis, era ben giusto dovesse avere sudditi che fossero essi medesimi investiti d'ogni carattere il più acconcio per costituirne una distinta specialità nel loro genere. Di Roma, infatti, fa una città a parte, una specie di smisurato cenobio o piuttosto un immenso asceterio, ove si rilega il Papa, come altre volte si rilegavano in qualche monastero i re imbecilli. Dei cittadini romani fa un popolo monaco, un popolo in cui non ci debbono essere né soldati, né magistratura, né codice, né giustizia, né stampa; un popolo sequestrato da tutti gl'interessi e da tutte le passioni che agitano gli altri, popolo unicamente dicto alla gloria di Dio, che non potrebbe perfezionare le sue istituzioni, partecipare al movimento delle idee, trar partito dalle conquiste delle scienze, né dai progressi dello spirito umano; un popolo che non avrebbe per sé se non la contemplazione, le arti, il culto delle grandi memorie e la preghiera.

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Ma se un bel giorno questo popolo di contemplativi e di antiquarii si stancasse d'essere per sempre «diseredato,» come l'autore diceva,» di quella nobile parte d'attività che in tutti i paesi è lo stimolo del patriottismo e l'esercizio legittimo delle facoltà dello spirito e delle facoltà superiori dell'indole»; se si annoiasse dell'immobilità e dell'inerzia cui lo si voleva condannato, dell'onore di poter dirsi cittadino romano; se un bel giorno, insomma, non volesse più saperne del Papa e di codesta nuova ed odiosa esistenza inventata per lui; allora s che lo si costringerà, perocché fu sentenziato: Roma non può sfuggire al suo destino, lo vuole Iddio!

L'assurdità delle dottrine non è pareggiata che dalla iniquità de' mezzi. Si dichiara che le Romagne sono un possedimento più che legittimo della Santa Sede, che si son ribellate contro il diritto legale e contro i Trattati, ed incontrastabile il diritto che ha il Papa di rivendicarle. Ma è per soggiungere, che la Romagna, essendo da alcuni mesi separata di fatto dall'autorità del Papa, questa separazione ha per sé l'autorità del fatto compiuto; e questa autorità è ammessa per giustificare la separazione della Romagna, come più tardi si ammetterà per l'Umbria e per le Marche, come più tardi si ammetterebbe per abbattere quel fantasma di sovranità lasciato infrattanto a Roma.

Ora la Francia non può intervenire, perché, afferma l'opuscolo, «non può vulnerare si gravemente la potenza morale del catolicismo, perché è già una disgrazia per la Chiesa, che la Francia abbia restituito Pio IX. a Roma.» L'Austria non può intervenire, perché la Francia impegnò bensì a Villafranca la sua solenne parola di riordinare l'Italia in unione all'Austria, ma, lacerato il Trattato di Zurigo prima ancora di sottoscriverlo, la Francia non poteva permettere qualsivoglia maniera d'ingerenza austriaca in Italia. Nessun'altra Potenza potrà intervenire, perché la Francia, questa figlia primogenita della Chiesa, non può permettere che il padre di duecento milioni di cattolici sia socr corso da veruno de' figliuoli secondogeniti, terzogeniti.

Cosi la Francia che si altamente protestava di volere conservato il Papa nell'integrità ed inviolabilità di tutti i suoi diritti, conduceva finalmente a tale, che non solo essa è obbligata a lasciare impunemente offendere questi diritti, ma obbligata eziandio

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d'impedire che alcuno accorra a difesa del diritto, che ha il padre d'invocare il soccorso dei figli. Le Romagne vanno perdute per una rivoluzione retta da un cugino dell'Imperatore dei Francesi, e la rivoluzione alzerà il capo a quel modo che si dirà, in quel giorno che si assegnerà; come più tardi l'Umbria e le Marche anderanno perdute pel Santo Padre coll'assenso dell'Imperatore de' Francesi. E l'Imperatore de' Francesi farà, dire e dirà che il territorio della Santa Sede non è indivisibile, quasiché vi potesse essere sulla terra un territorio indivisibile contro la forza brutale, quasiché si potesse dare una nazionalità, una sovranità, una proprietà qualsiasi, un campo, fosse pure quello di Nabot, che non sia divisibile di sua natura e per diritto del più forte.

Non resta adunque che l'onnipotenza del Congresso, a petto della debolezza del Santo Padre. Il Congresso, si dice, ha tutti i poteri; ma, ammesso pure, essere in possesso di tutti i poteri, non mai ciò volle significare di possedere eziandio tutti i diritti, e taluno può ben essere onnipotente, e commettere iniquità che la storia marchierà d'infamia. Riconosciuto che la ribellione della Romagna era una rivolta contro il diritto, era riconoscere che il fatto compiuto era ingiusto: ma chi è debole, come è il Papa, un fatto ingiusto può ben per violenza subire; chi é onnipotente, come il Congresso dell'Europa riunita, non può ammettere né riconoscere un fatto ingiusto senza disonorarsi. Nel 1815, si affermava, il Congresso di Vienna disponeva delle Romagne. È falso. Nel 1815 l'Europa usciva da un lungo soqquadro, da rivoluzioni, da guerre, da conquiste; essa intendeva di restituire i diritti violati. Le Romagne appartenevano al Papa, ed il Congresso di Vienna, cui la Prussia da principio proponeva di trasferire il Re di Sassonia a Bologna (1), non ne disponeva, le restituiva puramente e semplicemente al legittimo possessore. l'Europa, si diceva ancora, che ha potuto sacrificare l'Italia nel 1815, può con più ragione salvarla nel 1860. Così salvare l'Italia è liberarla dall'autorità del Papa!

Infrattanto, mentre si raffermavano le violenze e le usurpazioni condotte a buon fine, si poneva in risalto

(1) Histoire du Congrès de Vienne; Tom. II., pag. 218.

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il diritto che le popolazioni delle Romagne potevano avere di darsi ad un altro governo; si eccitavano le Marche a seguirne l'esempio, «separate da Roma dagli Appennini, dal carattere degli abitanti, da memorie storiche», né l'eccitamento si limitava a codeste province, ma si estendeva a tutto lo Stato pontificio, Roma sola eccettuata; si proclamava il Papa sotto l'incubo della minaccia incessante d'una rivoluzione e la Santa Sede riposante sopra un vulcano.

Come l'opuscolo Napoleone III. e l'Italia, veniva innanzi con affermare di voler parlare senza passione, per convincere, per conciliare. Protesta che parlerà spassionatamente, e ad ogni pie sospinto la passione lo travolge in proposizioni contraddette dalla storia, dalla logica, dal semplice senso comune. Vuoi conciliare, e comincia con dar causa vinta a una parte per deprimere l'altra; vuoi conciliare nell'interesse della religione, perché si dice cattolico sincero, e tratta nell'interesse della politica e di quella politica che è di tutte la pia funesta, la politica personale. E mentre l'opuscolo Napoleone III. e l'Italia poneva in vista una semplice riformazione del Papato, un anno solo di guerra e supremazia fortunata avea dato agio allo stesso autore di svelare l'intero programma, non già riformazione, ma trasformazione del Papato.

Per altre vie, con altri mezzi, si ripigliava l'opera del 1808 e del 1809. Allora il Papa veniva spogliato, strappato violentemente da Roma; ora, volendone fatto una specie d'idolo sordo, muto, incatenato, immobile nel centro di Roma, immobile sulla sua pietra sacra, non si trattava più di strapparlo per violenza dal Vaticano, ma di soffocarvelo. Allora si spogliava il Papa, dopo avergli scritto: «che se il Santo Padre è il sovrano di Roma, egli, Napoleone I., ne è però l'Imperatore; che se il Santo Padre deve essere a lui soggetto nel temporale, esso, l'Imperatore,» deve essere soggetto al Papa nello spirituale.» Nel 1809 il Papa era trascinato in Francia tra i gendarmi, nel 1860 si ammetteva che, prima di spogliare il Papa e metterlo sotto interdetto, bisognava rendergli omaggio, baciargli i piedi e legargli le mani, come diceva Voltaire. A quel tempo la Francia intavolava le questioni per troncarle essa medesima risolutamente da sé; di presente la Francia traeva in campo le questioni per farle risolvere

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violentemente da altri. Il primo Impero camminava in linea retta, usando della forza; il secondo per vie tortuose, armeggiando d'astuzia e d'ipocrisia.

Dappoiché, proclamato che Dio non esisteva, distrutti gli altari, sostituito il culto della Dea Ragione, Chaumette, nel presentare l'ignuda divinità alla Convenzione, avea gridato: Non più preti, non più altri numi, fuorché quelli che la natura ci fornisce (1); Napoleone Bonaparte avea sentito il bisogno di ripristinare nella Francia nuotante nell'ateismo il culto cattolico, ben comprendendo quanto fosse arduo reggere un popolo, che si credea liberato d'ogni dovere poiché era stato liberato di Dio. Allorché la benedizione del Papa eragli sembrata una necessità politica non men che una necessità religiosa, egli protestava: me faut le vrai Pape, catholique, apostolique et romain, celui qui siège au Vatican. Più tardi, prostrata a' suoi piedi l'Europa, questo Papa di cui avea detto a Cacault, nel marzo 1801: Traitez toujours avec le Pape comme s'il avait deux cent mille hommes derrière lui, gli pareva men utile e meno ancor necessario; ed eccolo a scrivere ad Eugenio Beauharnais, Viceré d'Italia:

«Dresda, 22 luglio 1807. Figlio mio. Nella lettera che Sua Santità ti ha indirizzato, che certamente non fu da lui scritta, ho veduto che il Papa mi minaccia. Crederebbe egli dunque che i diritti del trono siano meno sacri agli occhi di Dio cbequelli della tiara? l'erano dei Re prima che vi fossero Papi. Essi vogliono, dicono, pubblicare tutto il male, che io ho fatto alla religione. Stolti! non sanno che non vi è cantuccio nel mondo, in Alemagna, in Italia, in Polonia, ove io non abbia fatto molto più bene alla religione che il Papa non v'abbia fatto di male, non per cattive intenzioni, ma pei consigli irascibili di alcuni meschini che gli stanno intorno. Essi vogliono dinunziarmi alla cristianità: questo pensiero ridicolo non può appartenere che ad una profonda ignoranza del secolo in cui viviamo. V'è un errore di mille anni di data. Il Papa che trascorresse a tanto cesserebbe di essere Papa a' miei occhi;

(1) Le Moniteur universel, numero del 13 novembre 1793, pag. 215 (Edizione primitiva).

314 CAPITOLO VENTE8IM0SEST0.

» io non lo considererei che come l'Anticristo, mandato per mettere il mondo sossopra e far del male agli uomini, e ringrazierei Dio della sua impotenza. Se così fosse, io separerei i miei popoli da ogni comunicazione con Roma, e stabilirei tale Polizia che non si vedrebbero più correre intorno certi scritti misteriosi, né provocare quelle congreghe sotterranee che hanno afflitto alcune parti d'Italia, e che non erano state immaginalo te che per isgomentare le anime timorate.... Che può fare Pio VII., dinunziandoci alla cristianità? Porre l'interdetto sol mio trono, scomunicarmi? Crede egli che le armi cadranno allora dalle mani de' miei soldati? Pensa egli forse di mettere il pugnale nelle mani de' miei popoli per scannarmi? Non gli rimarrebbe allora altro che tentare di farmi tagliare i capelli e di rinchiudermi in un monastero.... Il Papa attuale si è datola pena di venirmi a incoronare a Parigi. Io ho riconosciuto in questo fatto un santo prelato, ma egli voleva che io gli cedessi le Legazioni; io non ho potuto né voluto farlo. Il Papa attuale

è troppo potente; i preti non sono fatti per governare

Perché il Papa non vuoi rendere a Cesare ciò che é di Cesare?È egli sulla terra più che Gesù Cristo? Forse il tempo non è lontano, se si vuoi continuare a turbare gli affari de' miei Stati, $ in cui io non riconoscerò il Papa che qual Vescovo di Roma eguale e allo stesso livello che i Vescovi de' miei Stati. Io non temerò di unire le chiese gallicana, italiana, alemanna, polacca, in un Concilio per fare gli affari senza il Papa. Di fatto, ciò che può salvare in un paese può salvare in altro; i diritti della tiara non sono in fondo che doveri, umiliarsi e pregare. Io tengo la corona da Dio e da' miei popoli. Io sarò sempre Carlomagno per la Corte di Roma, e non mai Luigi il Débonnaire.... Gesù Cristo non ha istituito un pellegrinaggio a Roma, come Maometto alla Mecca. Tali sono, figlio mio, i miei sentimenti. Io non vi autorizzo che a scrivere una sola lettera a Sua Santità per fargli conoscere che io non posso consentire che i Vescovi italiani vadano a cercare la loro istituzione a Roma.»

Pochi mesi appresso il 2 febbraio 1808, il francese generale Miollis, pretestando non voler che passare verso Napoli, entra in Roma, disarma la guardia pontificia, occupa Castel Sant'Angelo,

GUERRA AL PAPATO. 315

appunta dieci cannoni contro le finestre dell'appartamento dei Papa. Tornata vana ogni arte ed ogni violenza ad astringere per istancheggio il Papa a rinunciare alla potestà temporale e accontentarsi d'una pensione, qualificata di delitto la sua resistenza, il 6 luglio 1809, il giorno della vittoria di Wagram, un uomo tristo per costumi, scapestrato, irreligioso, il generale Radet, penetra nel Quirinale per trascinare prigioniero Pio VII. a Firenze, a Torino, a Savona, a Fontainebleau. Convertito lo Stato pontificio in uno spartimento francese, Napoleone I. rideva del Pontefice. «La sovranità, osservava dappoi il massone Proudhon (1), levandosi contro il Papato, cominciò da quel punto a correre alla sua rovina.»

Dallo scoglio inospitale, su cui doveva trovare la tomba, Napoleone, col cuore in palma di mano, svelava l'intento che si prefiggeva dopo divelto a forza da Roma il Pontefice (2): «Tutti i miei grandi proponimenti si erano compiuti sotto la finzione e il mistero. Io aveva condotte le cose a tal termine, che lo svolgimento era senza conati infallibile e naturalissimo. Quinci avanti io avrei innalzato il Papa fuor di misura, e circondatolo di pompa e d'omaggi. Ne avrei fatto un idolo. Sarebbe rimasto allato di me; Parigi sarebbe stata capitale del mondo cristiano, e io avrei diretto il mondo religioso come il politico. Avrei avute le mie sessioni religiose, come le mie sessioni legislative; le mie Consulte avrebbero rappresentata la cristianità, e i Papi non sarebbero stati che loro presidenti. Avrei aperte e chiuse coteste assemblee, approvate e promulgate le loro decisioni. Se questa supremazia è sfuggita di pugno agl'Imperatori, ciò è stato perché erano trascorsi nello sbaglio di lasciare che i capi spirituali risiedessero da lor lontano. Ma, per giungere a quel punto, m'era stato uopo di molta desterità, di mascherare sopra tutto il mio vero pensiero, e di sviare l'opinione; porgendo alla pubblica pastura certi volgari balocchi, per meglio occultarle la rilevanza e la profondità dello scopo segreto. Che non si sarebbe fatto per antivenirmi se mi avessero penetrato a tempo l'E in verità, che impero oggimai sarebbe

(1) Confessione d'un révolutionnaire, § 19.

(2) Mémorial de SainteHélène, Tom, II, pag. 118.


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316 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» stato il mio in tutti i paesi cattolici! E che influenza ancora su di quelli che non sono tali, con l'aiuto dei membri di cotesta religione che vi sono disseminati!» Così egli faceva gran lame alla sentenza di Pio VII., che nella Bolla di scomunica dei 10 giugno 1809 avea definito il suo persecutore: «Colui il quale si era mostrato amico della Chiesa e si era collegato cogli empi, a solo fine di distruggerla affatto e di tradirla più facilmente; ed avea simulato di proteggerla, a fine di opprimerla con più sicurezza.»

Appena chiamato a reggere i destini della Francia, Carlo Luigi Bonaparte prova a sua volta il bisogno delle benedizioni di questo Papa, che furono i secoli che lo hanno fatto, e io hanno benfatto (1); e Pio IX. è ricondotto a Roma dalle armi francesi. Scorsero dieci anni. Carlo Luigi Bonaparte aveva potuto nel frattempo cingere la corona balzata dalla fronte dello zio. Ricollocata la Francia in posizione superiore, stendendo la sua influenza su tutta Europa, in misura mai raggiunta dacché era caduto il primo Impero, non diversamente a Napoleone III. sembrò men necessario quell'appoggio, che pur eragli stato sì utile per insediarsi Presidente e Imperatore.

L'opuscolo Papa è il Congresso, era appena venuto in luce, e nello stesso dì che a Parigi diffuso in gran numero di copie a Torino, a Milano, a Firenze, a Bologna, che l'Imperatore dei Francesi scriveva a Pio IX:

«Beatissimo Padre. La lettera, che Vostra Santità si compiacque scrivermi il 2 dicembre (2), mi toccò vivamente e risponderò con intera franchezza all'appello fatto alla mia lealtà. Una delle mie più vive preoccupazioni, durante e dopo la guerra, è stata la condizione degli Stati della Chiesa, e certo, fra le potenti ragioni che m'impegnarono a fare sì prontamente la pace, bisogna annoverare il timore di vedere la rivoluzione prendere tutti i giorni più grande svolgimento.

(1)

Thiers; Le Consulat et l'Empire.

(2)

La lettera del Papa diceva: come principe legittimo, e più presto custode che padrone del suo Stato, non poter esporre la sua dignità ad essere offesa in un Congresso con una discussione sui suoi diritti;rispetto a modificazioni, riforme, perdono, quanto potesse farsi giustamente e onestamente, si farebbe.

GUERRA AL PAPATO. 317

» I fatti hanno una logica inesorabile, e nonostante la mia devozione alla Santa Sede, io non poteva sfuggire ad una certa solidarietà cogli effetti del movimento nazionale, eccitato in Italia dalla lotta contro l'Austria. Conclusa una volta la pace, io mi affrettai di scrivere a Vostra Santità per sottometterle le idee più atte, secondo me, a produrre la pacificazione delle Romagne; e credo ancora che, se fin d'allora Vostra Santità avesse consentito aduna separazione amministrativa di quelle province ed alla nomina di un governatore laico, esse sarebbero tornate sotto la sua autorità. Sventuratamente ciò non avvenne, ed io mi sono trovato impotente ad arrestare lo stabilimento del nuovo governo. I miei sforzi non hanno potuto che impedire all'insurrezione di estendersi, e la dimissione di Garibaldi ha preservato le Marche d'Ancona da una invasione certa.

Ora il Congresso è per adunarsi. Le Potenze non potrebbero disconoscere gl'incontrastabili diritti della Santa Sede sulle Legazioni: nondimeno è probabile che esse saranno d'avviso di non ricorrere alla violenza per sottometterle. Poiché, se questa sommissione si ottenesse coll'aiuto di forze straniere, bisognerebbe ancora occupare le Legazioni militarmente per lungo tempo. Questa occupazione manterrebbe gli odii e i rancori di una gran parte del popolo italiano, come la gelosia delle grandi Potenze. Sarebbe dunque un perpetuare uno stato d'irritazione, di malessere e di timore. Che resta dunque da fare?, poiché finalmente questa incertezza non può durar sempre. Dopo un serio esame delle difficoltà e de' pericoli che le diverse combinazioni presentavano, lo dico con sincero rammarico, e per quanto sia penosa la soluzione, quello che mi parrebbe più. conforme ai veri interessi della Santa Sede, sarebbe di fare un sacrificio delle province ribellate. Se il Santo Padre, per il riposo dell'Europa, rinunziasse a quelle province che da cinquant'anni suscitano tanti impicci al suo governo, e se in cambio domandasse alle Potenze di guarentirle il possesso del resto, io non dubito dell'immediato ritorno dell'ordine. Allora il Santo Padre assicurerebbe all'Italia riconoscente la pace per lunghi anni, ed alla Santa Sede il pacifico possesso degli Stati della Chiesa.

Vostra Santità, mi piace crederlo, farà giusta ragione dei sentimenti che mi animano; comprenderà la difficoltà dei mio

318 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» stato; interpreterà con benevolenza la franchezza del mio linguaggio, ricordandosi di tutto ciò che ho fatto per la religione cattolica e per il suo augusto Capo. Io ho espresso senza riserva tutto il mio pensiero e lo ho creduto necessario avanti il Congresso. Ma prego Vostra Santità, qualunque siasi la sua decisione, di credere che essa non muterà in nulla la linea di condotta che io ho sempre tenuta verso di lei. Ringraziando Vostra Santità dell'apostolica benedizione, che ha mandata all'Imperatrice, al Principe imperiale e a me, io le rinnovo la protesta della mia profonda venerazione. Palazzo delle Tuileries, 31 dicembre 1859. Di Vostra Santità, Vostro figlio devoto Napoleone.»

II giorno appresso, primo dell'anno, Pio IX., ricevendo le felicitazioni degli ufficiali francesi in Roma, diceva al generale' Govon: «Che Iddio benedica voi, questa parte, e con essa tutta l'Armata francese; benedica tutte le classi di quella generosa nazione. Nella umiltà del nostro cuore lo preghiamo a voler far discendere copiose le sue grazie e i suoi lumi sul Capo Augusto di quell'Armata o di quella nazione, affinché colla scorta di questi lumi possa camminare sicuro nel suo difficile sentiero, e riconoscere ancora la falsità di certi principii che sono comparsi in questi stessi giorni in un opuscolo (2), che può definirsi un monumento insigne d'ipocrisia ed un ignobile quadro di contraddizioni. Speriamo che coll'aiuto di questi lumi:no, diremo meglio, siamo persuasi che coll'aiuto di questi lumi egli condannerà i principii contenuti in quell'opuscolo; e tantopiù ce ne convinciamo, in quanto che possediamo alcune pezze, che tempo addietro la Maestà Sua ebbe la bontà di farci avere, le quali sono una vera condanna dei nominati principii.»

L'autore imperiale dell'opuscolo, «monumento insigne d'ipocrisia ed ignobile quadro di contraddizioni,» si risenti vivamente della condanna si meritata e solenne. «Quella allocuzione», faceva rispondere dalla ufficiale effemeride del suo Governo (1),» non sarebbe forse stata pronunziata, se Sua Santità avesse già ricevuta la lettera che l'Imperatore le indirizzò il 31 dicembre»; e la stampò. La lettera napoleonica però doveva essere stata spedita per qualche Diligenza stracca,

(1) Il Papa e il Congresso.

(2) Le Moniteur Universel, numero del 9 gennaio 1860.

GUERRA AL PAPATO. 319

perché non giunse in Roma che il 7 a sera; per solito non impiegava la metà. Anche a Roma la lettera col commento del Moniteur commosse vivamente; commosse che i sovrani inserissero le loro lettere nelle gazzette, commosse che si dicesse al Papa: Se avessi avuto la lettera, non avresti fatto il discorso. Perché, lasciate da parte le riflessioni sul tuono singolare dello scritto, qui si diceva: L'allocuzione condannò l'opuscolo perché lo credette un'atroce offesa, non solo al Papato, ma al Cristianesimo. La lettera non rigettava né condannava l'opuscolo, il quale restava quello che era; solamente che la lettera era meno avara del libro. Essa non toglieva al Papa che le Romagne, mentre il libro non gli lasciava propriamente nulla, o tutto al più la presidenza onoraria del Municipio di Roma, probabilmente a compenso di quell'altra presidenza onoraria della Confederazione italiana, della quale erasi parlato un momento a Villafranca, e che era andata in dileguo con altrettanta prestezza. Napoleone III. aveva atteso ventinove giorni a rispondere alla lettera papale del 2 dicembre. Pio IX. tardò tre soli giorni la sua risposta alla lettera imperiale del 31 dicembre; e scrisse: «Alla separazione delle Romagne sotto un governatore laico e indipendente non aversi potuto consentire, perché equivaleva a perdere quelle province. Esservi stati invero due o tre rivolgimenti nelle Romagne dal 1815 in poi, ma la causa tutte e tre le volte essere evidentemente venuta dal di fuori. Se un paese dovesse smembrarsi o un Governo sopprimersi per causa delle rivoluzioni, che v' insorgono, l'argomento potrebbe ritorcersi con molto maggior forza contro un altro paese, dove dal 1789 in poi Governo e dinastie furono tante volte rimutati da potersi contare almeno dieci rivoluzioni in piena regola. Il Papa aver seguito allora, e seguire adesso, i dettami della coscienza, l'obbligo de' suoi giuramenti, e il consiglio degli uomini venerandi che sotto di lui governano la Chiesa. Del resto rimettere la sua sorte nelle mani di quel Dio dal quale dovranno un giorno entrambi essere giudicati.» Rispettando certi usi vecchi, mandò la lettera senza manifestare al pubblico altro che poche e necessario parole nel diario ufficiale (1), parole che dovea a sé stesso

(1) Giornale di Roma, numero del 17 gennaio 1860.

320 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

ed al mondo cattolico: non potere in coscienza aderire alla proposta.»

All'opuscolo Il Papa e il Congresso, alla lettera imperiale del 31 dicembre, Pio IX. contrappose il 19 gennaio del 1860, un'ammirabile Enciclica ai Vescovi della Cattolicità. L'Enciclica, giunta a Parigi nel 28, il mattino appresso era già pubblicata nel giornale l'Univers. E quantunque né il divieto di pubblicare le lettere dei Vescovi potesse ragionevolmente credersi esteso alle Encicliche, né quelle qualunque siansi leggi, che diconsi vietare in Francia le pubblicazioni delle Bolle pontificie, facessero punto menzione delle Encicliche, bastò il fatto che l'Uniters stampò quel documento ventiquattr'ore prima d'ogni altro giornale, perché il Ministro dell'Interno proponesse nel giorno medesimo e nello stesso dì l'Imperatore decretasse la soppressione di quel periodico, accusato «d'essersi fatto organo di un partito religioso, le cui pretensioni sono tutti i giorni sempre più in opposizione coi diritti dello Stato;di tendere con isforzi incessanti a dominare il clero francese, a turbare le coscienze, ad agitare il paese, a scuotere le basi fondamentali sulle quali sono stabilite le relazioni fra la Chiesa e la società civile; di fare guerra aperta alle più antiche tradizioni nazionali e pericolosa alla religione medesima». Altre gazzette ebbero severi avvertimenti; e intanto sotto colore che «si organizzava in Francia un'agitazione politica sotto pretesto di religione,» si raffermava il bavaglio al giornalismo cattolico, mentre lasciavasi a' contrarii ogni maggiore larghezza di dire tutto dì quanto lor meglio andasse a grado.

Il 26 dello stesso mese Napoleone III. diceva a monsignor Sacconi, Nunzio apostolico in Parigi: «Alcuno non dubita dei diritti del Santo Padre; ma la questione non é mica questa. Noi dobbiamo risolvere una questione di fatto, che presenta difficoltà insormontabili. La posizione della Francia é circondata di spine, é. spinosissima. Il Papa non può essere instaurato in Romagna e restarvi, che per mezzo di una intervenzione straniera. Noi non possiamo permettere ciò. Noi difenderemo sempre i diritti del Papato, ma nei limiti del possibile. Noi manterremo le truppe francesi a Roma sino all'accomodamento generale delle cose, e non permetteremo nessun attentato da chicchessia contro il Pontificato.»

GUERRA AL PAPATO. 321

- Monsignor Sacconi interruppe l'imperiale interlocutore per osservare che il ritorno del conte di Cavour al Ministero significava annessione. - L'intervento francese, esclamò con veemenza Napoleone, non ammette l'annessione. Noi abbiamo 60, 000 soldati in Italia per impedire le avventatezze. L'interesse della Francia, come quello del Papa e di Napoli, è di creare nell'Italia centrale un regno forte sulle basi dell'ordine e della conservazione, e con quegli elementi formare una Confederazione italiana. Ecco per conseguenza la necessità di un Congresso. Se non ha luogo, il Piemonte solamente e la rivoluzione ne profitteranno. - Al Nunzio del Papa Napoleone III. parlava ancora di Congresso, al Papa in Roma faceva parlare sempre di Congresso, come di panacea universale che doveva accomodar tutto; e lo stesso Napoleone, al ricevimento serale del primo gennaio alle Tuileries, avea detto ad alta voce tra mezzo un crocchio di diplomatici esteri: «II Congresso non» avrà luogo, il che infine non è una disgrazia; egli avrebbe pre» giudicati i diritti d'Italia. È forse meglio lasciare le cose come» sono, ed aspettare gli avvenimenti.» A Roma il 27 gennaio, il duca di Gramont, Ambasciatore francese, diceva al Cardinale Antonelli: «La resistenza assoluta mena diritto all'annessione dell'Italia centrale al Piemonte, ed imbarazza la Francia. La Francia non la vuole. Ma la lotta di opposti principii, che questo fatto suscita, la mette nella necessità di ritirare le sue truppe e lasciare l'Italia fare da sé. È ciò che precisamente domanda Cavour. L'Europa, qual oggi è composta, ammette i fatti compiuti; Cavour va a Parigi, offre la Savoia. La Francia col nuovo Regno che sorge alle sue frontiere, deve avere la frontiera sua, le Alpi. Conciliandosi, le cose cangiano. Un Regno nell'Italia centrale, dato all'Arciduca Ferdinando, col Vicariato delle Romagne, concilia tutto. Un Congresso europeo lo consacra ed il Pontificato resta guarentito.» - Antonelli ha risposto: Non mai I - Ma Roma, continuava Gramont, riconobbe il Belgio e la Repubblica francese. - Per salvare la religione, replicò il Cardinale. Nel caso attuale il diritto della Santa Sede è attaccato direttamente e non può pregiudicarsi. - Che fare allora?, domandò Gramont. - Antonelli ha ricusato di pronunciarsi.

L'Enciclica del Santo Padre eccitò in tutto il mondo cattolico vivissima impressione:

322 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

né il Governo francese potea non darsene pensiero. A mitigarne, s'era possibile, l'effetto, il Ministro degli affari stranieri in Francia scrisse due lettere: l'una circolare ai rappresentanti francesi al? estero (2); l'altra speciale all'Ambasciatore di Francia in Roma (1). L'uno e l'altro documento, e pia forse il secondo, si studiavano di mostrare come la rivolta delle Romagne, originatasi dalla mala contentezza dei popoli, né potutasi acquetare per la mediazione dell'Imperatore Napoleone, non potesse avere altro rimedio che o nuove occupazioni straniere, o smembramenti. Doversi determinare le cagioni del male, ed a chi debba incomberne la responsabilità. Se la Santa Sede perdette le Romagne, la colpa esserne stata tutta dell'Austria; i fatti compiutisi dopo la partenza degli Austriaci erano inevitabili, né potersi imputare alla Francia quella sollevazione. Roma essersi lasciata sfuggire tutte le occasioni di ricongiungersi alle Legazioni: né avere voluto accogliere i consigli dell'Imperatore Napoleone di accordare il Vicariato. Se il Papa anche al presente volesse assolutamente rifiutarsi ad assentire alle imperiali proposte, non farebbe che peggiorare sempre più la sua condizione. Lamentandosi che la quistione fosse stata tramutata di politica in religiosa, lasciavasi travedere che, quantunque tardi, pure ci fosse ancor luogo a componimento: il Vicariato. In sostanza si diceva al Papa: la vostra politica é irragionevole; la vostra ostinazione, a non sanzionare per Trattato la perdita dei territorii carpitivi per violenza, vi farà perdere il resto; che se sarete alfìn ragionevole, solamente in tal caso vi sarà fatto di potere ritardare alquanto la perdita del rimanente.

Alle gravi imputazioni rispondeva il Governo della Santa Sede con un documento (3), nelle condizioni de' tempi rimasto un argomento di più a dimostrare, che non sempre chi ha minori le forze, ha ancora minori le ragioni. «Da quel che si vuoi far in ultimo, disse, s'intende bene quel che si voleva fare fin da principio; e furono di lunga mano prevedute ed apparecchiate quelle medesime difficoltà, che si dicono ora insormontabili e fuori d'ogni previsione.

(1)

Dispaccio del Ministro Thouvenel, dell'8 febbraio 1860.

(2)

Dispaccio del Ministro Thouvenel, del 12 febbraio 1860.

(3)

Dispaccio del Cardinale Antonelli, Segretario di Stato, al Nunzio pontificio in Parigi, del 29 febbraio 1860.

GUERRA AL PAPATO. 323

» Rispetto a' mezzi più adatti a restituire al Papa, secondo le fatte dichiarazioni, la integrità del Patrimonio della Chiesa, il passato aver molte rimembranze che possono appianare la via a conseguirlo, il presente non avere che negative di aiuti efficaci, difficoltà opposte a chiunque volesse apprestarne, indugii pregiudicevoli, consigli di sommissione a chi anticipatamente si sa non volersi sottomettere, proposte di riforme che il Santo Padre ha dovuto ponderare innanzi a Dio prima di accoglierle, disegni infine di parziale abdicazione che al Pontefice non era dato in modo alcuno di ammettere.

» Il dispaccio del Governo francese fondarsi principalmente sopra questo partito preso, come esso dice, di rifiutare ogni accomodamento. Non trattandosi di una popolazione, ma bensì di un partito, che di quella parola di riforme si valse sempre e si vale per venire a capo de' suoi disegni, considerare qual triste influenza debba avere il sapersi da quel partito, eh esso ha per sé Potenze estere, le quali si fanno sostenitrici de' suoi richiami ed appoggio poderoso a volerli soddisfatti. Con uomini, i quali han dichiarato altamente che nessuna riforma può contentarli, se non sia la piena ed assoluta distruzione del potere temporale della Chiesa, come mai possibile venire a componimento pervia di riforme? Nullameno il Santo Padre non essere stato inaccessibile alla proposta di riforme recate innanzi dal Governo di Francia; e delle pratiche condotte in Roma tra il Governo pontificio e l'Ambasciatore francese, e delle cose stabilite, l'Imperiale Governo essere rimasto soddisfatto (1). Se le proposte dell'Imperatore Napoleone, prima del Vicariato nelle Romagne, poi della rinunzia a queste province, non aveansi potuto accogliere dal Pontefice, l'Enciclica non aver fatto che assegnare le ragioni, per cui il Santo Padre aveva dovuto rifiutare quelle proposte. L'Enciclica, non confondendo punto la questione politica colla religiosa, distinguere bene l'una dall'altra. Che se torna incomodo e spiacevole ai nemici della Santa Sede il sentimento che da un capo all'altro del mondo si è destato in suo favore, il Pontefice aver ragione di benedirne la Provvidenza

(1) Dispaccio del Nunzio pontificio in Parigi al Cardinale Antonelli, del 13 ottobre 1859, N. 1367.

324 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» Del rimanente essere il Santo Padre fermi esimo in sostenere» coll'aiuto di Dio i diritti del patrimonio della cattolica Chiesa,» qualunque siano per essere le aggressioni de' suoi avversarii,» qualunque le opposizioni che sventuratamente volessero farsi» contro di lui nelle attuali vicende.»

Anche sul cammino de dolori, come già lo era stato pe' suoi generosi disegni, Pio IX. era ornai molto vicino a Pio VII. Mentre da Parigi si stringeva senza posa il Pontefice colle pretensioni, da Torino, dando di spalla nel chiedere il Vicariato non pia per le sole Romagne, ma per le Marche e l'Umbria eziandio, si cominciava già ad apprestare di lontano la via ad altre violenze ed altre usurpazioni. Allorquando pareva che il Congresso stesse per adunarsi, Pio IX. aveva scritto a Vittorio Binarmele (1) per impegnarlo a sostenere innanzi al Congresso i diritti della Santa Sede. Dopo due mesi, il Re sabaudo rispose (2): «Il Santo Padre, nell'invocare la sua cooperazione per la ricuperazione delle Romagne, parere voler dargli carico di quanto è succeduto in quella parte d'Italia, Figlio devoto della Chiesa, discendente di stirpe religiosissima, aver sempre nutrito sensi di sincero attaccamento, di venerazione e di rispetto verso la Santa Chiesa e l'augusto suo Capo. Non essere, stata mai e non essere sua intenzione di mancare a' suoi doveri di principe cattolico, e di menomare, per quanto è in sé, quei diritti e quell'autorità che la Santa Sede esercita sulla terra per divino mandato del cielo. Ma egli pure avere sacri doveri da compiere. Le Legazioni, sollevatesi appena ritirati gli Austriaci, avergli offerto il loro concorso alla guerra e la dittatura; ed egli, che nulla avea fatto per promuovere l'insurrezione, aver rifiutato la dittatura per rispetto alla Santa Sede, accettato il solo concorso alla guerra. Cessata questa, essere cessata ogni ingerenza del suo governo nelle Legazioni. E quando la presenza di un audace generale poteva mettere in pericolo la sorte delle province occupate dalle truppe pontificie, aver egli adoperata la sua influenza per allontanarlo da quelle contrade (3).

(1)

Lettera del Santo Padre al Re di Sardegna, del 3 dicembre 1859.

(2)

Lettera del Re di Sardegna al Santo Padre, del 6 febbraio 1860.

(3)

Veggasi il Capitolo ventesimoquinto a pagina 289.

GUERRA AL PAPATO. 325

«Quei popoli, rimasti pienamente liberi, non sottoposti a veruna influenza estera, aver richiesto con mirabile spontaneità ed unanimità la loro annessione al suo regno. Questi voti non essere stati esauditi. Aver egli avuto cura di verificare essere ora nelle Legazioni i ministri del culto rispettati e protetti, i templi di Dio più frequentati ohe non lo fossero prima. Essere però convinzione generale che il Governo della Santa Sede non potrebbe ricuperare quelle province se non colla forza delle armi, e delle armi altrui. Ciò il Santo Padre non poter volerlo; l'interesse della religione non richiederlo. Non toccare a Ini ad indicare la via più sicura per ridare la quiete alla patria, e ristabilire sopra salde basi il prestigio e l'autorità della Santa Sede in Italia. Tuttavia credersi in debito di manifestare e sottoporre al Santo Padre un'idea di cui egli è pienamente convinto. «Ove Vostra Santità, prese in considerazione le necessità dei tempi, credesse richiedere il mio franco e leale concorso, vi sarebbe modo di stabilire non solo nelle Romagne, ma altresì nelle Marche e nell'Umbria, tale tino stato di cose, che, serbato alla Chiesa l'alto suo dominio ed assicurando al supremo Pontefice un posto glorioso a capo dell'italiana nazione, farebbe partecipare i popoli di quelle province dei benefizii, che un regno forte assicura alla massima parte dell'Italia centrale. Sperare che il Santo Padre vorrà prendere in benigna contemplazione questi riflessi, dettati da animo pienamente a lei devoto e sincero, e che con la solita sua bontà vorrà accordargli la santa sua benedizione.»

Era una nuova edizione di una vecchia storia, la storia di Nabot (1). Nabot avea una sua vigna che piaceva al Re Acab, il quale, volendo annetterla alle altre sue possessioni, parlò al proprietario così: «Dammi la tua vigna, acciocché io ne faccia un orto da erba, perciocché essa è vicina alla mia casa, ed io te ne darò in cambio una migliore, ovvero, se ti aggrada, io ti darò danaro per lo prezzo di essa». Acab trovava che la vigna abbisognava di riforme indispensabili, e che era necessaria per la unità dei suoi possessi. Non si sa che gli offerisse Paltò dominio; ma, se fosse stato consigliato bene, con tutta probabilità gli avrebbe offerto anche questo. Nabot rispose:

(1) Libro III. dei Re, al Capo ventesimoprimo.

326 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» «Tolga il Signore da me che io ti dia l'eredità de miei padri»; e non voi? le risponder altro. Acab non avrebbe forse insistito; ma ci era Iezabella che fece con Acab ciò che fauno anche a nostri tempi certi amici i più generosi e i più disinteressati, certi servitori servili, i quali mostrano di non intendere come possa darsi al mondo chi osi trovare poco savio o poco onesto ciò che vuole il loro padrone. Iezabella adunque tanto fece che Acab ebbe la vigna e Nabot la morte, essendosi trovato subito chi giurò che Nabot aveva bestemmiato Dio e il Re, il che bastò all'uopo. Ma se ci fosse stato bisogno di rivoluzioni nella vigna, di documenti autentici del mal governo di Nabot, di clamori universali degli organi della pubblica opinione, i giornalisti d'allora, contro Nabot, ed anche di suffragio universale e di libere votazioni unanimi, è probabilissimo che Iezabella avrebbe avuto modo di ottenere ogni cosa; come è probabilissimo che un qualche grande giornale, esempligrazia, un Constitutionnel (1) d'allora, ovvero un qualche grande congiunto di Acab e di Iezabella avrebbe scritto o detto: «Le colpe successive di Nabot hanno resa necessaria» l'annessione della sua vigna ai possedimenti di Acab.»

Invero, ciò che solo importava si era il porre in sodo che, se il Papa era stato derubato del suo, ciò era avvenuto per colpa sua; onde poter in breve soggiungere; «nuove colpe della Santa Sede le attirarono nuove disgrazie.» Storia vecchia anche questa, vecchia di molti secoli, vecchia quanto la buon'anima di Esopo. Esopo narrava come il lupo voleva mangiarsi l'agnello, ed andava cercando ragioni. E poiché il lupo volle ragionare, ragionò da lupo, e trovò che l'agnello aveva voluto turbargli l'acqua, n on sappiam bene se d'innanzi o di dietro, ma certo aven voluto offenderlo. Or non essendo parata buona all'agnello questa ragione, il lupo ne trovò subito un'altra, e finì col divorare l'agnello, siccome avea stabilito di fare prima ancora di aver pensato alle ragioni che poi avrebbe allegate. Moltissimi però pensarono che il lupo avrebbe fatto meglio a non allegare ragioni false; perché così al delitto dell'agnicidio, non avrebbe aggiunto anche quello dell'aperta menzogna e dell'ignobile ipocrisia.

(1) Constitutionnel, numeri del 10 ed 11 aprile 1860.

GUERRA AL PAPATO. 327

Alla lettera di Re Vittorio Emanuele Pio IX. rispose presso a poco come avea risposto Nabot: «Tolga il Signore da me che io ti dia l'eredità de' miei padri»: e, come Acab, non volle rispondere altro. Scrisse pochissime parole (1): «L'idea, che Vostra Maestà ha pensato di manifestarmi, è un'idea non savia e certamente non degna di un Re cattolico e di un della Casa di Savoia. La mia risposta è già consegnata alle stampe nella Enciclica all'Episcopato cattolico, che facilmente ella potrà leggere. Del resto, sono afflittissimo, non per me, ma per Vostra Maestà, trovandosi illaquesta dalle censure e da quelle che maggiormente la colpiranno, dopo che sarà consumato l'atto sacrilego ch'ella co' suoi hanno intenzione di mettere in pratica. Prego di tutto cuore il Signore affinché la illumini e le dia grazia di conoscere e piangere e gli scandali dati e i maligravissimi da lei procurati, colla sua cooperazione, a questa povera Italia.»

Vittorio Emanuele fece quel che avea fatto Acab d'accordo con Iezabella: entrò senz'altre cerimonie nella vigna, e disse al suo Nabot: «Poiché io posi piede nella tua vigna, e tu non sei in forza da cacciarmene fuori, sii ragionevole. Accetta il danaro che ti darò per lo prezzo di essa, altrimenti e perderai tutta la vigna e non avrai neppure il danaro. Concertati col mio fattore, il quale dal canto suo non pretermetterà né studio né diligenza alcuna per raggiungere il desiderato intento.» Scrisse adunque al Papa (2): «Gli avvenimenti che si sono compiuti nelle Romagne m'impongono il dovere di esporre a Vostra Santità con rispettosa franchezza le ragioni della mia condotta. Dieci anni continui di occupazione straniera nelle Romagne non avevano potuto dare né ordine alla società, né riposo ai popoli, né autorità al Governo. Cessata l'occupazione, cadde il Governo senza che nessuno si adoperasse per sorreggerlo o ristabilirlo. Ma le incertezze d'uno stato precario, già troppo prolungato, erano un pericolo per l'Italia e per l'Europa. Riconfermata la deliberazione per l'annessione alla monarchia del Piemonte, io doveva per la pace ed il bene d'Italia accettarla definitivamente.

(1)

Lettera del Santo Padre al Re di Sardegna, del 14 febbraio 1860.

(2)

Lettera del Re di Sardegna al Santo Padre, del 30 marzo 1860.

328 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

Ma, per lo stesso fine della pace, sono pur sempre disposto a rendere omaggio all'alta sovranità della Sede apostolica. Principe cattolico, io sento di non recare offesa ai principii immutabili di quella religione, che mi glorio di professare con filiale ed inalterabile ossequio. Le difficoltà, che oggi s'incontrano, versano in? torno ad un modo di dominio territoriale, che la forza degli eventi ha reso necessario. In siffatte modificazioni della sovranità la civile ragione di Stato prescrive che si adoperi ogni cura per conciliare gli antichi diritti coi nuovi ordini; ed è per ciò che, confidando nella carità e nel senno di Vostra Beatitudine, io la prego ad agevolare questo compito al mio Governo, il quale dal canto suo non pretermetterà né studio, né diligenza alcuna per rag» giungere il desiderato intento. Ove pertanto la Santità Vostra accogliesse con benignità la presente apertura di negoziati, il mio Governo, pronto a rendere omaggio all'alta sovranità della Sede apostolica, sarebbe pure disposto a sopperire in equa misura alla diminuzione delle rendite, ed a concorrere alla sicurezza ed all'indipendenza del Seggio apostolico. Tali sono le mie sincere intenzioni. Ed ora che con leali, parole ho aperto l'animo mio a Vostra Santità, aspetterò le sue deliberazioni colla speranza che, mediante il buon volere dei due Governi, sia effettuabile un accordo. Dalla mansuetudine del Padre dei Fedeli io mi riprometto un benevolo accoglimento, il quale dia fondata speranza di spegnere la civile discordia, di pacificare gli animi esasperati, risparmiando a tutti la grave responsabilità dei mali che potrebbero derivare da' contrarii consigli In questa fiduciosa aspettativa io chieggo con riverenza alla Santità Vostra l'apostolica benedizione.»

Vecchia storia ancor questa, la storia di Voltaire: baciargli i piedi e legargli le mani; la storia del generale Bonaparte al tempo del Direttorio. Vincitore dell'esercito romano a Senio, Bonaparte mandò a dire a Pio VI. ch'egii non veniva a distruggere né la Religione né la Santa Sede, ma che voleva solamente allontanare i cattivi consiglieri di cui il Papa era attorniato. Pare che allora i cattivi consiglieri del Papa si fossero tutti ragunati nelle Legazioni, giacché il Papa fu costretto, dall'allontanatore de' suoi cattivi consiglieri, di allontanare da sé le Legazioni, secondo che dice l'articolo VII. del Trattato di Tolentino.

GUERRA AL PAPATO. 329

Allontanando dal Papa le Legazioni, pareva che Bonaparte avesse allontanato un numero sufficiente di cattivi consiglieri. Pure, Tanno seguente, «nuove colpe della Santa Sede le attirarono nuove disgrazie;» la Santa Sede perdette tutti i suoi Stati. Questo allontanamento di tutti i cattivi consiglieri del Papa in una volta era spiegato da ciò che il Bonaparte scriveva al Direttorio il 1.° Ventoso dell'anno V» (1). S'intende da sé che, di fatti storici somigliantissimi, non vi dev'essere diversa spiegazione. Pio IX., come Pio VI., come Pio VII., era circondato da cattivi consiglieri, e non si trovava altro mezzo di farlo consigliar bene, fuorché quello che si adoperava. Cosi nuove colpe della Santa Sede le attireranno nuove disgrazie, e dopo le Romagne si allontaneranno da Pio IX. le Marche, e l'Umbria, ed il resto.

Alla nuova profferta del suo Acab il Nabot tre volte santo replicava (2): «Potrei dire a Vostra Maestà che il supposto suffragio universale fu imposto, non spontaneo. Potrei dirle che le truppe pontificie furono impedite dal ristabilire il Governo legittimo nelle province insorte per motivi noti anche a Vostra Maesta. Maggiormente m'impone l'obbligo di non aderire ai pensieri di Vostra Maestà il vedere gli insulti che in quelle province si fanno alla religione ed a' buoi ministri; per Cui quando anche non fossi tenuto da giuramenti solenni di mantenere intatto il patrimonio della Chiesa, e che mi vietano di aprire qualunque trattativa per diminuirne la estensione, mi troverei obbligato a rifiutare ogni progetto, per non macchiare la mia coscienza con una adesione che condurrebbe a sanzionare indirettamente quei disordini, e concorrerebbe niente meno che a giustificare uno spoglio ingiusto e violento. Non Bolo non posso fare benevolo accoglimento ai progetti di Vostra Maestà, ma protesto invece contro l'usurpazione che si consuma a danno dello Stato della Chiesa. Sono persuaso che la Maestà Vostra, rileggendo con animo più tranquillo, meno prevenuto e meglio istruito dei fatti, lettera che mi ha diretta, vi troverà molti motivi di pentimento.»

(1)

Vedi: Le cause. Vol. I., pag. 149.

(2)

Lettera del Santo Padre al Re di Sardegna, del 2 aprile 1860.





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Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)












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