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Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

DI

GAETANO FILANGIERI

PRECEDUTA DA UN DISCORSO

DI PASQUALE VILLARI

VOLUME SECONDO

FIRENZE
SUCCESSORI LE MONNIER
1864

INTORNO AI TEMPI ED AGLI STUDI DI GAETANO FILANGIERI

DI
PASQUALE VILLARI


Chi volesse fare la storia degli scrittori politici, si troverebbe, di pari passo, condotto a fare la storia della società; perché in essa si formò la mente degli scrittori, ed essa e il soggetto intorno a cui versa tutta la scienza politica. La società si svolge e modifica continuamente, si presenta sotto aspetti sempre nuovi; onde i mille sistemi nascono, non solo perché le opinioni e il pensare degli autori si mutano; ma ancora più perché muta continuamente l’indole e la natura di ciò che forma la materia e, quasi direi, la sostanza della scienza.

Nel medio evo, una teorica della società non era anche possibile. Tutto si riduceva a sapere, se l’imperatore o il Papa doveva avere quel dominio universale del mondo, che ambedue agognavano. E cosi si perdeva il tempo a formare dei grandiosi disegni, in cui si voleva che uno solo governasse tutti quanti i popoli della terra, perché un Dio solo governa il mondo. In questo modo, si vagava in cerca d’un ideale che non era suggerito né dalla ragione né dalla esperienza; ma da una specie di dommi che la Chiesa o le tradizioni antiche imponevano. Il papato riuscì, per un tempo, a trionfare quasi per tutto; la società divenne teocratica, la filosofia si ridusse a scolastica. Come poteva sorgere una scienza politica, quando la comunanza civile non aveva ancora coscienza della sua indipendenza, della sua personalità?

II

La politica incomincia nel secolo XV con Niccolò Machiavelli. La ragione scuote allora il giogo della scolastica, la società civile si ribella contro la teocrazia, la scienza non si contenta più d’infilare sillogismi, per esporre verità date e ricevute senza esame. Si comincia a domandar la ragione di tutto, non si accetta nulla che non sia provato, ed il Machiavelli fonda la politica sullo studio dell'uomo e sulla storia. Il suo ingegno pratico e positivo non s’occupa più di creare teoriche e sistemi che restano in aria; raccoglie, invece, fatti ed osservazioni provate dalla storia e dalla esperienza. Ma questa scienza, ora per la prima volta risorta dopo Aristotele, si risente anch’essa delle condizioni dei tempi in cui e nata.

Il medio evo, in tutta la storia, non aveva veduto altro che la mano di Dio. — Gl’imperi cadono e gl’imperi sorgono, esso diceva, perchè Iddio allontana o avvicina la sua mano; gli eroi, le società, le istituzioni appariscono o spariscono, perchè Iddio vuole o disvuole: Non vi sono che due civiltà nel mondo, la civiltà ebraica e la cattolica; lutto il resto e tenebre o illusione. — Il secolo XV, invece, volle vedere nella storia solamente l’uomo; perché esso aveva acquistata una fede eccessiva nelle proprie forze. La poesia, la pittura, le scienze e le lettere pigliarono quel carattere, cui i Tedeschi dettero nome di umanismo. I Greci ed i Romani vennero in grande onore, e furono assai spesso preferiti ai Cristiani, non che agli antichi Ebrei. Leggendo le Storie e i Discorsi del Machiavelli, si trova che, per lutto, alla Provvidenza vien sostituito l’uomo. — La gelosia d(?)un soldato romano promuove le irruzioni barbariche; il capriccio d’un papa dà origine alle crociate; le religioni, gl’imperi, le repubbliche furono e debbono essere fondate da un uomo solo Remolo fece bene ad ammazzare il fratello Remo, perchè a fondare un imperio bisogna essere soli. — L’autore non solamente pone da un lato la mano della Provvidenza; ma la forza delle religioni, delle idee, dei principii, la vita delle istituzioni, e la volontà impersonale dei popoli e poco o putito considerata. E così la società diviene per lui come un corpo morto nelle mani del politico o dell’uomo di Stato. Essa non solo e priva d’un fine provvidenziale, ma ha perduto ogni fine e volontà e dovere silo proprio. Il politico può dirigerla dove egli vuole al bene o al male, alla libertà o al dispotismo, tutto e quistione di mezzi e di abilità. Il bene di certo e preferibile al male; ma la politica s’occupa solo d’insegnarvi i mezzi; con i quali raggiungere il fine che voi vi siete proposto. La scelta di questo, fine e ad essa estranea. I suoi consigli vanno ugualmente a chi vuole distruggere ed a chi vuole fondare una libertà, a chi vuole spegnere il tiranno ed a chi vuole difendersi dalle congiure. Il Machiavelli non dà forma di principii generali a queste sue premesse; elle son quasi sempre sottintese; ma su di esse fonda sempre le sue dottrine, da esse derivano molti degli errori che furono notati nelle sue opere. Egli arriva alle ultime conseguenze senza mai indietreggiare, senza spaventarsi; ed e inutile andare a cercare nei suoi scritti, secondi fini o scopi segreti e nascosti. Egli si spiega assai chiaro; ciò che dice nel libro del Principe, lo ripete non solo nei Discorsi ma nelle Legazioni e nelle Lettere Familiari:

Ed invero; bisogna pure ricordarsi che la morale privata e la pubblica non poterono mai procedere di pari passo, e che neppure oggi le norme di giustizia che la coscienza individuale ci afferma indubitabili ed eterne, sono rispettate sempre da coloro che reggono i destini dei popoli. Al tempo di Niccolò Machiavelli la differenza era anche maggiore, e le difficoltà spesso insuperabili nella pratica. I grandi Stati si formavano dagli avanzi del medio evo. Uomini che appartenevano a terre sino allora separate e nemiche, ordini di cittadini che fra loro s’odiavano e s’erano voluti distruggere, si trovavano ora uniti sotto un solo governo. La formazione dei grandi Stati era una necessità politica per la civiltà del mondo; ma a riunire quelle membra sparse, non c’era spesso altra via, che l’astuzia e la forza e l’inganno. L’umana coscienza ha avuto giusta cagione di ribellarsi contro il Machiavelli, perchè il suo cinismo qualche volta disgusta, ed il suo linguaggio troppo spesso confonde ciò che la malvagità umana rende inevitabile, con ciò che la ragione o la coscienza possono giustificare. Tuttavia, prima di gridare contro il Machiavelli, bisogna ricordarsi che egli ha cercato i principii su cui si fondava una politica, che per più di due secoli vedemmo prevalere in quasi tutta Europa: nelle corti di Ferdinando il Cattolico e di Alessandro Borgia, di Enrico VIII e Caterina de' Medici, di Carlo V, Francesco I e Carlo IX. Molli degli scrittori che successero al Machiavelli furono suoi seguaci; più tardi vennero alcuni che tentarono spesso, ma non riuscirono quasi mai a dare un fondamento morale alla scienza politica. La dottrina che domina universalmente, verso la fine del secolo XVII, e quella del contratto sociale, nel quale il diritto non ha altro fondamento che la volontà umana: lo schiavo, il popolo oppresso debbono accettare la loro misera condizione, perchè il contratto sociale ve li obbliga. Se da questa dottrina noi volessimo cavare le sue ultime conseguenze, vedremmo come anch’essa fa non poca violenza alla giustizia ed alla morale.

III

Ma nel secolo XVIII ogni cosa rapidissimamente mutava; si andò formando come una nuova società ed una nuova scienza, l’una aiutando ed accelerando a vicenda la trasformazione dell'altra. La Francia era il centro di questo gran moto, e dava la sua letteratura, le sue idee a quasi tutto il continente d’Europa, che sembrava trascinare in uno stesso moto politico. Un comune indirizzo della civiltà aveva fatto nascere per tutto i medesimi bisogni, e quindi si accettavano facilmente le stesse idee. Le istituzioni del medio evo cadevano in brani per ogni dove; i governi locali, i diritti baronali, gli statuti delle arti e mestieri perdevano vita e vigore; la monarchia cercava per tutto accentrare ogni cosa nelle sue mani, ed in niun luogo v’era così bene riuscita come in Francia. Ivi, fin dai tempi di Luigi XI, s’era cercato sollevare il popolo a danno dell’aristocrazia; e questa politica fu continuata con cosi uniforme costanza, che tutti quanti i re di Francia sembravano aver giurato un medesimo programma politico. In questo modo, fra quelli che, salendo, uscivano dal popolo, o, scendendo, venivano dall'aristocrazia, s’era formato quel nuovo ordine di cittadini, che si chiamò terzo stato, e che nel secolo XVIII era come il corpo e l’anima di tutta quanta la Francia. In esso erano l’industria, l'attività e l’intelligenza; in esso s’accumulavano nuove ricchezze, e la più parte degl’impieghi politici o amministrativi erano venuti nelle sue mani. Perduto l’assoluto dominio dei loro feudi, i nobili, quando non s’abbandonavano all'ozio, pigliavano un posto nell'esercito o nella marina. I re avevano, quindi, steso la loro rete d’amministrazione su tutta la Francia, per mezzo d’impiegati del medio ceto, e così s’erano formate come due società. Da un lato i rottami del feudalismo e delle istituzioni del medio evo ingombravano quasi il suolo di tutta la Francia; da un altro lato la nuova amministrazione, giovane e potente, sostenuta dal re e dal favore del popolo, trovava ad ogni passo nuovi ostacoli, negli avanzi di quelle istituzioni che avevano perduta ogni ragione di esistere. Quando il barone governava il suo feudo, il popolo pagava le tasse, sudava a coltivare gratuitamente le terre del suo signore, e non si lamentava; perchè il feudatario faceva amministrare la giustizia, costruiva e guardava le strade, ed era agli occhi della moltitudine il vero sovrano. Ma quando aveva perduta ogni autorità politica, per conservare solo il diritto di riscuoter tasse, ed il privilegio di non pagarne, l'odio contro tutte le istituzioni feudali crebbe ogni giorno, e presto divenne irrefrenabile.

IV

Si cominciò, quindi, a ragionare per tutto sui diritti e sulla uguaglianza degli uomini, e in mezzo a queste passioni sorgeva la filosofia del secolo XVIII. Bisognava distruggere il feudalismo, bisognava ricostruire e riordinare la società sopra principii più semplici, e metterla in accordo colla ragione, colla giustizia, colla morale. E ciò sembrava che fosse, con uguale ardore, desideralo dalla monarchia e dal popolo: tutti volevano riforme, tutti volevano distruggere il feudalismo. Se non che esso era stato nei medio evo come una pianta assai vigorosa, che aveva allacciata tutta quanta la società, per darle la propria forma. La Chiesa, lo Stato, le associazioni particolari, il diritto pubblico e privato avevano preso una forma feudale. Quindi e che, a volerlo davvero tirar fuori della società, bisognava smuoverla e sconvolgerla tutta quanta; perchè esso aveva steso le sue radici per tutto. Ad un tale sconvolgimento s’affrettavano ora fatalmente il re, il popolo e, più che ogni altro, i filosofi, le cui nuove dottrine erano nate appunto in mezzo a questi nuovi bisogni. Esse erano, ad un tempo, effetto e cagione del mutamento sociale che si avvicinava a gran passi.

Quando il terzo stato, nuovamente sorto, diveniva onnipotente, e la pubblica opinione voleva comandare: quando i privilegi erano odiali, e l’uguaglianza voluta da tutti; allora la società aveva finalmente acquistato coscienza della sua unità e personalità morale voleva governare sé stessa, mettersi in accordo colla ragione, e chiamarsi responsabile delle proprie azioni. Niuno tollerava più altrui tutela, perchè siccome l’individuo, così pure la società diventa persona morale solo quando arriva a trovare in se stessa una norma e regola del proprio operare. Era quindi assai naturale che nei nuovi sistemi politici si riscontrasse come l'immagine di un tale stato di cose. Essi, infatti, sorgevano da ogni parte sotto mille forme diverse; ma serbavano tutti un comune indirizzo. Il sensismo era la filosofia di quegli scrittori; l’utile bene inteso la loro morale; il loro scrivere era chiaro, preciso, facile, popolare; avevano saputo dare alla letteratura francese quella nuova disinvoltura e sveltezza che la fecero diffondere in tutta Europa. In ognuno di essi si vedeva sempre il desiderio di trovare una forma di società più semplice, più in armonia colla natura dell’uomo e colla ragione; v’era la convinzione viva e ardente, che l’uomo aveva il diritto ed il dovere di distruggere tutto ciò che non’ andava d’accordo con questi principii; v’era il,bisogno e la speranza di riuscire finalmente a metter d’accordò la politica e la morale. Di repubblica o di monarchia,, di questa o di, quella forma di governo, di questa o di quella riforma allora si parlava poco; perchè, nel fondo si voleva un’altra società sopra altre basi. Tutti i pregi e difetti di questa scuola avevano la medesima origine. Il contratto sociale, lo stato di natura, l’ammirazione, esagerata in alcuni per Sparta e per Roma, ed in altri per l’india ed anche per la China; tutto ciò accusava il bisogno d’andare lontano a cercare colla fantasia una nuova forma di società. Mentre poi v’era tanto bisogno, di libertà, e si volevano rompere tutti i vincoli e gli economisti con plauso universale gridavano: lasciate fare, lasciate passare; non si aveva ancora bastante. fiducia in se stessi, e si voleva ogni cosa dal governo, ogni cosa dallo Stato. Si desiderava che una mano potente quasi rimpastasse e rifacesse tutta quanta la società. E, in questa discussione le menti s’erano talmente inebriate, che il turbine della rivoluzione era alle porte, per ingoiare ogni cosa e si discuteva ancora. S’avvicinava il regno del terrore colla sua mannaia insanguinata, e gli scrittori avevano sognato il secolo d’oro della ragione e della giustizia. Non s’erano ricordati che la via per cui le idee si attuano nei fatti, e da. una società vecchia ne esce una nuova, non e seminata di fiori.

V

Intanto queste dottrine francesi, straripando, invadevano l’Europa, e venivano per tutto accolte con grandissimo favore. La società si mutava, e per ogni dove si deploravano gli stessi mali, v’erano i medesimi desiderii;i quelle dottrine trovavano perciò una grande fortuna, e tra i paesi che prima e più facilmente le accolsero vi fu l’Italia. Esse s’avanzarono tra di noi come una marea crescente; ed appena giunte, quasi per incanto sparivano le tradizioni delle vecchie scuole, già decadute o che più non rispondevano ai bisogni dei tempi, e tutto sembrava rivestire una stessa forma, le medesime teorie, le medesime idee e, quasi direi, le stesse parole s’udivano per tutto. Se non che, in Italia, dalla mistura del vecchio e del nuovo, e dalle condizioni particolari a ciascuna provincia italiana, s’era formato come un impasto, che doveva lentamente modificarsi per fare più tardi rifiorire il colore delle dottrine nazionali.

Se, infatti, noi gettiamo uno sguardo a tutti gli scrittori che sorgevano allora in Italia, vi troveremo due caratteri che li distinguevano già dai Francesi, che eran pure i loro maestri. E innanzi tutto gl’italiani, generalmente parlando, non accettano la dottrina del sensismo sino alle ultime sue conseguenze; sembra che piglino la metafisica di Locke e di Condillac più come un metodo mirabilmente adatto a render chiaro e popolari le loro idee filosofiche, che come una vera dottrina. Quando sono alla morale e alle applicazioni della scienza, allora si direbbe che l’indole del loro ingegno o il sentimento del loro cuore ripugni a ridurre veramente le idee a sensazioni, e il dovere ad un utile bene inteso. E questo si vede più specialmente negli scrittori napoletani, per antica tradizione portati alle astrazioni speculative. Se non che, la medesima qualità riesce in essi qualche volta un pregio, e qualche volta un difetto. Noi siamo sempre come in una doppia corrente d’idee, che toglie ogni unità al sistema di quei filosofi italiani; mentre i Francesi, poste le loro premesse, vanno rapidamente alle ultime conseguenze. Non s’arrestano, non hanno bisogno di ripieghi; il libro trascina il lettore colla sola forza della logica. Da un altro lato però, se; i nostri sembrano qualche volta contraddirsi, possono sempre rivolgersi a passioni più nobili, a sentimenti più temperati. E ciò riusciva ad essi di non piccolo vantaggio, specialmente se osserviamo che le condizioni del paese pel quale scrivevano, non erano poi in tutto uguali a quelle fra cui si trovavano i Francesi.

La Francia era una gran nazione, dove il feudalismo nel medio evo s’era profondamente radicato. Molte riforme s’erano fatte; ma Vera pure giunti ad un punto, in cui le difficoltà gravissime, sorte da ogni lato, non si potevano superare senza la rivoluzione. Quindi gli scrittori s’erano come esaltati ed allontanati dalla realtà; non vedevano né accennavano ad altro, che ad un ideale da trovarsi al di la dell’abisso che stava per aprirsi sotto ai loro piedi, e di cui non sembrava che si preoccupassero punto. Le condizioni d’Italia erano, invece, assai diverse. I piccoli Stati presentavano minori difficoltà, e le tradizioni repubblicane, che in molte parti avevano lasciato una maggiore uguaglianza civile e minori privilegi, agevolavano la via alle riforme. A ciò s’aggiungeva ancora la fortuna di principi riformatori e di buona fede; onde gli scrittori che nascevano fra queste condizioni di cose, accettando dalla Francia le teoriche ed i principii generali, dovevano venire immediatamente alle applicazioni pratiche, e scriver principalmente per esse. E qui incominciava la parte nuova ed originale dei loro scritti; e quella maggiore temperanza d’opinioni e d’idee, che non sempre andava d’accordo con le loro teorie, giovava non poco a rendere più accettabili le loro proposte. In mezzo al gran turbinio d’idee, che aveva invaso tutti gli animi, essi dettero prova mirabile di quel senno praticò, che abbondò sempre negli scrittori politici italiani, d’un ardente desiderio del bene, d’uno zelo instancabile a cercare di rendere gli uomini più felici e più buoni. Così meritarono la gloria rara e invidiabile d’avere rinnovato i paesi nei quali vissero. Alcuni dei nostri più recenti storici vollero speculare su quello che sarebbe stato dell’Italia, se la rivoluzione francese non fosse venuta ad invadere e travolgere ogni cosa, e non avesse interrotto, per volerlo troppo affrettare, il pacifico sviluppo delle nostre più temperate riforme. Ma noi, lasciando da un lato queste speculazioni sopra eventi possibili solo nella mente dei filosofi, possiamo certamente affermare che nei filosofi italiani del secolo XVIII non tutto e copiato o imitato dai Francesi, come da molti stranieri viene ingiustamente affermato; e che ad essi si debbono quelle sapientissime riforme, con le quali Maria Teresa, Pietro Leopoldo e Carlo III rinnovarono la Lombardia, Toscana ed il regno di Napoli, fra le benedizioni dei loro sudditi e l’ammirazione dell’Europa civile. Quindi e che a conoscere bene questi scrittori non basta esaminare le molte idee che presero dalla Francia, da cui anche lo stile e la lingua son quasi sempre imitati; ma bisogna ancora considerare ciascuno di essi nelle condizioni della provincia in cui visse e per cui lavorò, se si vuol ritrovare ciò che veramente ha di proprio e di originale.

VI

Queste considerazioni ci faranno vedere ancora, come e perchè la scuola dei nuovi filosofi, fra cui acquistò sì gran nome il Filangieri, fosse in Napoli più fiorente che altrove, cosa che potrebbe apparire strana ed inesplicabile a chi ricorda le misere condizioni in cui s’era trovato quel paese. Devastato per due secoli dal dominio di padroni stranieri e lontani, che volevano solo cavarno danari, erano in esso la miseria ed il disordine cresciuti a segno, che mal si potrebbero descrivere a parole. Passato rapidamente d’ una in un’altra dinastia, ognuna di esse aveva portato nuove leggi e nuove lasse, che s’erano accumulate alle antiche. In modo che nel secolo XVII vigevano fra di noi contemporaneamente la legislazione romana, longobarda, normanna, angioina, sveva, aragonese, spagnuola, canonica e tedesca, oltre le consuetudini locali. V’erano tasse sulle industrie, le vesti, le persone, i piaceri, il vivere, ogni cosa; ma, disposte per modo, che si vedevano comuni ricchissimi pagar meno d’altri poveri d’ogni cosa. E trovandosi per tutto esenzioni feudali ed ecclesiastiche, ne seguiva che il popolo era eccessivamente gravato, ed il fisco non poteva più sopperire alle spese dello Stato.

Ed invero, a Napoli, fin dal tempo dei Normanni, s’erano cominciati a radicare profondamente tutti i privilegi, gli abusi ecclesiastici e feudali, i quali perciò vi si trovavano ora più generali e più radicati che altrove. La Chiesa ricchissima era fra noi esente dalle imposte, godeva esenzioni locali, reali e personali. I malfattori trovavano asilo nelle chiese e conventi, nelle case, negli orli, nei forni che erano a contatto colle chiese. La curia ecclesiastica era onnipotente, e le immunità personali s’estendevano, non solo al grandissimo numero dei preti; ma alle squadre dei vescovi, agli esattori delle decime, ai servi, alle serve, alle donne che coabitavano con i preti. E nella sola provincia di Napoli, fra quattro milioni d’abitanti, si contavano 112,000 preti, che erano padroni di circa due terzi dell’intera provincia. Le terre feudali erano pure esenti da quasi tutte le tasse; la curia baronale, al pari della ecclesiastica, voleva sempre crescere le sue giurisdizioni; i nobili e le persone tenute vivere nobilmente, cioè senza professione, andavano libere dalle tasse personali. Se poi si considera che nel 1734, fra le 2,765 città del regno, sole 50 non erano feudali, e che in questi feudi i vassalli vivevano come selvaggi; allora si comprenderà quanto fosse infelice la condizione di quel paese. Lo storico Galanti, viaggiando le province, narrava fatti che a lui stesso parevano incredibili. Nel feudo di San Gennaro di Palma, a poche miglia da Napoli, trovò abitare nelle case solo i ministri del barone; il resto, 200,000 uomini, stavano sotto graticci e pagliai, o nelle grotte come bestie.

I viceré spagnuoli, governando alla giornata, avevano venduto quasi tutte le città in feudo; avevano venduto titoli, impieghi, magistrature, ogni cosa, fino a che, essendo la miseria di privata divenuta pubblica, né il governo, né il popolo sapevano a quale partito più appigliarsi. Unico rimedio a questi mali sarebbe stato abbattere i privilegi feudali ed ecclesiastici, riordinare l’amministrazione, sollevare il popolo, ridestare l’industria; ma, fino dai tempi di Pietro di Toledo, i viceré avevano tentato invano d’imitare la politica dei re di Francia. Dove s’era distrutta l’industria, il commercio, ogni professione libera, come sollevare il popolo a danno dei nobili? Una sola professione era sorta vigorosa e numerosa dal disordine stesso del paese, e questa era quella degli avvocati. Fra quella moltitudine di leggi le liti moltiplicavano all’infinito; alcune divenivano eterne, si trasmettevano in eredità di famiglia in famiglia, se ne parlava per tutto il regno. E quando alla moltiplicità delle leggi s’univano le contese fra le curie diverse, allora si richiedeva a discuterle una vasta conoscenza del diritto canonico, feudale, romano ec.; bisognava del pari essere abile ed accorto nella interpetrazione storica, e nel paragone delle leggi. Quella professione; però, era la sola che offerisse grossi guadagni, e desse qualche considerazione; quindi i migliori ingegni e più ambiziosi la intraprendevano. I viceré si volsero allora a proteggere gli avvocati come unico mezzo a frenare l’alterigia dei baroni, e le pretensioni della Chiesa; fu la professione dei curiali dichiarata nobile; a loro furono dati gli impieghi; l'autorità e la dignità del Foro vennero dal governo con ogni mezzo protette. E così ne seguiva che il medio Ceto; il quale altrove s'era formato di tutte quante le professioni libere, in Napoli si compose unicamente di avvocati. Essi crebbero e moltiplicarono a dismisura; furono superbi, avidi, loquaci e riottosi; ma pure acquistarono un acume ed una pratica meravigliosa nell’interpetrare e Conoscere l’infinito numerò di legislazioni ché avevano vigore nel regno. In sul principio, fu un semplice empirismo d’uomini nati e consumali fra lediti; ma poi alcuni ’di più eletto ingegno sollevarono a grado di scienza quell’empirismo, e sorse in Napoli una scuola di valenti giurisperiti, che(-)va posta fra le pochissime glorie che illustrarono il paese sotto il dominio vice-reale.

Ih sulla fine del secolo decimo settimo, di fatto, vennero in Napoli alla luce vaste compilazioni di leggi, lunghi trattati, nei quali già cominciava la interpetrazione storica a fiorire; ma erano lavori che dimostravano piuttosto pazienza e perseveranza, che ingegno; raccoglievano preziosi materiali alla scienza, ma ancora non la cominciavano, Si deve a Francesco d’Andrea il raro merito d’aver concepito l’idea di sollevare a più alla dignità la dottrina dei curiali napoletani. Egli era un uomo di molto ingegno e di vasta dottrina; scrisse pochissimo, ma per la fermezza e bontà del suo carattere acquistò tanta autorità nel Foro e nella magistratura, che ne fu come il centro. Colla sua parola, coi suoi incoraggiamenti sollevò a più nobile ambizione l'animo dei curiali; e così incominciò fra di essi una gara di studi ed una vita scientifica che non v’era stata da gran tempo. Se non che, fu raggiunto un fine diverso da quello che egli s’era proposto. Alla sua morte si vide che la scienza disertava rapidamente il Foro, per salire nelle cattedre della Università. Coloro che amavano il vero, abbandonavano le liti e i guadagni della curia, nella quale restavano solo quelli in cui poteva più l’amore dell’oro. E così si formava una nobile scuola di veri scienziati; ma i tribunali ricadevano nel vecchio empirismo.

Sono molti i nomi di cui s’illustrano gli annali letterarii di quella scuola. Marciano, Aulisio, papasso e moltissimi altri dimostrarono ingegno e vasta dottrina; ma noi ci fermeremo a ricordarne tre, che basterebbero soli alla gloria di un paese, piovan Vincenzo Gravina, nella sua opera sulle Origini del Diritto, portò la interpetrazione storica della scuola napoletana alla sua maggior perfezione. Egli seppe raccogliere con ordine, precisione e chiarezza, tutte quante le conoscenze che si avevano allora sul diritto romano; e indovinando il nesso delle varie parti, riempiendo qualche volta le lacune, potè ricostruirne l’insieme, in modo che giustificò pienamente appresso ai posteri quella fama che gli dettero i suoi contemporanei. Se alcuni avevano, come Domenico Aulisio, unito alle conoscenze del diritto e delle antichità greco-romane lo studio ancora delle cose orientali;.ed altri erano, come Niccolò Capasse, valenti nella conoscenza dei Santi Padri, dei Concilii, del diritto canonico e di tutta la storia ecclesiastica; il nome di Pietro Giannone divenne illustre? perchè alla conoscenza del diritto romano, canonico e feudale unì quella ancora del diritto municipale, e con raro ingegno, dette al mondo il primo saggio d’una storia civile. Egli si fece anche ardito sostenitore dei diritti dello Stato contro le pretensioni della Chiesa; e cosi, alla vastità della dottrina essendosi unite le ingiuste persecuzioni dei preti, la sua fama divenne cara agli amici della scienza e della libertà. In mezzo a questi studi, fra tali uomini risplendeva d’una luce ancora più viva l’ingegno immortale di Giovan Battista Vico. Immerso nello studio del diritto, ne cercò il fondamento unico ed eterno; meditando sulla giurisprudenza romana, scoperse che una legge costante la faceva percorrere per tre età diverse; ed allora, allargandosi a ricercare quella medesima legge in tutti gli elementi di cui e costituita l’umana società, creava la Scienza Nuova. Si disse che Vico era stato un ingegno solitario, che non aveva avuto alcun rapporto col suo tempo, in cui già tutti si volgevano al materialismo. Ma questo è un errore nato dall’esser generalmente poco o punto conosciuta la storia degli studi, che allora fiorivano a Napoli. Mutati colla rivoluzione francese i costumi e la società, distrutte le leggi sino allora vigenti, cessarono ad un tempo le cagioni che avevano fatto nascere la scuola dei nostri giuristi, l'utile pratico che poteva derivare dalla lettura delle loro opere, e quindi ogni desiderio di conoscere quelli che, fra di essi, erano stati minori ingegni. Così avvenne che sopravvisse quasi unicamente la fama dei più illustri, che furono appunto Gravina, Giannone e Vico, i quali parvero a molti come una pleiade isolata di tre astri luminosi; mentre s’era in essi concentrata la luce di tutta una moltitudine di minori pianeti. E così ancora il Vico, che e come l’ultima parola, la sintesi di tutta la scuola, fu chiamato ingegno solitario.

VII

Intanto le nuove idee arrivavano in Napoli insieme con una nuova dinastia. Disputato il reame tra le due case d’Austria e di Spagna, venne finalmente per la fortuna delle armi sotto il dominio diretto di Carlo III di Borbone. Un principe nuovo, giovane, ambizioso, che fondava un regno indipendente, si trovava trascinato alle riforme dalle necessità stesse del suo governo. Egli aveva bisogno di ristorare la finanza, ordinare l’amministrazione, creare un esercito ed un’armata di mare. Tutti aspettavano da lui grandi cose, egli aveva capito le necessità nuove dei tempi; e già fra gli sfoggiati uniformi de' suoi generali e cortigiani si vedeva la figura semplice e modesta, il vestire e il portamento rimesso di Bernardo Tanucci, stato professore di Diritto a Pisa, ora auditore militare. Egli veniva di Toscana, tutto pieno delle dottrine che avevano apparecchiato le riforme leopoldine, ed era destinato a sedere nei consigli della corona, per molti anni primo ministro, ed iniziatore principalissimo delle riforme nel nuovo regno.

Ed infatti, subito si pose mano all'opera. Il primo pensiero fu di formare addirittura un nuovo codice, che si volle chiamar Codice Carolino. Ma dopo molto discutere e tentare, bisognò abbandonare il cominciato lavoro, e procedere, invece, alla spicciolata; il che accrebbe, in luogo di scemare, il numero delle leggi. Si pose mano alle leggi penali, con qualche altro mutamento parziale e secondario, lasciando la tortura, il processo inquisitorio, l’arbitrio dei magistrati. Quindi ne risultò più male che bene. I delitti che, nel principio del secolo, si numeravano a 150 l’anno, e parevano molti, salirono d’un tratto a 1000; i ladri ascesero a 30,000; gli avvelenamenti moltiplicarono per modo, che fu necessario creare un nuovo magistrato, col nome di Giunta dei veleni. Appena s’allentava il freno all’oppressa moltitudine, essa si credeva lecito trascorrere ad ogni eccesso. Tuttavia il re ed il nuovo ministro erano deliberati a continuare oltre; perchè vedevano che il cattivo successo; lungi dallo scoraggiare i buoni, li conduceva a stringersi più uniti intorno al governo. Erano già molti i seguaci delle nuove dottrine, i quali,unendo al desiderio delle riforme la conoscenza del paese e delle sue leggi, vedevano le grandi difficoltà dell'impresa; onde essi applaudivano vivamente al re, e lo aiutavano. Con il loro aiuto e consiglio si fondò un tribunale di commercio, si fecero molli trattati con lontane potenze; e si vide subito ravvivato il commercio da un assai maggior numero di navi che entravano ed uscivano dal porto. Queste primo successo fece volgere l'animo dei governanti a maggiore impresa, e fu posto mano ad abbattere coraggiosamente i privilegi feudali. Ai baroni si lasciarono le loro entrate; ma furono revocate molte giurisdizioni, sottomesse ad appello le sentenze dei loro giudici, che furono diminuiti di numero e frenati da leggi. Fu indebolito il mero e misto imperio, strumento principale della tirannide baronale; vennero favorite le ragioni dei comuni sulle terre feudali. Molti nobili, invitati dal re nella capitale, ci portarono lusso e danaro, lasciando le province più sollevate.

Si pose mano, finalmente alle riforme ecclesiastiche. Il re Carlo portava la sua religione fino alla superstizione; voleva ogni anno modellare di sua mano le figure della capanna di Cristo, e assai spesso serviva pubblicamente la messa nella chiesa dei Pellegrini. Tuttavia i tempi trascinavano alle riforme, e coi privilegi feudali dovevano cadere gli ecclesiastici. Si riuscì, quindi, a fare un concordato con Roma, nel quale venivano ristrette quasi tutte le immunità. Il diritto d’asilo fu ridotto alle chiese, e solo per piccoli falli; gli antichi possessi furono sottomessi alla metà dei tributi, i nuovi all’intero; le proprietà laiche che si nascondevano tra le ecclesiastiche furon distinte, e definito lo stato ecclesiastico, ristretta la giurisdizione dei vescovi. Nella pratica poi si cercava ogni mezzo per diminuire il numerò dei preti, vietare i nuovi acquisti, accrescere autorità alla curia laica a danno della ecclesiastica. Per tutte queste riforme essendo divenuto indispensabile un catasto, vi fu posto mano; e sebbene fosse fatto male ed in fretta, pure si videro subito quasi triplicale le entrate dell'erario.

Per ogni dove s’udivano applausi a queste riforme napoletane. Principi e scrittori stranieri esaltavano il re e i suoi ministri; il popolo benediceva il nome di Carlo; cresceva nel mondo la fama di quegli scrittori che avevano aiutato il governo ed illuminato il popolo. Ed invero fu prova evidentissima che tutto il paese era entrato con ardore nella nuova via aperta da Carlo, il vedere che, quando per le nuove successioni di regno egli dovette tornare nella Spagna, la reggenza continuò la medesima politica. E quando Ferdinando IV, uscito di minore età, cominciò a governare il regno; anche allora il Tanucci ed i suoi amici poterono continuare l’opera loro, dominando l’animo d’un re, che più lardi si dimostrò tanto diverso da Carlo, tanto nemico della libertà e de' suoi popoli. Così nei primi anni del regno di Ferdinando, furono cacciati i Gesuiti, e i loro beni incamerati e destinati alla pubblica istruzione. Furono decretate scuole in ogni comune, un convitto di nobili in ogni provincia e nelle città principali, fu riordinata l’Università, chiamandovi gl’ingegni più eletti di Napoli.

E allora la prosperità del paese parve maravigliosa, perchè gli effetti delle riforme cominciate e condotte da Carlo, si rendevano visibili a tutti. Fioriva l'accademia delle scienze e delle lettere, e quella nuovamente fondata sugli scavi d’Ercolano e Pompei, che da poco tempo s’erano cominciati. Non appena si scoprivano quelle antichità maravigliose, venivano così sapientemente illustrate da valenti archeologi, che i loro nomi furono celebrati in Europa. La tipografia fiorente anch’essa, poneva di continuo in luce opere che spesso si vedevano ammirate oltre l'Alpi, e tradotte in più lingue. E questi scrittori facevano parte di quella nuova famiglia di filosofi e politici italiani, di cui abbiamo più sopra accennato. In tutti i nostri scrittori politici di quel tempo si trovano i medesimi pregi e difetti; ma a Napoli si dimostrò ancora una maggiore forza speculativa, ed una cognizione più vasta e solida delle antichità e del diritto romano. Queste qualità venivano dall'indole degl'ingegni e dalle tradizioni non anche spente degli studi che erano fioriti nel paese; esse aggiunsero gran pregio agli scrittori, che sorsero tra le riforme napoletane e le promossero. Ricorderemo i nomi d’alcuni di essi, prima di venire a Gaetano Filangieri.

L’abate Antonio Genovesi si può chiamare il metafisico della scuola, che egli rappresenta assai bene per la varietà delle cognizioni, la bontà dell’animo, la chiarezza nella esposizione delle sue idee, e l’incertezza del suo sistema. Quasi materialista nella filosofia teoretica, si trasforma in caldo spiritualista, quando viene alla filosofia pratica, e specialmente alla morale. Valente in economia politica che insegnò a Napoli dalla prima cattedra che di questa scienza s'istituisse in Europa. Si volse con grandissimo ardore a rendere popolare quasi ogni parte delle scienze politiche e morali; si fece pubblicamente temperato ma tenacissimo sostenitore dei diritti dello Stato contro la Chiesa, e fu, in questo modo, uno dei più validi sostegni del nuovo progresso sociale. Il Galiani ebbe minore dottrina; ma dimostrò nei suoi lavori economici maggiore acume, e un certo brio che rende assai più agevole la lettura de' suoi scritti. Il Galanti ed il Pagano son fra quelli, che serbano ancora una maggior parte delle vecchie tradizioni della scuola napoletana. Il primo ci ha lasciate descritte con molta ingenuità, e con ingegnose ed acute osservazioni le condizioni della società e degli studi nel regno di Napoli al suo tempo. Il Pagano, dottissimo nella giurisprudenza, voleva nei suoi scritti politici e giuridici continuare l’opera del Vico; ma le nuove idee francesi che aveva pure adottate, contrastavano troppo coi principii della Scienza Nuova; onde egli potè dare prova d’ingegno e di molta dottrina; ma non gli riusci di mettere insieme un sistema.

VIII

In Gaetano Filangieri tutti quanti i pregi e difetti della scuola vengono assai chiaramente in luce; egli ne e forse la più compiuta personificazione. L’amore del vero e della patria furono le due grandi passioni della sua vita; più tardi vennero le affezioni domestiche a consolare brevemente una gioventù già logora e consumata dallo studio. La sua biografia si ristringe, perciò, quasi tutta nell’esame de' suoi scritti. Nato a Napoli il 18 d’Agosto 1752, era terzogenito d’una famiglia nobile, che a cinque anni pensava già ad ottenergli il grado d’alfiere in un reggimento; a 14 anni gli faceva indossar la divisa. Ma presto i suoi parenti si dovettero accorgere che l’anima del giovane Filangieri si volgeva altrove. Studiava con ardore la matematica e i classici, leggeva avidamente opere di storia, di giurisprudenza e di politica. Essi se ne afflissero, perchè a loro pareva che la continua solitudine, in cui quel giovane s’era chiuso, fosse prova di poco sveglialo ingegno; ma invece, con la sua precoce intelligenza egli aveva già intrapreso vaste ed ordinate letture, e meditava grandiosi disegni di opere. Egli stesso si sentiva così fattamente trasportato da questo entusiasmo, che cercava frenarlo, interrompendo la lettura di Montesquieu e Rousseau con saggi di traduzioni da Tacito, Aristotele, Demostene, alcuni dei quali saggi si trovaron tra le sue carte dopo la sua morte. Ma quando egli abbandonava la solitudine e veniva a caso fra gli uomini, allora trovava un discorrere così continuo ed ardente di nuove riforme, di diritti dell’uomo, di progresso sociale, che era ricondotto subito ai suoi progetti d'opere grandiose. A 19 anni s’era già messo a scrivere un Trattato di pubblica e privata educazione, ed una Morale dei Principi, fondata sulla natura e l’ordine sociale. Con più maturo consiglio, il Filangieri rifuse una parte sola di questi scritti nella Scienza della Legislazione, lasciando il resto da banda. Ma il titolo stesso di quei lavori dimostra già l’indirizzo che la sua mente e i suoi studi avevano preso: educare il popolo al nuovo progresso sociale; mettere d’accordo la politica e la morale, la società e la scienza; illuminare e persuadere i principi a quest’opera di rigenerazione sociale; tale era il fine di tutta la sua vita,

Intanto i parenti, vista la sua avversione alla milizia, s’erano decisi d’indirizzario alla magistratura, e però lo avviarono prima al Foro. Ivi trovò che gli avvocati, perduta l'antica dottrina, erano ricaduti nell'empiristho, e si tenevano fuori della nuova cori renio che trascinava tutti al miglioramento sociale: Applaudivano alle riforme, solamente quando credevano che ne venissero moltiplicate le liti; ma se, invece, credevano toccati i loro privilegi o scemati i guadagni, allora levavano al cielo importuni clamori; onde il governo li chiamò, qualche volta, perfino nei pubblici bandi; cavillosi, ignoranti, scostumati. E volle il caso che appunto quando il Filangieri cominciò a frequentare il Foro, una nuova legge sollevò grandi clamori. Era nella nostra magistratura invalso l’uso di pubblicar le sentenze senza ragionarle, e dar forza di legge anche alle opinioni dei dottori. I giudici si esprimevano in forma d’oracoli, ed essendo sicuri di non poter pronunziare alcuna sentenza, fosse pure stranissima, che non trovasse appiglio nell’autorità di qualche dottore, decidevano ad arbitrio. Per mettere un argine a questo disordinò, fece il ministro Tanucci, nel 1774, pubblicare una legge che ordinava ai giudici di ragionare le sentenze di fondarle solo sull’espressa autorità delle leggi, in mancanza delle quali toccasse decidere al sovrano. I magistrati si dichiararono altamente offesi, dissero calpestata la indipendenza e dignità loro volevano dimettersi; e gli avvocati, facendo con essi càusa comune, empivano la città di lamenti. Il Filangieri fu sdegnato di questa opposizione contro una legge tanto savia e giusta; onde, sebbene avesse soli 22 anni pure dette alla luce un opuscolo in difesa del governo, col titolo: Riflessioni politiche sull'ultima legge del sovrano.

Verso i suoi avversarli fece uso di tutta quella temperanza che era richiesta dalla sua età; ma pure espresse con forza e franchezza le sue ragioni. Dove la volontà dei giudici, egli disse, e senza freno, ivi e arbitrio; e dove e arbitrio, ivi non è libertà né giustizia. Portò l’esempio dei Romani i quali, finché restarono liberi, non permisero mai ai loro giudici d’allontanarsi dalle leggi stabilite. Aggiunse che il ragionar le sentenze, lungi dall’allungar la durala delle liti, come pretendevano gli oppositori della nuova legge, l'avrebbe assai diminuita. Conoscendosi dal pubblico le ragioni su cui s’appoggiavano le sentenze, sarebbe scemato assai l’infinito numero di appelli, che allora ingombravano i tribunali. E infatti, messa in vigore la nuova legge, tutte le osservazioni del Filangieri si trovarono giustificate, ed il suo nome, per questo opuscolo, divenne assai noto nel paese. Il suo stile era spesso gonfio ed esagerato; ma parve eloquente, perchè in quelle pagine traspariva un animo sinceramente innamorato del vero e del bene. La sua dottrina, per la giovanile età, era vastissima; e di tanto in tanto lampeggiavano idee che facevano presagire uno splendido avvenire al nuovo scrittore. «Io mi consacro,» egli diceva, «solennemente alla patria, e mi ci consacro nei primi anni della mia vita.... Riceva dunque questa benefica madre il giuramento che io le fo di non vivere che per lei.» E mantenne la sua promessa.

IX

Nel 1780, quando il Filangieri aveva soli 28 anni, venivano alla luce i due primi volumi della sua Scienza della Legislazione; in essi egli dava il piano di tutta l’opera, e ne esponeva i principii generali. Oggi il soggetto di un tale lavoro ci parrebbe impresa molto più ardua che non sembrava agli scrittori del secolo XVIII. Il metodo storico ha frenalo assai i voli degli scrittori politici; noi riscontriamo colle severe indagini della storia tutte quante le teorie che ci vengono esposte. Non possiamo, egli e vero, e non potremo mai, far come il chimico o il fisico che producono il fenomeno stesso di cui vogliono riscontrare la legge; ma possiamo vedere se nella storia del genere umano i fatti confermano o contrastano alle dottrine che ci vengono insegnate. Quindi bisogna procedere assai cauti, e rinunziare al sogno di creare a priori sistemi universali. Ma il secolo di Filangieri era più audace nella scienza, come nei fatti. Non v’era scrittore che non credesse di conoscere l'origine della società, del linguaggio, delle religioni, e che non avesse le sue teoriche intorno ai governi ed alla politica. Pareva che il mondo fosse ringiovanito, v’era una grande esuberanza di vita; e la società umana avendo acquistata nuova coscienza di sé, e nuovo ardore nelle proprie forze, un moto acceleralo di eventi politici e di nuove teorie affaticava l’animo e la mente di tutti.

Montesquieu e Rousseau si possono considerare come i due capiscuola degli scrittori politici di quel tempo. Il primo era un grande ed acuto osservatore, che aveva percorso il mondo e la storia, studiando le istituzioni e gli uomini còme sono, come vengono modificali dai climi, dal tempo, dalle razze, ecc.; ma non s’era sollevato ad un concetto fondamentale unico, non aveva tentato di costruire un sistema. Egli neppure aveva visto che, studiando quel che le società sono, ne risulta un concetto più generale, e come un ideale verso cui tutte s'avviano, e da cui si cava quel che esse dovrebbero essere. Faceva anzi poco conto di queste teorie astratte; studiava le istituzioni e i risultati che avevano dati; lasciava il resto ai filosofi più ambiziosi di lui. Epperò il secolo XVIII non gli rese giustizia. — Cosa importa a noi, dicevano allora, l'apologia o la spiegazione del feudalismo che noi vogliamo distruggere? Che stima dobbiamo noi fare d’uno scrittore che ci descrive le società esistenti senza giudicarle; che parla, copie se un popolo potasse ad arbitrio proporsi un fine qualunque, la libertà o il commercio o le armi; e come se tutto si riducesse a trovare una istituzione per raggiungere questo fine arbitrario. Noi vogliamo sapere quel che la società deve fare, come deve essere ordinata quella che si fonda davvero sui principii della ragione e sui diritti dell’uomo. — E questo era appunto l’indirizzo preso dal Rousseau, che però fu chiamato lo scrittore della rivoluzione. Egli non s’occupa del passato, condanna quel che la società e stata; vuoi rifarla su nuovi principii, rimetterla su nuova base. — La società deve garantire la libertà di tutti; il contratto sociale e nullo se non fa raggiungere questo scopo perchè l’uomo non può rinunziare alla libertà senza rinunziare alla sua qualità di uomo. La società è oramai uscita di minoranza, e divenuta padrona di se stessa; la volontà del popolo deve governare; la maggioranza popolare e il solo sovrano legittimo ed inappellabile. Questi son principii dettati dalla ragione, fondali sulla natura dell’uomo; essi sono veri in ogni tempo ed in ogni luogo, ci dicono quello che la società deve essere, sempre e per tutto.

Ma fra ciò che la società e e ciò che deve essere, v’è pure quel che essa può essere. Di questo specialmente s’occupavano allora gli scrittori italiani, e più di tutti il Filangieri. Il suo scopo non era scientifico solamente, ma pratico ancora; perchè egli voleva migliorare la società in cui viveva. Quindi incomincia il suo libro col dirci, come le leggi e le istituzioni hanno una bontà assoluta, o sia indipendente dai tempi e dai luoghi, tutta razionale; ed una bontà che egli chiama relativa, perchè dipende dalle condizioni in cui e nata. È qui assai abilmente fa vedere come i climi, i governi, le razze, tempi modificano il valore relativo delle leggi. I codici, egli dice, nascono, fioriscono e decadono. Parrebbe quasi che il Filangieri abbia compreso che tutte le istituzioni, le leggi, la società intera e come un organismo vivente, che si svolge e tende continuamente versò il suo ideale. Sembra volerci dire che la bontà relativa delle leggi cammina verso la bontà assoluta, senza mai raggiungerla; e;che il concetto di ciò che la società può essere, e del modo in cui noi possiamo migliorarla, risulta dall'avere nello stesso tempo un’ idea chiara e generale della società, e dello sviluppo storico e reale di essa. Ma, ad un tratto, egli salta dalla bontà relativa alla bontà assoluta delle leggi, come se fra l’una e l’altra non vi fosse alcun rapporto. Dopò averti descritti con molta perizia gli abusi, le ingiustizie e le contraddizioni dei passali tempi, spiegandoli colle condizioni della civiltà in cui nacquero; egli viene poi a dirci: Noi siamo adesso in un’era novella, in cui deve attuarsi la bontà assoluta delle leggi, e gli abusi debbono scomparire affatto. Ma qui gli si potrebbe chiedere: Come siamo d’un trattò usciti fuori della storia?Come a noi soli toccherà vivere nel secolo d’oro? Il Filangieri non sente il bisogno di provare la sua asserzione; l’afferma come un fallo indisputabile. — Che oggi, egli dice, venga uh filosofo a sostenere, come già fece il Machiavelli, che i principi possono mentire, ingannare, tradire; e la pubblica indignazione gli darà certo il compenso che merita..Ora la politica e la morale, la società e la ragione si debbono metter d’accordo. Chi non vede che tutti vogliono distruggere gli antichi abusi? Principi e popoli desiderano le stesse riforme; la pubblica opinione e padrona del mondo, i filosofi la guidano, la ragione e la giustizia trionfano per tutto. — Ed allora, abbandonandosi al suo entusiasmo, il Filangieri volge enfatiche perorazioni ai principi ed ai popoli. Queste beate illusioni erano la fede del secolo XVIII, e questa fede fece cosi rapidamente progredire quel secolo.

È facile immaginarsi come con tali idee non era possibile comprendere la vita ed il valore delle istituzioni sociali; esse o hanno per Filangieri una bontà relativa, e allora bisogna mutarle; o hanno una bontà assoluta, e allora sono perfette. Quando egli si pone a meditare sulla costituzione inglese, che il Montesquieu aveva così mirabilmente esaminata, si spaventa del feudalismo ancora vigoroso, delle mille contraddizioni che vede, degli opposti poteri che si equilibrano; e grida che l’Inghilterra e prossima ad una rivoluzione. Non vede quel potente spirito nazionale che dà vita alle istituzioni, le crea e le ricrea continuamente, e le pone in armonia fra loro, svolgendole. Anzi a lui sembra un grave scandalo, appunto questo, che la costituzione inglese non sia immutabile; quel continuo sconvolgersi e crescere, gli pare che debba fra poco precipitare l’Inghilterra in un abisso. Leva la voce altissima per annunziare questi futuri mali ai popoli della Gran Bretagna; e non s’avvede che l’Italia e la Francia son vicine ad una rivoluzione, ben più reale e terribile di quella che egli annunzia, una rivoluzione da cui, invece, solo l’Inghilterra saprà salvarsi. È singolare il vedere come tutti questi scrittori del secolo XVIII sono vicini ad una generale trasformazione della società; l’annunziano, la desiderano e l’affrettano; eppure credono che ciò possa avvenire pacificamente. 11 terreno già s’apre sotto ai loro piedi, ed essi credono ancora dormire sopra un letto di rose.

Filangieri però era alquanto scusabile, perchè in Italia, e a Napoli specialmente, era già cominciata e procedeva rapida e tranquilla quella trasformazione sociale che egli vagheggiava.— Il governo deve pigliare l’iniziativa di tutto; un principe buono, consigliato dai filosofi, e il migliore dei governi possibili; — questo egli diceva e desiderava, e questo sembrava che il regno di Napoli avesse già ottenuto. Ma qui e una nuova sorgente di molti e gravissimi errori in tutta la Scienza della Legislazione. La teorica che il governo d’un solo sia migliore di tutti, quando il principe e buono, e una teorica antica, ma falsissima. Lasciando da un lato, che non e possibile trovare un uomo che sia capace di raccogliere in sé tutta quanta la vita d’una libera nazione, e che comprenda tutti i bisogni d’un popolo, li soddisfi tutti, e segua sempre i movimenti e mutamenti della vita nazionale; quando pure quest'uomo si trovasse, l’affidare nelle sue mani tutto il governo d’una società, sarebbe un chiudere la strada ad ogni progresso, un avviare il popolo ad una decadenza inevitabile. Vi sono, e vero, dei tempi in cui il dispotismo e necessario ed anche salutare, perchè può salvare dall’anarchia; vi sono dei tempi, nei quali quelli che il secolo XVIII chiamava principi illuminati, possono iniziare il progresso e il risorgimento d’una nazione, e tali erano appunto le condizioni in cui si trovava allora il regno di Napoli. Ma il fondare su questa necessità temporanea, passeggiera, e che bisogna cercare di far presto dileguare, una dottrina politica, questo e funesto alla vera libertà. La società resterebbe in quella continua tutela da cui, invece, essa deve cercare con ogni sforzo di liberarsi. Anzi egli e da notare, che più il principe e intelligente ed operoso, più egli può ambire di raccogliere in sé solo le forze e l’indirizzo di tutta la nazione, e più riuscirà funesto. Le vile di Napoleone, di Cesare, di Alessandro posson darci molti di questi esempi. Le leggi, le istituzioni buone ed il buon governo noi apprezziamo perchè sono segni e risultati dell’attività dei popoli, i quali, solo governando se stessi e trovandosi responsabili del loro operalo, si educano alla libertà, ed acquistano un carattere ed un valore morale. La società ritrova la sua personale modalità solo quando esce di tutela, ed ha l’orgoglio d’esser padrona di se stessa. E come le azioni dell’uomo, e le opere dell’ingegno noi ammiriamo, perchè ci rivelano la forza morale o intellettiva che le produce; così e pure delle leggi o istituzioni o governi che troviamo nelle società diverse. Il vero risultato che noi cerchiamo in tutto ciò, e sempre l’attività dell’uomo stesso; non lodiamo lo strumento, ma la mano che l’adopera; non la statua, ma l’artista. Eccome un artista non potrebbe esser contento, se altri facesse per lui il suo lavoro; così la società non può essere soddisfalla, se quella vita politica, che e il più valido mezzo ad educare e migliorare se stessa, venga invece trasferita nell'ottimo principe. Ma il Filangieri ha così fattamente abbracciata la teorica che tutto debba venire dall’alto, ed ogni cosa debba esser fatta per il popolo, e nulla dal popolo; clic essa e filtrala in ogni parte della sua opera, ed e cagione dei suoi principali errori.

Così nel secondo libro, dove egli esce dalle generalità per venire a parlare delle leggi intorno all’economia politica; sebbene segua gli economisti francesi. la cui divisa era: lasciate fare, lasciate passare; pure dà all'azione del governo un’ importanza eccessiva che distrugge ogni principio di libertà economica. La ricchezza nasce, secondo lui, dalla popolazione e dall'agricoltura; il governo deve quindi occuparsi di far leggi e trovare ogni mezzo per moltiplicare i matrimoni!, deve anche dar premio a coloro che hanno molti figli. Nello stesso modo, bisogna rimuovere gli ostacoli al progresso dell'agricoltura ed incoraggiarla; ma sempre il governo che apre la via, incoraggia, spinge innanzi; Non vede il Filangieri che la libertà e il più granfie incoraggiamento, e che la società, quando non e infiacchita e corrotta, trova i maggiori stimoli in sé stessa. Se non che, allora la società napoletana usciva appena da una secolare schiavitù e corruzione; l’iniziativa del governo era necessaria, e i principii del Filangieri, che considerati astrattamente sono erronei, riuscivano poi nella pratica a dare utili consigli. Egli raccomandava una serie di provvedimenti, che dovevano essere di grandissimo vantaggio al paese: diminuire le esorbitanti ricchezze dei preti, dividere la proprietà, scemare le tasse, abolire i privilegi, sciogliere le corporazioni d’arti e mestieri, e cosi via discorrendo. Questi che furono pregi grandissimi del suo libro, gli procurarono lodi e riconoscenza dagli amici della libertà; ma odio dai nobili e dai preti, che s’unirono per muovergli una guerra, la quale fortunatamente riuscì vana. Il governo che lo aveva già chiamato alla corte, lo colmò di nuovi onori, e si valse sempre più de' suoi consigli.

Nel 1783 usciva alla luce il terzo libro, è forse il migliore della sua opera. In esso l’autore trattava delle leggi e della procedura penale, dimostrando una vasta dottrina nella materia del diritto, e qualche volta anche idee nuove ed originali. Un altro Italiano però, Cesare Beccaria, aveva prima di lui trattato il medesimo soggetto con plauso universale in Europa. Ambedue appartengono alla medesima scuola, e danno al diritto di punire uno stesso fondamento, nel contratto sociale. In esso gli uomini si sono spogliati di tutti i diritti a favore di tutti; quindi e che la società deve vendicare colui che e offeso, in forza del diritto che egli le ha ceduto. La pena e una vendetta sociale ed e un esempio; essa deve essere proporzionata al delitto, e deve essere data in modo da spaventare i rei; ma ogni eccesso inutile e contrario alla giustizia sociale. Noi oggi diciamo, invece, che la società punisce per dovere di giustizia, e se il colpevole si fosse celato a tutti, e il suo esempio non potesse nuocere, vogliamo nondimeno, non la vendetta, ma che la giustizia sociale sia ristabilita. Questo tuttavia non erano le dottrine del secolo di Beccaria e di Filangieri. L’autore dei Delitti e delle Pene ebbe l’onore d’essere il primo a parlare. Poste le sue premesse, egli corse rapidamente alle conseguenze ultime, con una chiarezza ed un vigore di logica ammirabile; quel clic egli disse, lo disse a tutti e per sempre. Il processo inquisitorio e la tortura non potevano resistere ai colpi della sua logica; la pena di morte ebbe in lui il primo oppositore che si facesse ascoltare in tutto il mondo civile. Ma Filangieri, senza la rapidità e la stringente argomentazione del Beccaria, aveva un assai maggiore conoscenza del diritto; e vedendo come gli abusi combattuti erano sempre in vigore, non si contentò di discorrere il soggetto per sommi capi; ma volle dare un trattato compiuto di diritto penale.

In questo terzo libro egli dimostrò di conoscere ogni parte del diritto e della procedura penale, esponendone abilmente i principii e la storia. Lo sentiamo discorrere con singolare perizia del giuri inglese, e mentre ne raccomanda l’accettazione al suo paese, scopre rapporti inosservati fra questa maniera di giudizi e quelli che avevano vigore presso i Romani. Egli va dai tempi antichi ai moderni, dai popoli più civili ai più barbari; e la sua erudizione, le sue osservazioni ci fanno ricordare che non tutta la dottrina dei discepoli di Francesco d’Andrea s’era allora perduta in Napoli. Egli non crede necessaria la compiuta abolizione della pena di morte, che anzi in certi casi gli pare inevitabile; pure la vuole ridotta solo a pochissimi casi eccezionali, che debbono ridursi a sempre minor numero. Espone minutamente e combatte lutti gli abusi nel diritto e nella procedura. La tortura, il processo inquisitorio, la lungaggine dei giudizi vengono da lui abilmente descritti, e combattuti con evidenza e calore. Prova come ai suoi tempi un accusato innocente, torturato per un delitto a lui ignoto, e da cui non poteva sapere come difendersi, si trovava assai spesso in condizioni peggiori d’un reo, che sapeva almeno quali risposte e confessioni evitare. E qui egli si esalta, e conduce i principi a visitare le carceri, fa udire il rumore delle catene e i gemiti dell'innocente, e in tutto il capitolo v'è qualche cosa che e nello stesso tempo singolarmente patetico e teatrale.

Molte parli di questo terzo libro sono anche oggi tenute in gran pregio dai cultori della scienza, i quali vi trovano un uomo, che senza dimenticare lo studio del diritto positivo, sollevava le quistioni a principii generali, e scendeva poi alle applicazioni con molto senno pratico. Tuttavia bisogna notare come ancora qui, egli si lasci di tanto in tanto trascinare alle utopie. Quella opinione che gli faceva credere giunto il tempo da attuare pienamente la bontà assoluta delle leggi, gli faceva anche ricercare istituzioni e leggi state in vigore presso i Romani e i Greci, o anche presso gl’indiani o Chinesi, e sperava d’attuarle fra i suoi contemporanei. Così egli vuole dare ad ogni cittadino il diritto ed il dovere di rendersi pubblico accusatore, senza pensare ai danni che porterebbe fra di noi una tal costumanza, né a quelli che portò presso i Romani, come era stato dallo stesso Montesquieu mirabilmente osservato. Quel bisogno che portava gli uomini ad allontanarsi dalla società che li circondava, che faceva vagheggiare uno stato di natura fra ì 'selvaggi, e faceva ritirare il Rousseau nelle foresti, portava ancora gli uomini a lodare troppo spesso popoli e costumi, che ad essi sembravano imitabili, solo perché lontani e diversi dà quelli frà i quali vivevano. La China, infatti, appunto perchè meno Conosciuta, e uno dei paesi piu esaltati ed ammirati dagli scrittori del secolo XVIII. Quell'imperatore e descritto come un principe sensibile ed illuminato, che coltiva egli stesso la terra, per insegnare ai suoi sudditi a tenere in pregio l'agricoltura; ed e proposto a modello ai principi d’Europa. Il Filangieri che non e dei più esaltati, e combatte il preteso stato di natura come strana invenzione di filosofi, pure non riesce sempre a liberarsi da questi errori, anzi essi nelle ultime parti della sua opera divengono maggiori.

Questo terzo libro rese celebre in tutta Europa il suo nome. La società economica di Berna, allora assai riputata, lo nominò con grandi elogi suo socio onorario; Beniamino Franklin gli scriveva da Parigi lettere piene di ammirazione; ma i suoi nemici riuscirono appunto allora, a far méttere la sua opera all'indice romano, cosa di cui egli si preoccupò assai poco. Il troppo studio aveva però logorata la sua salute; onde egli sentiva il bisogno di confortare il suo spirito Con le affezioni domestiche. Nel 1783 sposava una nobile ungherese, Maria Frendel, mandata dalla imperatrice Maria Teresa, come educatrice dei figli del re; e chiesto il permesso di allontanarsi dalla corte, si ritirò nella campagna della Cava, 25 miglia da Napoli, per ristorare la salute e prender lena a continuare la sua opera. Ma ormai le sue forze erano esauste, e le altre parti del suo libro decadevano insieme colla sua salute.

Nel 1785 venne alla luce il quarto libro, che discorre della educazione ed istruzione. Egli e persuaso che solo una buona educazione può rigenerare un popolo, e questo nobile e generoso pensiero anima tutto quel libro. Ma innamorato di Sparta, vuole trasformare lo Stato in una grande società d‘istruzione pubblica. Vuol fondare collegi e scuole per tutte le età, le professioni e le condizioni. Determina le lezioni, l'orario, il sonno, l’igiene, ogni cosa; e tutto ciò deve essere dal governo imposto ed eseguito. I suoi principii pedagogici non reggono perciò all’esperienza assai meglio progredita del nostro secolo. Noi miriamo, specialmente nella prima età non tanto alle cognizioni che diamo, quanto allo sviluppo che con esse otteniamo nell’intelligenza giovanile; e la vogliamo svolta contemporaneamente in tutte le sue facoltà, perche esse s'aiutano e s'armonizzano a vicenda. Il Filangieri, invece, s’occupa principalmente delle cognizioni, e considera le facoltà della mente isolate l’una dall’altra; crede che in ogni età una sola di esse sì svolga, ed a quella vuole allora unicamente mirare. Tuttavia quel lavoro valse a promuovere la pubblica istruzione nel suo paese; egli raccomandò la matematica, le scienze naturali e gli studi positivi, che nelle nostre pubbliche scuole erano ancora assai trascurati.

Né meno severi possiamo essere verso la sola parte che ci resta dell’ultimo libro di quest'opera, dove fautore discorre intorno alle religioni. Qui troviamo confusamente abbozzate le idee che il secolo XVIII aveva intorno a quel soggetto; v'è una erudizione che accresce poca luce alle opinioni dell’autore, le quali mentre partono da una metafisica tutta del sensismo e dell'utile, sì mutano ad un tratto, quando egli ci viene a parlare della necessità d’una sola e vera religione, che deve essere il Cristianesimo! Ma fu appunto quando doveva discorrere questo tema, che la penna gli cadde di mano.

Il lavoro eccessivo e la fretta di pubblicare rapidamente un volume dopo l’altro, gli abbreviarono la vita. Egli era in qualche modo scusabile, perchè non solamente l’aura popolare, ma più assai il bisogno di affrettare le riforme nel suo paese, dove il governo ed il popolo davano grande ascolto alle sue parole, lo costrinsero ad un lavoro penoso e prolungato in modo, che non poteva reggervi nessuna fibra umana. Dopo quattro anni di dimora alla Cava, fu con decreto del 23 marzo 1787, chiamato in Napoli a far parte del Consiglio Supremo delle finanze. E cosi, al lavoro non mai interrotto per la sua opera s’univa quello necessario a promuovere nell’amministrazione del regno l’attuazione de' suoi principii. Egli non era tale da pigliar questa impresa con freddezza; aiutò efficacemente a riordinare le imposte e la finanza, a promuovere l’industria ed il commercio; ma ben presto la sua salute l’obbligò a lasciar la capitale. Nel 1788, ritiratosi nella vicina campagna di Vico Equense, fu nel medesimo anno assalito da una febbre putrida e maligna, che lo faceva cessar di vivere il 21 luglio, in età d’anni 36 non ancora finiti. Lasciò tre figli; e fu da tutti universalmente compianto, perchè egli era una gloria illustre, sebbene appena nascente, del suo paese; ed un uomo in cui la bontà d’animo e un vero patriottismo sollevavano a maggiore altezza il suo nobile ingegno.

La più parte de' suoi fogli e della sua corrispondenza andò smarrita nei saccheggi del 99, quando la libreria e quadreria del Principe d’Arianello, suo padre, fu distrutta; v’erano saggi di traduzioni dal greco e latino, appunti delle sue vaste letture, molli dei quali riguardavano la storia ecclesiastica e il diritto canonico.

Su questo soggetto doveva, infatti, versare il sesto libro della sua opera, nel quale egli voleva ampiamente trattare la grave disputa delle relazioni fra la Chiesa e lo Stato. E di certo, la sua vasta dottrina e le tradizioni della scuola napoletana lo avrebbero assai bene soccorso, ed avrebbe forse riacquistato quei pregi, che negli ultimi libri erano scemali non poco.

Si trovarono ancora abbozzati i disegni di due opere, una delle quali doveva essere intitolata Scienza delle scienze, e di questa facilmente ci sarebbe stato assai poco a sperare, considerala la natura del soggetto e gli studi dell’autore. Maggiore importanza avrebbe avuta, di certo, l’altra opera che egli voleva intitolare Storia civile, universale e perenne. Si proponeva in essa di cavare dalla storia universale i principii d’una storia filosofica dell'uomo e delle istituzioni, esaminando i rapporti che passano fra l'uomo, la società e le istituzioni, e notando in che modo essi sono, a vicenda, causa ed effetto, gli uni dello sviluppo degli altri. È questo un concetto che basta a dimostrare quanto alto potesse levarsi il concittadino del Vico, e come avesse inteso tutta l’importanza del metodo storico, di cui non s’era saputo abbastanza giovare nella sua Scienza della Legislazione. In questa, egli era incalzato dal bisogno urgente di promuovere le riforme del suo paese; e quindi doveva spesso perdere la impassibilità speculativa della scienza, e scendere dall'altezza dei principii a quistioni minute e particolari. Se non che, i bisogni della società erano allora, quasi per tutto, i medesimi; onde il suo libro riacquistava da un lato quella generale importanza che perdeva dall’altro. Infatti la fama se ne dilatò rapidissimamente per tutto, e in poco tempo ne uscirono otto edizioni diverse; fu tradotto in Francia; in Germania, nella Svizzera, nella Spagna. Ed anche oggi resta un libro che si legge da tutti con profitto; e una lettura che dà molte cognizioni, suggerisce molte idee, e quando si e giunti all’ultima pagina, l’animo si sente migliore.

Ma quando incominciò la reazione contro il secolo XVIII, e dopo d’aver sempre esaltato tutto ciò che s’era scritto in quel tempo, si volle tutto biasimare; allora la fama del Filangieri andò soggetta alla medesima fortuna. Si lodò il suo carattere, per dare aria di maggiore imparzialità alle esagerate critiche che si facevano della sua opera; i Francesi non vollero vedere in lui niente altro che un cattivo imitatore del Montesquieu, e molti Italiani accettarono ciecamente questo giudizio. Furono da molti lodate principalmente le sue pagine intorno alla costituzione inglese, le quali, se non sono fra le parti più deboli del suo libro, son certo fra le più lontane dal vero. E Beniamino Constant, col suo Comento sulla Scienza della Legislazione, fece un buon libro; ma non una esposizione né una buona critica del Filangieri. Partendo dalla sua dottrina del costituzionalismo, che non vuol dare alcuna ingerenza al governo, quando il Filangieri gliene dà troppa; contrappone quasi ad ogni capitolo della Scienza della Legislazione un altro capitolo, in cui viene a dire tutto il contrario di ciò che ha detto l'autore che egli pretende di comentare. In tal modo, chi ha letto il Filangieri, potrebbe da se stesso rifare, senza alcuna fatica, quasi tutto il Comento. Se non che la critica non deve contrapporre lavoro a lavoro, teorica a teorica; ma deve, colla storia dei tempi e coi principii della scienza, dare a ciascuna dottrina il suo posto. Che direbbe il Constant se, per giudicare il suo libro sulle religioni, ci contentassimo di mettergli accanto i progressi fatti dalla filologia e dalla mitologia comparata, i quali hanno distrutte quasi tutte le sue ipotesi? Né il suo Costituzionalismo politico e oggi accettato dalla Scienza senza restrizioni. Si direbbe che per lui il governo non sia parte della società, e che mentre tutto cammina, e i privati, le associazioni, le compagnie debbono avere iniziativa, e muoversi, e spingere innanzi il corso della società; solo il governo debba stare a vedere, e contentarsi di levare ostacoli, ed impedire che uno invada i diritti dell’altro. La sua teorica, che parte pure da un principio vero, e così fattamente esagerata, che può trovare riscontro solo nei libri. Nella storia non v'è stato né vi sarà mai un governo che rinunzi a promuovere attivamente la istruzione, la beneficenza e mille altre cose. È inutile esagerazione dicendo che sempre ed in tutto fanno meglio i privati, quando si vede ogni giorno che molte cose, in molti tempi, in tutti i paesi, i privati non le sanno né le possono fare. E se in un tempo fu più che mai necessaria l’azione del governo, questo era appunto quello in cui visse Gaetano Filangieri. Egli considerò come condizione permanente della società, ciò che era solo uno stato passaggiero; ed il Constant cadde nell’opposto errore, di credere le pure teoriche della sua scienza applicabili sempre e senza restrizioni.

Di certo, non v'è dubbio che il Filangieri sia caduto in molti errori, e che sia un seguace degli scrittori francesi, dei quali imita lo stile, segue i principii, e qualche volta anche copia le idee, come gli e avvenuto del Montesquieu; egli e anche troppo enfatico, e scrive scorrettamente la propria lingua. Ma pure aveva dalla natura avute non poche qualità di scrittore; una gran nobiltà di sentire, e molte idee elette ed elevate ispirano tutto il suo libro. In lui e una temperanza ed un senno pratico, che spesso manca a quegli scrittori francesi che erano stati suoi maestri; perchè egli univa alle qualità ài filosofo del secolo XVIII quelle ancora di giurisperito napoletano di quella scuola da cui venne anche il Vico, e d’italiano che sorgeva fra i primi, quando la patria si ridestava.

È tempo che si renda finalmente giustizia a questa famiglia di scrittori italiani, troppo lodati una volta, e troppo dimenticati adesso. Ricordiamoci che con questa generazione d’uomini e cominciata a Napoli, a Milano, a Firenze la nuova Italia. A Beccaria, Verri e Filangieri succedono Alfieri, Canova, Foscolo; ed a questi, Gioberti, Niccolini e Manzoni. Ricordiamoci ohe quando le vicende politiche dell'Europa portarono la reazione in Italia, e Ferdinando IV che, consigliato dal Tanucci e dal Filangieri, era stato benefico iniziatore di riforme, lasciato a se stesso si trasformò in carnefice dei suoi popoli; allora i compagni sopravvissuti al Filangieri dimostrarono coi fatti quel che veramente erano e quel che volevano. I filosofi, alla testa dei quali si trovò in quel tempo Mario Pagano, ascesero il patibolo, e furono martiri della patria, eroi della libertà. La storia deve dunque rendere ad essi il proprio posto. Sotto la imitazione straniera era pure nascosto il germe fecondo d’una dottrina, che sorgeva dalle viscere della nazione, e che più tardi svolgendosi cominciò un’età nuova nella vita del pensiero italiano. Quei filosofi avevano pur fatto della scienza strumento di risurrezione politica, e molti di essi seppero, nell’ora del cimento, suggellare col sangue la fede nei loro principii. Essi vanno perciò onorati come benemeriti della scienza e della patria; e fra di loro primeggia il nome di Gaetano Filangieri.

P. Villari


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Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1872 - GAETANO FILANGIERI - 03 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1876 - GAETANO FILANGIERI - 04 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF







Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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